Capitalismo asiatico e crisi globale
- di Marcos Barreira e Maurilio Lima Botelho -
La teoria della crisi elaborata a partire dalla "critica del valore", afferma fin dagli anni '80 che, come effetto della Terza Rivoluzione Industriale, la produzione globale di plusvalore si trova in declino, e che la struttura produttiva sta diventando sempre più immediatamente sociale, il che porta a una crisi della riproduzione le cui radici affondano nella logica della merce [*1]. La crisi inoltre impedirebbe anche quei percorsi di "modernizzazione di recupero" secondo il vecchio modello dello sviluppo nazionale. Quest'analisi - o ciò che si ritiene che sia - deve confrontarsi, in base a ogni tipo di riscontro empirico, con la crescita delle economie dell'Asia orientale. Per cui, invece di una crisi globale, avremmo piuttosto uno spostamento a Est del centro dell'accumulazione capitalista. Tale teoria, formulata alla fine degli anni '80, e che ha in Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein i suoi principali esponenti, rimane bloccata riguardo quelli che sono i dati economici grezzi, e non è in grado di spiegare adeguatamente - cioè in termini di teoria dell'accumulazione - i processi che sottendono la dinamica delle economie asiatiche viste nel contesto del capitalismo globale. Tali approcci mancano perfino del concetto stesso di produzione capitalista [*2]. A causa di questo, pertanto si aggrappano a delle dinamiche congiunturali, come il "miracolo giapponese" degli anni '80, che oramai nessuno nemmeno ricorda più, e come l'ascesa cinese dell'inizio del XXI secolo.
Dal punto di vista della critica del valore, ciò che negli ultimi tre decenni è stato interpretato come uno "spostamento del centro di accumulazione", in realtà si rivela essere: (a) una crisi del modello fordista di accumulazione (basato sul consumo di massa integrato nella struttura produttiva), il quale dà luogo a economie di nicchia di esportazione unilaterali, scollegate dalla riproduzione sociale; (b) la formazione di un'economia delle "bolle finanziarie" in cui il capitale monetario, che non trova più redditività nei processi produttivi, fugge ; (c) tutta una serie di congiunture di ripresa degli investimenti, basate su guadagni speculativi e sul credito statale.
Il primo giro del circuito del deficit del Pacifico: il "miracolo giapponese"
La teoria del "dislocamento" ha acquistato forza alla fine degli anni '80, quando si era nel bel mezzo del processo di deindustrializzazione degli Stati Uniti. In questo contesto, i primi a distinguersi, come i nuovi campioni delle esportazioni, sono stati il Giappone e la Germania (prima dell'unificazione). Ma è stato soprattutto il modello giapponese, quello che ha suscitato il maggior interesse, in quanto economia innovativa che inonda l'Occidente dei suoi prodotti. Si era persino venuto a creare un mito del "capitalismo asiatico", il quale avrebbe addirittura rivoluzionato la cultura del capitalismo [*3]. Tale crescita, però, non faceva più parte dell'espansione del capitale nel suo insieme: gli investimenti massicci nella scienza e nella razionalizzazione della produzione, erano essi stessi uno sbocco obbligatorio per tutta quella parte della massa di valore, che non poteva più essere investita con profitto secondo gli schemi prestabiliti. Si tratta della caccia selvaggia al plusvalore relativo, a spese di altri capitali, su scala mondiale. Un processo simile apparirà come un "successo" solo dal punto di vista strettamente nazionale o regionale, e questo perché i "vincitori" potranno così esportare la crisi in altre località. Tuttavia, coloro che hanno più successo sono proprio quelli che progrediscono maggiormente nella razionalizzazione e nella scientificazione, che sono all'origine della crisi [*4].
