domenica 31 ottobre 2021

Verso un grande sole purpureo ?!??

Operaismo?
- di Victor Serge -

È una strana malattia quella di cui soffre quasi tutta la cosiddetta intellettualità avanzata. Il marxismo e il sindacalismo, ne rappresentano le sue forme incurabili. Sono tantissimi gli anarchici che ne soffrono.
Consiste in una deformazione più o meno grave delle facoltà di percezione e di pensiero, si tratta di una deformazione che fa sì che il paziente veda tutto ciò che è classe operaia come se fosse in sé bello, buono e utile, e a vedere. simultaneamente, tutto ciò che non lo è come brutto, cattivo, inutile, se non addirittura dannoso. Ed ecco che così, come per incanto, ecco che l'idiota triste, trasandato, alcolizzato, tabagista, tubercoloso, che costituisce la massa dei buoni e onesti cittadini, diviene magicamente l'operaio, il cui "onorevole" lavoro fa vivere e progredire l'umanità, alla quale, tale sforzo magnanimo riserva un futuro splendido... Guardatevi bene dal far notare all'operaio che il suddetto proletario è, dopo tutto, il sostenitore più convinto dell'abominevole regime del Capitale e dell'Autorità, che egli sostiene e garantisce attraverso il servizio militare, e per mezzo del voto e del lavoro quotidiano. Non fatelo, altrimenti sarete immediatamente trattati come degli individui retrogradi, pieni di pregiudizi borghesi e che non capiscono nulla di... sociologia!

Le cause di uno stato d'animo del genere, per quanto siano abbastanza numerose, restano facili da determinare. Come prima cosa, si tratta di dover considerare l'idea stessa di lavorare come se fosse un "gesto onorevole", dal momento che così si alimenta la vita; a partire dal fatto che essendo il lavoro nobile nella sua essenza - come dicono le menti più semplici -  allora ecco che anche il lavoratore diventa nobile. Questo è tutto! Hanno dimenticato solo una cosa: che la nobiltà di un'attività è un concetto del tutto convenzionale e relativo; si sono scordati di come il lavoro, teoricamente così bello, sia nella pratica ordinaria sgradevole, monotono, demoralizzante; e ignorano che un gesto, qualunque esso sia, non può essere classificato come bello, quando chi lo compie non è altro che una povera bestia umana tormentata dalla paura e dalla fame...

Ed è proprio questo stato d'animo a costituire di certo una delle cause della moda del sindacalismo, contro cui gli anarchici si sforzano di reagire. Colti dall'entusiasmo per la rapida crescita delle associazioni operaie - la cui origine è sempre rivoluzionaria (così come quella di tutte le giovani organizzazioni che non hanno niente da perdere, e tutto da guadagnare) - questi cervelli assoluti hanno visto nel nuovo movimento la panacea universale. Il sindacalismo rispondeva a tutto, poteva fare tutto, prometteva tutto. Per gli uni, avrebbe migliorato lo stato sociale grazie a  riforme sagge e prudenti, senza tanto clamore. Per gli altri, avrebbe costituito la prima cellula della futura società, che poi, un bel mattino, sarebbe perfino arrivata a fondarla, tale società, magari nel corso di uno sciopero generale. Ma questo, a quanto pare, non è accaduto, e ci siamo resi conto - almeno quelli che non erano accecati dall'illusione - che i sindacati sono diventati solidi e saggi, e hanno perso il loro desiderio di mettere a soqquadro il mondo. Fino al punto che il più delle volte hanno finito per sprofondare nel legalismo ,e sono diventati così parte dell'apparato di quella vecchia società contro cui combattevano; mentre altre volte sono riusciti al massimo a creare classi di lavoratori privilegiati, altrettanto conservatori dei così tanto odiati borghesi. Così, alla fine, ecco che alcuni facinorosi sono arrivati a dire che, per cambiare le cose non bastava e non era sufficiente raggruppare dei deficienti, e che anche se questi fossero stati organizzati in maniera potente, non avrebbero mai potuto creare qualcosa che si situasse al di sopra della loro mentalità... Peraltro, del resto, anche negli ambiti più colti, tra gli scrittori e gli artisti, si è accettato di ammirare il proletariato. È nata una letteratura in cui le sofferenze della povera gente venivano rappresentate con indignazione. I "martiri del lavoro" hanno così avuto i loro cantori. E a poco a poco si è immaginato un genere di lavoratore che difficilmente corrispondeva alla realtà. Si trattava dell'ammirevole, stupendo minatore di Constantin Meunier, quel bell'operaio dal possente torso nudo e con lo sguardo fiero, che possiamo vedere, nelle stampe socialiste, mentre si dirige gioiosamente verso un grande sole purpureo...

Sull'insieme di tutto questo, si è innestata un'ideologia piuttosto complicata, con i suoi teorici e i suoi umoristi. Innumerevoli opuscoli, cumuli di giornali, un'enorme quantità di manifesti multicolori proclamavano alla borghesia terrorizzata - eccome! - l'imminenza della Rivoluzione, la classe operaia cosciente che va verso il grande sciopero e che creerà - domani senza dubbio - la città felice sotto l'egida di un vigilante Comitato in modo che ciascuno possa godere in pace della felicità confederale.
Aspettiamo, aspettiamo, mentre ci ci prepara. Qualche volta si tirano giù due lampioni; si discute delle minuzie relative all'inevitabile sconvolgimento, e alcuni oratori ci dicono che la rivoluzione la faranno così e così. E nessuno che pensi che aspettare sia una perdita di tempo e di vita, e che forse sarebbe meglio cominciare a fare un po' di luce nella spaventosa notte del cervello.
Gli anarchici non sono operaisti. A loro sembra infantile mettere sul podio quel lavoratore la cui deplorevole incoscienza è la causa del dolore universale, forse ancor più dell'assurda rapacità dei privilegiati.
Per l'osservatore imparziale, nell'atmosfera attuale non è difficile vedere come, lungi dall'essere l'attività benefica decantata dai poeti, sia ripugnante. E per quanto riguarda i proletari, assomiglia alla differenza tra sogno e realtà... ... Perciò passiamo tra la plebe spargendo in maniera casuale il seme delle buone rivolte. E quelle minoranze, in cui c'è ancora forza, verranno a noi, verranno a ingrossare le file degli amanti e dei combattenti della vita.

- Le Rétif [Il recalcitrante] (alias Victor Serge), in L’anarchie N°259, 24 mars 1910 -


fonte: Socialisme Libertaire

sabato 30 ottobre 2021

Bella scoperta !!

C’era una volta l’America ma si chiamava Marckalada
- di Paolo Chiesa -

Intorno all’anno Mille, gruppi di coloni vichinghi, provenienti dall’Islanda e dalla Groenlandia, visitarono le coste atlantiche dell’America del Nord, in cerca di nuove terre dove insediarsi. L’impresa non sembra avere avuto lunga durata e ha lasciato solo modeste tracce archeologiche; fu però oggetto di narrazioni, che più tardi trovarono esito scritto in alcune saghe islandesi e di cui si riscontrano echi nella storiografia e nella letteratura enciclopedica nordica. Secondo questi racconti, le terre che i coloni raggiunsero, sempre più vivibili man mano che si procedeva verso sud, vennero chiamate Helluland, «la terra delle pietre piatte», Markland, «la terra dei boschi», e Vinland, «la terra del vino».
Questa vicenda è il più antico episodio di quella che - con un’espressione molto eurocentrica e in odore di scorrettezza politica - viene comunemente chiamata «scoperta dell’America». Un episodio circoscritto perché non ebbe seguito, e la cui memoria rimase confinata alle zone del nord; e che perciò si considera del tutto non correlato con le nuove navigazioni che cinquecento anni dopo partirono dall’area mediterranea e iberica e produssero le conseguenze note a tutti noi. Quando Colombo progettò il suo viaggio - si pensa - non aveva sentore delle precedenti esperienze islandesi.
Qualche sentore, in realtà, potrebbe averlo avuto. Un sorprendente riferimento all’«America» ante litteram di cui parlano le saghe è stato di recente individuato all’interno di un’opera scritta a Milano intorno al 1340. Si tratta della cosiddetta Cronica universalis del frate domenicano Galvano Fiamma, una vasta e piuttosto caotica storia del mondo che doveva estendersi dalla creazione fino ai tempi dell’autore, ma che rimase interrotta molto prima di Cristo, all’epoca del dodicesimo re d’Israele.
All’interno della Cronica, Galvano inserisce una lunga digressione geografica, volta a dimostrare che è possibile per la specie umana vivere anche al di fuori dell’area temperata. Le pezze d’appoggio di cui si serve l’autore per questa dimostrazione sono in genere le auctoritates libresche della geografia tardoantica e medievale, come Solino e Isidoro. Ma quando passa a parlare delle terre dell’estremo nord ricorre invece a una fonte dichiaratamente orale: «I marinai che percorrono i mari di Danimarca e Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Groenlandia...; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti di questa terra sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però nessun marinaio è mai riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche».
La Marckalada di Galvano - una terra florida, intimidente e misteriosa, che esiste ma di cui poco o nulla si riesce a sapere - è evidentemente il Markland di cui parlavano le saghe nordiche: medesimo il nome, con le normali variazioni grafiche cui un insolito termine geografico è soggetto; medesima la localizzazione a ovest della Groenlandia; analoga la descrizione, che unisce cumulativamente vari tratti ascritti dalle saghe all’una o all’altra delle terre ultra-atlantiche. Ma in altri punti dell’opera Galvano appare molto informato anche sulla Groenlandia, altrettanto sconosciuta nell’Italia trecentesca: si trova talmente a nord che la Stella Polare resta alle spalle; gli abitanti non praticano l’agricoltura e si nutrono di carne e di pesce; è governata da un vescovo; vi dimorano grandi falchi, molto richiesti sul mercato, ma difficili da esportare: il viaggio è difficile e pericoloso, e le navi giungono così malconce che spesso non possono ripartire.
Chi sono i marinai cui Galvano imputa queste notizie? Il frate viveva e scriveva a Milano, dove di marinai non se ne vedevano; ma nella Cronica universalis utilizza altrove fonti genovesi. Fa talvolta riferimento a una Mappa Ianuensis, un planisfero comprendente anche le regioni dell’Asia, che descrive come se lo vedesse di persona; e soprattutto cita ampi brani di un Tractatus scritto da Giovanni di Carignano, prete del porto di Genova e celebre cartografo, che racconta dettagliatamente notizie di interesse prettamente locale: di un gruppo di ambasciatori “etiopici” giunti nella sua città, e della sorte della spedizione oceanica dei fratelli Vivaldi, partiti nel 1291 per raggiungere le Indie navigando per l’Atlantico. Notizie che possono provenire solo da Genova; forse Galvano vi aveva soggiornato, forse da lì gliele aveva recate qualche intermediario. I marinai genovesi che si recavano a nord, nei mari di Danimarca e Norvegia, avranno perciò raccolto sul posto le voci che circolavano sulle terre ultra-atlantiche e le avranno riportate nella loro città. Colombo poteva sapere? La Cronica universalis di Galvano è un’opera ancora inedita e di difficile accesso, conservata com’è in un unico manoscritto attualmente posseduto da una collezione privata. Il riferimento a Marckalada è stato trovato nel corso di una ricerca condotta nell’ambito dell’insegnamento di Filologia Mediolatina dell’Università Statale di Milano, i cui primi risultati sono stati pubblicati sulla rivista americana «Terrae incognitae». La ricerca mira a un’edizione critica dell’opera di Galvano, sulla base delle fotografie che il proprietario del codice ha permesso di effettuare. La trascrizione del testo è stata realizzata da un gruppo di studenti per le loro tesi di laurea; sono stati loro a imbattersi in Marckalada, un nome ostico, introvabile nelle fonti, che resisteva ad altre possibili identificazioni e che alla fine si è rivelato un’emozionante scoperta. Un buon matrimonio fra didattica e ricerca, come l’università è, o dovrebbe essere.

