mercoledì 20 ottobre 2021

Alle radici della confusione del presente …

Teoria critica e critica dell'«antimperialismo»
- di Marcel Stoetzler -
Articolo pubblicato nel 2019 su "The Sage Handbook of Frankfurt School Critical Theory", volume 3; a cura di Beverley Best, Werner Bonefeld et Chris O’Kane.

Il rifiuto dell'«antimperialismo» segna una delle differenze più visibili e significative tra la teoria critica della "Scuola di Francoforte " [*1] e la maggior parte delle altre tendenze della sinistra marxista. Il conflitto sul significato e la pertinenza di concetti come «imperialismo» e «anti-imperialismo» è strettamente legato alle discussioni correlate sulla critica della nazione e dello Stato, sul colonialismo e sul post-colonialismo, il razzismo e la razza, e l'antisemitismo. La teoria critica della Scuola di Francoforte cerca deliberatamente di formulare una critica del modo di produzione capitalista che includa i fenomeni rilevanti, comunemente trattati come «imperialismo», senza ricorrere al concetto di «anti-imperialismo». Secondo questa teoria, l'«imperialismo» è un aspetto intrinseco del modo di produzione capitalista, piuttosto che un oggetto del tutto a sé stante che debba essere distinto da esso e combattuto «in quanto tale»: il concetto di «antimperialismo» presuppone invece la reificazione e la feticizzazione dell'«imperialismo». Questo articolo mira prima di tutto a chiarire come il concetto di «imperialismo» sia stato usato negli scritti di Marx, così come nei testi di alcuni degli autori canonici della teoria critica della Scuola di Francoforte. L'uso marxiano di questo termine da parte dei "teorici critici" ha impedito che nei loro scritti emergesse un concetto di «anti-imperialismo»: l'«imperialismo» era per loro semplicemente un aspetto del concetto più generale di capitalismo. Il resto di questo testo si concentrerà su posizioni formulate nella tradizione o sotto l'influenza, in senso lato, della teoria critica a partire dagli anni '60, posizioni che riguardano direttamente l'«antimperialismo»: quest'ultimo era nel frattempo divenuto una questione chiave in alcuni dei movimenti di protesta del tempo, e questo a causa del ruolo giocato nella decolonizzazione del dopoguerra dal leninismo/stalinismo così come dall'ideologia antimperialista borghese e liberale (Hobson), la quale era già in precedenza era stata una delle fonti della critica dell'imperialismo.
Nel ventesimo secolo, la parola «imperialismo» è stata usata per descrivere due fenomeni principali: l'aggressione militare (guerre imperialiste, conquiste e occupazioni); e, più in generale, la diffusione globale del modo di produzione capitalista in tutti i suoi aspetti economici, sociali, politici e culturali, anche se spesso si presume che esso funzioni principalmente per mezzo delle istituzioni del «capitale finanziario». Questo secondo significato si avvicina di più al termine più recente di «globalizzazione», che in alcuni contesti lo ha soppiantato. Il modo in cui questi due concetti differiscono, per quel che attiene alle loro connotazioni, è illuminante: per tutto il ventesimo secolo e ancora oggi, l'uso della parola «imperialismo» ha espresso nei suoi confronti, quasi senza eccezione, rifiuto e ostilità, spesso indignazione morale. Questa parola evoca immagini di violenza militare insieme ad altre forme di violenza statale, mentre «globalizzazione» tende a veicolare un sentimento ambiguo più forte. Anche se entrambe le parole descrivono di fatto lo stesso processo, la «globalizzazione» viene più fortemente immaginata come se fosse un inevitabile fenomeno che il più delle volte invita a plasmare e a riformare, piuttosto che opporsi questo - come può essere constatato guardando all'opposizione tra «alter-globalizzazione» e «anti-globalizzazione». Nei discorsi dominanti contemporanei, il concetto di «globalizzazione» funziona in un modo che è più simile alla maniera dialettica in cui Marx pensava la modernità capitalista, piuttosto che al termine «imperialismo»; un concetto chiave questo, per il marxismo di ispirazione leninista nel XX secolo.
Dal momento che Marx aveva preso in considerazione il carattere globale e la crescente globalizzazione del modo di produzione capitalista come se fosse uno dei suoi aspetti definitivi e intrinseci, non aveva bisogno di un concetto che trattasse specificamente questo fenomeno. Simultaneamente, la sua teoria era più sottile: per quanto Marx attaccasse aspramente la violenza coloniale, l'oppressione e lo sfruttamento, generalmente considerava però l'intero processo di modernizzazione capitalista come la precondizione di una situazione storica, per cui l'umanità sarebbe allora stata in grado di creare una forma di società emancipata e umana, anche se non tutti i gruppi o società umane devono necessariamente passare attraverso tutti i medesimi processi. Questa caratteristica della posizione marxiana, si trova anche alla base della teoria critica della Scuola di Francoforte: questa corrente attacca il capitalismo come modalità di sfruttamento, ma vede in esso un sistema che distrugge l'oppressione e lo sfruttamento pre-capitalista (per esempio feudale e patriarcale), e che è allo stesso tempo anche il proprio becchino. Infatti, esso ha creato i presupposti per la futura emancipazione di un'umanità che si libererà dalla sua tendenza compulsiva e monomaniacale a soggiogare e dominare la natura interna ed esterna in nome dell'autoconservazione economica (lavoro). Nella prospettiva marxiana, i fenomeni che molti nel corso del XX secolo hanno chiamato «imperialismo» devono essere discussi tenendo conto di questa dialettica.

Il significato del termine «imperialismo» in Marx
Marx ha usato raramente la parola «imperialismo», e lo ha fatto solo nel suo senso convenzionale, cioè come quasi-sinonimo di «cesarismo» o «bonapartismo» (Fisch et al., 1982, p. 181). In questi contesti, «imperialismo» si riferiva alla dominazione basata su alleanze tra élite, e contro la borghesia liberale, e perfino contro il parlamento; e a una governance che prescinda da certe parti politiche, sul modello dell'Impero Romano (p. 176) e che sia basato su organismi statali centralizzati e su dei monopoli (p. 177; Koebner e Schmidt, 1964: capitolo 1; sui diversi usi del termine «impero», si veda Leonhard, 2013). Talvolta, anche la necessità di affrontare la «questione sociale» e di rispondere alle crisi economiche, è implicita nel termine «imperialismo». Un tale concetto a volte assume il significato di «neomercantilismo» (Fisch et al., 1982, p. 207). Nel contesto inglese, il termine veniva generalmente usato per indicare coloro che volevano mantenere il colonialismo (p. 178). La dimensione coloniale non era necessariamente dominante, tuttavia, poiché «imperialismo» si riferiva a tutta una serie di aspetti della governance dell'impero, la sua spinta anti-liberale appariva in contrasto con il fatto che il colonialismo era una parte fondamentale dell'agenda/strategia dello stesso liberalismo del XIX secolo (Mehta, 1999; Mantena, 2010). In un passaggio spesso citato de "La guerra civile in Francia", Marx si riferisce all'«imperialismo», facendo riferimento al regime di Napoleone III come «la forma ultima» del «potere statale» borghese [*2]. Lo Stato, secondo Marx, è emerso dapprima come un mezzo della società borghese, per poi emanciparsi dal feudalesimo, e quindi, nel corso del consolidamento della società borghese, si è trasformato in «un mezzo per asservire il lavoro al Capitale» (Marx, p. 3). L'imperialismo è il risultato finale di questo processo attraverso cui lo Stato diventa anche «la forma più prostituita»; il che sembra implicare che esso sia sottoposto a un uso particolarmente arbitrario, abusivo e violento [*3]. Leon Trotsky ha notato che «questa definizione ha un significato più ampio di quello che attiene al solo impero francese, e include l'ultima forma di imperialismo, nata dal conflitto tra i capitalismi nazionali delle grandi potenze» [*4](cfr. La difesa della Terrorismo, citato in Winslow, 1931, p. 717). Trotsky sottolinea così il legame tra l'uso del termine da parte di Marx, e il suo significato nel XX secolo. Gli aspetti interni ed esterni dell'esercizio del potere statale sono pertanto strettamente legati ed esiste un «conflitto mondiale» tra «capitalismi nazionali» che genera «imperialismo». Questa prospettiva differisce da quella che potrebbe essere definita la posizione di Marx. Per Marx, l'«imperialismo» - vale a dire, la dinamica del capitalismo industriale - genera un conflitto tra quelli che appaiono solo come «capitalismi nazionali»: nella prospettiva marxiana, lo Stato e la nazione sono dimensioni della dinamica capitalista, ma non sono i suoi motori. Sebbene Marx non abbia usato i concetti di «imperialismo» e di «colonialismo», quanto meno nel loro senso novecentesco, egli però ha affrontato i fenomeni cui questi concetti hanno fatto riferimento in seguito [*5]. La posizione adottata da Marx ed Engels era diversa da quella di altri socialisti dell'epoca, su due punti: in primo luogo, avevano un odio viscerale e rivoluzionario per tutte le forme dell'«ancien régime»; e secondo, cercavano incessantemente di comprendere come la «libera associazione» avrebbe potuto lentamente e dolorosamente emergere dalle lotte, antagoniste ma interdipendenti, che la borghesia e il proletariato stavano conducendo contro l'«ancien régime» nelle sue diverse forme, in Europa come altrove. Marx ed Engels hanno rappresentato i difensori del «vecchio regime», descrivendoli come dei costruttori di muri: i muri dei ghetti, la Muraglia cinese, muri culturali, i muri delle frontiere tra Stati. La negazione storica dei muri, delle frontiere, dei confini e delle identità, vecchie e nuove, emerge nel contesto dei movimenti sociali che si oppongono radicalmente a certi aspetti della società borghese, ma che sono sempre costituiti a partire da questa stessa società e ne sono anche i suoi costituenti (cfr. Horkheimer, 1937). La complessa posizione di Marx circa il dominio britannico dell'India, per esempio, si basava sulla sua visione del cambiamento avvenuto nelle relazioni tra la Gran Bretagna e l'India dopo il Rivoluzione industriale: «Mentre il capitale mercantile e i suoi alleati sfruttano e distruggono senza trasformare, il capitale industriale distrugge ma simultaneamente trasforma», perché (secondo Marx) «non potete continuare a inondare un paese con i vostri manufatti, senza permettergli, in cambio, di fabbricare alcuni prodotti» (Brewer, 1980, p. 54). Brewer riassume la posizione di Marx nel modo seguente: «Il dominio britannico in India, (A) causa miseria, (B) crea i presupposti per un enorme progresso, e (C) dev'essere rovesciato prima che l'umanità ne tragga vantaggio» (1980, p. 58). Allo stesso modo della prima sezione del Manifesto comunista, famosa per il suo carattere di "panegirico", Marx, nei suoi scritti giornalistici sull'India [*6], utilizza uno stile che include «la deliberata giustapposizione delle più alte lodi per le conquiste materiali insieme alle immagini scioccanti utilizzate per fare comprendere l'importanza della concomitante miseria umana» (p. 59). Allorché Marx commenta le lotte anticoloniali, egli insiste anche sulla natura dialettica della «cosiddetta civiltà» moderna e borghese  (Manifesto dei Comunisti); infatti, per lui, essa è la causa della miseria e di un'intenso sfruttamento, ma racchiude anche la possibilità di una generale emancipazione umana. Se la sua visione della modernità capitalista è stata ambivalente, l'odio di Marx per l'«ancien régime» e per tutte le forme di patrimonialismo, pensiero di casta, schiavismo e autoritarismo (ivi comprese anche le forme modificate in cui tali forme continuano ad esistere all'interno del capitalismo) era inequivocabile. Marx, che è sempre rimasto un irriducibile rivoluzionario del "1848", aveva risposto con entusiasmo a tutte le lotte contro lo sfruttamento e la dominazione che erano avvenute (in Cina, India, Stati Uniti, Irlanda, Polonia e Russia). Ma aveva altresì moderato (e a volte soppresso) il suo entusiasmo qualora l'analisi dialettica lo avesse portato a credere che una lotta aveva fallito nel portare avanti la promessa di emancipazione universale che, secondo lui, avrebbe potuto emergere solo in seno alla modernità capitalista [*7].

