C’era una volta l’America ma si chiamava Marckalada
- di Paolo Chiesa -
Intorno all’anno Mille, gruppi di coloni vichinghi, provenienti dall’Islanda e dalla Groenlandia, visitarono le coste atlantiche dell’America del Nord, in cerca di nuove terre dove insediarsi. L’impresa non sembra avere avuto lunga durata e ha lasciato solo modeste tracce archeologiche; fu però oggetto di narrazioni, che più tardi trovarono esito scritto in alcune saghe islandesi e di cui si riscontrano echi nella storiografia e nella letteratura enciclopedica nordica. Secondo questi racconti, le terre che i coloni raggiunsero, sempre più vivibili man mano che si procedeva verso sud, vennero chiamate Helluland, «la terra delle pietre piatte», Markland, «la terra dei boschi», e Vinland, «la terra del vino».
Questa vicenda è il più antico episodio di quella che - con un’espressione molto eurocentrica e in odore di scorrettezza politica - viene comunemente chiamata «scoperta dell’America». Un episodio circoscritto perché non ebbe seguito, e la cui memoria rimase confinata alle zone del nord; e che perciò si considera del tutto non correlato con le nuove navigazioni che cinquecento anni dopo partirono dall’area mediterranea e iberica e produssero le conseguenze note a tutti noi. Quando Colombo progettò il suo viaggio - si pensa - non aveva sentore delle precedenti esperienze islandesi.
Qualche sentore, in realtà, potrebbe averlo avuto. Un sorprendente riferimento all’«America» ante litteram di cui parlano le saghe è stato di recente individuato all’interno di un’opera scritta a Milano intorno al 1340. Si tratta della cosiddetta Cronica universalis del frate domenicano Galvano Fiamma, una vasta e piuttosto caotica storia del mondo che doveva estendersi dalla creazione fino ai tempi dell’autore, ma che rimase interrotta molto prima di Cristo, all’epoca del dodicesimo re d’Israele.
All’interno della Cronica, Galvano inserisce una lunga digressione geografica, volta a dimostrare che è possibile per la specie umana vivere anche al di fuori dell’area temperata. Le pezze d’appoggio di cui si serve l’autore per questa dimostrazione sono in genere le auctoritates libresche della geografia tardoantica e medievale, come Solino e Isidoro. Ma quando passa a parlare delle terre dell’estremo nord ricorre invece a una fonte dichiaratamente orale: «I marinai che percorrono i mari di Danimarca e Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Groenlandia...; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti di questa terra sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però nessun marinaio è mai riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche».
La Marckalada di Galvano - una terra florida, intimidente e misteriosa, che esiste ma di cui poco o nulla si riesce a sapere - è evidentemente il Markland di cui parlavano le saghe nordiche: medesimo il nome, con le normali variazioni grafiche cui un insolito termine geografico è soggetto; medesima la localizzazione a ovest della Groenlandia; analoga la descrizione, che unisce cumulativamente vari tratti ascritti dalle saghe all’una o all’altra delle terre ultra-atlantiche. Ma in altri punti dell’opera Galvano appare molto informato anche sulla Groenlandia, altrettanto sconosciuta nell’Italia trecentesca: si trova talmente a nord che la Stella Polare resta alle spalle; gli abitanti non praticano l’agricoltura e si nutrono di carne e di pesce; è governata da un vescovo; vi dimorano grandi falchi, molto richiesti sul mercato, ma difficili da esportare: il viaggio è difficile e pericoloso, e le navi giungono così malconce che spesso non possono ripartire.
Chi sono i marinai cui Galvano imputa queste notizie? Il frate viveva e scriveva a Milano, dove di marinai non se ne vedevano; ma nella Cronica universalis utilizza altrove fonti genovesi. Fa talvolta riferimento a una Mappa Ianuensis, un planisfero comprendente anche le regioni dell’Asia, che descrive come se lo vedesse di persona; e soprattutto cita ampi brani di un Tractatus scritto da Giovanni di Carignano, prete del porto di Genova e celebre cartografo, che racconta dettagliatamente notizie di interesse prettamente locale: di un gruppo di ambasciatori “etiopici” giunti nella sua città, e della sorte della spedizione oceanica dei fratelli Vivaldi, partiti nel 1291 per raggiungere le Indie navigando per l’Atlantico. Notizie che possono provenire solo da Genova; forse Galvano vi aveva soggiornato, forse da lì gliele aveva recate qualche intermediario. I marinai genovesi che si recavano a nord, nei mari di Danimarca e Norvegia, avranno perciò raccolto sul posto le voci che circolavano sulle terre ultra-atlantiche e le avranno riportate nella loro città. Colombo poteva sapere? La Cronica universalis di Galvano è un’opera ancora inedita e di difficile accesso, conservata com’è in un unico manoscritto attualmente posseduto da una collezione privata. Il riferimento a Marckalada è stato trovato nel corso di una ricerca condotta nell’ambito dell’insegnamento di Filologia Mediolatina dell’Università Statale di Milano, i cui primi risultati sono stati pubblicati sulla rivista americana «Terrae incognitae». La ricerca mira a un’edizione critica dell’opera di Galvano, sulla base delle fotografie che il proprietario del codice ha permesso di effettuare. La trascrizione del testo è stata realizzata da un gruppo di studenti per le loro tesi di laurea; sono stati loro a imbattersi in Marckalada, un nome ostico, introvabile nelle fonti, che resisteva ad altre possibili identificazioni e che alla fine si è rivelato un’emozionante scoperta. Un buon matrimonio fra didattica e ricerca, come l’università è, o dovrebbe essere.
- Paolo Chiesa – Pubblicato su La Domenica del 24/10/2021 -
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