Auto, alienazione e distopia
- di Roberto Andrés -
Per tutti quelli che in futuro si occuperanno della storia, siano essi scavatori, archeologi o scarafaggi super-intelligenti, non mancheranno certo i motivi per stupirsi di quali erano le abitudini nella società responsabile della cosiddetta Sesta Grande Estinzione del pianeta Terra. Forse verremo descritti come amanti del petrolio, carnivori insignificanti, idolatri del denaro, roditori di montagna, società del metallo e del carbonio, dei pesticidi, della plastica, delle disuguaglianze abissali. Per l'osservatore più attento, la sintesi di tutte queste stravaganze potrebbe essere la curiosa dipendenza che tale cultura primitiva aveva sviluppato per delle macchine di acciaio e vetro piuttosto pesanti, le quali bevevano petrolio e sputavano fumo in proporzione all'enorme quantità di energia che quegli esseri spendevano nei loro spostamenti. Dinosauri metallici in cui gli umani entravano quotidianamente per spostarsi velocemente e comodamente, ma che in realtà svolgevano la funzione di riempire gli spazi delle città, dove tutti rimanevano bloccati in quelli che erano dei rituali quotidiani fatti di parolacce, litigi meschini e noia. Una dipendenza un po' difficile da comprendere, soprattutto se si considera la promessa, che veniva offerta nelle pubblicità dell'epoca, di godimento e di potenziamento dovuto al possesso di tali macchine, in opposizione alle segnalazioni di frustrazioni quotidiane e degli alti costi di acquisto e manutenzione - che consumavano gran parte dei salari e del tempo libero delle persone. Le analisi dei documenti dell'epoca evidenzierebbero che quegli esseri impegnavano, in media, circa cinque anni di lavoro per poter pagare le loro macchine; e le scambiavano poi con delle altre, nuove, in meno di dieci anni. Anche così facendo, l'appetito degli umani per le automobili - che, pur avendo questo nome, si muovevano sempre meno - sembrava insaziabile. Al culmine di quella civiltà, non meno di due veicoli oggi secondo spuntavano dai magazzini industriali nei vari angoli del pianeta. Gli 1,3 miliardi di unità esistenti nel secondo decennio del XXI secolo potrebbero, se messi in fila, completare 130 giri intorno alla circonferenza della Terra all'Equatore. Ci sarà chi considererà questi bolidi come il simbolo principale del pregiudizio irrazionale e distruttivo della cosiddetta società occidentale, visto che il fumo che usciva dai loro tubi di scarico uccideva milioni di persone ogni anno, e le collisioni inerenti al loro funzionamento, che però venivano chiamate "incidenti", ne causavano molte altre. L'aumento della temperatura globale che ha poi portato alla grande distruzione degli ecosistemi e ha determinato la fine di quei tempi, ha avuto come uno dei suoi principali propellenti la fabbricazione e l'uso sfrenato di questi camini ambulanti. La cosa che soprattutto sembra aver scatenato tutto questo, è che quegli umani, i quali si definivano Homo Sapiens, erano pienamente consapevoli del problema, e tuttavia hanno continuato ad agire come se esso non esistesse. Le relazioni prodotte dalle istituzioni che avevano un sostegno sociale, come l'Organizzazione Mondiale della Sanità, avevano mostrato che gli incidenti stradali uccidono più di un milione di persone all'anno, mentre più di 9 milioni muoiono ogni anno a causa dell'inquinamento atmosferico, gran parte del quale veniva generato dalle automobili. Altre istituzioni avevano dimostrato come il settore dei trasporti fosse responsabile di più del 20% delle emissioni che avevano causato il riscaldamento del pianeta, con le automobili che erano responsabili di più del 60% di tali emissioni all'interno del segmento. Come spiegare allora che esseri così ingegnosi e riflessivi - pur sapendo che le loro macchine da compagnia erano responsabili della morte di una persona ogni cinque secondi, producevano frustrazione e stress, congestionavano gli spazi e avevano una rilevanza speciale nella catastrofe climatica che stava arrivando - continuavano a trattarle come se niente di tutto ciò fosse importante?
