1913, non lontano da Baghdad. Il celebre architetto e archeologo Robert Koldewey consulta un manuale di medicina e accusa tutti i sintomi descritti: sta per avere un attacco di appendicite. Come se non bastasse, il suo assistente Buddensieg continua a tormentarlo bussando ogni cinque minuti alla porta dello studio. Il compito di Kodelwey è di proporzioni bibliche: riportare alla luce Babilonia. All’orizzonte si profilano minacciose le nubi di un conflitto che sconvolgerà il mondo. Sdraiato su un’ottomana, Koldewey guarda fuori dalla finestra. Osserva l’ansa dell’Eufrate, le palme da dattero, il giallo mesopotamico che tinge ogni cosa, e pensa. Nel cortile della casa, ventimila frammenti numerati e centomila frammenti non numerati suddivisi in cinquecento casse attendono di arrivare a Berlino, sull’Isola dei musei, dove risorgeranno la Porta di Ishtar, la facciata della sala del trono del Palazzo di Nabucodonosor e i muri di fiancheggiamento della Via delle Processioni. A pochi chilometri di distanza, quello che resta dell’Etemenanki, la leggendaria Torre di Babele. Ma Koldewey si deve sbrigare, i suoi scavi sono il nesso tra Oriente e Occidente, sono al centro degli interessi ottomani, arabi ed europei, il suo progetto, senza volerlo, fa parte della competizione tra potenze, e bisogna salvare il possibile prima della catastrofe.
(dal risvolto di copertina di: "Babele" di Kenah Cusanit. Feltrinelli, pagg. 256, euro 18)
La geopolitica di Babilonia
Un romanzo appena uscito ricostruisce la battaglia tra superpotenze per impossessarsi dei resti dell’antica civiltà. Con lo sguardo al presente.
- di Marino Niola -
L'archeologia è la psicoanalisi della terra. Cerca l'anima del passato scavando nelle sue viscere alla ricerca dell'inconscio della storia. Per portare alla superficie qualcosa di sepolto, rimosso, che si riesce a intravedere nella confusione delle forme. A condizione di usare le lenti giuste per mettere a fuoco un senso che altrimenti resterebbe oscuro come un responso d'oracolo. E significa cogliere nei reperti i segni da decifrare, i caratteri di una lingua sconosciuta.
Questa idea dell'antichità come chiave di volta del presente è nata fra Otto e Novecento, quando le grandi potenze europee, oltre a colonizzare popoli e paesi lontani, cominciano a spartirsi il loro passato. Di fatto ne colonizzano la storia. È su questa scena che agiscono i protagonisti di Babele, un affascinante romanzo di Kenah Cusanit appena uscito da Feltrinelli. Protagonista principale è Robert Johann Koldewey, lo scopritore di Babilonia. Siamo nel 1913 e il celebre archeologo è alle prese con un compito da far impallidire Indiana Jones. Portare in Germania cinquecento casse contenenti ventimila pezzi numerati e centomila da numerare. In quei frammenti ci sono la Porta di Ishtar, la sala del trono di Nabucodonosor e i muri della famosa via delle Processioni. Che risorgeranno a Berlino sull'Isola dei Musei.
Koldewey deve sbrigarsi a far partire il prezioso carico perché i suoi scavi sono al centro di un conflitto di interessi che contrappone ottomani, arabi ed europei. E che si è fatto particolarmente pesante alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Anche perché oltre ai tedeschi, nell'area scavano inglesi e francesi. I primi trovano a Ninive, la grande capitale assira, la preziosa Tavoletta del Diluvio, appartenente all'Epopea di Gilgamesh e quella che raffigura la caccia al leone di Assurbanipal, spedite per direttissima al British Museum. Mentre i francesi hanno messo le mani sul Palazzo di Dario a Susa, una delle capitali dell'impero persiano. Anche loro recuperano un bottino prezioso come il meraviglioso Fregio degli arcieri che rappresenta le truppe scelte di Dario, quelle che fanno venire la sindrome di Stendhal a Erodoto. E che adesso si possono ammirare al Louvre. Insomma, fra le grandi potenze si scatena la corsa alle vestigia della mezzaluna fertile, una gara all'ultimo mattone per la conquista di quei monumenti-documenti che sono alle sorgenti della civiltà. Più antiche dell'Antico Testamento, almeno a detta del filologo Friedrich Delitzsch, un altro protagonista di Babele, secondo il quale la Bibbia si fonda su radici babilonesi e il cristianesimo stesso avrebbe origini pagane. Nel suo delirio prebiblico, Delitzsch arriva addirittura a vedere un collegamento tra il cannone Krupp, orgoglio della Germania guglielmina, e il mondo babilonese. «Da dove veniva infatti il termine tedesco "cannone"? Esattamente dal termine greco kanón, che derivava dall'accadico quanû, che a sua volta era un prestito del sumero. » Come dire, i nuovi Babilonesi siamo noi!
Questa genealogia mitologica, che collega la Germania agli albori della cultura occidentale, è musica per le orecchie del Kaiser Guglielmo che vede la sua capitale come la nuova Babilonia. Del resto, i nomi delle due città, Berlino e Babele, appaiono apparentate. Hanno « consonanti radicali molto simili: BBL e BRL, più una desinenza in N », rivela Delitzsch esaltato. E il monarca chiede proprio questo tipo di prove scientifiche a supporto della sua archeologia politica. Non per nulla il sovrano fa costruire il museo Pergamon sull'isola del fiume Sprea con le fondamenta poste proprio « come quelle delle mura di Babilonia, direttamente sul livello dell'acqua, come si leggeva in un'iscrizione di Nabucodonosor sulla porta di Ishtar ».
In realtà più che di fondamenta materiali si tratta di mattoni simbolici, di una costruzione politica del presente con i materiali del passato. Destinata a ripetersi. Visto che Hitler invia a Cosenza nientemeno che il capo delle Ss. Heinrich Himmler con il compito di ritrovare la tomba del re visigoto Alarico, sepolto nel 410 d.C., secondo una leggenda pangermanica, nel letto del fiume Busento, con tutto il suo tesoro. Che agli occhi del Führer vale almeno quanto l'oro del Reno. E nel 1944, sempre Hitler invia a Ravenna un commando di tombaroli guidati dal colonnello Alexander Langsdorff, esimio archeologo nonché componente dell'Ahnenerbe (Società di ricerca dell'eredità ancestrale) specializzata nel furto di resti gloriosi del passato. Cervantes, Zola, Molière, Tolstoj e Shakespeare avrebbero dovuto far compagnia a Dante nella collezione hitleriana di cadaveri eccellenti. Per fortuna una brigata composta dai più bei nomi della cultura italiana, da Benedetto Croce a Manara Valgimigli a Raimondo Craveri, riesce a salvare dal rastrellamento il partigiano Dante.
Di questi incroci tra scienza e politica, mitologia e archeologia, verità e ideologia il Koldewey, uscito dalla penna colta e immaginifica di Cusanit, diventa il testimone disincantato. E perfino profetico, al punto da prevedere che un giorno qualcuno scaverà tra le macerie di Berlino-Babilonia bombardata. I suoi pensieri, lenti come l'Eufrate, creano vortici di storia. E ci invitano a tuffarci nella Babele del passato per farci riconoscere le sorgenti del nostro presente.
- Marino Niola - Pubblicato su Robinson del 6/9/2021 -
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