L'apparente miracolo giapponese, tuttavia, si basava soprattutto su delle condizioni strutturali molto particolari. Nei decenni 1950-70, questo paese asiatico non aveva ancora completato il suo processo di urbanizzazione (dopo la seconda guerra mondiale, poco più del 30% della popolazione viveva nelle città). Nell'industria, le aziende leader orientate all'esportazione coesistevano con un'ampia rete di fornitura di piccole aziende a basso salario. Questa doppia logica funzionava anche per l'infrastruttura sociale, dove coesistevano fianco a fianco modernità e "arretratezza"; ma la "povertà nascosta" non era solo un residuo del passato, quanto piuttosto una condizione per la competitività dell'industria giapponese. Il secondo aspetto decisivo è stato quello dell'inserimento in un'economia di cicli di deficit. La fuga dei capitali globali eccedenti verso la sfera finanziaria, si è concentrata nello spazio del dollaro, che ospitava il flusso di denaro in cambio di titoli del tesoro USA. L'assorbimento di questa montagna di capitali, ha generato un enorme boom azionario e immobiliare. Da allora in poi, il potere d'acquisto che era diminuito insieme all'industria, si è riattivato, e in tal modo, da parte della popolazione statunitense, ha avuto inizio un'era senza precedenti, di consumo indebitato: «Il rovescio della medaglia dell'indebitamento monetario esterno, graie all'assorbimento dei flussi globali di capitale, consiste nel fatto che, in maniera speculare, vengono assorbiti anche i flussi globali di materie prime in eccesso. In altre parole: i consumatori americani (statali e privati) prendono in prestito il denaro con cui pagano i fornitori per l'inondazione di merci»[*5]. Solo grazie a un simile contesto di deficit globale, l'industria giapponese ha potuto orientarsi verso l'esportazione, e ottenere così un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti.
Questo sviluppo, assai discutibile, è stato celebrato da importanti teorici come Wallerstein e Arrighi. Il primo vedeva l'ascesa del Giappone (e delle cosiddette quattro "Tigri") come parte di una grande ristrutturazione geografica del capitalismo [*6]. La sua analisi della crisi dell'egemonia statunitense, tuttavia, era basata solo sui movimenti superficiali dei mercati, o su maldestre misure politiche. Arrighi propone un'analisi identica. Lo svuotamento industriale degli USA e l'espansione del sistema finanziario vengono interpretati come se fossero l'«autunno» dell'egemonia statunitense. Questo cambiamento sul piano economico aprirebbe lo spazio per una nuova egemonia non ancora definita. Tuttavia, la «sostituzione di una vecchia regione (il Nord America) con una nuova (l'Asia orientale), vista come centro più dinamico dei processi di accumulazione del capitale su scala mondiale, è già una realtà»[*7]. Arrighi evidenzia soprattutto la posizione del Giappone (paese del «miracolo dei miracoli») e, in misura minore, quella delle "Tigri". Per entrambi gli autori, la Cina non ha giocato alcun ruolo importante nella crisi dell'egemonia statunitense. In ogni caso, non c'è alcun riferimento, e nemmeno un concetto chiaro di cosa sia l'accumulazione capitalista. In tal modo, i due autori, partendo dalla premessa di una dinamica ciclica della riproduzione sociale, che differisce dalle teorie economiche convenzionali solo per la sua prospettiva a lungo termine, liquidano in anticipo anche l'idea di una crisi fondamentale del capitalismo. Il periodo del «caos sistemico» deve così necessariamente portare a una nuova egemonia. Questo presupposto limita la comprensione sia del carattere improduttivo (del plusvalore) che ha la crescita indotta dal capitale fittizio (sotto forma tanto di credito privato, quanto di debito statale) sia dell'intreccio e della reciproca dipendenza delle economie intrappolate nel circuito del deficit. Eppure è questo contesto generale che spiega il "successo" del Giappone negli anni '80 e la sua crisi nel decennio successivo.