- Paolo ChiesaPubblicato su La Domenica del 24/10/2021 -

venerdì 29 ottobre 2021

«Il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi» (cit.) !!

Di fronte alla varietà dei temi discussi in questi saggi ci si potrà chiedere se esista un filo che li leghi. Il titolo del libro ne offre uno. «La lettera uccide, lo spirito dà vita» disse Paolo di Tarso, contrapponendo alla legge giudaica in cui era nato la nuova fede – il cristianesimo – di cui fu il fondatore. «Uccide», «dà vita» sono metafore, che non vanno prese alla lettera. Ad esse si può rispondere con un’altra metafora: la lettera uccide chi la ignora. Dall’analisi ravvicinata di casi specifici emerge una versione della microstoria, qui presentata in una prospettiva inedita. Al centro di questi casi ci sono personaggi famosi (Machiavelli, Michelangelo, Montaigne) o semisconosciuti (Jean-Pierre Purry, La C.***); un testo o un’immagine; un tema (la rivelazione) o una lettera dell’alfabeto. E un elemento ricorrente: la riflessione sul metodo, sugli intrecci tra «caso» e «caso» – tra studi di caso ed elementi casuali, spesso prodotti deliberatamente. «Il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi»: chi legge potrà scoprire i risultati, spesso imprevedibili, di questa affermazione di Aby Warburg.

(dal risvolto di copertina di: Carlo Ginzburg, "La lettera uccide". Adelphi, Il ramo d'oro, 71. 2021, pp. 252, € 30,00)

Folgorato sulla via della filologia da una frase delle Lettere di san Paolo
- di Carlo Ginzburg -

Comincio questo Diario di scrittura con una domanda rivolta a me stesso: nel caso del libro che sta per uscire da Adelphi (La Lettera uccide) è stata la scelta dei saggi a condizionare il titolo, o il titolo a condizionare la scelta? Opterei per la seconda alternativa. Molti anni fa, in un saggio intitolato per l’appunto La lettera uccide, avevo analizzato alcune reazioni, da sant’Agostino in avanti, al passo di san Paolo (Seconda Lettera ai Corinzi, 3, 6): «La lettera uccide, lo spirito dà vita». Il Nuovo Patto (il cristianesimo), dice san Paolo, si fonda sulla contrapposizione tra l’epistola che Cristo ha scritto nei cuori e quella scritta su tavole di pietra (un’allusione alle tavole della legge che Dio aveva dato a Mosè sul monte Sinai). Ma poco più avanti la Scrittura (l’Antico Testamento) viene recuperata attraverso una lettura non letterale (Seconda Lettera ai Corinzi, 3, 12-18).
A poco a poco quel titolo - La lettera uccide - agì come una calamita, attraendo altri saggi che avevo scritto o venivo via via scrivendo, su temi diversissimi: dalla microstoria, a Montaigne e al suo segreto (non dirò quale), alla Fine del mondo di Ernesto De Martino, e così via. In tutti questi casi era stata l’attenzione alla dimensione letterale di uno o più testi ad aprire la strada verso conclusioni spesso inaspettate, frutto di una lettura tra le righe, volta ad afferrare il non detto attraverso particolari rivelatori. La lettera è fatta anche di questo. Nel rileggere quei saggi mi sono detto: la lettera uccide chi la ignora.
Lo sapeva bene sant’Agostino. La sua lettura in chiave allegorica della Bibbia (del Vecchio Testamento) è notissima. È stata trascurata invece la sua lettura in chiave letterale di passi imbarazzanti, come quelli sulla poligamia dei patriarchi. Agostino, professore di retorica, era ben consapevole della diversità dei contesti in cui la comunicazione si svolge. La poligamia dei patriarchi apparteneva a un mondo diverso dal suo, basato su consuetudini diverse dalle sue. Oggi sembra ovvio ricondurre una conclusione del genere alla nozione di prospettiva storica. In un saggio ormai lontano avanzai l’ipotesi che quella nozione sia stata generata dal rapporto, intriso di ambivalenza, del cristianesimo nei confronti dell’ebraismo. Un’ambivalenza inquietante, poiché il senso di superiorità (il cristianesimo come Verus Israel) ha nutrito, nel corso dei secoli, anche l’antigiudaismo e la persecuzione degli ebrei. Quest’ipotesi, su cui ho continuato a riflettere, ha finito col sospingermi verso san Paolo. Il saggio con cui si chiude il libro (Svelare la rivelazione. Una traccia) cerca di fare i conti con le implicazioni ineludibili delle parole «La lettera uccide».

La traiettoria qui delineata sommariamente spiega solo fino a un certo punto i criteri che hanno dettato la scelta dei saggi (molti inediti in italiano, tre inediti in assoluto) tra quelli che ho scritto nell’arco di vent’anni. Chi scorra l’indice sarà verosimilmente colpito dalla varietà dei temi affrontati, e delle discipline coinvolte. In realtà ho sempre pensato che i confini disciplinari siano fatti per essere oltrepassati, eventualmente trasferendo strumenti di analisi da un ambito all’altro. Dopo aver licenziato il libro per la stampa mi sono accorto di non aver segnalato (nemmeno in nota) che a un certo punto, nel saggio Svelare la rivelazione, avevo letto gli appunti giovanili di Hegel tenendo tacitamente presente la «critica degli scartafacci»: il termine sprezzante con cui Benedetto Croce aveva respinto la critica delle varianti proposta da Gianfranco Contini. A dirigermi verso questo o quel tema è stato molto spesso il caso, generato da un uso obliquo dei cataloghi elettronici e di Internet. Due saggi (Conversare con Orion e La latitudine, gli schiavi, la Bibbia. Un esperimento di microstoria) illustrano questo procedimento, e il suo risultato. Naturalmente il caso non agisce da solo: chi lo mette in moto reagisce (o non reagisce affatto) a partire dalla propria formazione, dalle proprie curiosità, dai propri pregiudizi. Ma perché mettere in moto il caso? La risposta è semplice: per essere colto di sorpresa dalla documentazione, nel senso più ampio del termine. Un titolo, un nome, una parola, possono suscitare una curiosità, e innescare una ricerca. Spero che ciò che ho scritto riesca a sollecitare la curiosità di chi legge. Il nesso con le domande poste dal presente è in molti casi indiretto, e non immediatamente visibile. Non sempre, però. Il breve scritto Non esiste un Dio cattolico parte da una frase di papa Francesco e ne rintraccia la genealogia, che a un certo punto intercetta un altro saggio (Ancora sui riti cinesi). Qualcuno obietterà: niente di strano, ogni vera storia è storia contemporanea. Ma questa celebre frase di Benedetto Croce non può essere accettata a scatola chiusa. Ne discuto nel saggio Microstoria e storia del mondo. La contemporaneità si riferisce alle domande o alle risposte? Certo, il presente pone delle domande al passato: ma questo è solo il punto di partenza. Per ottenere dal passato risposte non anacronistiche bisogna ricorrere alla filologia - la filologia in senso ampio, come la intendeva Giambattista Vico. Chi voglia saperne di più potrà trovare altri elementi nel saggio Le nostre parole, e le loro.

