venerdì 8 ottobre 2021

La talpa e l’uomo senza qualità

La politica come conflitto
- di Douglas Rodrigues Barros -

«È un concetto vano quello di compiere il proprio dovere nel posto che ci è assegnato; si sciupano forze enormi per nulla; il vero dovere è scegliere il proprio posto e piegare consapevolmente le circostanze.» - (Robert Musil, in "L'uomo senza qualità".)

In quelle che sono le sue diverse apparizioni pubbliche, Lula dice sempre che i giovani dovrebbero interessarsi alla politica e appare ovvio che chiunque sia minimamente coinvolto nel sociale sa che ha ragione. Il problema, tuttavia, risiede in ciò che lui definisce «politica», la quale in realtà è qualcosa di completamente sterile e impenetrabile alla partecipazione popolare: la gestione delle forme di riproduzione della vita sociale in un'epoca di tardo capitalismo ovvero, per dirlo in altre parole, il consenso liberaldemocratico. Ed è evidente che i giovani non solo non abbiano interesse per quella che oggi viene chiamata «politica», ma detestano anche coloro che la propugnano. E non senza motivo. Lula non riuscirà mai a capire un simile processo, ma il suo continuare a essere l'unica possibilità per la sinistra, la mancanza di nuovi esponenti del suo stesso partito, la completa assenza di messa in discussione, o di critica delle istituzioni, tutto questo depone a favore del giovane che si ribella. È necessario riprendere la nozione di politica, e sottrarla, salvarla da questo immaginario di un consenso che ci guida solo alla riproduzione della logica stessa dello sfruttamento. In fondo, questa politica senza politica è semplicemente una gestione dell'economia che forma dei burocrati specializzati nel mercato elettorale. Un obbligo ingessato che ogni due anni ci chiede di uscire con la nostra tessera elettorale in mano per svolgere il nostro «ruolo di cittadini». È necessario, pertanto, rovesciare questo concetto di politica vista come conciliazione di interessi, se vogliamo davvero costruire il senso di ciò che è politico. Quindi, per ridare vigore a un immaginario della politica, è necessario chiedersi di nuovo: che cos'è questa? La politica?!? Vale a dire, attuare quell'esercizio paradossale che ci viene insegnato da Hegel, che per far progredire un'idea è necessario tornare ai suoi fondamenti.
Investigarlo, significa anche intravedere quali sono i limiti della nostra situazione. Per mezzo di un dilettantismo, però: esiste un momento fondante del pensiero politico, quando Trasimaco incontra Socrate ed entrambi discutono di ciò che è giusto. Allorché la giustizia è il vantaggio del superiore - e non già del più forte, così come viene asserito dalla lettura tradizionale - bisogna allora riflettere su in che cosa consista di fatto il «divenire superiore», e quindi diventa necessario mettere in discussione l'idea stessa del giusto. Tutti i successivi capitoli della Repubblica platonica continuano a rimuginare sul significato della giustizia. E, in effetti, è proprio la giustizia ciò che dà un senso al pensiero della politica. Lungi dall'idea di una riparazione dei danni, la politica ha a che fare con la condivisione del potere nella comunità. In questo modo, il movimento che accompagna e sostiene il pensiero politico, fin dal suo inizio, poggia, simultaneamente, tanto sulla messa in discussione categorica di ciò che sarebbe la «naturalizzazione gerarchica», quanto anche sulla certezza di una proporzionalità, la quale forgerebbe un'armonia che facilita la giustizia. Qui si tratta di individui consapevoli, i quali cominciano a mettere in discussione non solo l'istituito, ma anche la nozione stessa di giustizia che le Istituzioni organizza.