«Imperialismo» e «antimperialismo» dopo il 1900
Il significato significativamente differente assunto nel XX secolo dal termine «imperialismo» è stato espresso chiaramente prima dal teorico liberale John Atkinson Hobson (1902) e poi soprattutto da Lenin (1917). Per il dirigente bolscevico, l'«imperialismo» si riferiva a un periodo storico, o una «fase», nell'evoluzione del capitalismo. Lenin adotta la descrizione del capitale finanziario elaborata da Hilferding (1906), per il quale il capitale bancario e quello industriale si erano effettivamente fusi nel capitale finanziario, e nel periodo «imperialista»  quest'ultimo era diventato un agente politico dominante (Fischler, 1917, et al., 1982, p. 217). Tutte le concezioni moderne di «imperialismo», siano esse liberali o socialiste, descrivono delle versioni di quello che potrebbe essere definito sommariamente «capitalismo organizzato», vale a dire,  il «capitalismo» dopo l'eclissi del liberalismo «classico» (ossia, dopo la crisi del 1929). Allo stesso tempo, il capitalismo ha continuato a svilupparsi nel quadro di un processo (vecchio, ma che diventa continuamente più veloce) che oggi chiamiamo «globalizzazione», e di cui il colonialismo è stato uno dei mezzi principali. Lo Stato francese «bonapartista», che Marx denomina col nome di «imperialismo», è stato effettivamente un pioniere di questa vasta costellazione. Un importante teorico del movimento operaio europeo, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, Anton Pannekoek ha sottolineato le cruciali implicazioni interne di un tale processo. Nel 1916, egli sostenne che il capitalismo imperialista aveva intensificato e generalizzato lo sfruttamento di diversi gruppi sociali, oltre il proletariato; esso aveva anche provocato una generalizzazione e una radicalizzazione delle lotte socialiste, e aveva reso la prospettiva della lotta parlamentare per la riforma socialista ancora più anacronistica e implausibile, nella misura in cui la politica statale veniva decisa in delle istituzioni diverse dal Parlamento (Pannekoek, 1916; vedi anche Bricianer, 1969). L'«antimperialismo» entra nel lessico della sinistra molto presto, appena dopo l'«imperialismo» stesso, soprattutto in Gran Bretagna, dov'era stato propugnato da una tendenza del Partito Liberale (a cui apparteneva Hobson), e negli Stati Uniti. A Boston, una Lega Anti-Imperialista era stata fondata nel 1898, per difendere i principi repubblicani e opporsi al militarismo, in particolare, al momento della sua fondazione, per opporsi all'annessione delle Filippine da parte degli Stati Uniti; essa scomparve nel 1920 (Fisch et al., 1982, p. 189). La femminista Jane Addams ne fu una figura chiave. L'antimperialismo borghese aveva anche dei precedenti: contrariamente a quanto era avvenuto nei tre secoli precedenti al 18° secolo, e in gran parte del 19° secolo, i principali pensatori dell'Illuminismo, tra cui Diderot, Kant ed Herder, almeno in alcune delle loro opere, «avevano attaccato l'imperialismo [...] contestando l'idea che gli europei avessero il diritto di soggiogare, colonizzare e "civilizzare" il resto del mondo» (Muthu, 2003, p. 3). (Muthu, 2003, p. 1). Oltre alla pubblicazione, nel 1917, del pamphlet di Lenin sull'imperialismo, la data più decisiva nello sviluppo dell'antimperialismo e dell'anticolonialismo socialista fu il Sesto Congresso dell'Internazionale Comunista nel 1928, il quale adottò la posizione secondo cui l'imperialismo ritardava lo sviluppo industriale delle colonie. Fino ad allora, molti attivisti e partiti comunisti avevano mantenuto la vecchia posizione marxiana: nel lungo periodo, il colonialismo avrebbe portato all'industrializzazione; questa, a sua volta, era una precondizione necessaria per l'emancipazione umana generale. Warren descrive la posizione del Comintern del 1928 come una delle prime formulazioni della «teoria del sottosviluppo, che, dopo la seconda guerra mondiale, sarebbe poi diventata la base per gli economisti liberali dello sviluppo» (Warren, 1980, p. 85). La posizione del Comintern rifletteva una contraddizione in quello che era il nucleo centrale della teoria marxista, vale a dire, la dialettica tra il capitalismo (e la sua principale forma politica moderna, lo Stato nazionale) e l'emancipazione. Da un lato, il Comintern condivideva la nozione marxiana del progressismo del capitalismo, poiché esso avrebbe promosso, sotto il nome di «socialismo», lo sviluppo intenso e rapido del modo di produzione; dall'altro lato, metteva sotto accusa, sotto il nome di «imperialismo», quella che era la diffusione mondiale del capitalismo, rimproverandogli di ritardare e bloccare, nelle colonie, il processo di modernizzazione che alla fine avrebbe portato all'emancipazione umana generale. Così nel contesto di un ragionamento non dialettico, il Comintern aveva separato:

- il lato benefico del capitalismo, quello che promuoveva lo sviluppo (e pertanto il potenziale emancipatorio di un regime socialista - vale a dire, nel contesto dell'epoca, capitalista di stato - che a un dato momento sarebbe diventato comunista),
- e il suo lato cattivo, distruttivo e sfruttatore, che andava combattuto come «imperialismo». Quest'ultimo (il capitalismo che non si diffondeva affatto in maniera uniforme) doveva essere combattuto dai movimenti di liberazione nazionale; nel corso di questo processo, avrebbero poi fondato degli Stati nazionali moderni, i quali avrebbero fornito un ambito naturale per poter sviluppare il capitalismo nella sua forma progressiva.

Questa concezione rifletteva la dialettica marxiana tra capitalismo e progresso, ma non la comprendeva veramente, dal momento che la privava del suo carattere dialettico: secondo Marx, il movimento operaio doveva sfruttare i processi storici contraddittori che si svolgevano sotto i suoi occhi; assai diversa era la posizione dei bolscevichi, i quali sostenevano l'organizzazione e la promozione di tale processo attraverso la rivoluzione politica e la dittatura di un partito [*8].
Nel 1920, nella sua "Prima bozza di tesi sulle questioni nazionali e coloniali" del 1920, per il Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista, Lenin scrive: «Per quanto riguarda gli stati e le nazioni più arretrate, dove predominano relazioni di carattere feudale, patriarcale o patriarcale-contadino, è necessario tenere a mente soprattutto che: 1) La necessità per tutti i partiti comunisti di aiutare il movimento di liberazione democratica borghese di questi paesi; [. ...] 2) La necessità di lottare contro il clero e altri elementi reazionari e medievali che hanno influenza nei paesi arretrati; 3) La necessità di lottare contro il panislamismo e altre correnti simili, che cercano di combinare il movimento di liberazione contro l'imperialismo europeo e americano con il rafforzamento delle posizioni dei khan, proprietari terrieri, mullah, ecc.» [*9](Lenin, 1920). Oltre al concezione meccanicistica dell'evoluzione storica che era alla base di questa posizione, Lenin presumeva erroneamente che i nazionalisti borghesi di questi paesi volessero davvero rinunciare alle alleanze con il clero, con i panislamisti e con altri elementi reazionari al fine di beneficiare del sostegno socialista. L'appoggio ai «movimenti di liberazione democratici borghesi» ha coinciso con il «riavvicinamento del governo sovietico con i regimi borghesi (specialmente Turchia e Persia), mentre i militanti comunisti in questi paesi sono stati fucilati e imprigionati» (Goldner, 2010, p. 661) [*10].
Bisogna anche notare come la critica dell'ideologia antimperialista sia emersa gradualmente proprio in un momento in cui l'antimperialismo si stava diffondendo anche nell'estrema destra. L'idea di una lotta tra «nazioni proletarie», o «nazioni giovani», contro «nazioni plutocratiche» emerse nei circoli proto-fascisti [*11] in Germania, Francia e Italia durante la prima guerra mondiale, e divenne un caratteristica della retorica di Mussolini e di Gregor Strasser, tra gli altri (Guérin, 2014). Abbiamo dei sostenitori della «rivoluzione conservatrice», come Arthur Moeller van den Bruck e Ernst Niekisch, che negli anni '20 parlavano della lotta contro un «Occidente» decadente; il loro antimperialismo fascista non era «nient'altro che la "traduzione in politica estera" dell'anticapitalismo fascista» (Fringeli, 2016, p. 42). Sulle sponde opposte del Mediterraneo, a partire dall'Egitto, in seguito all'abolizione dell'ultimo califfato ottomano da parte dello Stato turco modernizzatore, avvenuto nel 1924, l'islamismo moderno, ivi comprese le sue propaggini jihadiste, si sviluppava in parallelo con i medesimi impulsi della «rivoluzione conservatrice»; e ispirata ad essa, troviamo anche la versione ultra-conservatrice della resistenza al cosiddetto «imperialismo culturale», vale a dire, ala modernità liberale. Con il sostegno sovietico, diversi regimi nazionalisti-borghesi del Medio Oriente combinano l'ideologia anti-imperialista con una qualche forma di un cosiddetto «socialismo». Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, allorché questi regimi si sarebbero disintegrati, il pan-islamismo contro cui Lenin aveva messo in guardia diveniva alla fine un fenomeno di primo piano. La «rivoluzione conservatrice» tedesca e le idee fasciste influenzarono lo sviluppo del pensiero antimperialista anche nella Bolivia degli anni '30 e '40, e da lì si diffuse in altri paesi dell'America Latina (Goldner, 2016, capitolo 4). Intorno a 1935, i leader dell'Unione Sovietica si resero conto che il sostegno al «diritto delle nazioni all'autodeterminazione», il più delle volte favoriva i fascisti, piuttosto che loro stessi, e così abbandonarono tale nozione per quasi due decenni (Gerber, 2010: 271). Ma la riprenderanno di nuovo poi negli anni '50, e questa concezione ha da allora in poi successivamente dominato la politica estera sovietica.