Ciò che sfugge del tutto a un tale approccio, è il ruolo centrale svolto dai massicci investimenti di capitale speculativo nell'economia reale giapponese. Già il mutamento del modello tecnologico, dalle grandi industrie a quelle della tecnologia e dell'informazione, è stato in parte finanziato dall'impennata dei titoli immobiliari. In tutto questo, il ruolo del capitale fittizio andava ben oltre quello che era il vecchio deficit statale del dopoguerra. Con la caduta della competitività industriale in seguito all'aumento dello yen, il governo giapponese aveva adottato misure per stimolare il consumo interno, contribuendo così a creare una congiuntura di guadagni relativi ai fondi d'investimento, ai fondi pensione, al mercato immobiliare secondario e ai circuiti finanziari in generale, tutti legati immediatamente al mercato globale. Tutto ciò aveva nuovamente stimolato gli investimenti da parte delle imprese e l'aumento dei prezzi delle azioni, che a loro volta erano garantite dagli elevati prezzi degli immobili. Questa bolla finanziaria compensava la crescente difficoltà nel campo delle esportazioni, oltre che al ribaltamento dei debiti che avevano posto le basi del "miracolo". Nel 1991, tuttavia, la crisi del mercato immobiliare e borsistico mise fine all'era della crescita indotta dal capitale fittizio. Del tutto cieco rispetto alle condizioni del "miracolo", Arrighi dichiarava: «Il crescente potere economico del Giappone negli anni '80, non si basava su alcun grande progresso tecnologico. Il suo fondamento principale era organizzativo»(!)[*8]. E ancora nel 1998, Wallerstein minimizzava la crisi, affermando che «...il Giappone rimarrà una superpotenza economica, e probabilmente emergerà all'inizio del XXI secolo [...] come il principale luogo di accumulazione capitalistica del sistema mondiale» [*9].
Il miracolo giapponese finanziato dai guadagni fittizi si è risolto sfociando in una stagnazione prolungata. Il paese non si è mai ripreso dallo scoppio della bolla, e sopravvive grazie all'iniezione permanente di risorse statali. Nella misura in cui le «misure di emergenza» diventano permanenti, la povertà di massa aumenta e gli indicatori sociali regrediscono ai livelli del periodo precedente al boom economico. Il paese della «povertà nascosta» dietro la facciata dell'ipermodernità, non nasconde più le sue contraddizioni: disparità di reddito e di genere, sottoccupazione, lunghi orari di lavoro con alti tassi di suicidio, persone senza casa o anziani senza pensione. Nel 2019, un rapporto della BBC ha rivelato che il paese stava affrontando un'ondata di crimini commessi dagli anziani: «i pensionati non vogliono essere un peso per i loro figli, e sentono che se non possono sopravvivere con la pensione statale, l'unico modo per non essere un peso è quello di andare in prigione» [*10].
Il secondo giro del circuito del deficit del Pacifico: il nuovo "miracolo" della crescita cinese
Prima della bolla finanziaria, il modello giapponese rimaneva ancora una risposta parzialmente nazionale al problema dell'arretratezza economica. Diverso il caso delle «piattaforme di esportazione», emerse nell'ultimo decennio del secolo scorso grazie agli investimenti occidentali (e anche al capitale giapponese) in paesi asiatici più piccoli come Taiwan e la Corea del Sud.[*11] L'apparente successo del modello delle «tigri asiatiche», che fra l'altro non sopravvisse agli anni '90, suggeriva già la fine del progetto di sviluppo nazionale. L'industrializzazione autonoma, e un forte mercato interno hanno lasciato il posto a un orientamento unilaterale verso l'esportazione basato su bassi salari e su un tasso di cambio mantenuto artificialmente basso. A differenza del paradigma sviluppista - che veniva associato allo stile di vita fordista, che ha prevalso nel XX secolo, vale a dire l'integrazione tra produzione e consumo di massa - le piattaforme di esportazione hanno invece finito per rompere il nesso tra stato nazionale ed economia nazionale. Queste economie sono ora in una relazione immediata con il mercato globale. Nell'era fordista, l'industrializzazione era allo stesso tempo anche un meccanismo di coesione sociale. Ciò si riferiva non solo all'integrazione sociale, ma anche alla struttura economica e ai meccanismi di regolazione interna; per tale motivo, era necessario costituire una strategia di sviluppo che fosse basata, simultaneamente, sull'industria di base, passando attraverso la produzione di beni in grado di raggiungere il settore dei beni di consumo.