L'auto è nata per essere un prodotto di lusso. La sua invenzione aveva lo scopo di fornire ai ricchissimi borghesi un privilegio fino a prima inaudito: viaggiare ad una velocità maggiore degli altri. Fino alla fine del XIX secolo, l'élite poteva godere di molti vantaggi, ma il tempo che passavano viaggiando era abbastanza simile a quello della gente comune. L'automobile emerse per trasformare in una merce differenziata qualcosa che prima non si poteva comprare: il tempo. Investendo il proprio denaro in un'automobile, il banchiere o l'industriale riusciva a risparmiare tempo. Inoltre, guadagnava anche un nuovo elemento di distinzione rispetto alla plebe, insieme alla sensazione di potere che l'estensione del corpo in una macchina motorizzata fornisce. Come ha osservato André Gorz, il lusso «è impossibile da democratizzare: se tutti accedono al lusso, nessuno ne trae profitto». Il filosofo franco-austriaco paragona le automobili ai castelli e alle ville sulla spiaggia: «A differenza dell'aspirapolvere, della radio o della bicicletta, che conservano il loro valore d'uso quando tutti ne hanno una, l'automobile, come una villa sul mare, appare desiderabile e vantaggiosa solo nel momento in cui le masse non ne hanno una». Ecco che in questo modo, allora la storia dell'automobile riguarda l'universalizzazione di tutto ciò che è nato per essere ristretto e limitato: un processo che è stato portato avanti per oltre cento anni, con enorme successo per quanto riguarda gli obiettivi di vendita, e nonostante i risultati sempre peggiori per quel che attiene la realizzazione del valore propostasi. Chiamiamolo pure il malessere dell'auto: il divario, tra le promesse fatte e le consegne effettive ai nuovi proprietari, cresce man mano che l'auto si universalizza. Più auto si comprano, sempre meno vengono soddisfatti i desideri che ne motivano l'acquisto. Ciò nonostante, le vendite non sono mai cessate. Negli anni '70, quando Gorz scrisse "L'ideologia sociale dell'automobile", c'erano circa 250.000 veicoli sul pianeta, una flotta che si è quintuplicata in meno di 50 anni. Non si tratta di una contraddizione da poco. I prodotti che non forniscono ciò che offrono rischiano di cadere in disuso. Ma la diffusione dell'automobile era però di particolare interesse per l'industria petrolifera, poiché avrebbe trasformato ogni persona in un potenziale cliente per il suo prodotto. «Per la prima volta nella storia la gente sarebbe dipesa da una fonte di energia mercificata per la sua mobilità», ricorda Gorz, sottolineando che «il sogno di ogni capitalista stava per diventare realtà: tutti sarebbero dipesi per i loro bisogni quotidiani da una merce monopolizzata da una sola industria». La strategia utilizzata per affrontare il malessere dell'automobile è stata quella di rendere necessario il superfluo. E lo strumento usato è stato l'Urbanistica: aprire ampi viali, costruire viadotti, diffondere le città in nuovi quartieri periferici. L'espansione delle infrastrutture stradali urbane ha indotto più auto; l'aumento delle auto ha reso i centri delle città sempre più inospitali; mentre i nuovi quartieri in periferia e i condomini offrivano una maggior qualità di vita - per coloro che avevano un'auto! L'urbanistica automobilistica ti colpiva con una mano mentre ti offriva la benda per curarti con l'altra.
Nel suo libro del 1974, "Energia ed equità", il filosofo Ivan Illich ha cercato di comprendere quale fosse l'equazione energetica alla base di tale dinamica, offrendo l'ipotesi secondo cui, oltre un certo livello di energia e di velocità, «la potenza meccanica esercita un effetto di corruzione» sulla società: «Quando si supera un certo limite di velocità, i veicoli a motore producono delle distanze che solo loro possono ridurre. Producono distanze a spese di tutti, ma le riducono solo a beneficio di pochi».
Cercare di far parte del club selezionato che ha ridotto le distanze è stata, naturalmente, un'impresa che ha coinvolto massicciamente le persone. Avere un'auto è diventata una necessità, non solo per chi voleva vivere «vicino alla natura», ma anche per tutti coloro che volevano vivere decentemente in città, per muoversi e accedere ai servizi. Chi non aveva un'auto poteva continuare a soffrire in dei centri urbani inquinati e rumorosi (grazie alle auto!), poteva camminare in zone distrutte dai lavori stradali, poteva dipendere dalle lunghe attese di un autobus per arrivare in posti dove non doveva andare prima.