Horkheimer, Adorno e Marcuse sull'imperialismo
I teorici della Scuola di Francoforte, usavano raramente il termine «imperialismo». Sebbene non abbiamo mai definito esplicitamente tale termine, l'analisi contestuale indica come abbiano usato il concetto nel suo generico senso marxista. Ad esempio, come Rosa Luxemburg la quale vedeva l'imperialismo come se fosse una «tendenza» inerente a ogni società capitalista, e non specificamente legato all'emergere del «capitale finanziario», visto nel senso descritto per la prima volta da Hilferding, e poi canonizzato da Lenin (Luxemburg, citato in Kistenmacher, 2015, p. 130). L'imperialismo è un aspetto, tra gli altri, del modo di produzione capitalista, e non l'essenza del suo «stadio supremo». Non abbiamo alcun motivo di supporre che gli altri elementi chiave descrittivi, come la forma della merce, la legge del valore o il salario-lavoro siano meno centrali, nella «fase suprema» del capitalismo, di quanto lo fossero prima di questo «stadio». I teorici della Scuola di Francoforte hanno utilizzato più spesso il termine «imperialismo» nel momento in cui si riferivano al periodo che iniziava nell'ultimo terzo del diciannovesimo secolo, in particolare in riferimento ai regimi politici francese, britannico e tedesco, così come al fascismo tedesco. In entrambi i contesti, il concetto si riferiva tanto al colonialismo e all'aggressione militare, quanto ai cambiamenti nella struttura interna delle società imperialiste, ampiamente definite, in linea con l'uso del termine negli scritti di Marx nel contesto dell'imperialismo francese ("bonapartismo"). La parola appare anche quando si tratta di storia classica, in particolare se riferita alla storia romana, e agli inizi del moderno colonialismo. La principale pubblicazione dell'Istituto per la Ricerca Sociale, il Journal for Social Research (1932- 1941 - rinominato Studies in Philosophy and Social Science nel 1939), contiene numerosi riferimenti all'«imperialismo», principalmente nelle sue numerose recensioni di libri, ma anche in degli articoli che trattano di questioni politico-economiche, come l'articolo di K. A. Wittfogel [Vol. 4 (No. 1), pp. 26-60] sulla storia economica cinese, o l'articolo di Gerhard Mayer [volume 4 (n. 3), pp. 398- 436] sulle politiche di crisi e l'economia pianificata (entrambi 1935). Franz Neumann definisce il liberalismo di Locke «imperialista» nel suo saggio su "The Change in the Function of Law in Modern Society" (1937, vol. 6 (n. 3), pp. 542-96; qui p. 544). L'ultimo volume della rivista (1941) contiene un saggio di Josef Soudek (vol. 9, pp. 189-94) riguardo una serie di libri che trattano di economia politica internazionale e di relazioni politiche, tra i quali la terza edizione dell'influente libro di Hobson, "Imperialismo. Uno studio." Il saggio filosofico di Herbert Marcuse del 1936 "On the Concept of Essence" (nel volume 5) è particolarmente interessante. In esso Marcuse affronta un aspetto fondamentale della teoria marxiana e della teoria critica, la distinzione concettuale tra essenza e apparenza. Per Marcuse, il contenuto di verità di tale distinzione dipende dalla capacità, che ha il concetto di essenza, di aiutare a spiegare «una data costellazione di fenomeni o di apparenze» (Marcuse, 1936, p. 27 e Marcuse 1968, p. 74). Marcuse prosegue: «Se il concetto considerato come "essenziale" ai fini della spiegazione di una tale costellazione (ad esempio la costellazione del potere politico degli Stati in un una data epoca, le loro alleanze e antagonismi), sotto forma di "imperialismo", fornisce una comprensione causale della situazione nelle sue diverse fasi insieme alle tendenze che si manifestano, allora esso è veramente essenziale in mezzo a questa moltitudine di apparenze». Secondo Marcuse, un concetto di essenza che sia teoricamente vero (nel senso precedentemente descritto) deve poi dimostrarsi «oggettivamente» vero anche nella pratica: la teoria è essa stessa «un fattore nelle lotte storiche che essa mira a comprendere»; e «le verità teoriche essenziali possono alla fine essere verificate» solo in queste lotte. In tal senso, l'oggettività dei concetti dialettici deriva dalla loro storicità. Qui Marcuse non dice esplicitamente se egli pensa che l'«imperialismo» sia effettivamente un concetto «vero» in questo doppio senso, ma il fatto che lo scelga come esempio per la sua argomentazione teorica indica che lo giudica sufficientemente controverso per illustrare i suoi propositi: non lo avrebbe scelto se non l'avesse considerato come manifestatamente valido. Più di trent'anni dopo, l'«imperialismo» è stato anche usato come esempio in un'analisi teorico-metodologica correlata ad una conferenza di Adorno, "Spätkapitalismus oder Industriegesellschaft?" Adottando un tono sarcastico, Adorno sottolineava come coloro che amano parlare di «reificazione» non siano immuni alla sofferenza di una «coscienza reificata»: «fare grandi discorsi su dei concetti come "imperialismo" o "monopolio", senza preoccuparsi di scoprire a cosa si riferiscono effettivamente queste parole, e in quali contesti diventano rilevanti, è altrettanto falso, cioè irrazionale, del suo opposto, vale a dire, del rifiuto ciecamente nominale di considerare il fatto che concetti come società della merce esprimono qualcosa di oggettivo che viene oscurato da dei dati esclusivamente empirici» (Adorno, 2003, p. 357). In questa conferenza, Adorno mette in guardia i suoi studenti e colleghi sul fatto che il feticismo dei concetti astratti è tanto dannoso quanto lo è il feticismo ("positivista") dei fatti, il quale è ostile alla teoria. Come aveva Marcuse prima di lui, con «imperialismo» e «monopolio», Adorno ha scelto degli esempi che all'epoca erano stati ampiamente utilizzati come shibboleths [*12], anziché fare uso di concetti critici basati su solide conoscenze sociologiche e storiche. Da questo, si potrebbe dedurre che Adorno, come Marcuse, non rifiutasse il concetto di «imperialismo», o la critica dei fenomeni ai quali si riferiva, ma percepiva chiaramente il pericolo che il concetto potesse diventare una sorta di una specie di feticcio, vale a dire, un ostacolo alla critica piuttosto che uno strumento di essa. Uno dei testi classici dell'analisi della Scuola di Francoforte su fascismo e antisemitismo, il "Fragmente über Wagner" (1939) di Adorno (nel volume 8 della rivista) si riferisce più volte all'«imperialismo», usando questa parola in un modo piuttosto insolito: «imperialismo», qui è principalmente un aspetto del fascismo. In questo saggio, Adorno interpreta la maggior parte dell'opera di Wagner come espressione di ciò che più tardi diagnosticherà come «ribellione conformista». Egli nota che in Wagner, il dio Wotan - identificato da Adorno come un «terrorista borghese» - difende (e poi tradisce) la ribellione di Siegfried, ma lo fa solo per salvaguardare il suo «piano imperialista globale» (Adorno, 1939, p. 4). Tuttavia, anche Siegfried viene altresì descritto come imperialista: «Gli antagonisti dell'ordine [mondiale] sono individui isolati, privi di solidarietà: Siegfried, l'uomo del futuro, è un farabutto ostinatamente ingenuo, assolutamente imperialista» (p. 35). Nel pensiero di Wagner, «l'idealismo imperiale» ha messo fine all'illusione - ancora intrattenuta dall'idealismo classico, liberale e pre-imperialista - secondo cui gli antagonismi fondamentali della società borghese potrebbero essere conciliati: nella sua forma imperiale, la borghesia li accetta come fatti ontologici e come «destino» (p. 37). Adorno conclude dicendo che «l'opera di Wagner non è quindi solo il volenteroso profeta e l'implacabile esecutore dell'imperialismo e del terrore della tarda borghesia», ma contiene anche un elemento di comprensione della propria debolezza: «Wagner l'irrazionale, che si tuffa da un sogno all'altro, nel processo di immersione prende coscienza di sé stesso [...]. L'imperialista sogna il carattere catastrofico dell'imperialismo; il nichilista borghese comprende il meccanismo della spinta borghese alla distruzione che segnerà l'epoca che seguirà alla sua» (pp. 46-47).
Un commento altrettanto sorprendente sull'imperialismo lo si trova in "Juliette, ovvero illuminismo e Morale", il terzo capitolo della "Dialettica dell'Illuminismo" (Horkheimer e Adorno, 1974). I due autori citano un passaggio del libro di de Sade, "Histoire de Juliette" (1797), nel quale «il principe» (de Francaville) afferma: «il governo deve regolare da sé la popolazione e deve avere in mano tutti i mezzi per distruggerla, se ha ragione di temerla, o per accrescerla, se lo ritiene necessario» (idem, p. 138). Horkheimer e Adorno commentano: «Il principe mostra la via che l’imperialismo, la forma più temibile della ratio, ha percorso da sempre» (idem). Continuano poi con un'altra citazione dallo stesso testo di de Sade: «Togliete al popolo che volete sottomettere il suo dio, e demoralizzatelo» (idem). I commenti di Sade (che precedono il moderno nazionalismo ottocentesco) non fanno alcuna distinzione tra il modo in cui un governo tratta il "proprio" popolo e come tratta gli altri; la mentalità governativa brutalmente moderna descritta da Sade alla fine del diciottesimo secolo, può quindi essere collegata alla politica interna tanto quanto a quella internazionale. Il fatto che Horkheimer e Adorno la identifichi come «imperialismo» entra in risonanza con l'originale comprensione marxiana del concetto nel senso di «cesarismo». Al di là dell'«imperialismo culturale», la ricetta consigliata dal «principe» di Sade anticipa anche il concetto di «biopolitica» formulato qualche decennio più tardi da Foucault (il quale certamente conosceva l'autore de "La filosofia nel boudoir"). Più avanti, nello stesso capitolo, Horkheimer e Adorno usano il termine «imperialista» in un senso più stretto e convenzionale, riferendosi alle «spedizioni piratesche imperialiste» (idem, p. 153) del fascismo tedesco. Alcuni dei brevi testi che compongono le "Note critiche 1949-1969", scritte durante gli anni 50 e 60 (Horkheimer, 1993), affrontano la questione dell'imperialismo e dell'antimperialismo, ma lo fanno senza usare tali termini. Il testo del 1955 "Un solo mondo" riflette sul concetto di «civiltà», e lo fa in un modo che ricorda alcune delle riflessioni di Marx a proposito del colonialismo. Horkheimer collega qui la decolonizzazione alla situazione dell'Europa post-fascista; egli suggerisce che, con il colonialismo, sono scomparsi anche quelli che erano gli aspetti progressisti della civiltà europea. Cita l'esempio del regime liberale di punizione: nell'Europa del diciannovesimo secolo, si era arrivati a credere che «perfino il peggiore assassino potesse ancora essere curato» anziché giustiziato (Horkheimer, 1993: 19). Le «punizioni barbariche» venivano considerate come se fossero degli atti commessi da dei barbari, vale a dire, da individui esterni rispetto alla civiltà. «Al giorno d'oggi, i cittadini possono raggiungere l'Arabia Saudita in poche ore d'aereo; si pubblicano sulle riviste articoli che parlano di una mano tagliata a causa di un furto, ma continuano a negoziare da pari a pari con questi paesi. Ciò ha un effetto a catena sulla mentalità degli interessati, già ammorbidita a partire da Hitler e Franco» (p. 91). Il sarcasmo di Horkheimer prende di mira la dialettica del progresso liberale: il colonialismo esporta all'estero la crudeltà, e a casa propria assapora la civiltà, nella misura in cui la loro abolizione è legata all'abbandono non solo dell'«ideologia della missione dell'uomo bianco, ma anche del piccolo vantaggio che aveva sull'uomo di colore. Il prezzo da pagare per l'ingiustizia di questa civilizzazione, è che deve scomparire essa stessa, deve perire a causa dell'orrore che è stato tollerato una volta». Gli europei hanno denunciarono la crudeltà «barbara», solo allorché farlo conveniva all'imperialismo; grazie al dominio coloniale diretto, hanno persino potuto abbandonare la loro critica ipocrita della crudeltà. L'essenza umana della civiltà si basava sull'«esecrazione di tale orrore», una esecrazione «che costituiva il suo nucleo e il suo orgoglio», e che essa aveva scatenato contro coloro che pretendeva di educare alla civiltà. Una posizione veramente critica, dovrebbe deplorare la perdita degli aspetti emancipatori della civiltà liberale, ma dobbiamo essere consapevoli che è stato l'imperialismo di questa stessa civiltà che ha causato tale perdita. La «barbarie» cui assistiamo, per esempio, in Arabia Saudita (uno Stato dipendente dal sostegno occidentale, in realtà) è quindi «simbolica di ciò che sta attualmente ha potere sull'Europa» stessa (p. 90): la civiltà che pretende di essere liberale unicamente per potersi distinguere dalle sue vittime coloniali, è stata sconfitta nel modo sbagliato - andando all'indietro anziché in avanti. La distruzione del liberalismo precario della civiltà occidentale borghese, è dovuta tanto al fascismo quanto al tipo di società che uscì vittoriosa dalla lotta contro il fascismo. Questa analisi illustra l'estrema amarezza di Horkheimer dopo la guerra - in quanto osservatore che ha partecipato alla restaurazione della Germania Ovest. Egli menziona Hitler e Franco come se esse avessero solamente «ammorbidito» lo spirito borghese, e come se a costituire il vero scandalo sia stata la cooperazione amichevole della borghesia post-fascista con gli sceicchi sauditi. (Il suggerimento implicito di Horkheimer è che la civiltà europea nel suo insieme sia stata caratterizzata, nel diciannovesimo secolo, dal «piccolo vantaggio» che essa «aveva sull'uomo di colore», non è più convincente).