E allora torniamo al presente, e alle sue domande. Il primo settembre papa Francesco ha pronunciato una catechesi sulla lettera di san Paolo ai Galati, suscitando reazioni polemiche da parte del rabbino Rasson Arousi, presidente della commissione del Gran Rabbinato d’Israele per il dialogo con la commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo, e da parte del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Non avrei potuto, né saputo, commentare quella recentissima discussione, che senza dubbio tocca il tema che è al centro del mio libro (ormai in corso di stampa), anche se alla lettera di san Paolo ai Galati accenno solo rapidamente. Concluderò con un passo che avevo già scritto, e che si potrà leggere sul risvolto di La lettera uccide: «Mi guardo bene dal fare previsioni su ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Si tratta dell’ultimo (per ora) fotogramma di un film plurisecolare. Ma questa metafora cinematografica è forse ormai superata da un’altra metafora, la schermata del computer, che sembra annullare lo spessore temporale: un sintomo (e una causa) dell’indebolimento della percezione storica nelle società contemporanee. Una perdita gravissima, ma non inevitabile: qualcosa contro cui dobbiamo lottare, servendoci anche del computer».

- Carlo Ginzburg - Pubblicato su Tuttolibri del 9/10/2021 -

giovedì 28 ottobre 2021

La «pura ragione» del lavoro

La prosecuzione socialista dell'Illuminismo borghese
- di Ernst Lohoff -

XVII Tesi su: L'incanto del mondo. Il soggetto-forma e la storia della sua costituzione - una bozza.

Il movimento socialista, pur ritenendosi un movimento anticapitalista, ha dato tuttavia un contributo assolutamente decisivo all'instaurazione della forma-soggetto della società di mercato. La forma di attività generale della società di mercato ha ottenuto un riconoscimento generale solo a partire dalla pressione del movimento operaio. È avvenuto solo grazie all'apparizione di quest'ultimo, che l'astrazione reale «lavoro» ha ottenuto un riconoscimento in quanto valore dei valori, principio dei princìpi, che si colloca al suo posto centrale per quel che riguarda la costituzione del soggetto. Questo paradosso, possiamo comprenderlo solo grazie al quadro storico specifico del movimento operaio. La generalizzazione e l'onnipresenza della forma-soggetto si fonda sulla riduzione forzata dell'esistenza umana alla forma di attività della società di mercato, si basa sulla prestazione di lavoro. A subire la sorte di dover esistere sotto forma di unità di dispendio energetico fisiologico, non sono state le élite sociali, ma, prima di tutti gli altri, il nascente proletariato industriale, che lo ha vissuto come se fosse stato un disastro impostogli. È stato quindi facendosi strada dal basso verso l'alto, che la nuova determinazione del soggetto-forma della società di mercato ha fatto il suo ingresso nella struttura sociale. La principale conquista del movimento operaio è stata quella di ottenere per i lavoratori lo status di cittadini uguali davanti alla legge. Per quanto riguarda la costituzione del soggetto, a livello dell'insieme di tutta l'intera società, il movimento operaio ha avuto l'innegabile merito di aver conferito l'aura di un grande onore a quello che era il male del lavoro imposto.

L'impulso ribelle e anti-sistema del movimento operaio si è basato sul fare confusione tra una specifica costellazione storica e il capitalismo in quanto tale. Tutto ciò appariva chiaramente, a partire da alcuni dei classici schemi argomentativi del movimento operaio. I socialisti si sono trovati a essere i nemici risoluti del sistema, per il fatto che vedevano la tensione tra capitale e lavoro, non antinomia interna tra lavoro morto e lavoro non morto, interpretandola in maniera impropria come se si trattasse dell'antagonismo tra non lavoro e lavoro. La categoria del lavoro aveva così ricevuto in questo modo quel duplice significato tipico del pensiero socialista, e che ancora oggi confonde la coscienza di sinistra. Da un lato, la relazione con la natura venne postulata a partire dall'astrazione reale del lavoro, e pertanto ridotta a dispendio fisiologico, fino ad essere elevata a incarnazione dell'esistenza umana nel suo insieme; mentre dall'altro lato, i socialisti trattarono il lavoro come se fosse una quantità sociologica.

In quanto  tale, il lavoro veniva riferito solo alle masse proletarie escluse, spinte ai margini della società e ridotte a vendere la loro forza lavoro. Oscillando tra il concetto sociologico stretto e quello ontologico, ampio, di lavoro, l'elevazione del lavoro al rango di soggetto universale apparve a quel punto come un programma di emancipazione, facendo così di coloro che erano stati esclusi, e disprezzati fino ad allora, l'incarnazione stessa dell'Umanità. Nel confondere il loro elogio del lavoro con un canto di battaglia anticapitalista, i cantanti socialisti si sbagliavano di grosso. I titolari del marxismo del movimento operaio, non hanno però mai trascurato di rivendicare l'eredità dell'Aufklärung. Lungi dal contestare gli ideali dell'Illuminismo in quanto repressivi, essi criticavano solo il fatto che le classi lavoratrici ne fossero escluse dalle sue conquiste. La rivoluzione borghese - secondo un ritornello usato innumerevoli volte da parte socialista - si sarebbe fermata all'instaurazione meramente formale della libertà, dell'uguaglianza e della giustizia; la classe operaia, invece, avrebbe avuto il compito di completare l'opera iniziata, e di costruire il migliore dei mondi possibili in cui questi principi sarebbero stati poi effettivamente applicati ovunque. A partire dalle idee del XVIII secolo, la visione generale dell'umanità era stata proclamata, ma solo per poi essere sacrificata agli interessi particolari della borghesia. Perciò per realizzare le promesse dell'Aufklärung, e trasformarle in potere materiale, sarebbe stato poi necessario rivolgerle contro i loro ex portatori sociali, e rimettere pienamente al suo giusto posto il lavoro.

Non si trattava di mettere in relazione questa auto-concezione con la questione della forma del soggetto e della prassi, la quale veniva trattata in modo totalmente acritico dai socialisti, per poi vedere che essa rivela il ruolo storico della classe operaia visto come movimento di auto-subordinazione su larga scala. Il passaggio dallo Stato gendarme al moderno Stato democratico - garantendo attivamente le condizioni generali per la valorizzazione del valore e intervenendo in modo regolatore attraverso la legislazione riferita alla riproduzione - ci ha avvicinato al cielo dei principi illuministi di libertà, uguaglianza e diritto, rendendoli onnipresenti.
La ragione pura, con le sue categorizzazioni e definizioni, aveva imparato a interpretare la realtà extra-umana come se fosse un mucchio di cose morte; fu con l'assistenza risoluta dell'avanguardia del movimento operaio che i membri della chiesa del lavoro impararono a trattare sé stessi come delle cose morte, e a creare, in quanto disciplinate macchine da lavoro, la ricchezza sociale, anch'essa come un mucchio di cose morte - e ad esserne orgogliosi. Mettere a fuoco l'astrazione reale del lavoro, ha liberato la relazione con il mondo e con sé stessi - propugnata dal razionalismo e dalla filosofia dell'Aufklärung - dalla ristrettezza del mero pensiero e dai precetti morali. Ha consentito così , su un vasto fronte, l'accesso alla prassi quotidiana, scatenando così tutta la sua potenza distruttiva. Il soggetto universale  del «lavoro» ha preso il posto della «ragion pura», non per ammorbidire la durezza della sua violenza formativa e dare spazio al sensibile, ma per attaccarlo direttamente, e rielaborare in tal senso sia la sua natura esterna che quella interna in funzione della forma-soggetto. Il sacro principio universale del lavoro risulta essere la continuazione e la generalizzazione della «ragion pura», compresi quelli che sono i suoi lati più oscuri.

- Ernst Lohofffonte: Palim Psao -

mercoledì 27 ottobre 2021

Pharmakon !!

Le fogne delle città antiche? Erano infestate da piovre mostruose. Gli imperatori romani? Erano costantemente impegnati a tramare contro i propri stessi sudditi, eliminando geniali inventori che avrebbero potuto rendere più semplice ed economica la vita di tutti, e persino complottando con i barbari per distruggere Roma. La guerra di Troia era stata scatenata da Zeus per risolvere un problema di sovrappopolazione mondiale. E poi c’erano seducenti ladre di organi e demoni etruschi che facevano piovere misteriose scie dal cielo. Dopo l’avvento del cristianesimo, poi, si cominciò a parlare di messaggi satanici nascosti in preghiere apparentemente innocue, e persino di un libro di memorie di Lazzaro, dai contenuti sconvolgenti, che sarebbe stato occultato dagli Apostoli. Tutto questo ci ricorda qualcosa? Tante «notizie impossibili» di oggi non sono nate con i social networks ma sono vecchie, anzi vecchissime. Sì, neanche Greci e Romani erano immuni dal fascino delle leggende metropolitane.