Pensare la politica consiste, perciò, nella necessità di soffermarsi, o su quelle che sono le strutture sottostanti la logica sociale stabilita, oppure di andare oltre, gettando le basi che permettano la realizzazione dell'impossibile, in contrapposizione alla logica possibile di ciò che è già stato istituito. In un certo senso - e probabilmente in un senso radicale - pensare la politica è uno sforzo filosofico, un'impresa che cerca di andare oltre i limiti della logica sociale vista in un determinato spazio-tempo storico. Questa attività significa sottolineare e superare il limite del «posto», in modo tale che ciò che si presenta all'interno dell'ordine costituito, sia nella visibilità che nell'invisibilità del corpo sociale, non venga tralasciato. Né nella sua implicazione diretta, e nemmeno nel movimento di investigazione volto a superarlo. La politica è, pertanto, lotta. Il desiderio politico, è che la sua scomparsa possa finalmente avvenire. La finalità (telos) della politica è che essa possa essere superata accedendo alla realizzazione effettiva del giusto. Pertanto, come forma e contenuto, il desiderio politico di giustizia non sbarra la strada alla dissonanza che produce, e non è nemmeno in grado di astrarsi dalle relazioni di ogni componente l'insieme sociale. La Repubblica di Platone è senza dubbio uno dei primi modelli di pensiero che propone la sfida di portare la realizzazione dell'idea di giustizia fino alle sue ultime conseguenze, e con tutte le sue implicazioni. Potremmo continuare, ma sarebbe inutile. Pensiamo ai moderni, allora... a Rancière (2018), il quale realizza una vera e propria cartografia del pensiero politico, passando per vie estremamente diverse, è arrivato alla stessa conclusione di Castoriadis (1987), allorché quest'ultimo realizza una vera e propria mappa del pensiero alla fine del XX secolo. Per Castoriadis, Aristotele aveva sì scoperto l'economia, ma si trattava solo di una tecnica (epistémé e dynamis). È la politica che dirige e deve dirigere tutta la conoscenza: « il suo fine deve pertanto contenere sé stessa, deve subordinare a sé tutti gli altri fini, ed è essa stessa, proprio quella cosa, "il bene umano" (tanthropinon agathon)" » (CASTORIADIS, 1987, p.286). La conclusione fondamentale di Aristotele consiste nella dimostrazione secondo cui, se l'economia diventasse autonoma rispetto alla politica, allora assisteremmo alla fine della polis. Ora, è esattamente questo la realizzazione del mondo delle merci. Per contro, del resto possiamo arrivare alla conclusione secondo cui non si dà politica senza che ci sia questo conflitto dove, in qualche modo e da qualche parte, la sottomissione di ciò che è aritmetico - nel senso della riduzione delle qualità generali delle relazioni: relazioni di scambio, perdite e guadagni, sistema giuridico dei contratti - e di ciò che è geometrico (mantenimento delle qualità, dell'organizzazione egualitaria e proporzionale tra i membri della comunità) coincidono. In altre parole, la vita politica non può essere ridotta a delle formule contrattuali, a uno specchio della realizzazione del valore nelle merci.