Come Marcuse, dopo il 1945, affronta la questione dell'imperialismo e dell'antimperialismo
A differenza di Horkheimer e di Adorno, Marcuse tratta esplicitamente il concetto di imperialismo nei primi due capitoli del suo libro sul "Marxismo sovietico" (1963 [1958]), e commenta anche "l'imperialismo" nell'ultimo capitolo del suo "Saggio sulla liberazione" (1969). Nota che le discussioni sul «capitale finanziario» e sull'«imperialismo» facevano parte di una tendenza revisionista della teoria marxista che si era occupata delle «controtendenze» emerse a fronte dei principale modelli della dinamica capitalista descritta da Marx. Questi modelli erano stati affrontati nei Libri II e III del Capitale, ma erano stati visti come come non sufficientemente teorizzati da Marx (Marcuse, 1963, p. 28). Nel 1900, la maggior parte dei marxisti credeva che il capitalismo fosse entrato in una nuova fase «organizzata», in cui la classe operaia sarebbe meglio pagata e più integrata, ma tale osservazione aveva dato luogo a interpretazioni diverse. Una tendenza «riformista» si aspettava che un capitalismo «organizzato» avrebbe reso più facile, per una classe operaia sempre più fiduciosa costruire il socialismo; di contro, una tendenza «ortodossa», specialmente nella sua forma leninista, vedeva gli stessi processi come un modo per il capitalismo di poter essere rinvigorito dall'esistenza di una «"aristocrazia operaia" esigua di numero e "corrotta" dagli alti salari pagati dalle eccedenze del monopolio» (1963, p. 30); questa seconda tendenza concludeva che la classe operaia industriale organizzata non avrebbe affatto fatto la rivoluzione. Essa contava sugli «operai e i contadini» dei paesi sottosviluppati che non erano ancora stati «corrotti» dal capitalismo industriale. Marcuse sottolinea come la revisione leninista del marxismo fosse basata sul presupposto che la teoria marxiana era stata contraddetta, se non totalmente smentita, dal fallimento di quella prognosi secondo cui il modo di produzione capitalista sarebbe crollato al volgere del secolo. La tesi secondo cui Marx avrebbe sottostimato «il potenziale economico e politico del capitalismo» (p. 32), tesi che Marcuse rifiutava, era alla base dell'ideologia dell'«antimperialismo». La critica del revisionismo leninista era quindi la base per il rifiuto dell'«antimperialismo» (leninista) da parte della teoria critica. L'idea che la classe operaia industriale fosse «corrotta» e comprata dai «super-profitti» delle colonie, era basata su una concezione ristretta e dogmatica di ciò che ci si poteva aspettare da una classe operaia «non corrotta», in opposizione ad un'analisi critica di ciò che era il suo ruolo effettivo nella società capitalista in evoluzione. Secondo Marcuse, «anche prima della prima guerra mondiale era chiaro che la parte "collaborazionista" del proletariato era quantitativamente e qualitativamente diversa da un ristretto strato superiore corrotto dal capitale monopolistico, e che la socialdemocrazia e la burocrazia sindacale erano qualcosa di diverso che dei traditori». (pp. 32-33). Il fatto che il leninismo avesse conservato, in linea di principio, l'idea della centralità della classe operaia, ma considerasse però quest'ultima in gran parte «corrotta», portò a che il partito, in quanto portatore dell'«autentica» coscienza proletaria, avrebbe dovuto imporre tale coscienza alla classe (p. 33). Nella misura in cui la concezione leninista riprendeva da Hilferding l'idea che l'«imperialismo» fosse una tappa dello sviluppo del capitalismo (anche se la concezione di Hilferding di ciò che caratterizzasse questa «fase» era assai più aperta e sfumata di quella di Lenin), ecco che allora l'accettazione del concetto di «imperialismo», nel suo senso leninista, aveva un'altra implicazione: essa conduceva all'accettazione dell'idea di fondo secondo cui il capitalismo, per evitare il collasso, sarebbe ora costretto a corrompere la classe operaia nei paesi industriali avanzati. In altre parole, un antimperialismo vittorioso (guidato o coordinato dai partiti bolscevichi, come avanguardie) avrebbe impedito al capitalismo di usare quest'ultima risorsa e avrebbe consentito di aprire la strada alla rivoluzione proletaria. Tutta questa concezione era basata su l'accettazione dell'implausibile accettazione centralità di queste «tangenti», e della "corruzione" che dovevano esse produrre, insieme alla necessità, da parte del colonialismo e dell'aggressione militare imperiale, di produrre i fondi per pagare queste «tangenti». Inoltre, l'antimperialismo (leninista o altro che fosse) non poteva che appoggiare, esplicitamente o implicitamente, il «diritto delle nazioni all'autodeterminazione». La maggior parte delle forme di marxismo, tra cui l'ortodossia nella tradizione di Kautsky e Hilferding, ha permesso al capitalismo molta più flessibilità, inventiva e apertura per affrontare i suoi problemi e prolungare la propria vita.Dopo la prima guerra mondiale e il fallimento delle rivoluzioni socialiste nei paesi industrializzati, Lenin sostenne che il capitalismo - nella sua forma sviluppata di imperialismo - era sopravvissuto dividendo il mondo (meno la Russia sovietica) in due campi, vale a dire i paesi vincitori (principalmente Gran Bretagna e USA) che sfruttavano i «paesi sconfitti» (principalmente la Germania) e «l'Est» (Marcuse, 1963, pp.54-58). Il nazionalismo anticoloniale era destinato a giocare un ruolo chiave in questo conflitto. Mentre l'imperialismo coloniale aveva permesso ai paesi occidentali di continuare a "corrompere" le loro classi lavoratrici (impedendo così la graduale maturazione del socialismo in questi paesi che altrimenti ci si sarebbe potuta aspettare), i conflitti che questa situazione comportava fornirono anche all'Unione Sovietica quel "respiro" necessario per industrializzarsi e preparare la transizione al socialismo, essenzialmente attraverso lo sviluppo del "capitalismo di Stato" [*13] . L'analisi di Marcuse rese chiaro come tutta questa costruzione teorica avesse poco o niente in comune con la teoria marxiana, almeno non dal punto di vista della teoria critica. In "Solidarity", capitolo finale di "An Essay on liberation" [*14], Marcuse descrive la società americana contemporanea in dei termini che sono coerenti con le analisi socialdemocratiche e leniniste discusse nei primi decenni del XX secolo, ma allo stesso tempo lo fa modificandole: nei «paesi capitalisti avanzati» industriali (Marcuse, 1969, p. 79), «l'integrazione della classe operaia è il risultato di processi politico-economici strutturali (produttività elevata e sostenuta, grandi mercati, neocolonialismo, democrazia amministrata) dove le stesse masse sono forze di conservazione e di stabilizzazione» (p. 80). Una tale società non può più «svilupparsi sulle proprie risorse, sul proprio mercato e sul normale scambio commerciale con altre regioni. Essa è diventata una potenza imperialista che, grazie alla penetrazione economica e tecnica e l'intervento militare diretto, ha trasformato ampie parti del Terzo Mondo in delle dipendenze.». «La sua politica», scrive Marcuse, differisce «dall'imperialismo classico», ciò a causa del contesto di guerra fredda che si sostituisce alle esigenze di un «investimento redditizio» (p. 80). Implicitamente, l'imperialismo "classico" sarebbe stato semplicemente alla ricerca di investimenti redditizi.
Contrariamente al modo in cui si pone l'«antimperialismo» leninista, Marcuse ignora la nozione secondo cui il «capitale finanziario» avrebbe giocato un ruolo importante. Una seconda differenza chiave che si trova nell'analisi di classe di Marcuse: da un lato, a suo avviso, nei paesi industriali avanzati, la classe operaia non poteva essere considerata come il «soggetto rivoluzionario», dal momento che un tale soggetto poteva emergere solo in un processo di lotta. Dato che oramai, nella società capitalista avanzata, non esisteva più alcuna classe, o più in generale, nessuna categoria della popolazione situata al di fuori della società, ecco che allora non si aspettava più nessun soggetto rivoluzionario in attesa di ribellarsi, né che fosse stato temporaneamente "corrotto" o tradito da alcuni elementi del sindacato, o da altri presunti traditori. D'altra parte, (per implicazione) egli aveva anche escluso la politica nazionalista dei "fronti popolari" nei paesi del "terzo mondo", quando aveva sottolineato che «una borghesia liberale che si alleasse con i poveri e guidasse la loro lotta», non esisteva in quell'area geografica: il proletariato del Terzo Mondo, «prevalentemente agrario», era stato oppresso sia dalle «classi dirigenti indigene che da quelle delle metropoli straniere». Secondo quello che era il suo argomento principale, in questa fase l'imperialismo avanzato (molto simile a quello che oggi chiamiamo "globalizzazione") aveva creato la necessità di pensare al mondo come se fosse una sola unità: «In ogni caso, in virtù dell'evoluzione dell'imperialismo, gli sviluppi nel Terzo Mondo rientrano nella dinamica del primo mondo, e le forze di cambiamento nell'uno non sono estranee all'altro; il "proletariato esterno" rappresenta un fattore fondamentale di cambiamento potenziale all'interno del dominio del capitalismo delle grandi imprese.» (Marcuse, 1969, p. 80). In maniera simile, le «dittature indigene» si trovavano a essere sempre più sostenute dalle «metropoli imperialiste» (p. 81). Di conseguenza, «le precondizioni per la liberazione e lo sviluppo del Terzo Mondo dovevano emergere nei paesi capitalisti avanzati»: questi ultimi, a loro volta, avrebbero dovuto essere indeboliti dall'interno, fino al punto essere costretti a togliere il loro sostegno alle dittature del Terzo Mondo. Marcuse si opponeva all'idea che la rivoluzione mondiale che avrebbe messo fine al sistema capitalista, potesse essere intrapresa a partire dalla periferia; secondo lui, la «catena dello sfruttamento deve essere spezzata nel suo anello più forte» (p. 82), vale a dire, nei paesi avanzati. Marcuse adottava qui la posizione classica marxiana, contro la posizione leninista. Tuttavia, egli apprezzava il fatto che le lotte di guerriglia nel Terzo Mondo avessero un enorme impatto ideologico sulla Nuova Sinistra negli Stati Uniti: «La rivoluzione cubana e l'FLN hanno dimostrato che è possibile; che esiste una moralità, un'umanità, una volontà e una fede in grado di resistere e dissuadere la gigantesca forza tecnologica ed economica dell'espansione capitalista. Più che il cosiddetto umanesimo socialista del giovane Marx, questa solidarietà violenta e questa difesa, questo socialismo elementare in azione, ha dato forma e sostanza al radicalismo della Nuova Sinistra; anche su questo piano ideologico, la rivoluzione all'esterno è diventata una parte essenziale dell'opposizione all'interno delle metropoli capitaliste. Tuttavia, la forza esemplare, il potere ideologico della rivoluzione all'esterno, può essere fruttuoso solo se la struttura interna e la coesione del sistema capitalista comincia a disintegrarsi» (pp. 81-82). I riferimenti di Marcuse alla rivoluzione cubana e all'FLN come rappresentanti del «socialismo elementare», della morale e della fede sembrano piuttosto estranei, e sono probabilmente unici nel contesto della teoria critica e della Scuola di Francoforte [*15]. Inoltre, la sua affermazione sull'unità del sistema mondiale capitalista non era coerente con la sua argomentazione circa le condizioni fondamentalmente diverse esistenti nei paesi avanzati e nel terzo mondo: è difficile trovare organizzazioni più diverse di quanto sono l'FLN e la Nuova Sinistra negli Stati Uniti. Sostenere che il primo fosse appropriato in Vietnam, ma non negli Stati Uniti, indicava una connotazione paternalistica ed "eurocentrica". [*16]