(dal risvolto di copertina di: «Miti vaganti» di Tommaso Braccini, Il Mulino. €15 )

Zeus prima di Bill Gates. L’eternità dei complotti
- di Donatella Puliga -

«Un male di cui niente è più veloce. Trova vigore nel suo movimento, acquista forma con l'andare; dapprima piccola e timorosa, poi si solleva nell’aria, e avanza sul suolo, celando il capo tra le nubi... Mostro orrendo, con tanti occhi, tante lingue, altrettante bocche che risuonano e orecchie che si protendono». Così, nel IV libro dell’Eneide, Virgilio descrive la fama: etimologicamente legata al verbo fari (parlare), fama è la parola potente, autorevole, quasi oracolare. La sua casa, poi — secondo Ovidio — «vibra di ogni voce che percepisce e la riecheggia. Mille voci vere, confuse e diffuse con le false, mormorano parole indistinte, e rovesciano lunghi discorsi in orecchie ben disposte a riceverli, o riferiscono quello che hanno raccolto da precedenti narrazioni, e le invenzioni crescono spudoratamente, perché ognuna, ripetendo un racconto, vi aggiunge qualcosa di suo. Lì abitano la Credulità, l’Errore, i Timori che prostrano».
Basterebbero questi versi a farci comprendere che parlare di ponti tra il presente e il passato, anche sul tema della trasmissione e diffusione delle notizie, non è retorica né vezzo nostalgico. Il tempo che stiamo vivendo a livello planetario, però, ce ne dà ulteriore conferma, che si mescola a un certo senso di stupore.
Mentre si porta avanti in maniera decisa la campagna dei vaccini anti-Covid (che era stata inizialmente — ma con poca fortuna — denominata Eos, non un acronimo ma il bellissimo nome greco dell’Aurora, divinità della luce che sorge dopo le tenebre), non smettono di levarsi voci sempre crescenti con l’andare, anzi con l’impazzare sui social e sui canali di comunicazione, che gridano al complotto mondiale, che mettono in guardia sul comportamento di quei «poteri forti» che sarebbero all’origine — o almeno avrebbero in gran parte collaborato — alla diffusione della pandemia, con un piano tanto diabolico quanto subdolo: decimare, ridurre, sterilizzare, rendere infeconda e disabile la popolazione mondiale. Insomma, un silenzioso genocidio a base di vaccini perpetrato ai danni di noi tutti, ignari cittadini di un pianeta in corsa verso l’apocalisse.
E se l’informazione corre sulle ali della rete, chi se ne fa promotore, in modo assai poco silenzioso, si erge a paladino di battaglie di avanguardia, legate a doppio filo a un presente da smascherare, in vista di un futuro da rifondare su basi di consapevolezza.
Il passato sembra assai poco coinvolto in questa dinamica comunicativa, anche perché soltanto un’epoca in cui il pianeta è abitato da molti miliardi di persone sembrerebbe giustificare la convinzione che qualcuno di molto potente stia operando per una riduzione demografica. Eppure sappiamo che non è così. Molte volte nel corso dei secoli, in epoche assai meno esplosive della nostra dal punto di vista demografico, non ha mancato di levarsi il grido di «non ce lo dicono», refrain oggi diffusissimo nel no-vax speech. In corrispondenza del diffondersi di epidemie, da quella della peste a quella del colera, una parte della popolazione si è rivoltata contro autorità istituzionali e sanitarie, incolpandole della diffusione della malattia e del fatto di condannare i malati a morire negli ospedali.
Una interessantissima e spiazzante riflessione su questo tema è quella di Tommaso Braccini, autore di Miti vaganti (il Mulino), che ci fa addentrare nei meccanismi di diffusione di teorie complottiste e di leggende metropolitane a partire dal mondo antico. Possiamo risalire indietro nel tempo, molto più di quanto non ci aspetteremmo, per ritrovare tracce vistose della convinzione che poteri occulti (e perciò particolarmente forti) tramano in vista dello sfoltimento della popolazione. La testimonianza più antica, in questo senso, almeno per quanto riguarda la cultura dell’Occidente, è costituita da un testo epico del VI secolo a.C., I canti ciprii, di cui possediamo solo frammenti, e che racconta i precedenti della guerra di Troia. Ebbene, quel conflitto che fu all’origine di tutti gli altri, la madre di tutte le guerre, sarebbe stato scatenato da uno Zeus che «voleva distruggere la stirpe dei mortali, troppo numerosa». Sembra echeggiare qui il nucleo folklorico già presente nel poema babilonese Atrahasis (XVII secolo a.C.) che descrive il dio Enlil infastidito per l’eccessivo rumore degli uomini sulla terra e deciso perciò a decimarli con malattie e carestie.
Insomma, ogni grande disastro che colpisce l’umanità — si tratti di una guerra o di un’epidemia — sembra essere il prodotto di occulte manovre più o meno riuscite, e se oggi Bill Gates pare essersi seduto con abile manovra sostitutiva sul trono di Zeus, non molto è cambiato nello schema della lettura complottista: qualcuno trama contro di noi, e il fatto che la scienza ci fornisca oggi dei (presunti) antidoti alla pandemia attraverso i vaccini è semmai considerato elemento che fa parte, in modo ancora più subdolo, del piano di distruzione.
Racconta Cassio Dione, storico e senatore vissuto nel II e III secolo, e autore di una monumentale Storia romana scritta in greco, nella quale indulge non poco a particolari dicerie di tipo magico, che sotto l’impero di Domiziano alcune persone andavano in giro «con degli aghi intrisi di un veleno, e pungevano chi capitava loro sotto tiro. Molte persone morivano senza neanche rendersene conto, e molti di quegli avvelenatori furono denunciati e condannati. Questo fatto si verificò non solo a Roma, ma in tutta l’oikoumene, la terra abitata».
In queste figure di untori ante litteram, che distribuiscono morte a cittadini inconsapevoli, non sarebbe improprio ravvisare anche — per chi è sorretto da uno sguardo complottista — gli archetipi degli odierni dispensatori di vaccini, che — in una certa visione antiscientifica — si ritiene iniettino con i loro aghi sostanze letali. Anche sotto l’impero di Commodo accadde qualcosa di simile: «Si verificò un’epidemia tra le più gravi che io ricordi — continua lo storico —. Morivano a Roma anche duemila persone al giorno, ma in tutto l’impero moltissimi morivano per mano di uomini malvagi: costoro intridevano di veleni letali (il greco pharmakon dice tutta l’ambivalenza di un termine che indica insieme il veleno e la medicina!) dei piccoli aghi e iniettavano, dietro compenso, il male nelle persone».
Anche in questo caso, ecco l’ombra del guadagno, dell’interesse economico. Complottismi di ieri e di oggi si intrecciano poi a leggende che sempre più impropriamente di definiscono «metropolitane» e che (come il saggio di Braccini ci ricorda) è più corretto chiamare contemporanee, proprio nel senso che appartengono a ogni epoca che le produce, che sono coeve del loro tempo. Così, il sospetto e la rivelazione che i poteri forti tengano nascoste risorse che basterebbero a migliorare il tenore di vita dell’umanità attraversa i secoli e le culture: spacciare per verità «oscurate» (ma si può nascondere definitivamente la verità, che nel suo nome greco, aletheia, porta invece l’idea di ciò che non può restare celato?) dicerie e voci infondate era già lo sport preferito dei parvenu protagonisti della cena di Trimalcione, nel Satyricon di Petronio. Anche in questo caso, un «sentito dire» che passava di bocca in bocca — di blog in blog, di tweet in tweet, di post in post diremmo oggi — voleva che un umile artigiano avesse scoperto la formula del vetro flessibile, resistente ai colpi e quindi infrangibile. L’imperatore, preoccupato che questa invenzione potesse fare crollare il prezzo dei metalli preziosi, con i quali si fabbricavano oggetti resistenti alle cadute, non avrebbe esitato a fare giustiziare il povero artigiano, non senza essersi assicurato che la sua formula scendesse con lui nella fossa.
Il complottismo ha un cuore antico, dunque. E forse varrebbe la pena di smettere di domandarsi «a cosa servono i classici» nel nostro mondo iper-moderno. Perché la risposta sarebbe che non servono a nulla. Nel senso che aiutano a non farci servi, a non accettare di essere schiavi di paure alimentate da ideologie, pregiudizi e false letture della realtà. A non accontentarci di una sbrigativa per quanto sfiziosa ricerca delle colpe per dedicarci alla faticosa e sublime attività del rerum cognoscere causas, dell’esplorazione della conoscenza delle cose. E ad accettare la nostra fragilità, a tutte le latitudini del tempo.

- di Donatella Puliga - Pubblicato sul La Lettura del 24/10/2021 -

Dai, Muoviti !!

«L'immediatista ha sempre bisogno di disegnare il nuovo su una passiva fotografia del vecchio. Gramsci chiamò il suo immediatismo "concretismo", e non avvertì che ogni concretismo è controrivoluzione». (A. Bordiga, 1957).

Come ultima moda, viene rimproverato, a chi non ritiene sia il caso di associarsi alle ben note manifestazioni settimanali di quest'ultimo periodo, di non avere, in alternativa, alcunché da proporre come argomento per poter riempire le cronache mediatiche. E nel far questo, sembra di sentire come la voce di un nuovo imperativo "produttivo", che per i «cavallerizzi dell'onda disponibile» si DOVREBBE risolvere in una sorta di "fordismo delle piazze", secondo il quale bisognerebbe per forza produrre cortei e manifestazioni di piazza, sempre più e sempre più non importa su che cosa e con chi. Come se si trattasse di un'irresistibile tendenza al «pragmatismo politico» (Kurz), da applicare a ciò che rimane della sinistra in tutto il mondo, in un desiderio smodato di efficacia sociale, peraltro privo di qualsivoglia chiarificazione dei suoi presupposti, in modo che così possa portare - cosa cui stiamo già assistendo - alla totale paralisi del pensiero e dell'azione critica nei confronti del capitalismo.

martedì 26 ottobre 2021

Da vedere !