Ciò a cui stiamo assistendo oggi, tuttavia, è radicalmente l'opposto. È la sterilizzazione della politica; la sottomissione della nostra vita all'aritmetica dei profitti e ai guadagni delle classi ricche. Un'autonomizzazione generale dell'economia, che dà senso alla politica in quanto gestione dei guadagni e delle perdite. Così, nella logica del nostro sistema politico, ciò che vediamo è il mantenimento del privilegio delle caste della classe politica, la quale ha nel "Centrão" una realtà concreta, e nei militari la sua difesa più ardente. Potremmo dare le coordinate storiche del momento in cui questo è iniziato come orizzonte: 1988. È un fatto che, se non superiamo questa logica, non ci sarà un vero interesse per la trasformazione effettiva di cui abbiamo bisogno. L'emergere della politica è dato dal desiderio di una giustizia che costruisca uno spazio sociale comune per la piena realizzazione dei soggetti coinvolti in essa. Il pensiero politico afferma la sua necessità nello stesso tempo in cui afferma il limite della situazione data. È il risultato di un desiderio che, nel pensare la giustizia, mira a trasformare l'istituito. La politica dimostra, con l'ostinazione che reca in sé, la sospensione dei calcoli aritmetici del già istituito. Secondo una precisa formula di Castoriadis, la politica «è la contestazione e la messa in discussione dell'immaginario sociale stabilito, dell'istituzione (politica, sociale, ideologica) stabilita della città e dei significati dell'immaginario sociale che essa utilizza» (1987, p.287). Sappiamo però che questo concetto di politica è stato sterilizzato e sostituito dalla nozione che il personale è politico. Se il personale è politico, allora tutto è politico, e ci troviamo perciò nella dispersione hobbesiana del potere. Hobbes si porrà in contrapposizione agli antichi  per mezzo dell'idea di zoon politikon. È in questo presupposto che, per lui, consisterebbe il male: la capacità da parte dei privati di decidere sul giusto e sull'ingiusto. La traiettoria di Hobbes è complessa: rifiutare l'idea di una politicità propria dell'animale umano, il quale, nella sua prospettiva, finisce per dislocare la lotta, propria dei partiti di potere, verso gli individui. Questa ricerca di un'origine del potere ha la funzione di liquidare la parte di chi è senza parte. Questo perché, per così dire, in una tale prospettiva ci sono solo gli individui e lo Stato, e quindi la sovranità diventa il radicale non luogo delle parti che si basa solo su sé stessa. In altre parole: la visione hobbesiana individualizza la politica, scompone il popolo in individui ed esclude, nella guerra di tutti contro tutti, la guerra di classe che costituisce la politica. Il passo fatto in questa direzione non solo mette i diritti soggettivi al posto della regola oggettiva, ma inventa il Diritto. L'uomo è il lupo dell'uomo, e la politica può essere solamente una politica di risoluzione dei conflitti. Avviene, per nostra fortuna e sfortuna, che questa dimensione della sterilizzazione della politica, in concomitanza con la «fine della storia», ha la sua data di scadenza. Assistiamo sempre più all'affermarsi della politica, e stranamente è proprio l'estrema destra che ha formulato un proprio corpus politico mettendo in discussione le istituzioni. La lotta, da parte degli apparati dello Stato, per combatterla - insieme a entrambi gli spettri della sua gestione: destra e sinistra - si è dimostrata inefficace. E questo a livello mondiale. Sarebbe dunque questa, una delle ragioni della perdita di orizzonti politici da parte della sinistra legata alla gestione: l'immaginario politico è stato occupato dall'idea che il mantenimento dell'ordine debba essere la chiave della difesa della vita. Tutto ciò soprattutto in un paese in cui più di 60.000 persone all'anno vengono uccise da armi da fuoco, e in cui la logica del "vincitore" - come sopravvissuto esemplare - ha dominato l'orizzonte generale. Abbiamo finito per essere ostaggi di un processo che riproduce la logica dello stesso, ed è proprio questa manutenzione che non solo produce corpi assassinati dalla polizia militare, ma organizza anche perfino la sua negazione radicale. Occupata ora dall'estrema destra, la politica è tornata sulla scena degli ultimi otto anni.

Ma cosa fa la nostra talpa di sinistra? Bisogna sempre rammentare André Gide, per ricordare che prima dell'avvento del conflitto politico gli uomini senza qualità si nascondevano nell'ombra della comunità, ridotti all'annullamento, nel quale una condizione, per quanto ingiusta e asimmetrica, veniva naturalizzata. Quando i razzializzati, i dannati della terra, i proletari si trovano in questa posizione di invisibilità, essi vengono anche assoggettati al silenzio; tacere vuol dire lasciare nel silenzio la parola manifesta, tralasciare il senso politico. E pertanto, l'atto della parola è fondamentale ai fini della promozione del conflitto politico. Bisogna ricordare anche, tuttavia, che un tale discorso, quando è veramente politico, non cerca di rivendicare dei luoghi, ma vuole liquidare quei luoghi che sono stati costituiti dall'ordine. Quando si alza la voce del dannato, ecco che allora la sua molteplicità diventa identica al tutto, rivendica il Tutto. La ricerca della giustizia diventa un gesto aperto poiché ha da chiudere un conto che non si chiude: un'equazione impossibile che istituisce l'apertura democratica. A quel punto, è l'interruzione del dominio e la pretesa di rispondere a tutto che conferisce al senza qualità la condizione politica. Per quanto confusa possa essere, la ricerca dell'uguaglianza vista nel senso della proporzione, funziona solo negativamente. È una nozione che esiste nella comunità, e che ora viene resa politica, e pertanto in conflitto; qualcosa con cui essa deve fare i conti, un pregiudizio storicamente costruito che ora si manifesta e si riconfigura alla luce del presente, facendo assumere al passato un nuovo significato. «In Brasile, tutto andava bene fino al 2013!», dicono i cinici manager.
Se pensiamo a quel che è successo da allora in poi, possiamo senz'altro dire che è in questo senso che si sono affermate sempre più le lotte di coloro che erano invisibili rispetto all'ordine generale. Fino ad allora il conflitto non era veramente sentito. Questa voce, quando si alza, ricostituisce i significati del presente e si apre al futuro, ed è questo a generare la politica. Esiste pertanto una politica che prospera nelle strade almeno dal 2013, ma che la sinistra dell'ordine non riconosce. Ora, è proprio contro questa esaltazione della vera politica che la "politica" attuale si pone in tutto il mondo. Per darvi un'idea, il numero di arresti di attivisti negli Stati Uniti è più che raddoppiato dopo l'omicidio di George Floyd. Anche in Brasile è bastato che gli studenti delle classi più povere entrassero nelle università pubbliche perché la destra si organizzasse e si unisse per distruggere l'università. In altre parole, all'orizzonte si vede una politica di sinistra, e da parte della sinistra istituzionale non c'è alcuna adesione a tale politica. Succede che per coloro che sono stati messi a tacere, la possibilità di parlare, l'azione di parlare, diventa il principio attivo della costruzione politica. Lì sta il principio attivo di una condivisione egualitaria che porta sulla scena coloro che sono stati relegati all'oscenità della violenza e alla nozione che li vuole incapaci di articolare un'idea. È questa condivisione egualitaria ad organizzare uno spazio sensibile dove si arriva alla conclusione che gli emarginati parlano e che il dominio che cade su di loro è una pura contingenza che organizza l'ordine sociale [*1]. Se la politica è un conflitto fondamentale, non limitato solamente alla logica generale della creazione di senso dell'ordine, ecco che il suo destino diventa dare voce a chi non ha voce. Nell'algebra del potere istituito c'è la distribuzione simbolica dei corpi in due categorie: quelli che si vedono e quelli che non si vedono [*2]; questo perché anche la logica della visibilità e del posizionamento dei «veri uomini» normalizza uno spazio eccessivo, un luogo di esclusione, un non luogo. In questo non-luogo, le zone di attesa, per pensare con Arantes, si verifica una totale mancanza di copertura da parte della legge. Abbiamo dunque, da un lato, questa logica che distribuisce i corpi nello spazio della loro visibilità, o invisibilità, e mette d'accordo i modi di essere, i modi di fare e i modi di dire che si adattano a ciascuno di essi. È la logica dello stesso, la logica della rappresentazione, del luogo e della mancanza di autonomia. E c'è l'altra logica, quella che vuole imporsi; quella che sospende questa falsa armonia per il semplice fatto di attualizzare la contingenza dell'uguaglianza degli esseri parlanti e degli organizzatori del senso politico (RANCIÈRE, 2018, p. 41). Ora, questa logica è efficace solo in quanto apertura della politica, ragion per cui dobbiamo pertanto affrontare una questione centrale: quella che riguarda il grado secondo cui le forze dell'ordine sono organizzate per sbarrare la strada a qualsiasi posizione effettivamente politica. È qui che i rappresentanti entrano in campo come figure che avranno il ruolo di ridurre la partecipazione all'idea di aderire alla visibilità richiesta, e di mettersi al loro posto nel Parlamento attraverso quella che è la loro richiesta particolare organizzata in decreti ed emendamenti. La parola d'ordine è: entrare negli spazi del potere, e prendervi posto. Sono i poliziotti dell'ordine. O, peggio, come è diventata la norma: essere un consumatore felice e appagato di fronte all'oggetto adorato, la merce, e a un passo dal diventare un rappresentante di Prada, e così via. Si dà però il caso che la finzione, la quale cerca la rappresentanza come fine ultimo, finisca per scavare nelle tensioni un buco ancora più grande, perché nella lettera morta del diritto il principio ultimo è la pura uguaglianza di chiunque con chiunque. È in questa dichiarazione di uguaglianza - la quale astrae i rapporti concreti e propone la forma aritmetica dei rapporti sociali legati alla merce - che si instaura un nuovo conflitto, proprio perché esso ignora il quadro storico e le disuguaglianze fondamentali che vi hanno origine. In altre parole, il sociale soppianta la bella volontà del diritto e la rappresentatività politica. Il sociale diventa, pertanto, la verità della politica; vale a dire che la verità politica così definita, si situa in ciò che la politica - pur limitandosi alla gestione - nasconde: la base che sostiene l'organizzazione sociale. In tal modo, ciò che poi avviene è la messa a nudo del rapporto di classe e del conflitto.

Secondo la definizione che ne dà Marx, la classe funziona solo nel senso del politico, nel senso che l'operatività della lotta di classe si realizza attraverso la definizione del proletariato. In altre parole, una classe che non è una classe, ma che lo diventa come risultato di una società in decomposizione. In questo senso, il proletariato che emerge, la classe operaia che supera se stessa, dovrebbe essere la forza sociale che porta il movimento della società al punto di verità, mettendo in scacco l'illusione della politica; ma anche in quanto movimento negativo, il proletariato si definisce per essere una non classe: è semplicemente l'operatore dell'atto rivoluzionario. Il proletariato nella sua accezione negativa diventa così quello che presenta un deficit radicale dei gruppi sociali positivi (identificati da rivendicazioni particolari e organizzati nell'ordine) poiché esso rivela la verità della menzogna politica. Questa rivelazione della verità della menzogna si chiama Ideologia. Così, ben presto ci si rende conto che la riduzione del proletariato a una categoria sociologica ne sterilizza la sua profondità. Nella nostra epoca, la democrazia consensuale ha presupposto la fine della politica. Alcuni la chiamano post-politica. Il regime democratico si sostiene per mezzo dell'idea che garantisce nello stesso movimento le forme politiche della giustizia e le forme economiche della produzione di ricchezza (RANCIÈRE, 2018, p.107). Nelle sue forme attuali, per cercare di evitare il conflitto, la democrazia consensuale rifiuta di porsi come potere del popolo, sia nella sua forma rousseauiana - il popolo come soggetto della sovranità - sia nella sua forma marxista - il popolo come proletariato e come figura. Si tratta pertanto di una democrazia senza popolo. La caduta in un regime democratico che rifiuta la partecipazione diretta dei suoi membri, si è resa possibile solo nel momento in cui le rappresentazioni istituzionali hanno cessato di essere osservate dalla militanza, cioè, quando ci siamo conformati all’istituzionalità. La vittoria della democrazia formale è stata parallela al suo svuotamento. Certo, era già in germe nelle buone intenzioni di alcuni lavoratori all'epoca dello sciopero della Scania, ma nemmeno nei loro peggiori incubi c'era l'idea che sarebbe servita a legittimare i colpi di Stato. Questa democrazia formale e consensuale è ciò che mette fine alla politica; tutto diventa una questione di gestione e di controllo, riabilitando la forma svuotata di ogni sua efficacia. È la democrazia che divora i propri figli. Questa democrazia svuotata corrisponde all'ideologia, la quale tra l'altro evita la verità della sua falsità, mentre la politica come conflitto cerca il sostegno del tratto egualitario. Cerca di rendere visibile l'invisibile, e di riorganizzare politicamente le strutture della comunità. Il consenso, invece, è determinato dal particolare modo di visibilità che ha il diritto. Non c'è da stupirsi che il nostro attuale feticcio del diritto, e il nostro completo cinismo per l'attaccamento ai diritti umani, siano solo slogan ai fini dell'invasione delle nazioni del sud globale. Ciò ha forgiato l'identificazione assoluta tra la politica e l'amministrazione del capitale. In tal modo, il consenso presuppone l'inclusione di tutte le parti limitando la soggettivazione politica. Organizzando le forme dell'apparenza, riducendo la politica alla giurisdizione, il consenso media le crisi che danno forma alla politica, in modo da evitare che la politica stessa abbia spazio. Invisibilizzando e sopprimendo il conflitto reale per mezzo di rivendicazioni e di una politica del decreto, la democrazia formale assolutizza sé stessa. Si tratta di organizzare identificazioni e garantire identità formulate attraverso una politica di contro-insurrezione permanente. La grande questione che una tale posizione pone, sta nel fatto che nel tentativo di rendere visibili tutte le identità ai fini dell'organizzazione comunitaria, non solo si assolutizzano i posti all'interno dell'ordine, ma si fissa anche un'alterità radicale, la quale diventa impermeabile e oggetto di odio assoluto. Questo è il caso dell'odio per l'immigrato e per gli individui razzializzati. Nel conformare tutte le identità in spazi identificabili, perdiamo di vista lo spazio dell'invisibilità e la lotta per l'affermazione all'interno di questo spazio. Questo si traduce non solo nella competizione di questi uguali, ma anche nell'inibizione della trasformazione della struttura, nell'eliminazione del politico e nel silenziamento di coloro che hanno perso il loro posto nell'ordine. Poiché la legge struttura i modi in cui le identità confluiscono nella comunità, nel trattare il problema di coloro che non sono contemplati nell'ordine, cerca poi di definire le regole della loro integrazione. Questo è il problema principale che affrontiamo in tutto il mondo: Nel capitalismo arrivato alla fine, l'odio per il diverso, l'odio per chi cerca di prendere il posto di chi egli considera uguale, costituisce la base di un odio politico e ultra-reazionario che, prima o poi, finirà in tragedia se si continua a evitare il conflitto.

- Douglas Rodrigues Barros - Pubblicato su Blog do Boitempo il 9/9/2021 -

NOTE:

[*1] - Ciò dimostra un'asserzione presente nella più parte della critica antirazzista: l'uomo nero è diventato schiavo con la forza solo per contingenza storica; non esiste nessuna natura nera, nessuna essenza nera se non come risultato di drammi storici (cf. FANON, 2020).

[*2] - È in tal modo che Mbembe pensa alla relazione di visibilità: «ogni securitizzazione richiede necessariamente l'occultamento di dispositivi globali che servono a controllare le persone e a prendere il potere su un corpo biologico multiplo e in movimento» (MBEMBE, 2019, p. 46).

Riferimenti bibliografici:

CASTORIADIS, C. - Gli incroci del labirinto. Hopefulmonster, 1989.
FANON, F. - Alienazione e liberta, F. Angeli, Milano 1971.
MBEMBE, A. Critica della ragione negra. Ibis 2019.
RANCIÈRE, J. Il disaccordo. Politica e filosofia. Meltemi 2016.

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