Il contesto storico in cui nasce l'ideologia antimperialista, dopo la seconda guerra mondiale
Due aspetti del contesto storico mondiale, hanno contribuito all'enorme diffusione dell'ideologia antimperialista dopo la guerra: l'espansione e il consolidamento della sfera di potere stalinista, e la continuità percepita tra l'antifascismo nella seconda guerra mondiale e la decolonizzazione all'indomani del 1945. 1945. In origine, queste due tendenze erano essenzialmente fenomeni separati. Chiedendosi perché l'antimperialismo abbia assunto un ruolo sempre più centrale nel pensiero della giornalista Ulrike Meinhof - una pacifista cristiana che poi divenne membro fondatore della Frazione dell'Armata Rossa che ha praticato la «guerriglia urbana» -  Peter Brückner sostiene che, nel periodo che seguì immediatamente la seconda guerra mondiale, gran parte della sinistra percepì la continuità tra la lotta contro il fascismo e il nazismo da un lato, e la lotta contro il colonialismo e l'imperialismo dall'altro. Egli cita un esempio frequentemente evocato: il massacro, da parte delle truppe francesi, di migliaia di partecipanti a una manifestazione per l'indipendenza a Sétif, in Algeria, che ebbe luogo in occasione delle celebrazioni della resa del Terzo Reich l'8 maggio 1945 (Brückner, 2006, p. 106 Gerber, 2010, p. 259). Durante la guerra d'indipendenza (1954-1962), l'FLN algerino fa costantemente riferimento a questo evento altamente simbolico. In maniera analoga, l'indipendenza vietnamita venne proclamata poco dopo la resa del Giappone, avvenuta nel settembre 1945. Nel corso della seconda guerra mondiale, i sudditi delle colonie hanno combattuto sulla maggior parte dei fronti, in particolare nell'esercito francese; Frantz Fanon ne è stato un esempio (Gerber, 2010, p. 260). Peter Brückner cita il caso del comunista algerino Jean Farrugia, deportato a Dachau e poi detenuto e torturato nelle prigioni francesi in Algeria, e più in generale il «terrore razzista di massa contro i lavoratori algerini», in particolare a Parigi (Brückner, 2006: 107). La diffusione dell'ideologia universalista e antifascista suscitò aspettative di indipendenza che poi sono state rapidamente deluse. Questa delusione ha senza dubbio contribuito al trasferimento del prestigio dell'antifascismo verso l'ideologia antimperialista, ma anche all'indebolirsi dello spirito nei movimenti anticoloniali di quello che allora si chiamava «terzo mondo» e nelle menti degli intellettuali di sinistra [*17] (Brückner, 2006, p. 107).
Un altro elemento di riflessione proposto da Peter Brückner: la lotta anticoloniale in Angola si dovette confrontare con la dittatura fascista di Salazar in Portogallo, un regime sostenuto dalla Germania occidentale, dalla Spagna di Franco e dalla Francia (Brückner, 2006, p. 116). La Germania occidentale era anche pesantemente coinvolta in Sudafrica, Angola, Mozambico e Rhodesia. Tenuto conto di tutto ciò, non sorprende, ma anzi appare perfettamente legittimo, che i movimenti di sinistra abbiano enfatizzato le continuità tra il fascismo, l'imperialismo continentale della Germania nazista, la politica economica internazionale della Germania occidentale post-fascista e quella degli altri stati dell'Europa occidentale, e il colonialismo in generale. Ragionevole all'epoca, tuttavia questa interpretazione dell'economia politica internazionale si trasformò gradualmente in un discorso sempre più irrazionale allorché si trovò a essere sovradeterminata da una concezione feticistica e dogmatica dell'«imperialismo»; a questo discorso andarono ad aggiungersi elementi della «critica della civiltà», di quella «Kulturkritik» ultraconservatrice e fascista anti-occidentale che denunciava l'avidità, la decadenza, il declino morale, il degrado della società, il consumismo, l'individualismo, il mammonismo [*18], l'effeminatezza, ecc. [*19]. Questa trasformazione venne forse facilitata dal crescente ruolo svolto dagli Stati Uniti nella difesa dell'«imperialismo», in Vietnam e altrove. Il fatto che la vecchia utopia democratica borghese del Nuovo Mondo sostenesse le forze più reazionarie del Vecchio Mondo permise di entrare in gioco a degli elementi facenti parte del tradizionale antiamericanismo europeo, ideologie antidemocratiche che avevano le loro radici nel liberalismo nazionalista, nel conservatorismo, nel fascismo e nelle derive antisemite (Croquembouches, 2002; Fried, 2012, 2014; Fischer, 2015). Peter Brückner sottolinea un altro importante cambiamento che, intorno al 1968, portò a una «de-dialettizzazione» espressa in slogan come «Vietnam ist überall» [*20]. Nelle discussioni dell'epoca, la sinistra chiarì che equiparare le condizioni di Berlino, per esempio, a quelle di Saigon era un insulto ai vietnamiti (Brückner, 2006: 140). Nel 1967, Marcuse dichiarò in una pubblicazione a grande tiratura che le lotte anticoloniali dovevano essere sostenute dalla «riattivazione del movimento operaio» negli Stati capitalisti europei (Brückner, 2006, p. 137): per lui, la solidarietà con le lotte anticoloniali era reciprocamente vantaggiosa, poiché l'universalizzazione delle lotte avrebbe permesso alle lotte sociali nei paesi industrializzati di rompere i loro limiti nazionali. Marcuse non stava suggerendo, tuttavia, che queste lotte fossero identiche, bensì diverse e complementari. Allo stesso modo, Peter Brückner rifiuta la nozione di proletariato, concepito come «soggetto rivoluzionario», come l'«incarnazione» [Inbegriff] di tutti gli sfruttati» a livello mondiale, una posizione espressa da Ulrike Meinhof e altri attivisti. Egli sostiene che una tale «incarnazione», un simile concetto essenziale, sia una «cattiva astrazione» e un'illusione idealista.. Secondo Peter Brückner, «l''identità politica (chi siamo? come possiamo davvero diventare ciò che potenzialmente siamo?)» deve derivare da una «realtà storica concreta», e non da «principi» e «teorie» (Brückner, 2006, p. 161). I sostenitori dei «programmi di sviluppo nazional-populisti» credono che tali programmi possano essere guidati dalla presunta «borghesia nazionale produttiva minacciata dal capitalismo finanziario globale»; essi invocano spesso l'idea, comune al discorso anti-neoliberale post-1991, per cui una «finanziarizzazione del capitalismo globale [verrebbe] politicamente imposta dagli interessi dominanti parassitari degli USA in cerca di rendite» (Bonnet, 2002, p. 3). Questo discorso riecheggia allo stesso tempo, sia la tesi leninista dell'imperialismo che le più grossolane nozioni antisemite secondo le quali i banchieri sarebbero dei parassiti succhia-sangue. A partire da questo, sulla medesima falsariga. Moishe Postone ha fatto riferimento al «neo-anti-imperialismo» del periodo post-1991. Secondo lui, la trasformazione dell'antimperialismo in antiamericanismo, ovvero la sua feticizzazione, ha oscurato quelle che venivano chiamate «rivalità imperialiste», e che hanno portato alle due guerre mondiali del ventesimo secolo, proprio allo stesso modo in cui sono riemerse dopo la fine della guerra fredda (Postone, 2006, p. 3). Guerra fredda (Postone, 2006, p. 97, p. 110).

Anti-imperialismo, nazionalismo e Stato
Al suo livello più fondamentale, la teoria critica della Scuola di Francoforte rifiuta il concetto di «imperialismo» in quanto intrinsecamente nazionalista e statalista. Braunmühl osserva che «le definizioni attuali rappresentano l'imperialismo come se fosse tutta una serie di “effetti di ricaduta"»; «un capitale nazionale che una volta era stato essenzialmente interno, ora si riproduce e cresce sempre più all'esterno, fino a dar luogo all'imperialismo» (Braunmühl, 1978, p. 160). Il concetto di «imperialismo» presuppone in maniera logica «la specifica ripartizione del mercato mondiale in stati nazionali». Politicamente, ciò significa che «l'accumulazione di capitale nazionale acquisisce improvvisamente la propria legittimità a fronte dell'intervento del capitale esterno». Claudia von Braunmühl rifiuta «il punto di vista tradizionale secondo cui lo Stato sarebbe determinato innanzitutto da processi interni ai quali si aggiungono, per così dire, dei fattori determinanti esterni» (p. 161). Più recentemente, questo «statalismo» metodologico è stato criticato da Song (2011), al seguito di Braunmühl. Anziché lo «statalismo», questi autori propongono una visione dialettica della relazione tra i singoli Stati-nazione e il «sistema imperialista» (Braunmühl), oppure il «sistema mondiale» (Wallerstein). Infatti, gli stati moderni - la maggior parte dei quali si considerano «nazioni» - e il moderno mercato mondiale capitalista (compresi i fenomeni generalmente indicati come «imperialismo») sono emersi insieme, sia storicamente che logicamente.
I partigiani dell'«antimperialismo», si vedono costretti dalla logica dei loro argomenti a distinguere il nazionalismo «buono» dei popoli della periferia dal «cattivo» nazionalismo delle metropoli del centro [*21] (ISF, 1990, p. 128). I primi teorici marxisti, tra i quali soprattutto Lenin, probabilmente non percepirono i presupposti logici di questo tipo di argomentazione, ma questi elementi si si sono progressivamente affermati nel corso dello sviluppo storico del concetto. «Il diritto delle nazioni all'autodeterminazione è basata sulla nozione idealista secondo cui lo Stato [...] possa essere l'espressione reale della volontà dei suoi costituenti. Questo discorso metteva d'accordo il democratico borghese Wilson e il rivoluzionario giacobino Lenin», così come molti altri nazionalisti classico-liberali come Theodor Herzl (ISF, 1990, p. 129). Le critiche ai concetti bolscevichi di «Stato socialista», e quella allo «Stato di tutto il popolo», come quella al «diritto delle nazioni all'autodeterminazione», quale è stata formulata negli anni precedenti la prima guerra mondiale, così come durante e dopo tale guerra, da parte di Rosa Luxemburg, Anton Pannekoek, Hermann Gorter e altri, sono state riscoperte alla fine degli anni '60 in Germania, da una parte del movimento influenzato dalla teoria critica della Scuola di Francoforte. Questa non è stata una coincidenza, dal momento che questi critici facevano parte della stessa costellazione storica da cui la Scuola di Francoforte era emersa negli anni '20. Tuttavia, tali critiche non influenzarono sufficientemente la coscienza politica della maggior parte degli elementi del movimento e quindi non poterono impedire la rinascita dell'«antimperialismo» leninista nel corso degli anni '70.

I tre elementi del diritto delle nazioni a formare uno stato indipendente tendono tutti alla mistificazione:
- lo «Stato» viene immaginato come l'espressione del «suo» popolo (piuttosto che come la forma politica dei rapporti sociali di sfruttamento e di oppressione);
- le «nazioni» vengono immaginate come se si fossero costituite prima della comparsa degli Stati, i quali vengono supposti come corrispondenti ad esse;
- e l'idea per cui avrebbero dei «diritti» ci costringe a immaginarli come soggetti dotati di una certa personalità.