“L’effondrement”, la serie francese che mette in scena il collasso della società
- di Daniel Ruis -

"L’effondrement", ossia Il Collasso, è una serie TV francese che si ispira alle tesi derivate dal recente concetto di “collassologia”: lo studio interdisciplinare dei rischi legati al collasso della società e della civiltà industriale. Il termine “collassologia” (in ing. Collapsology) è stato coniato da Pablo Servigne e Raphaël Stevens nel loro libro Come tutto può collassare (2015). Tuttavia, il modello scientifico della distruzione antropogenica della biosfera è datato al 1973, con I limiti dello sviluppo scritto dal Club di Roma. La serie è stata creata, scritta e prodotta dal collettivo Les Parasites e trasmessa da Canal+ tra novembre e dicembre 2019, giusto prima che scoppiasse la crisi del Coronavirus in Europa. Ha vinto almeno 6 premi, incluso il premio Berlin Special Projection e un Emmy come miglior miniserie. Ultimamente Les Parasites hanno prodotto film corti come Whistleblowers, Board Games e Crisis of Empathy, che mettono in dubbio, con ironia e humor nero, la sorveglianza generalizzata, gli eccessi del capitalismo e l’individualismo. Questa serie segue i percorsi di individui, gruppi e famiglie in momenti differenti e in posti differenti, mentre cercano di sopravvivere in svariati modi in un mondo sul quale non hanno più controllo, in una situazione di collasso. Nel corso degli episodi, lo spettatore rimane all’oscuro delle cause precise alla base del collasso della società. Vengono mostrati i passaggi e i processi di risposta, le reazioni dei personaggi e delle loro comunità, sempre segnati da eventi scatenanti, apparentemente innocui che tutti noi abbiamo sperimentato prima (interruzioni di corrente, mancanza di provviste nei supermercati, carenza di carburante, etc.) che portano a eventi più gravi (furti, uso di armi) che rischiano di generare delle situazioni sempre più violente. Alcuni episodi mostrano lotte per la sopravvivenza e modalità di resistenza, mentre altri presentano modi di organizzazione di aiuto reciproco. Con un budget di due milioni di euro, ciascun episodio è stato prodotto con una elaborazione minimale in una o più riprese. La serie ha otto episodi di circa 20 minuti ciascuno. Il titolo di ciascun episodio si riferisce a un luogo specifico, così come il tempo passato dal D-Day: primo giorno del collasso. Ciascun episodio mostra un avanzamento cronologico rispetto al precedente, fino al giorno 170 dell’episodio 7. Solo l’ultimo episodio, l’ottavo, parte da 5 giorni prima del D-Day, rappresentando attivisti che cercano di avvertire delle conseguenze osservate negli episodi precedenti, entrando sul set di un programma televisivo molto ascoltato.

Episodio 1, “Il Supermercato”. Ambientato nel giorno D+2. Rappresenta Omar, un cassiere del supermercato, che dovrebbe aiutare la sua ragazza Julia e i suoi amici a ottenere provviste per scappare dalla città. Non c’è elettricità e i beni di prima necessità scarseggiano. Il manager del supermercato ne approfitta speculando sulla mancanza di beni. I sistemi di comunicazione e i le carte di credito iniziano a non funzionare. Omar ha paura di perdere il suo lavoro e rifiuta di seguire il gruppo, ma li aiuta a scappare senza pagare. Finalmente Omar cerca di raggiungere gli amici, ma è catturato dalle forze di sicurezza e dagli agenti. I temi principali dell’episodio sono: la fragilità della società industriale; la cieca fede della società dei consumi; lo sfruttamento delle crisi da parte delle élite per speculare; l’uso della violenza da parte della classe al potere.
Episodio 2, “Il distributore di benzina”. Ambientato nel giorno D+5. C’è una lunga coda al distributore di benzina, che accetta solo pagamenti tramite cibo. Un uomo cerca di pagare offrendo il frutto delle sue giovani figlie, ma è rigettato perché il frutto è deperibile. I proprietari, Christophe e Marianne, e il loro figlio disabile hanno preparato il loro furgoncino per scappare prima che la situazione degeneri. Un poliziotto minaccia con la pistola affinché il suo serbatoio venga riempito completamente, ma le riserve di benzina stanno finendo e la folla inizia a saccheggiare la stazione. L’uomo con le figlie prende il furgoncino di Christophe minacciandolo con la pistola del poliziotto e fugge dal trambusto. I temi principali di questo episodio sono: il valore relativo delle cose (cibo, pistole, soldi, …) durante una crisi; la legge della giungla e il crollo dei controlli sociali; l’eccessiva dipendenza dal combustibile fossile.
Episodio 3, “L’aeroporto”. Ambientato nel giorno D+6. Laurent Desmarest dorme nella sua lussuriosa villa con l’amante quando è svegliato dalla chiamata del suo assicuratore, che lo avverte che gli rimangono 15 minuti per arrivare all’aeroporto più vicino per essere prelevato. Cerca di raggiungere sua moglie Sofia che è via, per salvare anche lei, ma senza successo. Si precipita con la sua auto all’aeroporto portando con sé alcuni dipinti di valore. Una folla di persone sfollate occupa la strada. Lungo il percorso Laurent si inietta un chip di identità nel suo braccio. Perde il volo, ma è informato che può ancora provare a prendere il successivo che parte tra 50 minuti in un altro aeroporto. Cerca di corrompere il proprietario di un aereo privato per portarlo fino a lì, ma finisce per rubare l’aereo dal momento che sa come pilotarlo lui stesso. I temi dell’episodio: l’estrema disuguaglianza di ricchezza, opportunità, informazioni, capacità, rischi, sicurezza; il valore (o la perdita di valore) del denaro.
Episodio 4, “Il Villaggio”. Ambientato nel giorno D+25. Un abitante di una città guida un gruppo di sfollati che ha incontrato lungo la strada per arrivare a un eco-villaggio. La comunità dell’eco-villaggio si riunisce per decidere se ammetterli o meno. Karine, una degli sfollati, ha paura che saranno rigettati e convince due dei suoi compagni a scappare con il cibo e le medicine della comunità. Lei uccide il figlio del capo della comunità che li scopre rubare e poi uno degli sfollati che la vede mentre nasconde il cadavere. Alla fine, il gruppo è autorizzato a rimanere, ma Karine scappa. I temi dell’episodio: la lotta per la sopravvivenza; i vantaggi delle aree rurali durante le crisi; il valore della vita; la sicurezza; l’individualismo vs solidarietà; la fiducia.
Episodio 5, “La centrale nucleare”. Ambientato nel giorno D+45. Amine sta guidando un gruppo di volontari nel disperato tentativo di raffreddare manualmente il reattore nucleare fintanto che le riserve d’acqua non saranno ripristinate. La centrale alla fine esplode e molti di loro rimangono feriti. Iniziano l’evacuazione in un raggio di 50 km ma si verifica una seconda esplosione. I temi dell’episodio: disastro tecnologico; la fine della civiltà industriale; la leadership; il sacrificio; l’altruismo.
Episodio 6, “La casa di riposo”. Ambientato nel giorno D+50. Marco è l’ultimo impiegato rimasto nella casa di riposo. È molto gentile con gli anziani, ma le medicine e il cibo stanno scarseggiando. Un vecchio impiegato arriva per rubare il cibo e convince Marco ad andarsene per mettere in salvo la sua vita. Alla fine Marco acconsente, ma prima di farlo uccide tutti i pazienti con una bombola di gas. I temi: giustizia intergenerazionale; compassione; eutanasia; anziani.
Episodio 7, “L’isola”. Ambientato nel giorno D+170. Sofia Desmarets (la moglie di Laurent dell’episodio 3) si trova su un’isola tropicale e sta cercando di scappare da due uomini che cercano di rubare lo yacht. Mentre naviga verso l’isola lei cerca di mandare la sua posizione e la sua identità via radio, ma senza successo. In vista dell’isola, la barca colpisce un muro galleggiante al quale altre navi (con dei cadaveri a bordo) sono ormeggiate. Un piccolo drone fa fuoco e la ferisce, ma lei riesce a distruggerlo con una pistola segnaletica. Finalmente, riesce a mostrare la sua ID di sicurezza a un secondo drone e subito dopo una piccola imbarcazione arriva per salvarla. I temi dell’episodio: ghetti di sopravvivenza dei ricchi; intelligenza artificiale e armi automatiche; muri.
Episodio 8, “La trasmissione”. Torna indietro al giorno D-5. L’ambientalista Jacques Hombla irrompe in una trasmissione televisiva che ospita la Ministra dell’ambiente Sofia Desmarets, con la quale lui ha lavorato qualche tempo addietro. Jacques vuole avvertire il pubblico dell’imminente collasso ambientale che è già iniziato nel Sud del mondo. La ministra vuole rassicurare il pubblico, ma Jacques sostiene che la crescita verde sia un’illusione per ingannare il pubblico. L’umanità deve essere pronta a sopravvivere al collasso della civiltà, che ormai è inevitabile dal momento che non è stato fatto nulla negli ultimi 50 anni. Dovrebbero essere adottate delle misure per ridurre la carestia, la carenza d’acqua, i milioni di morti e lo sfollamento. Il presentatore prende una pausa per sbarazzarsi di lui, mentre Sofia cerca di reclutarlo. Temi: i politici, accademici e media mercenari; il pubblico credulone; la società dell’intrattenimento.

Filmato totalmente in sequenza, la serie risplende attraverso la sua tecnica, che permette allo spettatore di essere il più vicino possibile ai protagonisti e di seguire le loro avventure in tempo reale. Si odono alcune note musicali, ma il formato rimane grezzo e tralascia tutti gli elementi che tradizionalmente caratterizzano un film o una serie. Il metodo è molto interessante perché permette di osservare l’ininterrotta recitazione degli attori, tenuti a rimanere nel loro personaggio fino all’ultimo momento. Gli episodi portano lo spettatore attraverso la graduale distruzione della società, a causa di una catastrofe non identificata ma generata dalla società industriale stessa. A parte alcune eccezioni, le istituzioni (governo, università e media) sono al servizio di una élite avida e corrosiva. Il pubblico manipolato e persino una parte dell’élite stessa (come Sofia) crede nel mito neoliberale del mercato, mentre gli altri oligarchi sono ben consapevoli dei rischi e si preparano a sopravvivere in luoghi remoti con l’aiuto di compagnie di sicurezza private. Questa serie, consapevolmente, incita alla paura e all’ansia per cercare di obbligare il pubblico a reagire. La pandemia di Covid-19, e il collasso limitato che essa ha portato con sé, sono un momento per guardare questa serie, in modo tale da permetterci di pensare che qualcosa di più pericoloso potrebbe capitare. Come afferma Ugo Bardi, il collasso non è un errore ma una caratteristica di sistemi complessi, come la nostra società industriale.

- Daniel Ruis - 19/12/2020 -  Pubblicato originariamente su Scienza & Pace Magazine -

Riferimenti Bibliografici

Bardi U. (2020), Before the Collapse. A Guide to the Other Side of Growth. Springer
Bardi Ugo (2017). The Seneca Effect: Why Growth is Slow But Collapse is Rapid. Springer.
Cardoso Pedro et al. (2020) “Scientists’ warning to humanity on insect extinctions”, Biological Conservation 242 (2020) 108426
Cavicchioli Ricardo et al. (2019), “Scientists’ warning to humanity: microorganisms and climate change”, Nature Reviews Microbiology volume 17, September 2019, 569
Costanza R (2007), Sustainability or Collapse? An Integrated History and Future of People on Earth. MIT Press
Diamond J. (2005), Collapse: How Societies Choose to Fail or Survive, Viking Press.
Dmitry Orlov (2008), Reinventing Collapse: The Soviet Example and American Prospects. New Society Publishers
Heleno Ruben et al. (2020), “Scientists’ warning on endangered food webs”, Web Ecol., 20, 1–10, 2020
Jenny Jean-Philippe et al. (2020) “Scientists’ Warning to Humanity: Rapid degradation of the world’s large lakes”, Journal of Great Lakes Research Volume 46, Issue 4, August 2020, Pages 686-702
Meadows D. et al. (1972), The Limits to Growth, The Club of Rome.
Mosaddeq Nafeez (2016): Failing States, Collapsing Systems. BioPhysical Triggers of Political Violence. Springer
Ripple William et al. (2020), “World Scientists’ Warning of a Climate Emergency”, BioScience January 2020 / Vol. 70 No. 1
Rockström J et al (2009), “A safe operating space for humanity”, Nature, vol. 461, no 7263,? 23 september 2009, p. 472–475.
Servigne P & Stevens R (2015), Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes. Seuil.
Steffen W et al. (2018), “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene”, PNAS.
Tainter (1988), The Collapse of Complex Societies. Cambridge University Press
The Expert Group of the International Military Council on Climate and Security (2020), The World Climate and Security Report 2020
United Nations (1987), Report of the World Commission on Environment and Development: Our Common Future, the World Commission on Environment and Development.

fonte: Scienza & Pace Magazine

lunedì 25 ottobre 2021

La Tesi XII !

« C'è, tuttavia, nella tesi stessa di Feuerbach, una carenza che è importante segnalare e che ha reso possibile alcuni volgari fraintendimenti. Il punto di partenza, lo si trova nella relazione esistente fra interpretazione (teorica), da un lato, e prassi o "trasformazione del mondo", dall'altro. Come è stato dimostrato, la riproduzione del capitalismo è sempre, anche, elaborazione delle contraddizioni, oltre che essere la progressiva interpretazione reale del mondo in sé; ma in tal modo essa diventa anche una trasformazione permanente  del mondo, vale a dire, una trasformazione interpretativa. Ciò significa che le forme categoriali del capitalismo, insieme alla relazione di scissione che le lega, vengono presupposte ontologicamente e, a partire da questo, anche la trasformazione del mondo viene a sua volta elevata a interpretazione reale, che si sviluppa storicamente, "a partire da" e "dentro" tale forma-legame (Formzusammenhang). E nel fornire le griglie di interpretazione e di legittimazione ideale, ecco che in questa trasformazione capitalistica del mondo subentra la "prassi teorica". L'attuale contrapposizione, piatta e superficiale, tra "i filosofi hanno semplicemente interpretato diversamente il mondo" e "si tratta di trasformarlo",  vista come critica del capitalismo, fallisce del tutto, poiché essa non tiene conto del ruolo giocato dalla trasformazione interpretativa-reale del mondo capitalista, in quanto prassi in sé, e suppone invece che una "prassi" in sé, in quanto tale, indeterminata, possa pretendere di contrapporsi alla semplice "interpretazione". »

( Robert Kurz, "Grigio è l'albero d'oro della vita, e verde è la teoria" - su Exit!, 2007 ) 

grazie ad Acid Prod

domenica 24 ottobre 2021

A lavorare!!

«Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo.»           (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

A quanto pare, oggi, il problema principale in questo nostro bel paese, sembra essere diventato la «libertà del lavoro», e di conseguenza, pertanto, è la sua temporanea mancanza quella che dev'essere ripristinata, affinché non rischi di diventare definitiva. E per far questo si è costituita una sorta di «santa alleanza» che sembra aver coinvolto tutti, a partire dal sostenitore di Bolsonaro - che potete vedere nella foto - e via via tutti quanti quelli che da Forza Nuova e Casa Pound, ai «fratelli della Meloni», e passando per tutti i bottegai di varia classe e natura, arriva financo alla variegata estrema sinistra, o quanto meno a una sua parte, più o meno antagonista, più o meno extraparlamentare, laddove tutti vedono nell'abrogazione del green pass la salvezza per la «nostra bella patria», minacciata in quella sua costituzione, che dopo il collasso dell'Unione Sovietica, rimane l'unica Repubblica ancora «fondata sul lavoro»!
Quel che mi è venuto da chiedermi - e non solo a proposito di queste manifestazioni e di questa «vertenza», ma proprio in generale - è che cosa mai potrebbe accadere nel caso si «vincesse», nel caso Draghi dovesse mai arrivare a cedere, e ad accogliere la richiesta di abolire l’esibizione del green pass ai fini di poter andare al lavoro. Oppure, spostando altrove il terreno, cosa accadrebbe qualora venissero accettate ed esaudite le richieste di quello che rimane del vecchio movimento operaio, e il solito Draghi accettasse riassunzioni e/o nazionalizzazioni come piovesse, come viene chiesto a gran voce dai pochi, o molti operai coinvolti insieme ai loro sindacati? Insomma, sarebbe come se, senza nessuna rivolta, e senza «insorgere» (a proposito, qualcuno ne ha viste di rivolte o di insurrezioni, a parta gli idranti su quei «poveri cristi» con le mani abbarbicate ai loro rosari?!??), riuscissimo finalmente ad avere tutti insieme quel così tanto agognato «lavoro libero», il quale poi costituisce la quintessenza del capitalismo nel quale noi tutti viviamo e al quale, per partecipare non ci resta da fare altro che accettare le regole della «concorrenza»; che poi, se ci si pensa bene, non è altro che la sostanza della ... lotta di classe. I padroni (che accettino il green pass o meno), così come i manifestanti contro il green pass, vogliono una cosa sola: che lavori (e che voglia lavorare) quanto più gente possibile, e quanto più possibile. «Poi sui salari ci mettiamo d'accordo!» E con quanti più morti possibile, di conseguenza, come in quei «bei» giorni "bergamaschi", divisi tra il lockdown e la gente accalcata sui mezzi pubblici e senza mascherina per poter andare a lavorare.
Nel frattempo, quella che continua a mancare, e di cui nessuno sembra preoccuparsi, è una prospettiva immaginativa-utopica che vada oltre, e che abolisca - intanto, a cominciare dai cervelli - questo maledetto lavoro che è diventato il modo in cui tutti quanti parlano di ciò che considerano essere per loro l'unica possibilità di sopravvivenza (no, non di vita), e che proprio in quanto tale - proseguendo sulla strada intrapresa dalle varie «rivolte» e «insurrezioni» che sono state messe in scena - non potrà mai essere la sopravvivenza di tutti. Bisognerà conquistarsela con la concorrenza: battendo il Covid, da una parte, e ottenendo il sospirato posto di lavoro (precario e non per molto), dall'altra. E così via. Di fronte a questo non posso fare altro che manifestare tutta la mia gioia e soddisfazione per essere finalmente… vecchio!!

Marx, comunista individualista!!