La Cina, ha fatto i suoi primi passi verso l'integrazione nel mercato globale, proprio a partire da questo modello di esportazione, applicato in alcune poche città che si rifacevano agli esempi di Taiwan, Hong Kong, ecc. Gli investimenti nelle nuove zone di produzione a basso salario, sono stati fatti principalmente dal capitale occidentale (e anche dal Giappone, o dalla Corea) e, come era già avvenuto per le "Tigri", si trattava di una zona di esportazione che dipendeva dal capitale eccedente delle corporazioni globali. Un meccanismo del genere non potrebbe durare a lungo, poiché un orientamento unilaterale alle esportazioni, basato su mercati di nicchia, non potrebbe produrre alcuna struttura economica interna equilibrata - e questo, per un paese come la Cina è ancora più vero. In poco più di un decennio, tuttavia, la capacità produttiva del gigante asiatico è stata ampliata e diversificata, mentre simultaneamente è cresciuto il ruolo svolto dalle banche pubbliche, insieme a quello svolto da un sistema di credito parallelo e dalle imprese locali, soprattutto quelle statali.
A partire dagli anni 2000, la Cina è andata a occupare il posto del Giappone nell'allora traballante circuito del deficit del Pacifico, diventando il campione mondiale delle esportazioni. Laddove gli Stati Uniti potevano ancora risucchiare il flusso delle merci poiché, contrariamente a com'era avvenuto nel modello giapponese, la bolla del mercato azionario e la bolla immobiliare si erano sviluppate a ritmi diversi - e la seconda bolla si era legata, non tanto alle imprese commerciali e ai nuovi servizi, quanto piuttosto alla trasformazione dei mutui residenziali in consumo diretto delle famiglie. Questa nuova congiuntura globale, aveva di nuovo alimentato, e con ancora più forza, l'idea di una dislocazione dell'accumulazione verso l'Asia orientale - sempre riferendola a una nozione puramente descrittiva ed empirica di «accumulazione». Arrighi, per esempio, aveva predetto il «rinascimento dell'Asia orientale», ma ora a partire da Pechino. Veniva riproposta, non solo la prognosi ottimista, ma addirittura il meccanismo stesso del deficit: l'economia statunitense era diventata la principale destinazione dei prodotti fabbricati in Cina, e quest'ultima era diventata il principale acquirente dei titoli del tesoro americano. A partire dal primo decennio del XXI secolo, la grande crescita cinese era dipesa principalmente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, mentre in quest'ultimi la crescita era stata alimentata dall'espansione del consumo indebitato, anch'esso principalmente di beni prodotti in Cina. Robert Kurz aveva riassunto questa nuova situazione di deficit del Pacifico nel suo saggio "Das Weltkapital", nel 2007, nello stesso anno della prognosi di Arrighi: «La vendita di buoni del tesoro americani in tutto il mondo, non solo ha finanziato il boom della vendita armi a debito, ma parallelamente ha anche gonfiato i mercati azionari americani negli anni '90, e i mercati immobiliari dopo la fine del secolo. In tal moso. sono state gettate le basi di una nuova forma di indebitamento [...] Il boom dei consumi si nutre tuttora non tanto del regolare reddito salariale quanto piuttosto, e in primo luogo, delle bolle finanziarie dei mercati azionari e immobiliari» [*12]. L'aumento dei prezzi delle azioni e degli immobili è servito quindi come garanzia per il debito delle famiglie, e per i mutui, negli Stati Uniti. Aggiungiamo che la maggior parte della produzione industriale cinese è diventata redditizia solo grazie a una moneta che si è svalutata sulla scena mondiale, e che in ultima analisi deve essere sovvenzionata dallo Stato con sempre più deficit. Questa posizione raggiunta dalla Cina, ha coinciso con lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, La quale si è rapidamente diffusa sotto forma di crisi finanziaria globale del 2008. La drastica riduzione del consumo nei mercati occidentali, ha costretto la Cina a