Il concetto di «nazione» che sottende questo diritto appare, ovviamente, plausibile, convincente e di buon senso per quegli individui che appartengono a degli Stati nazionali già costituiti, poiché essi hanno dimenticato che la loro nazione è stata «creata» o «inventata» in un preciso momento della storia. Ma nella pratica, questo diritto, piuttosto che risolvere problemi, li crea, specialmente quando gruppi nazionali diversi reclamano il medesimo territorio. Questo è inevitabilmente il vero punto in tutti i casi di secessione, di irredentismo, e anche quando si tratta di nazionalità diasporiche - vale a dire, nella maggior parte dei casi, dato che la storia umana non ha mai prodotto molti territori sufficientemente grandi da formare uno Stato moderno durevole, e che che vengano abitati da un unico gruppo etnico o nazionale. Coloro i quali sostengono e aspirano, in quanto funzionari statali, a definire e a gestire rivendicazioni basate sul «diritto delle nazioni all'autodeterminazione» sono costretti a discutere e definire continuamente «cos'è una nazione». Per varie ragioni storiche, uno degli esempi più notevoli (in Europa) di nazione diasporica che, nel contesto di un periodo di costruzione generalizzata dello Stato-nazione, e che è stata analizzata in questi termini, è quella degli Ebrei. Visto che gli ebrei erano - almeno nell'Europa orientale - una parte importante del movimento operaio, la controversia sulla nazionalità ebraica divenne una questione cruciale non appena il movimento operaio cominciò a discutere la questione nazionale. La questione di sapere se gli ebrei costituissero una nazione ha ricevuto risposte diverse. Questa questione è rilevante per la nostra discussione sull'«antimperialismo» poiché, nella sua declinazione leninista, il criterio principale per stabilire la legittimità della rivendicazione del diritto all'autodeterminazione di una nazione è quello di sapere se essa rientra rientra nella categoria dei nazionalismi della periferia o in quella delle metropoli del centro. Il sionismo è stato collocato nell'una o nell'altra categoria, a seconda del contesto storico. La corrente antisionista che ha acquisito grande influenza negli anni '70, vedeva il sionismo come un prodotto delle metropoli del centro. (Anche altre correnti antisioniste hanno respinto l'idea di uno «stato ebraico». E non hanno basato tale rifiuto sul presunto carattere «imperialista» del progetto, quanto piuttosto a causa di un anti-nazionalismo marxista di principio; oppure a causa del loro attaccamento a un pluralismo culturale; o ancora, a causa di specifiche idee religiose o culturali sulla natura del giudaismo. Queste correnti divennero così sempre più marginali, almeno al di fuori di Israele). In linea di principio, il «diritto delle nazioni all'autodeterminazione» potrebbe anche alimentare un orientamento «multiculturalista» basato su compromessi nel contesto di una politica liberal-democratica. Tuttavia, nella sua interpretazione antimperialista, questo diritto tende all'assolutismo etnico: se l'«imperialismo» è «la fase suprema» del capitalismo (anziché essere inteso solo come se fosse un aspetto del capitalismo tra gli altri), allora ecco che l'antagonismo tra le metropoli del centro e la periferia sfruttata diventa così il criterio decisivo per determinare le posizioni politiche. Il problema più fondamentale dell'antimperialismo leninista è forse quello per cui esso è interamente centrato sullo Stato: poiché gli Stati, o i paesi, sono l'unità di base dell'analisi, qualsiasi Stato o nazione potrà essere considerato imperialista o meno. Questo approccio differisce dagli approcci meno nazionalistici, come quello di Immanuel Wallerstein e della sua «analisi del sistema mondiale». In effetti, questo autore riconosce la coesistenza, in un medesimo paese, di processi di produzione che dipendono simultaneamente sia dal centro che dalla periferia; tale ipotesi implica che lo Stato sia solo uno dei tanti elementi strutturanti di un capitalismo essenzialmente globale. Questa prospettiva entra in risonanza con l'anti-leninismo che può essere ritrovato in  alcune forme di marxismo derivate dalla teoria critica della Scuola di Francoforte (come l’«Open Marxism» [*22], vale a dire il «marxismo aperto»).
L'antimperialismo unidimensionale crea un campo discorsivo che obbliga i suoi sostenitori a trovare le ragioni per cui tutta una serie di rivendicazioni nazionaliste dovrebbe essere più valida di un altro nazionalismo concorrente. L'accettazione della premessa irrazionale di mettere l'«imperialismo» al centro dell'analisi politica, anziché una concezione molto più ampia del «capitalismo», spinge i suoi sostenitori a sostenere altri argomenti ancora più irrazionali. Il discorso anti-imperialista su Israele, è probabilmente l'esempio che meglio documenta e illustra questa china scivolosa del discorso. I sostenitori anti-imperialisti del nazionalismo palestinese, affermano che esso dev'essere promosso contro il nazionalismo israeliano a causa del fatto che Israele organizza lo sfruttamento imperialista dei palestinesi non israeliani. Questo potrebbe semplicemente significare che, tra i due  (altrimenti analoghi) progetti di costruzione di uno Stato, uno sarebbe impegnato con maggior successo nello sfruttamento capitalistico dell'altro, creando in questo modo una disuguaglianza suscettibile di essere corretta. I movimenti di solidarietà in tutto il mondo, potrebbero contribuire a una simile speranza, generalmente condivisa dai socialisti, secondo la quale si potrebbe raggiungere uno sviluppo più equo delle economie capitalistiche nazionali, che creerebbe migliori condizioni per i movimenti di emancipazione, ivi compresi quelli dei lavoratori e delle donne, che finalmente sarebbero in grado di superare le relazioni sociali capitalistiche. Una simile proposta potrebbe essere oggetto di analisi e discussioni razionali. Tuttavia, non è questa la struttura di base del discorso antimperialista su Israele, che ha due caratteristiche: in primo luogo, il discorso antimperialista omogeneizza ed essenzializza il nazionalismo incoronato in quanto proveniente dalla «periferia», e tende ad abbracciare tutti gli elementi culturali, religiosi e politici, compresi alcuni che sono esplicitamente anti-emancipatori e antisocialisti; in secondo luogo, accetta linee di ragionamento feticiste e ontologizzanti che screditano ulteriormente rivendicazioni del nazionalismo delle «metropoli» del centro, e non si limitano solo a mettere in discussione i suoi tratti specificamente «imperialisti»: questo «imperialismo» diventa un elemento essenziale, piuttosto che una caratteristica storicamente contingente che potrebbe essere messa in discussione e cambiata. È a questo punto che, nel caso di Israele, diversi elementi dell'ideologia antisemita penetrano un discorso antimperialista che avrebbe fatto inorridire Lenin. Il ragionamento marxista classico non può accettare, per esempio, le affermazioni sullo Stato israeliano secondo cui esso sarebbe l'espressione della «nazione ebraica»; per fare ciò, è sufficiente rifiutare il concetto «politicamente romantico» dello Stato visto come se fosse qualcosa di diverso da una struttura di potere. Nella strategia leninista, questo ragionamento classico ha perso gran parte del suo potere, dal momento che non rifiuta più categoricamente il nazionalismo romantico, nel momento in cui lo sostiene nelle nazioni della «periferia» [*23]. La struttura logica della posizione antimperialista, la rende aperta ad ogni sorta di irrazionalità mistica e razziale, incluso l'antisemitismo, quando cerca di dimostrare perché «gli ebrei» non possono essere una nazione. Il concetto che alimenta tale irrazionalità è però di per sé idealista: «Gli Stati sembrano avere il nobile compito di realizzare i diritti del popolo» (ISF, 1990, p. 130), mentre che «il popolo» accetta ovviamente di mantenere quella qualità di «soggetto», che fa di esso una nazione. Questa nozione, condivide l'ingenuità comune ad altre forme della teoria borghese del «contratto sociale»: «né il diritto delle nazioni all'autodeterminazione di Lenin, né i suoi predecessori borghesi, menzionano la violenza che è sempre stata necessaria per poter fondare Stati sovrani» (pp. 130-311). La posizione della teoria critica (come viene qui sviluppata dal gruppo ISF) è in questo senso simile a quella del «realismo politico»: contro ogni teorizzazione idealista dello Stato, «la questione di sapere se Israele abbia il diritto di esistere, è stato deciso dalla sua stessa fondazione, e quindi non è più rilevante» dal momento che «nessun popolo ha il diritto di avere uno Stato, senza allo stesso tempo mobilitare la violenza necessaria per fondarne uno» (p. 131). Il «diritto di esistere» di qualsiasi Stato deriva dal fatto che esiste; la sovranità dello Stato è costituita solo sulla violenza. Ciò pone la sovranità statale in una categoria diversa da quella dei diritti dell'individuo teorizzati dall'idealismo classico, o dalla filosofia del «diritto naturale»: questi ultimi diritti devono basarsi esclusivamente sugli individui, non sugli Stati o su qualsiasi altra collettività. I diritti dell'individuo - ferocemente attaccati dal positivismo comtiano come «metafisici» - sono stati difesi da Horkheimer e Adorno, allorché hanno tentato di «salvare» la metafisica dagli attacchi positivisti (ma non hanno difeso i «diritti di gruppo»). La concezione leninista del diritto delle nazioni all'autodeterminazione, era storicamente radicata nell'idea ottocentesca, allora condivisa da liberali e democratici, che la costruzione della nazione supererebbe l'atomizzazione tardo feudale e creerebbe, grazie a una società nazionale unificata, le condizioni per i movimenti di emancipazione. Vi è certamente un elemento di orientalismo nell'affermazione leninista secondo cui i «popoli dell'Est» avrebbero bisogno di costruire nazioni in quella che sarebbe una prima fase necessaria di emancipazione, mentre i popoli dell'«Ovest» avrebbero superato questa «fase» e sarebbero quindi pronti per la lotta di classe, senza essere ostacolati da questioni nazionali ed etniche. (La Realpolitik del «socialismo in un solo paese» sostituì ben presto questa posizione antinazionalista geograficamente limitata). Nel suo articolo del 1913 sulla questione nazionale, Stalin insisteva sul fatto che la territorialità fosse un elemento obbligatorio nella definizione di una nazione; anticipava così la sua campagna antisemita contro i «cosmopoliti senza radici» (cioè gli ebrei), elementi non nazionali in quanto non avevano alcun territorio. Questa prospettiva avrebbe potuto portare (e più tardi, portò brevemente) a sostenere il sionismo come un tentativo degli ebrei di mettersi al passo con la maggior parte delle nazioni del mondo che avevano già formato Stati moderni, ma questa prospettiva portava per lo più invece proprio al ragionamento opposto: gli ebrei che pretendevano di formare un Stato-nazione - mentre non avevano radici e non costituivano una nazione - non potevano che avere un'agenda segreta.