Jane Jacobs, nel suo libro seminale "Death and Life of Big Cities", pubblicato nel 1961, ha chiamato questo processo «l'erosione delle città da parte delle automobili» . A causa della congestione dei veicoli, una strada viene allargata qui, una strada viene raddrizzata là, un ampio viale viene trasformato in una strada a senso unico, vengono installati dei semafori per far scorrere velocemente il traffico, vengono duplicati i ponti quando la loro capacità è esaurita, viene aperta una superstrada là, e infine una rete di superstrade. Sempre più terreni diventano parcheggi per ospitare il numero sempre crescente di automobili quando esse non sono in uso.
L'anno successivo alla pubblicazione del libro della Jacobs, Anthony Downs formulò la "Legge Fondamentale della Congestione". L'economista ed ex professore dell'Università di Chicago ha dimostrato, in un documento, che la domanda di automobili nei centri urbani è elastica, in modo che l'aumento dell'offerta di corsie induce un aumento della domanda, rendendo nullo il guadagno desiderato relativo al miglioramento del traffico. In altre parole, è stato dimostrato empiricamente nel 1962, che non importa quanti viali, viadotti e superstrade siano stati costruiti; il risultato sarebbe stato comunque che la nuova infrastruttura si sarebbe riempita in pochi anni, riportando il traffico alla sua velocità precedente. Ricerche successive hanno confermato il postulato di Downs e fino ad oggi nessuno lo ha mai confutato.
L'erosione, invece, ha funzionato molto bene, grazie mille! Il peggioramento delle condizioni dei pedoni e del trasporto pubblico ha aumentato la domanda di automobili, in un processo di feedback infinito. Così, l'universalizzazione del progetto dell'automobile è stata vittoriosa non per le promesse iniziali che offriva, come la responsabilizzazione, la distinzione e la velocità, ma piuttosto per il danno che la sua attuazione ha causato alle altre forme di mobilità e alla vita urbana, rendendo l'acquisto di un'automobile il modo migliore per sfuggire ai problemi generati dall'eccesso di automobili.
Non è difficile identificare quali sono le conseguenze sociali e politiche di questa operazione. Si tratta una soluzione individuale la cui adozione contribuisce a peggiorare, nella sfera collettiva, il problema che voleva risolvere. C'è in essa una necessaria trascuratezza della collettività. Poiché la domanda individuale di fuga dai problemi delle città prevale sugli impatti collettivi che la scelta genera, sono pochi coloro che percepiscono chiaramente la contraddizione del gesto. È difficile che gli automobilisti si sentano responsabili di morti nel traffico che non sono state causate dai loro veicoli, dell'espansione urbana, del degrado dei centri urbani o dell'inquinamento dell'aria rispetto alla quale la loro partecipazione è relativamente piccola.
Ma l'automobilista sa che la sua macchina significa l'acquisizione di un vantaggio che la maggioranza non può avere. Così la diffusione dell'automobile ha promosso, per tornare ad André Gorz, il «trionfo assoluto dell'ideologia borghese sul piano della pratica quotidiana: essa costruisce e mantiene in ciascuno l'illusoria convinzione secondo cui ogni individuo possa prevalere e trarre dei vantaggi a spese di tutti».
L'ideologia individualista che germoglia dall'automobile, deriva da un problema fondamentale di spazio. Nello stesso spazio dove un autobus porta comodamente 45 persone, due automobili ne portano in media tre. In territori densamente popolati, questa inefficienza esige l'esclusivismo. Gli autisti capiscono che ogni nuova auto sulle strade peggiora le condizioni del traffico e, in fondo, sperano che gli altri non raggiungano ciò che loro sono stati in grado di acquisire. Così il disagio della macchina fomenta, oltre alle frustrazioni per le promesse non mantenute, la guerra intima contro gli altri e il desiderio di mantenere un posto di privilegio.
La cosa inversa, avviene con il trasporto pubblico. Viaggiare da soli in un autobus non porta grandi vantaggi. Fino a che non si raggiunge il limite della saturazione, ogni nuovo utente che entra nel veicolo non è un fastidio. Al contrario, in condizioni di buona gestione, significa una riduzione della tariffa pagata da ciascuno, dato che più persone iniziano a contribuirvi. Se sempre più persone adottano il trasporto pubblico, questo porta all'espansione dell'offerta di orari, che riduce l'attesa alle fermate.