rivolgersi al proprio mercato interno. Il boom dei consumi della crescente classe media cinese, tuttavia, non era però altro che un sottoprodotto del suo stesso flusso unilaterale di esportazioni. Il peso relativo di tale strato rispetto all'economia nel suo insieme è rimasto abbastanza esiguo, così come il reddito pro capite del paese. Gli alti tassi di crescita, che hanno impressionato il mondo negli ultimi due decenni, a causa del punto di partenza estremamente basso in termini di urbanizzazione e base industriale, vanno pertanto visti in tale prospettiva. Rispetto al Giappone - anch'esso un ritardatario della modernizzazione - la Cina non ha ancora raggiunto il livello di urbanizzazione raggiunto dal suo vicino (il quale, ha ora più del 90% della popolazione che vive nelle città) negli anni '60. In termini assoluti, l'industrializzazione accelerata presenta alti tassi di crescita, ma il 40% della popolazione vive ancora in zone rurali. La popolazione impiegata nell'industria, invece, rappresenta già meno del 30% della forza lavoro - e tende a diminuire con l'avanzare della razionalizzazione microelettronica. In altre parole, il ciclo accelerato di "sviluppo" cinese non segue un modello simile a quello che si è diffuso a partire dall'Europa, anche nella sua versione «di recupero». Assomiglia più al modello del Terzo Mondo con la sua «urbanizzazione terziaria» che, nell'età dell'oro dei paesi centrali, nel corso della lunga transizione industriale, ha integrato gran parte della popolazione nei settori produttivi . Durante i decenni di crescita, inoltre, le disparità sociali e regionali si sono allargate drammaticamente. Tutto ciò indica che, in termini relativi, il consumo interno rimane debole. Pertanto, l'iniezione di risorse da parte delle banche statali, dopo il crollo del 2008, si è sempre più rivolta agli investimenti in infrastrutture. Come avveniva nel Giappone degli anni '90, i debiti giganteschi ora vengono ammortizzati e ridistribuiti dal governo verso altri settori. Nell'edilizia, nuovi massicci investimenti hanno finora prodotto delle enormi città fantasma, con edifici e centri commerciali deserti. Ciò nonostante, il debito delle famiglie segue altri percorsi, ancora meno trasparenti di quelli delle banche ufficiali: «... gran parte del boom del credito in Cina, è dovuto al settore bancario non regolamentato, in cui vari attori finanziari forniscono prestiti completamente illegali, con alti tassi di interesse, a dei mutuatari che diversamente non sarebbero in grado di ottenere alcun credito nel settore bancario regolare. Queste banche ombra, prima del 2008 non avevano giocato quasi nessun ruolo. Nessuno sa con esattezza quanto siano diventati grandi, dato che sono strettamente interconnesse con il settore bancario ufficiale. Ci sono diverse stime, le quali parlano di un volume di mercato che potrebbe partire da un equivalente di 2,5 trilioni di euro (circa il 40% del PIL cinese!), e che potrebbe arrivare fino a 4,4 trilioni.» [*13]
Come è avvenuto a metà dello scorso decennio, quando lo spostamento verso il mercato interno non ha avuto l'effetto desiderato di mantenere il ritmo accelerato della crescita, ancora una volta la debolezza dei consumi interni viene indicata dai media economici internazionali come deludente per l'attuale "ripresa" nel contesto post-pandemico, che è di nuovo basato sulle esportazioni, però su una base più ristretta a causa dell'impatto della crisi nel mondo. [*14] In ogni caso, oggi, la ridotta crescita della Cina continua a essere ancora parte dell'economia globale delle bolle finanziarie, e il gigantesco potere centrale continua ad assorbire le perdite e a trasferirle verso altre istituzioni, alcune create proprio per questo scopo, oltre a emettere denaro e obbligazioni senza valore. Questi sono tutti normali espedienti del capitalismo in crisi. Molto meno normale, tuttavia, è che tutto ciò venga salutato come se si trattasse di un promettente modello di sviluppo.
C'è tuttavia un problema di fondo, che riguarda non solo la Cina ma l'intero contesto economico globale, ovvero la relazione tra crescita economica e massa di valore. La prima, non è affatto sinonimo di produzione di plusvalore. Solo il positivismo economico confonde la costruzione di infrastrutture produttive con la creazione di valore. Questa si viene a stabilire, non immediatamente, nei luoghi di produzione, e deve essere mediata a partire da degli standard globali di produttività, visti nel contesto del mercato globale. Ecco perché, non si può stabilire immediatamente, a partire da regioni o paesi presi isolatamente, né il successo né la crisi della produzione di valore. Nel caso cinese, il gigantesco divario degli standard di produttività, rispetto all'industria occidentale all'avanguardia, è stato per qualche tempo parzialmente compensato dai bassi salari. Questa massa di diseredati e di lavoratori con dei salari da fame (soprattutto quella forza lavoro che si spostava dalle campagne alle città e alle zone industriali, e in particolare le donne migranti), rimaneva comunque assai meno produttiva (di valore) rispetto alla forza lavoro impiegata nelle industrie ad alta intensità di capitale e tecnologia. In termini globali, il ritorno del plusvalore assoluto presso i ritardatari storici della modernizzazione - come dire, un'espansione del lavoro produttivo, ma con il contagocce - non sta segnalando affatto una nuova era di espansione generale del capitale, ma è piuttosto un meccanismo locale di differimento della crisi sistemica. Dalla Cina, d'altronde, questo meccanismo di super-sfruttamento è già stato esportato verso la periferia economica asiatica, a partire dal fatto che la sua produzione ha cominciato a diventare altrettanto dipendente sia dalle infrastrutture sociali improduttive che dalle applicazioni scientifiche d'avanguardia, si quanto lo è già l'industria occidentale. Se in Occidente, il potenziale di razionalizzazione e di automazione ha oramai superato da tempo la capacità di espansione dei mercati, in Cina invece questo processo che elimina il lavoro produttivo immediato, precede la formazione stessa di un mercato di consumo sostenibile. Il problema è che non si tratta più di uno sviluppo nazionale coeso, bensì di un momento particolare della struttura produttiva globale in crisi: «L'esaurimento di quelli che erano importanti mercati interni, o i crescenti flussi unilaterali di esportazione e il loro finanziamento tramite deficit o bolle finanziarie, non costituiscono un dislocamento di quella che sarebbe una svolta sostenibile dell'accumulazione, ma sono già di per sé delle vere e proprie manifestazioni di una crisi estrema. Così, per inciso, anche la presunta ascesa della Cina non è un proseguimento dell'espansione esterna o interna del capitale [...] dal momento che questo "miracolo" viene sostenuto principalmente da deficit interni ed esterni.» [*15]
Dal circuito del deficit al deficit ideologico delle sinistre occidentali
L'entusiasmo, da parte di settori della sinistra occidentale per l'economia cinese, non deriva solo da una situazione in cui le loro stesse economie hanno oramai esaurito ogni possibilità di crescita accelerata, e ora sguazzano nella recessione o negli spasmi finanziari del «capitalismo da casinò». Esiste anche un elemento ideologico relativo all'affermazione del «capitalismo asiatico», il quale mescola diverse concezioni: gli scoppi e i balzi orientali di modernizzazione, alimentati dal credito privato e dal deficit pubblico, sono sempre stati come avvolti da una rinnovata etica del lavoro, dello sforzo e dell'«attività produttiva» che appaiono voler negare la società sprecona ed edonista dell'Occidente, già immersa nell'economia dei servizi, nella società dei consumi, o nel «parassitismo» della finanza. Anche le esperienze asiatiche di questi ultimi quaranta o cinquant'anni, hanno approfittato di una falsa opposizione, e hanno pertanto anch'esse enfatizzato ideologicamente le loro qualità «produttive», insieme alla loro dedizione e il loro sforzo per la produzione e la crescita, in contrasto con l'immagine sprecona e frivola dei loro rivali occidentali. Ma come si sa, il frutto di questa moderna mania ideologica del lavoro (che partecipa anche di una patina di antidiluviana saggezza orientale) ha finito per consistere nel suo esaurimento combinato con i bassi salari, che nel caso più recente di tale «socialismo con caratteristiche cinesi» trasforma quella che non è altro che l'emulazione estemporanea della vecchia etica puritana, svolta per mezzo di vecchi slogan sulla «capacità delle masse», in un'esaltazione del lavoro che assume tratti sempre più ascetici e nazionalistici [*16].