Capitalismo e dominio
Al pari della teoria marxiana in generale, anche la teoria critica è antimilitarista; vale a dire che si oppone all'aggressione militare, qualunque sia la sua motivazione. L'antimperialismo si caratterizza a partire da un altro  importante punto di vista ed è una forma di antimilitarismo specificamente motivata. Nel contesto dell'antimperialismo borghese - il cui paradigma classico è stato la Lega Anti-Imperialista Americana (1898-1920) - la motivazione trainante era la nozione repubblicana del diritto delle nazioni all'autodeterminazione: l'annessione statunitense delle Filippine, per esempio, veniva rifiutata (senza successo) perché contraddiceva tale principio, che gli antimperialisti consideravano fondamentale, o che secondo loro avrebbe dovuto essere fondamentale, per la politica degli Stati Uniti. La versione leninista dell'antimperialismo era basata su una teoria dello sviluppo del capitalismo che, dal punto di vista della teoria critica, non è per niente marxista. La teoria critica e il marxismo non leninista in senso lato, rifiutavano l'antimperialismo borghese e repubblicano, ma rifiutavano anche il concetto di imperialismo; sul piano teorico, i loro sostenitori avrebbero dovuto quindi anche spiegare perché il governo e l'esercito di un paese capitalista leader sarebbero arrivati a usare la forza militare per promuovere obiettivi imperialisti che contraddicono i loro stessi principi politici ufficiali (come il diritto delle nazioni all'autodeterminazione). L'antimperialismo borghese non ha proposto una teoria generale su questo punto - le spiegazioni tendono ad essere fornite caso per caso, in funzione dei bisogni. Secondo la teoria critica, al contrario, l'imperialismo è solo un aspetto «normale» della dinamica del modo di produzione capitalista. Il rifiuto esplicito del concetto di «anti-imperialismo», da partedella teoria critica,  si riferisce quindi a al fatto che, dal 1920 circa, la concezione leninista è diventata talmente egemone nella «sinistra», in quel senso ampio secondo cui l'«antimperialismo» divulga automaticamente l'ipotesi di Hiferding circa il ruolo del «capitale finanziario», insieme alle sue implicazioni politiche. È importante notare che tutti questi elementi dell'antimperialismo sono in genere considerati impliciti, e non sono oggetto di discussione critica tra i sostenitori della teoria critica. È questo il motivo per cui generalmente essi rifiutano i riferimenti all'«anti-imperialismo», mentre attaccano l'imperialismo solo in quanto è un aspetto del modo di produzione capitalista. Dialetticamente, essi teorizzano la relazione esistente tra i differenti aspetti del modo di produzione capitalista e la promessa di emancipazione umana generale data dalla modernità: secondo loro, questa relazione non deve essere né ignorata, né isolata e feticizzata.
Al centro del concetto leninista di imperialismo, troviamo dei residui dell'idea di Marx ed Engels secondo cui il capitalismo, in quanto sistema ambiguo, coniuga l'intensificazione dello sfruttamento e la possibilità di emancipazione. Ma, intorno al 1900, questo capitalismo ambiguo si trasforma in un capitalismo interamente negativo: questo «capitalismo monopolistico» (caratterizzato dal capitale finanziario, da un'aristocrazia operaia corrotta e dall'imperialismo) doveva essere combattuto e distrutto con ogni mezzo necessario. Questa concezione di un capitalismo del tutto malvagio, in opposizione a un capitalismo ambiguo, veniva completata dalla nozione di un nazionalismo malvagio e perverso (l'imperialismo) in contrapposizione ai nazionalismi buoni e benevoli (per esempio il «sano patriottismo», ecc.). Se tutto ciò era già esplicito in Hobson, è rimasto tuttavia implicito in Lenin. La teoria critica si è opposta all'imperialismo, non perché fosse il risultato della «dominazione straniera», ma perché instaura la dominazione. Al di là di questo, bisogna interrogarsi sulla natura di questo tipo di dominio, e sui suoi effetti concreti. Analogamente, lo Stato-nazione è fondamentalmente nefasto, e non perché esso è nazionale, ma perché è uno Stato, vale a dire, un elemento del sistema statale moderno, la forma politica della società capitalista. In questa prospettiva, il ragionamento di coloro che difendono o sfidano la dominazione imperialista o statale, deve condurci alle seguenti domande: sono essi motivati dall'espansione (o dalla restrizione) di una «vita migliore» e dall'emancipazione umana generale? Vogliono sostituire qualsiasi cosa che assomigli ad uno Stato (una struttura di potere coercitivo che è in qualche misura separato dai domini «civili», cioè non statali, della società, che li controlla) con l'amministrazione democratica e consensuale delle «cose» (sociali)?

- Marcel Stoetzler - Articolo pubblicato nel 2019 su "The Sage Handbook of Frankfurt School Critical Theory", volume 3; a cura di Beverley Best, Werner Bonefeld et Chris O’Kane -

fonte: http://www.mondialisme.org/

NOTE:

[*1] - In realtà, non è mai stata una scuola, né i suoi protagonisti hanno risieduto a Francoforte per la maggior parte della loro vita. Il termine è stato coniato dopo la seconda guerra mondiale, in un modo che era già nostalgico, per competere con altre "scuole" che erano spesso accademiche in un senso molto più letterale, con gerarchie e studenti, ecc.

[*2]- La traduzione francese fa uso del termine molto più vago di "régime impérial", e non del concetto di «impérialisme»: «Il regime imperiale è la forma più prostituita, e allo stesso tempo finale, di questo potere dello Stato», ma la versione originale inglese del 1871 include il termine «imperialism» («Imperialism is, at the very least, the ultimate» («Imperialism is, at the same time, the most prostitute and the ultimate form of the state power.»).

[*3] - Come accadeva con il concetto di «imperialismo» del XX secolo, il concetto di «colonialismo» era poco usato ai tempi di Marx. «Marx non disponeva di un termine generico per poter descrivere la dominazione di uno Stato-Nazione più avanzato su una regione più arretrata», quale sarebbe stato il concetto di colonialismo del XX secolo. Così ha usato il termine «colonialismo» in maniera più ristretta, per riferirsi alla «colonizzazione di aree disabitate o di zone  da cui sono stati cacciati gli autoctoni (come l'Australia e l'America)» (Brewer, 1980, pp. 27-28).

[*4] - La traduzione francese di "Terrorismo e comunismo" (1920) è più confusa e goffa: «Questa definizione va oltre il secondo impero francese e abbraccia il nuovo imperialismo, reso necessario nel mondo intero dalle brame del capitale nazionale delle grandi potenze» (marxists.org)

[*5] - Su Marx e l'imperialismo, si veda Stoetzler (2016). Recenti resoconti dettagliati della complessa posizione di Marx, si possono trovare in Anderson (2015) e in Pradella (2013); anche in Sutton (2013). Per commenti critici su Anderson, si veda Stoetzler (2013). Tra i I contributi critici sull'eredità leninista dell'antimperialismo. si può citare Goldner (2010 e 2016) e Bassi (2010). Ci sono anche contributi, utili ma antichi, come quelli di Owen e Sutcliffe (1972), Kiernan (1974) e Mommsen (1981)

[*6] - Anche se in francese non esiste un'edizione completa degli articoli di Marx sull'India, si può fare riferimento al volume IV delle Oeuvres pubblicato nella Pléiade, da Gallimard, sotto la direzione di Maximilien Rubel, e ai Testi sul colonialismo pubblicati da Editions du Progrès. Sulla Cina, si può consultare la raccolta preparata da Roger Dangeville per Editions 10/18, disponibile sul sito classiques.uqac.ca .

[*7] - Marx non avrebbe potuto diventare un nazionalista antimperialista nel senso del XX secolo, per specifiche ragioni biografiche: suo padre, un avvocato liberale moderato di fede ebraica, si convertì al protestantesimo poco prima della nascita di suo figlio. La città natale di Marx, Treviri (una città della Renania fondata dai Romani, e una delle più antiche della Germania) era stata conquistata da Napoleone nel 1794, e il governo imperiale francese aveva rafforzato le tradizioni liberali della città, che era caduta in mano ai prussiani nel 1815. La monarchia prussiana, che i nazionalisti tedeschi contemporanei di Marx videro come un agente liberatore anti-imperialista ante litteram, aveva cancellato l'emancipazione degli ebrei, costringendo il padre di Marx a convertirsi, per non bloccare la sua carriera e non rimanere privato del suo sostentamento (Blumenberg, 1962; Nimtz, 2000; Rühle, 2011).

[*8] - Circa l'appello di Lenin per il capitalismo di Stato («Se lo avessimo in Russia, allora la transizione al socialismo totale sarebbe stata facile e sicura»), vedi Marcuse (1963, p. 51). L'idea secondo cui la rivoluzione bolscevica ha sviluppato strutturalmente il modo di produzione capitalista, e non solo a causa della guerra civile, è stato formulato negli anni '30 da vari militanti dell'opposizione marxista di sinistra (quella dei «comunisti dei consigli») al bolscevismo (vedi Mattick, 1978). Nel suo libro, Van der Linden (2007) descrive le analisi dei comunisti di sinistra, Trotskisti e maoisti riguardo la questione del «capitalismo di Stato» in Unione Sovietica.

[9*] - https://www.marxists.org/francais/lenin/works/1920/07/vil19200714.htm

[*10] - Nel 1921, l'Unione Sovietica conclude accordi commerciali e di «amicizia» con i nuovi «regimi di sviluppo autoritario in Turchia, Persia e Afghanistan; gli interessi nazionali sovietici avevano la precedenza sulla denuncia della repressione, dell'imprigionamento o del massacro delle loro rispettive opposizioni comuniste o di sinistra in quei regimi» (Goldner, 2010, p. 633).

[*11] - Cfr. su questo argomento, la serie di articoli di João Bernardo: "Non sapevano ancora di essere fascisti", su: http://npnf.eu/spip.php?article859

[*12] - Shibboleths: segni di riconoscimento, usi particolari di un gruppo sociale o altro. Indica una parola o espressione che, per la sua complessità fonologica è molto difficile da pronunciare per chi parla un'altra lingua o un altro dialetto. Per questa ragione, la parola viene scelta come contrassegno per distinguersi dai parlanti di altre comunità

[*13] - Lenin avevate scritto nel 1917 che «il capitalismo monopolistico statale è la più completa preparazione materiale al socialismo, l'anticamera del socialismo, lo stadio della storia che nessun'altra tappa intermedia lo separa dal socialismo» (da "La catastrofe imminente e i mezzi per evitarla"). Nel sostenere il "capitalismo di stato", Lenin accoglie essenzialmente, a modo suo, il concetto sviluppato dai socialdemocratici "riformisti" secondo cui il capitalismo stava diventando sempre più "organizzato", e guidato dallo Stato avrebbe reso possibile la trasformazione socialista.

[*14] - Le citazioni dal libro di Marcuse sono state tradotte dall'inglese.

[*15] - Marcuse (1969) aggiunge dei commenti simili alle pagine 85, 86 e 88, che comprendono anche delle osservazioni amichevoli sulla «rivoluzione culturale» cinese. Più avanti, egli formula nuovamente quella che è sua posizione principale, difficile da conciliare con le simpatie per l'FLN: «Le caratteristiche economiche, politiche e culturali di una società senza classi devono diventare i bisogni fondamentali di coloro che lottano per essa. Questa intrusione del futuro nel presente, questa dimensione profonda di ribellione spiega, in ultima analisi, l'incompatibilità con le forme tradizionali di lotta politica. Il nuovo radicalismo milita sia contro l'organizzazione burocratica comunista centralizzata sia contro l'organizzazione liberale semidemocratica» (Marcuse, 1969, pp. 88-9).

[*16] - I libri di Ngo Van (2000 e 2006) sono una risorsa chiave per un approccio alla storia vietnamita vista da una prospettiva coerente con la teoria critica.

[*17] - L'articolo di Alfred Sauvy. scritto nel 1952, che ha inaugurato l'uso del termine "Terzo Mondo" si riferiva esplicitamente al ruolo del Terzo Mondo durante la Rivoluzione Francese, e si riferiva all'importante ruolo giocato dai rappresentanti del Terzo Mondo nelle Nazioni Unite, per esempio, anche allora (inizialmente in contraddizione con la politica seguita dall'Unione Sovietica). In questo senso, si trattava di offrire una prospettiva progressista al di là del liberalismo occidentale e dello stalinismo sovietico, piuttosto che coniare semplicemente un termine  per il sottosviluppo" (Prashad, 2007). Questo è anche ciò che ha reso l'internazionalismo e poi l'«antimperialismo» così centrale nel pensiero della sinistra nelle metropoli centrali.

[18*] - Mammona, personaggio mitico che simboleggia la ricchezza, il vitello d'oro, denunciato nell'Antico Testamento e da molti socialisti nel XIX secolo.

