L'oggetto di questo studio è la forma narrativa che l'intuizione dell'infinito ha assunto in letteratura. Trama ed eternità sono, a prima vista, incompatibili. La prima organizza gli eventi in successioni temporali e causali di inizio, svolgimento e fine, causa ed effetto, mentre la seconda è l'esatta negazione di un ordine di questo tipo: essa è la percezione della pura durata di Henri Bergson, di un tempo che riposa per sempre oltre qualsiasi distinzione tra passato, presente e futuro. Allora, com'è possibile rappresentare, attraverso l'intreccio narrativo, quelle epifanie dell'infinito che sono state, sin dalle origini, materia più per i poeti che per gli affabulatori? L'indagine parte dal mito classico, passa per la novella medievale, tocca la stagione del grande romanzo realista dell'Ottocento e si conclude con il modernismo «avant la lettre» di Marcel Proust. Al centro di ogni capitolo vi sono quegli episodi in cui l'eroe della trama sente il suo Io affrancarsi dal fluire quotidiano del tempo, dal tick tock dell'orologio, e finalmente vivere in sintonia con realtà extra-temporali che danno l'illusione di aver risolto il problema della mortalità. Alcune novelle dell'ultima giornata del «Decameron» - quella di Natan e Mitridanes e quelle in cui compare il personaggio del negromante - testimoniano dell'influenza che l'astrologia e l'astronomia arabe ebbero sul sentimento e sull'intuizione del tempo nell'Occidente cristiano. Il principe Myskin nell'Idiota di Dostoevskij vive, durante gli ultimi minuti che precedono un attacco epilettico, un'esperienza di «fusione con la sintesi suprema della vita», grazie alla quale può intuire il profondo significato delle parole dell'angelo forte che, nell'«Apocalisse» di Giovanni, annunciano la seconda venuta di Cristo: «non esisterà più il tempo». Sono i miracoli della memoria involontaria - come nel caso della celebre madeleine - a trasportare Marcel in un tempo per il quale il passato è, di nuovo, presente. Siamo, però, alla fine della «Recherche» e il narratore deve constatare, con terrore, il legame necessario con la propria finitudine: nonostante il ricordo permetta di sentirsi eterni, si invecchia e si deve pur morire. Come sa bene Shaharazâd nella cornice delle «Mille e una notte», la via migliore per ritardare l'istante della morte è stordire il nemico con la suspense del racconto, farlo perdere, e perdersi con lui, nei meandri di trame che, come in un labirinto, continuano a condurre ad altre trame secondo il ritmo di una narrazione senza fine. Se la vita è rapida, raccontare storie può, se non altro, rallentarla.
(dal risvolto di copertina di: Riccardo Antonangeli, "Non esisterà più il tempo. Eternità e trama nell'arte del racconto". Editore Studium.)
Gli antichi professionisti del futuro
- di Piero Boitani -
Il futuro è insondabile: la scienza moderna riesce a prevedere i moti degli astri; i comportamenti delle particelle, le reazioni de- gli elementi chimici; e via via con minore precisione a inquadrare le combinazioni di cellule e l’evoluzione degli organismi viventi; infine, a elaborare proiezioni economiche, sociologiche, politiche. Ma il nostro immaginario ancestrale è dominato da due tipi di futuro, quello della fama e quello di coloro che lo annunciano ab antiquo: profeti, Sibille, estensori di apocalissi. Le figure maggiori sono Cassandra e Tiresia dal lato greco; Samuele, Isaia, Geremia ed Ezechiele da quello ebraico: con un “futuro” spettacoloso che li vede tutti insieme nella Volta della Cappella Sistina per mano di Michelangelo.
La profezia deriva da ispirazione divina: Cassandra da Apollo, Tiresia da Zeus o da Atena; i profeti biblici da Dio. La chiamata di ciascuno di essi possiede una forza teologica e poetica formidabile. Nel caso di Samuele, il testo gioca sulla ripetizione della “parola”. Samuele, al servizio del vecchio sacerdote Eli, sente la Voce chiamarlo. Corre allora dal maestro: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma Eli: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Il messaggio divino deve essere ripetuto ben tre volte, e il futuro che esso minaccia è il “piano” stesso di Dio, la sua giustizia. In Eschilo, Cassandra “vede” l’assassinio di Agamennone: la possiede, invasandola dopo aver desiderato invano di possederla fisicamente, Apollo, che la punisce per il suo rifiuto di darsi a lui con la condanna ad essere inascoltata. Ma nell’Iliade Cassandra constata la pura realtà, scorgendo per prima il cadavere di Ettore che giunge a Troia, e chiamando tutti a contemplarlo. È il momento tremendo in cui la profezia si adempie. Al sorgere dell’Aurora, Priamo e il suo araldo ritornano dalla tenda di Achille, tra grida e lamenti si avvicinano alla città. Non li vede nessuno, ma Cassandra, «bella come Afrodite d’oro», sale sulla rocca e li avvista. C’è qualcosa di infinitamente tragico nel contrasto tra la bellezza di Cassandra - «prima per bellezza delle figlie di Priamo», ripete Omero - e la morte che ella scorge e segnala. Lì, in quel cuneo del bello, sta la tragedia della profezia compiuta. Altra tragedia, quella di Tiresia: «Ahi, ahi, com’è terribile sapere», egli esclama nell’Edipo re, «quando non giovi a chi sa! Io ne ero ben consapevole, ma l’ho dimenticato; altrimenti non sarei venuto qui». Tiresia porta con sé il segreto del destino di Edipo: Tiresia, l’uomo che ha sperimentato cosa voglia dire essere donna, colui che riceve il dono della profezia come compenso per la perdita della vista fisica: occhio per occhio, davvero.
Le profezie antiche sono enigmatiche e ambigue: «Il Signore di cui è l’oracolo in Delfi», sostiene Eraclito, «non dice e non nasconde: significa». Solamente le previsioni di un Esiodo o di un Virgilio che legano astronomia e agricoltura sono chiare ed esatte, perché basate sull’esperienza: «Quando le Pleiadi sorgono, dà inizio alla mietitura». Ma la durata più estesa del futuro che l’antichità e le epoche successive riescono a concepire è quella fornita dalla fama: che non è la gloria, ma il parlar di qualcuno:Rumor, diceria. Per l’immaginario del futuro che ha dominato l’Occidente, è un concetto fondamentale almeno sino al Settecento.
La rivoluzione scientifica del secolo XVII muta radicalmente il panorama. Il futuro porta ora il segno della precisione quantitativa: l’ingresso della matematica e dello sperimentalismo nelle scienze fisiche altera definitivamente la previsione: non più profezia ma interpretazione di dati ed elaborazione di modelli. Su queste basi nascerà nel Novecento, seguendo germi antichi, la fantascienza, che elabora visioni del futuro fondate su previsioni scientifiche. C’è chi immagina l’apocalisse, come Walter Miller nel capolavoro Un cantico per Leibowitz; chi una successione di specie attraverso Anni senza fine, come Clifford Simak; e chi infine, come Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, ricostruisce l’intera storia dell’umanità, dalla preistoria all’oggi e poi al futuro remoto.
In Un cantico per Leibowitz la situazione di partenza è l’olocausto nucleare (il «Diluvio di Fiamma») che ha avuto luogo sulla Terra nel XXI secolo e cui segue un nuovo Medioevo. All’inizio dei secoli bui Isaac Edward Leibowitz trova rifugio in un monastero benedettino e fonda poi il proprio Ordine: il cui compito principale è quello di conservare i Memorabilia, gli scritti sopravvissuti al Diluvio di Fiamma. In effetti il primo protagonista del romanzo, Frate Francis Gerard dello Utah, ritrova antichissimi documenti che col tempo permettono lo sviluppo di una nuova scienza e di una nuova civiltà. Ancora una volta, però, l’alta tecnologia conduce inevitabilmente al conflitto nucleare, e alla fine del romanzo i monaci sono costretti ad abbandonare la Terra su un’astronave.
Nel messaggio pessimista di Un cantico per Leibowitz ha una parte fondamentale l’idea che un periodo di barbarie, di regresso della storia, sia necessario incubatore di una nuova civiltà. È un concetto cui pare accennare Dante quando enuncia la sua prima visione del futuro in Purgatorio XI: il celebre miniatore Oderisi da Gubbio parla dell’umana vanità e, prima di mettere in scena i grandi artisti (Cimabue e Giotto, i due Guidi e Dante) che si succedono nel conquistare la gloria, enuncia la legge che governa il poco che l’uomo può: quella della vana-gloria, che non dura se non seguita dalle «etati grosse». Le «etati grosse» sono appunto i periodi nei quali la civiltà viene meno e la barbarie impera. Gli uomini più grandi dell’antichità non sarebbero famosi ora se non ci fosse stata tra loro e Dante una «etate grossa», un ...Medioevo. Nel secondo grande classico, Anni senza fine di Simak, prevale invece il «tacito, infinito andar del tempo» (dall’anno 2008 al milione) e il succedersi di specie diverse nel dominio sulla Terra: dotati di modifiche fondamentali al loro corpo o al loro habitat, i cani rimpiazzano l’uomo - divenuto nel frattempo un mito da studiare filologicamente - e le formiche sostituiscono i cani, mentre la continuità è assicurata dal robot Jenkins, già maggiordomo della famiglia Webster e ora guardiano della cripta dove tutti i suoi membri giacciono in eterna ibernazione. «Una concezione della storia che voglia coprire la totalità delle cose umane», scriveva Karl Jaspers in Origine e senso della storia, «deve includere il futuro». 2001: Odissea nello spazio, il film iconico di Kubrick, ne provvede un altro. Il monolite nero piovuto da chissà dove segna qui, accompagnato dal rimbombare del Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, le tappe fondamentali dell’evoluzione umana: sulla Terra dà l’impulso fondamentale alla trasformazione degli ominidi in homines sapientes; ritrovato sulla Luna nel 2001, spinge l’uomo alla navigazione verso Giove e i suoi satelliti mentre il computer assassino HAL viene disattivato. L’unico astronauta superstite viene allora lanciato, dopo aver rinvenuto il monolite, in «folle volo» attraverso lo spazio e il tempo, sino a ritornare sulla Terra e morire sollevando l’indice verso l’Uovo Cosmico che contiene lo «Star-Child», il Puer Aeternus: come dichiara di nuovo la musica di Strauss, è l’embrione del superuomo.
Non esisterà più il tempo, recita il titolo di un bellissimo saggio di Riccardo Antonangeli, Eternità e trama nell’arte del racconto (Roma, Studium). Tramonto dell’uomo o sua trasformazione: la fantascienza invita a porsi la domanda con la frase usata da Dante per immaginare noi, suoi posteri - coloro che, dice in Paradiso XVII parlando all’antenato Cacciaguida e inventando il futuro, «questo (il suo) tempo chiameranno antico». L’uomo diverrà una leggenda? Chi chiamerà il nostro tempo antico? I cani, le formiche, il superuomo?
- Piero Boitani - Pubblicato sul Sole del 14/3/2021 -
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