La confusione ideologica di un'epoca ormai post-ideologica si manifesta nel fatto che, agli occhi delle correnti «progressiste» occidentali, l'esperienza cinese diventa non solo un modello di salvezza dal capitalismo, ma addirittura un ideale di «trasformazione sociale». Questo finisce per ridurre la prospettiva di «emancipazione», solo a una mera apologia delle relazioni economiche naturalizzate. Una parte della sinistra occidentale intende il processo di crescita cinese sotto il «comando» del PCC - il quale è in realtà un progressivo adattamento del «socialismo con caratteristiche cinesi» agli imperativi del mercato mondiale - come il consolidamento di un grande soggetto collettivo di «lavoro sociale» totale puramente ideologico, a partire dal fatto che questa forza lavoro si confronta con le forze produttive sociali solo (e sempre più) in quanto sono individui privati mediati dal denaro. Questa sinistra filo-cinese occidentale, elogia l'incorporazione su larga scala delle masse povere delle campagne nella produzione industriale e nella vita urbana, conferendo in tal modo a queste forme un carattere di per sé emancipatorio e, allo stesso tempo, attenuando per mezzo dell'ideologia del socialismo di Stato, quelle che sono le disparità e le gerarchie sociali, le relazioni di genere, ecc. che in Occidente si mobilitano in maniera riduttiva contro il capitalismo.
Durante il conflitto sistemico durante la guerra fredda, per quanto, nella sua modernizzazione arretrata, il «socialismo da caserma» riproducesse le medesime categorie di base del sistema produttore di merci, la sua forma concentrata di statalismo lo collocava su un piano a parte, segmentato e visto come il nemico del libero mercato e delle grandi corporazioni occidentali. Era pertanto più plausibile che una parte dell'opposizione in Occidente nutrisse illusioni circa una società svincolata dal controllo totalitario del mercato mondiale, sebbene collocata in una versione opposta, e basata sul controllo statalista. Con l'attuale integrazione delle catene di produzione globale - con il circuito deficitario del Pacifico che tiene insieme il mercato di consumo statunitense con la produzione industriale cinese, insieme all'onnipresenza dei flussi di denaro globali che ignorano i confini nazionali - il fissarsi, di una parte della sinistra, sul modello cinese visto come alternativa al capitalismo occidentale, non è solo un deficit teorico, ma una vera e propria completa perdita di ogni senso della realtà. Senza contare che, dalla fine del regime di Bretton Woods, il potere d'acquisto del dollaro, come moneta mondiale che assorbe la maggior parte dei prodotti cinesi, dipende non solo dai deficit fiscali, ma proprio dal ruolo che hanno gli USA in quanto potenza militare globale. Su basi simili, nessuna «nuova guerra fredda» può più esistere, come un conflitto di sistemi dell'era delle modernizzazioni nazionali «non simultanee», ma tutt'al più solo come un inasprimento della concorrenza all'interno del mercato globale immediato. Perfino la possibilità di un nuovo sistema monetario internazionale, che viene auspicata dai sostenitori del modello cinese ad ogni nuovo round di dispute commerciali nel WTO tra Stati Uniti e Cina, non è altro che fantasia. [*17] Il fatto è che l'«alternativa» proveniente dall'Est, non è più un'alternativa in alcun modo, visto che i suoi stessi impulsi di crescita interna sono stati raggiunti attraverso il trasferimento esterno di capitale in eccesso e di un deficit a tutti i livelli. L'attuale declino della crescita cinese (come lo è stata la stagnazione giapponese a partire dagli anni '90), tuttavia, non può essere compreso come una semplice difficoltà nazionale, ma va visto piuttosto come un momento della dinamica della crisi strutturale del capitalismo. Nel suo processo di decadimento storico, il capitalismo alimenta slanci locali di crescita, insieme ad aspettative illusorie di modelli di salvezza che si alternano a crisi sempre più frequenti, che appaiono in mezzo a quello che non è altro che il deterioramento accelerato delle condizioni generali di riproduzione economica e sociale.
- Marcos Barreira e Maurilio Lima Botelho -
Pubblicato su Margem Esquerda n° 37 - II semestre 2021 -
NOTE:
[*1] - Robert Kurz, A crise do valor de troca, Rio de Janeiro, Consequência. 2018.
[*2] - Sui limiti dell'elaborazione teorica di Arrighi, si veda: Moishe Postone, Teorizando o mundo contemporâneo. Robert Brenner; Giovanni Arrighi; David Harvey, Novos estudos - CEBRAP no.81 São Paulo, 2008;
[*3] - Questo temporaneo successo giapponese non era frutto di un nuovo "approccio" orientale. Solo negli anni '50 e '60, in un contesto di forti lotte sociali, i giapponesi, sotto l'influenza di esperti di processi produttivi come William E. Deming, avevano dato inizio ai loro programmi di "miglioramento della qualità" . Si trattava quindi di un processo selvaggio di disciplinamento della forza lavoro importato dall'Occidente stesso, e che riproduceva, in una nuova confezione ideologica e in un nuovo standard tecnologico, dei metodi analoghi a quelli del periodo dell'imposizione della società industriale in Occidente.
[*4] - Robert Kurz, ivi.
[*5] - Robert Kurz, Poder mundial e dinheiro mundial, Consequência Ed., Rio de Janeiro, 2015.
[*6] - Immanuel Wallerstein, O fim do mundo como o concebemos. Ciência social para o século XXI. RJ, Revan, 2002.
[*7] - Giovanni Arrighi, O longo século XX, Contraponto, RJ; UNESP, SP, 1996, p. 344.
[*8] - Giovanni Arrighi, Adam Smith em Pequim. São Paulo, Boitempo, 2008, p. 352.
[*9] - Immanuel Wallerstein, op.cit, p. 89.
[*10] - https://www.bbc.com/portuguese/geral-47086935
[*11] - La formazione di queste piattaforme di esportazione nei paesi delle due generazioni di «tigri asiatiche», dipendeva interamente dall'industria giapponese. Rappresentava, per così dire, una riproduzione su scala minore del meccanismo del deficit nel contesto di scambio delle economie asiatiche, per mezzo del quale, insieme alla gestione dei crediti «non recuperabili» dalle banche, il Giappone ha esportato parte della sua crisi.
[*12] - Robert Kurz, Poder mundial e dinheiro mundial, Consequência Ed., Rio de Janeiro, 2015.p. 29-30.
[*13] - Tomasz Konicz, "La Cina è sull'orlo del collasso? La crescita dell'economia cinese finanziata dal debito non ce la fa più. http://www.obeco-online.org/tomasz_konicz4.htm
[*14] - https://www.cnbc.com/2021/06/21/slow-income-growth-is-holding-back-the-chinese-consumer-barclays.html
[*15] - Robert Kurz, Dinheiro sem valor. Linhas gerais para uma transformação da crítica da economia política. Antígona, Lisboa, 2014, p. 273.
[*16] - Ching Kwan Lee, “El Espectro de una China Globa”. New Left Review, no. 88, nov./dez. 2014, p. 32-73.
[*17] - Il franco svizzero e il dollaro canadese, negli affari internazionali, vengono più utilizzati della valuta cinese (!).
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