[*19] - Anche il discorso di Lenin, tuttavia, conteneva già (involontariamente) delle sfumature antisemite che in un contesto modificato avrebbe potuto acquisire un significato palese e manifesto: Lenin ha scritto che la fusione del capitale bancario e del capitale industriale nel «capitale finanziario» aveva creato «alcune centinaia di re della finanza» insieme a un conflitto tra «una immensa maggioranza di stati debitori» e «una manciata di stati usurai» (L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, marxisti.org ).

[*20] - Frase pronunciata da un rifugiato politico maoista iraniano, Bahman Nirumand, nel corso di una riunione del 17 febbraio 1968 a Berlino. Il libro di Bahamn Nirumand del 1967 ("Iran: The New Imperialism in Action ") ha avuto una grande influenza sui movimenti antimperialisti in Germania.

[*21] - Questa opposizione centro/periferia è stata teorizzata soprattutto da Samir Amin negli anni '70.

[*22] - Sebbene, in contesti diversi, il termine possa avere altre associazioni che sono legate a tradizioni marxiste abbastanza diverse (Axelos, Lefebvre e altri), nel contesto anglosassone l'Open Marxism si riferisce a un gruppo di teorici influenzati in varia misura dalla Scuola di Francoforte, dall'Autonomia italiana, dal comunismo consiliare e dal marxismo hegeliano in senso lato. Il concetto è stato definito per la prima volta in un articolo di Werner Bonefeld, nel primo numero della rivista "Common Sense" del 1987 ( https://commonsensejournal.org.uk/1987/05/01/issue-one/ ), che è stata il principale strumento di espressione del "marxismo aperto" nei suoi primi anni. Bonefeld ha curato tre volumi di una serie di libri della Pluto Press (1993, 1995) intitolata Open Marxism che contiene contributi chiave che, presi insieme, illustrano meglio il significato del concetto.

[*23] - Commentando lo slogan leninista [pronunciato durante un discorso di Zinoniev]«Popoli oppressi di tutto il mondo e proletari di tutti i paesi, unitevi contro i vostri sfruttatori !»,  slogan inaugurato nel corso del Congresso dei popoli orientali del Comintern, a Baku nel 1920, Fringeli sottolinea che «I lavoratori sono membri di una classe, e allo stesso tempo sono esseri umani individuali. Nell'espressione “popoli oppressi di tutto il mondo”, gli individui sono assenti» (Fringeli, 2016, p. 41).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Adorno, Theodor W., 1939, «Fragmente über Wagner», Zeitschrift für Sozialforschung, n ° 8, pp. 1– 49
Adorno, Theodor W., 2003 [1968], «Spätkapitalismus oder Industriegesellschaft?», in: Gesammelte Schriften, Band 8: Soziologische Schriften I, Suhrkamp, pp. 354–70 [«Capitalisme tardif ou société industrielle ?» dans le recueil de texte d’Adorno, Société : Intégration–Désintégration. Écrits sociologiques, pp. 85-107, Payot, 2011] ]
Anderson, Kevin B., 2015 [2010], Marx aux antipodes. Nations, ethnicité et sociétés non occidentales, Syllepse
Bassi, Camila, 2010, «Sur l’anti-impérialisme des imbéciles», traduit par nos soins en 2021, http://mondialisme.org/spip.php?article2910
Blumenberg, Werner, 1962, Karl Marx, Rowohlt
Bonnet, Alberto, 2002, «The Command of Money-Capital and the Latin American Crisis», in: Bonefeld, Werner and Sergio Tischler (dir.), What’s to be Done? Leninism, Anti-Leninist Marxism and the Question of Revolution Today, Ashgate, pp. 101–127
Braunmühl, Claudia von, 1978 [1974], «On the Analysis of the Bourgeois Nation State within the World Market Context», in: Holloway, John and Sol Picciotto (dir.), State and Capital. A Marxist Debate, Arnold, pp. 160–77, notes pp. 204–207
Brewer, Anthony, 1980, Marxist Theories of Imperialism. A Critical Survey, Routledge
Bricianer, Serge, 1969, Pannekoek et les conseils ouvriers, EDI [recueil de textes de Pannekoek]
Brückner, Peter, 2006 [1976], Ulrike Meinhof und die deutschen Verhältnisse, Wagenbach
Croquembouches, Les, (2002), «The New Roman Empire. Antiamerikanismus – Zur Konjunktur eines Ressentiments», in: Gruppe Morgenthau and AK Kritische Theorie FH (dir.), Deutsche Projektionen. Zur Kritik antisemitischer Weltbilder. Reader zur Veranstaltungsreihe, pp. 31–47
Fisch, Jörg, Dieter Groh et Rudolf Walther, 1982, «Imperialismus», in: von Brunner, Otto, Werner Conze et Reinhard Koselleck (dir.), Geschichtliche Grundbegriffe, Historisches Lexikon zur politischsozialen Sprache in Deutschland, Band 3, Klett-Cotta, pp. 171–236
Fischer, Michael, 2015, Horst Mahler. Biographische Studie zu Antisemitismus, Anti-amerikanismus und Versuchen deutscher Schuldabwehr, KIT Scientific Publishing
Fried, Barbara, 2012, «Antiamerikanismus als Kulturalisierung von Differenz – Versuch einer empirischen Ideologiekritik», in: Associazione delle talpe/Rosa Luxemburg Initiative Bremen (dir.), Maulwurfsarbeit II. Kritik in Zeiten zerstörter Illusionen, Rosa Luxemburg Stiftung, pp. 70–88
Fried, Barbara, 2014, Antiamerikanismus als kulturalisierende Praxis. Von «Europäischer Identität» und «Amerikanischen Verhältnissen», Verlag Westfälisches Dampfboot
Fringeli, Christoph, 2016, «Anti-Imperialism, Bankruptcy of the Left?» (2016 version), in: Almanac for Noise & Politics, datacide books, pp. 40–54
Gerber, Jan, 2010, Nie wieder Deutschland? Die Linke im Zusammenbruch des «realen Sozialismus», ça ira Verlag
Goldner, Loren, 2010, «“Socialism in One Country” Before Stalin, and the Origins of Reactionary “Anti-Imperialism”: The Case of Turkey, 1917–1925», Critique, volume 38 (n° 4), pp. 631–661
Goldner, Loren, 2016, Revolution, Defeat and Theoretical Underdevelopment. Russia, Turkey, Spain, Bolivia. Brill
Guérin, Daniel, 2014 [1939], Fascisme et Grand Capital, Libertalia
Horkheimer, Max, 1974 [1937], «Théorie traditionnelle et théorie critique» dans Théorie traditionnelle et théorie critique, TEL Gallimard
Horkheimer, Max, 1993 [1974], Notes critiques (1949-1969), Payot
Horkheimer, Max et Theodor W. Adorno, 1974, Dialectique de la Raison, TEL Gallimard 1974
ISF (Initiative Sozialistisches Forum), 1990 [1988], «Ulrike Meinhof, Stalin und die Juden: Die (neue) Linke als Trauerspiel», in: Das Ende des Sozialismus, die Zukunft der Revolution. Analysen und Polemiken, ça ira Verlag, pp. 119–66
Kiernan, Victor G., 1974, Marxism and Imperialism, Edward Arnold
Kistenmacher, Olaf, 2015, Arbeit und «jüdisches Kapital». Antisemitische Aussagen in der KPDTageszeitung Die Rote Fahne während der Weimarer Republik, edition lumière
Koebner, Richard et Helmut Dan Schmidt, 1964, Imperialism. The Story and Significance of a Political Word, 1840–1960, Cambridge University Press
Lenin, V. I., 1920, «Première ébauche aux thèses sur les questions nationales et coloniales, pour le 2e congrès de l’Internationale communiste» (marxists.org)
Leonhard, Jörn, 2013, «Introduction: The Longue Durée of Empire, Toward a Comparative Semantics of a Key Concept in Modern European History», Contributions to the History of Concepts, volume 8 (n°1), pp. 1–25
Luxemburg, Rosa, 2019 [1912/13], L’Accumulation du capital, in Tome V des Œuvres complètes, Agone
Mantena, Karuna, 2010, Alibis of Empire. Henry Maine and the Ends of Liberal Imperialism, Princeton University Press
Marcuse, Herbert, 1936, «Zum Begriff des Wesens», Zeitschrift für Sozialforschung, volume 5 (n° 1), pp. 1–39
Marcuse, Herbert, 1968, «On the Concept of Essence», in: Negations, Essays in Critical Theory, Allen Lane, pp. 43–87
Marcuse, Herbert, 1969, An Essay on Liberation, Beacon Press [Vers la libération, Grasset, 1970]
Marcuse, Herbert, 1963 [1958], Le marxisme soviétique. Essai d’analyse critique, Gallimard
Marx, Karl et Friedrich Engels, 2004, «Manifesto of the Communist Party, Published in February 1848», in: Hal Draper, The Adventures of the Communist Manifesto, Center for Socialist History, pp. 109–95
Mattick, Paul, 1978, Anti-Bolshevik Communism, Merlin Press [Tous disponibles en anglais sur libcom.org, ces articles sont dispersés dans plusieurs livres en français notamment La contre-révolution bureaucratique («La légende de Lénine»), 10/18, 1973 et Intégration capitaliste et rupture ouvrière (les autres textes), EDI, 1972. On les trouve également éparpillés sur les sites bataillesocialiste.wordpress.com ; sinedjib.com/ ; spartacus1918.canalblog.com/ et marxists.org/ )
Mehta, Uday Singh, 1999, Liberalism and Empire. A Study in Nineteenth-Century British Liberal Thought, University of Chicago Press
Mommsen, Wolfgang, 1981, Theories of Imperialism, Weidenfeld and Nicolson
Muthu, Sankar, 2003, Enlightenment against Empire, Princeton University Press
Nimtz, August, 2000, Marx and Engels. Their Contribution to the Democratic Breakthrough, SUNY Press
Owen, Roger et Bob Sutcliffe (dir.), 1972, Studies in the Theory of Imperialism, Longman
Pannekoek, Anton [1916], «L’impérialisme et les tâches du prolétariat» (marxists.org)
Postone, Moishe, 2006, «Histoire et impuissance politique : mobilisation de masse et formes contemporaines d’anticapitalisme» [palim-psao.fr]
Pradella, Lucia, 2013, «Imperialism and Capitalist Development in Marx’s Capital», Historical Materialism, volume 21 (n° 2), pp. 117–147
Prashad, Vijay, 2007, The Darker Nations, A Biography of the Short-lived Third World, LeftWord
Rühle, Otto, 2011 [1928], Karl Marx, vie et œuvre, Entremonde
Song, Hae-Yung, 2011, «Theorising the Korean State beyond Institutionalism: Class Content and Form of “National” Development», New Political Economy, volume 16 (n° 3), pp. 281–302
Stoetzler, Marcel, 2013, «Review of Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity, and NonWestern Societies, Kevin B, Anderson 2010», Patterns of Prejudice, volume 47 (n° 2), pp. 184–187
Stoetzler, Marcel, 2016, «Marx, Karl (1818–1883) and Imperialism», in: Ness, Immanuel, Zac Cope et Saër Maty Bâ (dir.), Palgrave Encyclopaedia of Imperialism and Anti-Imperialism, volume 1, Palgrave Macmillan, pp. 167–74
Sutton, Alex, 2013, «Towards an Open Marxist Theory of Imperialism», Capital and Class, volume 37 (n° 2), pp. 217–37
van der Linden, Marcel, 2007, Western Marxism and the Soviet Union. A Survey of Critical Theories and Debates since 1917, Brill
Van, Ngo, 2000, Au pays de la cloche fêlée, L’Insomniaque
Van, Ngo, 2006, Au pays d’Héloïse, L’Insomniaque CHK
Warren, Bill, 1980, «Imperialism, Pioneer of Capitalism» (dir.), John Sender, Verso
Winslow, E. M., 1931, «Marxian, Liberal, and Sociological Theories of Imperialism», Journal of Political Economy, volume 39 (n° 6), pp. 713–758.

Nessun commento: