Negli anni successivi alla Grande guerra e all’epidemia della Spagnola, alcuni idealisti decisero di voltare le spalle all’alienazione e allo smarrimento collettivo, fondando comunità ispirate a principi sociali diversi. La storica Anna Neima si cimenta qui in un vivace resoconto delle utopie praticate in vari angoli del pianeta, presentando sei tentativi di costruire una società perfetta: la comunità bengalese di Santiniketan-Sriniketan, istituita da Rabindranath Tagore; il villaggio d’arte di Atarashiki Mura sulle montagne del Giappone; la nuova tenuta rurale di Dartington Hall in Inghilterra; la comunità tedesca dei Bruderhof che sfidò Hitler influenzando la controcultura; l’Istituto dello sviluppo armonioso dell’uomo a Fontainebleau fondato da G. I. Gurdjieff e, infine, il Trabuco College in California, la meno nota fra le comunità intenzionali statunitensi.
Stravaganti visionari e comuni cittadini abbandonarono case e contesti sociali per affrontare penuria e disagio, derisioni e persecuzioni, e i tanti dubbi che emergono quando si cerca di conciliare i grandi ideali con i problemi quotidiani. Tramite materiali d’archivio originali e lettere coinvolgenti, Neima traccia la genesi e lo sviluppo di questi esperimenti sociali, ma soprattutto ne presenta i protagonisti in tutta la loro schiettezza, restituendo il clima intellettuale dell’epoca e il diffuso bisogno di porre le basi per un «nuovo mondo». Incontriamo così, in una veste sorprendente, artisti, scrittori e filantropi, fra cui Gandhi, Jung, Hemingway, Geddes o Aldous Huxley. Anche se ebbero vita breve, queste comunità sperimentali riuscirono a influenzare a lungo raggio gli ambiti più disparati, come l’educazione, l’ambientalismo, la psicologia e la ricerca medica, stimolando riflessioni e pratiche inedite. Gli utopisti è un saggio prezioso, che fornisce suggestioni a chi aspira a un cambiamento, e mostra percorsi alternativi anche alla società attuale, sprofondata in una crisi di sistema e quanto mai ansiosa di trovare nuovi fondamenti.
(dal risvolto di copertina di: Anna Neima, "Gli utopisti". Bollati Boringhieri. pagg. 352 euro 26.)
In fuga dalla civiltà
- di Marino Niola -
«Una carta del mondo che non contiene il paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo perché non contempla il solo paese al quale l’umanità approda di continuo». Lo dice Oscar Wilde facendo dell’utopia il centro di una cartografia della mente. Non il luogo che non esiste, anche se questo sembrerebbe suggerire l’etimologia del termine. Che viene dal greco ou cioè non, e da topos, luogo. Invece all’origine del vocabolo ci sarebbe in realtà un gioco di parole del grande Thomas More, che del concetto è l’inventore. E che sfrutta l’assonanza tra ou ed eu. Così l’utopia, il non luogo, diventa eu-topia, ovvero il buon luogo. L’isola che non c’è eppure esiste. Dove tutto è finto ma niente è falso. In questo senso Utopia è sorella di Poesia. L’una dice l’indicibile e l’altra può l’impossibile. Di certo c’è che si tratta di un’isola. Lo dice espressamente Thomas More. E lo ripete Tommaso Campanella che ambienta La Città del sole in una mitica isola di Taprobana, che a lungo ci si è ostinati a identificare con Sumatra, finendo per dimenticare che non di geografia fisica si tratta bensì di geografia mitica. Non di spazi reali ma di proiezioni del pensiero, che solca gli oceani dell’immaginario in cerca di terre promesse dell’anima. Ecco perché le utopie non finiscono mai.
Sempre le stesse e sempre diverse, assumono ogni volta la forma del tempo che intendono superare, i connotati del mondo che vogliono cambiare. È la tesi che attraversa Gli Utopisti, il bel libro che la storica Anna Neima ha dedicato all’eterno ritorno del pensiero utopico. L’autrice, che insegna nell’università inglese di Warwick, racconta alcune delle esperienze utopiche più interessanti del periodo che sta fra le due guerre. Da Saneatsu Mushanokoji, lo scrittore giapponese che all’indomani del primo conflitto mondiale fonda l’Atarashiki Mura, (il Nuovo Villaggio), una comune socialista di artisti, intellettuali e altri scontenti che tornano a lavorare la terra per emendare sé stessi e il mondo dei peccati capitali, anzi capitalisti, che hanno provocato la grande mattanza.
Ad Arnold Eberhard, un teologo allampanato e occhialuto, che nella Germania centrale dà vita ad una comunità agricola in cui lui e gli adepti vedono realizzato nei gesti e nella carne, nella solidarietà e nell’antimilitarismo, nelle parole e nelle opere, il regno di Dio. Negli stessi anni, l’agronomo e filantropo Leonard Elmhirst scopre le rovine di una residenza medievale nello Yorkshire. E su quelle pietre Leonard, insieme alla moglie Dorothy, edificherà la sua chiesa, Darting Hall, versione moderna di un villaggio medievale, alternativa al materialismo, alla competizione e alla violenza. In quegli anni la Grande Guerra ha spazzato il mondo come un vento d’apocalisse facendo milioni di morti fra gli young adults. E ad aggravare le cose arriva anche la falce pandemica della spagnola che miete cento milioni di vite. In questo clima da fine del mondo, in una società impaurita dal presente e incerta sul futuro si fa strada l’idea di reinventare la società dalle fondamenta.
Così nascono delle utopie concrete, nel tentativo di strappare un pezzo di paradiso dalle fauci dell’inferno. Che la maggior parte dei protagonisti del libro identifica con il capitalismo liberista poiché rende gli uomini soli, fragili, in balia dei capricci del commercio globale. Si fa strada un ripensamento dei valori e delle priorità, un po’ come sta succedendo oggi per effetto della pandemia.
Le istanze degli idealisti non hanno come oggetto semplicemente salari, orari e posti di lavoro. La posta in gioco è la possibilità di avere cura della vita, soprattutto quella interiore. Non a caso le capitali occidentali e non solo pullulano di freudiani e di junghiani, di teosofi e di occultisti, che propongono il loro antidoto contro i mali del mondo. In fondo gli utopisti non reclamano un posto a tavola, vogliono rovesciare la tavola, reinventare la società, ristabilire una connessione con la natura e con le specie che lo sviluppo industriale ha interrotto. I seguaci di Gurdjieff in Francia, o quelli di Tagore in India, si fanno amica la foresta per marcare il loro distacco dalla civiltà che separa l’uomo da sé stesso e dagli altri esseri. E si rifugiano in un time out della storia. In fondo non tutti i leader utopisti vogliono le stesse cose, ma tutti rifiutano le stesse cose. L’economicismo, l’utilitarismo, la competitività, la solitudine, il distacco dalle altre specie viventi. Di fatto questi idealisti radicali anticipano il nostro presente. E il loro estremismo ha prodotto frutti di cui adesso tutti beneficiamo. Dai diritti dell’infanzia all’accesso democratico alle arti e alla conoscenza, dal welfare alle tecniche della cura del sé, dall’agricoltura biologica all’ambientalismo. Oggi questi utopisti, che non si sono fermati davanti all’impossibile, lasciano nelle nostre mani il testimone di un ripensamento epocale, reso urgente dal post Covid. Per reimmettere dosi di ottimismo e di energia nelle vene del mondo.
- Marino Niola - Pubblicato su Robinson del 2/10/2021 -
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