Marx, comunista individualista (frammenti sull'individuo)

Una collezione di frammenti, tratti dalle opere di Marx e che fanno riferimento agli individui, alla loro subordinazione derivante dal reciproco isolamento e dalla separazione, a partire dalla quale si sottomettono a un potere alienato che, isolandoli, li unisce: il mercato, lo stato, l'impresa, il capitale, le classi. Frammenti in cui si parla della creazione di una società dove gli individui si relazionano in quanto individui (cioè non come proprietari privati, né come classi, né come detentori di cariche, o di altre identità reificate, quali la nazionalità, l'etnia, ecc.), e dove il lavoro è stato abolito a partire dalla manifestazione di sé (vale a dire, auto-espressione o auto-attività) attraverso la libera associazione degli individui secondo i loro desideri, capacità e bisogni insieme alle forze produttive storiche mondiali...

Gli estratti sono dalle seguenti opere:
Karl Marx, Grundrisse, 1858.
Karl Marx e F. Engels, Ideologia tedesca, 1846
Karl Marx e F. Engels, La Sacra Famiglia o Critica della Critica, 1845
Karl Marx, Manoscritti economici e filosofici, 1844
Karl Marx, Introduzione a Un contributo alla critica della filosofia del diritto di Hegel, 1843
Karl Marx, bozza di un articolo sul libro di Friedrich List, 1845
Lettera di Marx a J. B. von Schweitzer, 1865, 13 febbraio

Le Forze Produttive degli individui e la loro accumulazione in quanto forze della proprietà privata contro di esse

« Il bisogno dello scambio [delle merci] e la trasformazione del prodotto in puro valore avanzano nella medesima misura della divisione del lavoro, ossia col carattere sociale della produzione. Ma nella medesima misura in cui quest’ultimo si sviluppa, cresce il potere del denaro, ossia il rapporto di scambio si fissa come un potere esterno ai produttori e indipendente da loro. Ciò che originariamente si presentava come mezzo per promuovere la produzione, diventa un rapporto estraneo ai produttori. Nella stessa proporzione in cui i produttori diventano dipendenti dallo scambio, questo sembra diventare indipendente da loro, e sembra crescere l’abisso tra prodotto in quanto tale e prodotto in quanto valore di scambio. »  (Karl Marx, Grundrisse, 1858).

«La divisione del lavoro implica già immediatamente anche la divisione delle condizioni di lavoro, degli strumenti e dei materiali, e con essa il frazionamento (del capitale accumulato fra i diversi proprietari, e quindi la separazione fra capitale e lavoro, e le diverse forme della proprietà stessa. Quanto più la divisione del lavoro si perfeziona e quanto, più l’accumulazione aumenta, tanto più si accentuano anche quelle separazioni. L’esistenza del lavoro stesso dipende dal presupposto di quel frazionamento. [...] A questo punto dunque si manifestano due fatti. Innanzi tutto le forze produttive appaiono come completamente indipendenti e staccate dagli individui, come un mondo a parte accanto; agli individui, e il fondamento di ciò è in questo, che gli individui di cui esse sono le forze esistono in una condizione di frazionamento e di opposizione reciproca, mentre queste forze, d’altro lato, sono forze reali solo nelle relazioni e nel collegamento tra questi individui. Da una parte, dunque, una totalità di forze produttive che hanno assunto, per così dire, una forma obiettiva e che per gli individui stessi non sono più le forze degli individui, ma della proprietà privata, e quindi degli individui solo in quanto sono proprietari privati. In nessun periodo precedente le forze produttive avevano assunto questa forma indifferente alle relazioni degli individui come individui, perché le loro relazioni stesse erano ancora limitate. Dall’altra parte a queste forze produttive si contrappone la maggioranza degli individui, dai quali queste forze si sono staccate e are quindi sono stati spogliati da ogni reale contenuto di vita, sono diventati individui astratti, ma proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in collegamento tra loro.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846)

«Perciò, l’antica concezione secondo cui l’uomo, quale che sia la sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre lo scopo della produzione, sembra molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell’uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Ma in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti delle forze produttive, ecc, degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire? Nell’economia politica borghese — nella fase storica di produzione cui essa corrisponde — questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come alienazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esterno.» (Karl Marx, Grundrisse, 1858. Capitolo conosciuto anche come "Forme economiche pre-capitaliste").

«Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846)

Classi: la subordinazione degli individui in quanto individui medi contro terze parti

«Gli individui hanno sempre preso le mosse da se stessi, ma naturalmente da sé nell’ambito delle loro date condizioni e situazioni storiche, non dal «puro» individuo nel senso degli ideologi. Ma nel corso dello sviluppo storico, e proprio attraverso l’indipendenza inevitabile che entro la divisione del lavoro acquistano i rapporti sociali, emerge una differenza tra la vita di ciascun individuo in quanto essa è personale, e in quanto è sussunta sotto un qualche ramo di lavoro e sotto le condizioni relative. (Ciò non va inteso nel senso che per esempio il rentier o il capitalista cessino di essere delle persone; ma la loro personalità è condizionata e determinata da rapporti di classe determinatissimi, e la differenza emerge solo nel contrasto con un’altra classe, e per loro stessi emerge solo quando fanno bancarotta). Nell’ordine (e più ancora nella tribù) questo fatto rimane ancora nascosto: per esempio un nobile resta sempre un nobile, un roturier sempre un roturier, a prescindere da ogni altra sua condizione: è una qualità inseparabile dalla sua individualità. La differenza fra l’individuo personale e l’individuo come membro di una classe, la casualità delle condizioni di vita per l’individuo, si ha soltanto con la comparsa della classe che a sua volta è un prodotto della borghesia. Solo la concorrenza e la lotta degli individui tra di loro produce e sviluppa questa casualità come tale. Quindi sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva.»  (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846)

«Questa sussunzione degli individui sotto classi determinate non può essere superata finché non si sia formata una classe la quale non abbia più da imporre alcun interesse particolare di classe contro la classe dominante. La trasformazione delle forze (rapporti) personali in forze oggettive, provocata dalla divisione del lavoro, non può essere abolita togliendosene dalla testa l’idea generale, ma soltanto se gli individui sussumono nuovamente sotto se stessi quelle forze oggettive e abolendo la divisione del lavoro. Questo non è possibile senza la comunità. Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale. Nei surrogati di comunità che ci sono stati finora, nello Stato, ecc., la libertà personale esisteva soltanto per gli individui che si erano sviluppati nelle condizioni della classe dominante e solo in quanto erano individui di questa classe. La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro e allo stesso tempo, essendo l’unione di una classe di contro a un’altra, per la classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846)

«Da tutto quello che si è visto finora risulta che il rapporto di comunità nel quale entravano gli individui di una classe e che era condizionato dai loro interessi comuni di fronte a un terzo, era sempre una comunità alla quale questi individui appartenevano soltanto come individui medi, soltanto in quanto vivevano nelle condizioni di esistenza della loro classe; era un rapporto al quale essi partecipavano non come individui, ma come membri di una classe. Nella comunità dei proletari rivoluzionari, invece, i quali prendono sotto il loro controllo le condizioni di esistenza proprie e di tutti i membri della società, è proprio l’opposto: ad essa gli individui prendono parte come individui. È proprio l’unione degli individui (naturalmente nell’ambito del presupposto delle forze produttive attualmente sviluppate), che mette le condizioni del libero sviluppo e del libero movimento degli individui sotto il loro controllo, condizioni che finora erano lasciate al caso e che si erano rese autonome di contro ai singoli individui proprio attraverso il fatto che essi erano separati come individui, attraverso la loro necessaria unione, che era data con la divisione del lavoro ma che per la loro separazione era diventata un vincolo ad essi estraneo. L’unione che si è avuta finora non era affatto arbitraria, come viene rappresentata per esempio nel Contrat social, ma necessaria (si confronti per esempio la formazione dello Stato nordamericano e le repubbliche sudamericane) sulla base di quelle condizioni entro le quali poi gli individui potevano godere della casualità. Questo diritto, di poter godere indisturbati della casualità all’interno di certe condizioni, veniva finora chiamato libertà personale. Queste condizioni di esistenza sono naturalmente soltanto le forze di produzione e le forme di relazioni di ciascun periodo.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

Lo Stato è una comunità illusoria

«Gli individui sono sempre partiti da se stessi, prendono sempre le mosse da se stessi. I loro rapporti sono rapporti del loro reale processo di vita. Come accade che i loro rapporti si rendono autonomi contro di loro? che le potenze della loro stessa vita diventano strapotenti contro di loro? In una parola: la divisione del lavoro, il cui grado dipende dalla forza produttiva di volta in volta sviluppata.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«Appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto — come vedremo più particolarmente in seguito — sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi tra di esse.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

La vera ricchezza degli individui è la ricchezza delle loro relazioni storico-mondiali

«Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto della «autocoscienza», dello spirito del mondo o di qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto di cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi. Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo ecc.), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (di cui parleremo più avanti) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini). La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

Abolizione del lavoro

«Il lavoro è libero in tutti i paesi civili; non si tratta di liberare il lavoro, ma di abolirlo.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«In tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc. [...] » (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«Mentre i servi della gleba fuggitivi, dunque, volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«[...] il lavoratore è lo schiavo del capitale, che è una "merce", un valore di scambio, il cui alto o basso livello, la crescita o la caduta del quale, dipende dalla competizione, dalla domanda e dall'offerta; in questo modo viene stabilito che la sua attività non è una libera manifestazione della sua vita umana, la quale è, piuttosto, la vendita ambulante delle sue forze, un'alienazione (vendita) al capitale delle sue abilità sviluppate in maniera unilaterale, in una parola, è questo il "lavoro". Si suppone che questo venga dimenticato. "Lavoro" è la base vivente della proprietà privata, è proprietà privata come sorgente creatrice di sé stessa. La proprietà privata non è nient'altro che lavoro oggettivato. Se si vuole sferrare un colpo mortale alla proprietà privata, essa dev'essere attaccata non solo come condizione materiale degli affari, ma anche come attività, come lavoro. Parlare di lavoro libero, umano, sociale, senza proprietà privata, è uno dei più grandi equivoci. Il "lavoro" per la sua stessa natura è attività non-libera, disumano, asociale, determinata dalla proprietà privata e che crea proprietà privata. Quindi l'abolizione della proprietà privata diverrà una realtà solo quando essa verrà concepita come abolizione del "lavoro" (un'abolizione che, naturalmente, diventa possibile soltanto come risultato del lavoro stesso, che è come dire, diviene possibile come risultato dell'attività materiale della società e che non dovrebbe essere in nessun caso concepita come sostituzione di una categoria da parte di un'altra categoria). Una "organizzazione del lavoro", dunque, è una contraddizione. La miglior organizzazione che il lavoro può darsi è quella presente, la libera concorrenza, la dissoluzione di tutta la sua precedente organizzazione apparentemente "sociale". » ( Bozza di un articolo sul libro di Friedrich List: Il Sistema Nazionale dell'Economia Politica, di Karl Marx - scritto nel Marzo del 1845 – traduzione mia: https://francosenia.blogspot.com/2015/07/il-signor-list.html

Il superamento del lavoro attraverso la manifestazione di sé (auto-espressione, auto-attività) e l'emergere delle relazioni degli individui in quanto tali

«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«Le cose dunque sono arrivate a tal punto che gli individui devono appropriarsi la totalità delle forze produttive esistenti non solo per arrivare alla loro manifestazione personale, ma semplicemente per assicurare la loro stessa esistenza. Questa appropriazione è condizionata innanzi tutto dall’oggetto che ci si deve appropriare: le forze produttive sviluppate fino a costituire una totalità ed esistenti solo nell’ambito di relazioni universali. Questa appropriazione dunque, già sotto questo aspetto, deve avere un carattere universale corrispondente alle forze produttive e alle relazioni. L’appropriazione di queste forze non è altro essa stessa che lo sviluppo delle facoltà individuali corrispondenti agli strumenti materiali di produzione. Per questo solo fatto l’appropriazione di una totalità di strumenti di produzione è lo sviluppo di una totalità di facoltà negli individui stessi. Questa appropriazione inoltre è condizionata dagli individui che la attuano. Solo i proletari del tempo presente, del tutto esclusi da ogni manifestazione personale, sono in grado di giungere alla loro completa e non più limitata manifestazione personale, che consiste nell’appropriazione di una totalità di forze produttive e nello sviluppo, da ciò condizionato, di una totalità di facoltà. Tutte le precedenti appropriazioni rivoluzionarie erano limitate; individui la cui manifestazione personale era limitata da uno strumento di produzione limitato e da relazioni limitate si appropriavano questo strumento di produzione limitato e non facevano che arrivare a una nuova limitazione. Il loro strumento di produzione diventava loro proprietà, ma essi restavano sussunti sotto la divisione del lavoro e sotto il loro proprio strumento di produzione. In tutte le appropriazioni del passato una massa restava sussunta sotto un solo strumento di produzione; nell’appropriazione da parte dei proletari una massa di strumenti di produzione deve venire sussunta sotto ciascun individuo, e la proprietà sotto tutti. Le relazioni universali moderne non possono essere sussunte sotto gli individui altrimenti che con l’essere sussunte sotto tutti.
L’appropriazione è inoltre condizionata dal modo in cui deve essere compiuta. Essa può essere compiuta soltanto attraverso una unione la quale, per il carattere del proletariato stesso, non può essere a sua volta che universale, e attraverso una rivoluzione nella quale da una parte saranno rovesciate la potenza del modo di produzione e delle relazioni e la struttura sociale sinora esistenti, e d’altra parte si svilupperanno il carattere universale del proletariato e l’energia che gli è necessaria per compiere l’appropriazione; una rivoluzione, infine, nella quale il proletariato si spoglierà di tutto ciò che ancora gli è rimasto della sua presente posizione sociale.
Soltanto a questo stadio la manifestazione personale coincide! con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi e alla eliminazione di ogni residuo naturale; e vi corrispondono poi la trasformazione del lavoro in manifestazione personale e la trasformazione delle relazioni fin qui condizionate nelle relazioni degli individui in quanto tali. Con l’appropriazione delle forze produttive totali da parte degli individui uniti cessa la proprietà privata.»
(Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

Presupposti Pratici

«Questa "alienazione", per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto "priva di proprietà" e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa «priva di proprietà» contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali. Senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste «circostanze» relegate nella superstizione domestica, 3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale. Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in «una volta» e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza «storica universale». Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli individui che è legata direttamente alla storia universale.» (Karl Marx e F. Engels - L'Ideologia Tedesca, 1846).

«La classe lavoratrice o è rivoluzionaria o non è niente.» (Karl Marx, Lettera a K.B. Schweitzer, 1865).

«La Società» e «la Storia» non fanno niente

«La storia non fa niente, essa non "possiede alcuna enorme ricchezza", "non combatte nessuna lotta"! è piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, possiede e combatte tutto; non è la "storia" che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini, come se essa fosse una persona particolare; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini.»  (Marx e Engels, La Sacra Famiglia- Crítica della Crítica Crítica, 1845).

«Anzitutto bisogna evitare di fissare di nuovo la "società" come astrazione di fronte all'individuo. L'individuo è l'essere sociale. Le sue manifestazioni di vita - anche se non appaiano nella forma immediata di manifestazioni di vita in comune, cioè compiute ad un tempo con altri - sono quindi una espressione e una conferma della vita sociale. La vita individuale dell'uomo e la sua vita come essere appartenente ad una specie non differiscono tra loro, nonostante che il modo di esistere della vita individuale sia - e sia necessariamente - un modo più particolare o più universale della vita nella specie, e per quanto, e ancor più, la vita nella specie sia una vita individuale più particolare o più universale.»  (Karl Marx, Manoscritti economici filosofici, 1844)

L'auto-abolizione del proletariato

«Nella formazione d'una classe gravata da catene radicali; di una classe della società borghese, che in realtà non è una classe della società borghese; di un ceto che coincide con il decomporsi di tutti i ceti; di una sfera sociale che possiede carattere universale per aver subìto sofferenze universali e non pretende alcun diritto particolare, perché nessuna ingiustizia particolare, ma la piena ingiustizia è stata perpetrata contro di essa; di una sfera che non può più vantare un titolo storico, ma solo il titolo umano, e che non si trova in contrasto unilaterale con le conseguenze, ma in contrasto universale con le premesse dello Stato tedesco, di una sfera, infine, che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipando insieme tutte quante, e che, in una parola, rappresenta la totale perdita dell'uomo e può quindi ritrovare se stessa col totale riscatto dell'uomo. Questa decomposizione della società, identificata in un ceto particolare, è il proletariato.
Il proletariato comincia per la Germania a diventar tale soltanto con l'irrompente movimento industriale, poiché non la povertà sorta naturalmente bensì la povertà prodotta artificialmente, non la massa di uomini meccanicamente oppressa dal peso della società ma la massa di uomini che proviene dalla sua acuta dissoluzione, anzi dalla dissoluzione del ceto medio, costituisce il proletariato, sebbene gradualmente entrino nelle sue file, com'è naturale, anche la povertà naturale e la cristiano-germanica schiavitù della gleba.»
(Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. 1843)

«Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.
La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contradizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.
Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sè, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.
La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa estraniazione a suo agio e confermata, intende la auto-estraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.
Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.
La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da sè stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sé producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.»
(Marx e Engels, La Sacra Famiglia- Crítica della Crítica Crítica, 1845).

Contro il comunismo volgare

«Nel comunismo volgare, la comunità non è altro che una comunità del lavoro e l'uguaglianza del salario, il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in veste di capitalista generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determinazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la generalità riconosciuta e la potenza riconosciuta dalla comunità. [...]; l'attività degli operai non viene soppressa ma estesa a tutti gli uomini; il rapporto della proprietà privata rimane il rapporto della comunità col mondo delle cose; [...] Questo comunismo, in quanto nega ovunque la personalità dell'uomo, non è proprio altro che l'espressione conseguente della proprietà privata, la quale è questa negazione. L'invidia universale, che si trasforma in una forza, non è altro che la forma mascherata sotto cui si presenta l'avidità, e in cui trova ma soltanto in un altro modo la propria soddisfazione. L'idea di ogni proprietà privata come tale è per lo meno rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono persino l'essenza della concorrenza. Il comunista rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento partendo dalla rappresentazione minima. Egli ha una misura determinata e limitata. Proprio la negazione astratta dell'intero mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla semplicità innaturale dell'uomo povero e senza bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è neppure ancora arrivato, dimostrano quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia una appropriazione reale.» (Karl Marx, Manoscritti economici filosofici, 1844)


fonte: Humanaesfera