Così, per mantenere ciò che promette, l'auto promuove l'individualismo e richiede disuguaglianza, mentre il trasporto pubblico produce collettività e richiede condivisione. Mentre il sogno dell'autista è quello di ridurre il numero di auto sulle strade - tranne la propria -, il sogno dell'utente del trasporto collettivo è quello di aumentare il numero di viaggiatori al limite del comfort; cosa che riduce il costo, aumenta la sicurezza e la qualità.
In generale, quanto più un modo di trasporto è compatto ed economico nello spazio e nel consumo di energia, tanto maggiore è il suo potenziale per un'equa universalizzazione. Secondo Illich, «per far sì che 40.000 persone attraversino un ponte in un'ora a 25 km/h, il ponte deve essere largo 138 metri se le persone viaggiano in auto, 38 metri se viaggiano in autobus, e 20 metri se camminano. D'altra parte, se vanno in bicicletta, il ponte deve essere largo solo 10 metri».
Dal momento che lo spazio nelle città è limitato, il fattore che cambia di più nell'equazione è di fatto il tempo. Seguendo l'esempio, le 40.000 persone che attraversano un ponte largo 10 metri impiegherebbero un'ora in bicicletta, due ore a piedi, quattro ore in autobus e quattordici ore in macchina. Il tempo che i borghesi dell'inizio del XX secolo hanno guadagnato appare irrisorio se paragonato a quello che viene sottratto a tutta la società con l'universalizzazione del suo prodotto esclusivo. Nei termini di Illich, una volta «superata la barriera della velocità critica in un veicolo, nessuno può guadagnare tempo senza obbligatoriamente farlo perdere a un altro».
La pressione che il modello automobilistico esercita sui conducenti rende il traffico una guerra di tutti contro tutti, più o meno controllata da norme e leggi. Nelle fragili culture democratiche, la civiltà perde la spinta individualista. Le regole del traffico, così come le altre auto, vengono viste come un ostacolo alle promesse di responsabilizzazione e velocità che sono state vendute al guidatore. Questo si traduce, per esempio, nell'odio diffuso verso gli autovelox e in un certo discorso di accomodamento che circola in Brasile per quella che è l''«industria delle multe». Se i desideri che l'ottenimento di un'automobile dovrebbe soddisfare sono resi irrealizzabili dalla realtà, ecco che allora il misfatto diventa giustificato: gli automobilisti non si fermano ai semafori, sorpassano sul lato sbagliato della strada, superano il limite di velocità. In Brasile, questa cultura della trasgressione socialmente legittimata si traduce in uccisioni su scala delle guerre civili. Ci sono 117 persone uccise in incidenti stradali al giorno nella media di questo decennio - e molte altre che in seguito patiscono conseguenze per il resto della loro vita.
Non a caso, l'autoritarismo politico si incontra con la violenza automobilistica. Da molto tempo fa parte della piattaforma politica di Jair Bolsonaro, alimentare l'indignazione contro qualsiasi forma di controllo del traffico. Eletto presidente della Repubblica, questo criminale da record ha lavorato per spegnere i radar, allentare le leggi e aumentare la tolleranza verso i trasgressori. I numeri cominciano già a mostrare che l'attuazione di queste politiche peggiorerà dell'altro la carneficina sulle strade del paese. Qui vale la pena sottolineare qualcosa che il bolsonarismo illustra assai bene: la relazione intrinseca e strutturale tra patriarcato e automobilismo. L'auto non è nata per essere un prodotto di lusso di qualcuno, ma di banchieri e di industriali. La sua diffusione non ha incontrato alcun interesse, se non quelli di alcuni miliardari del Nord globale. Dal magnate del petrolio a Henry Ford, da un urbanista come Le Corbusier ai piloti di Formula Uno, i personaggi che hanno approfittato o favorito la diffusione dell'automobile sono uomini, per lo più bianchi, alcuni molto ricchi, nessuno di loro povero. La diffusione sociale dell'automobile si è strutturata intorno alla famiglia patriarcale: il padre che va al lavoro in macchina, la donna che si occupa della casa. Erano e sono soprattutto gli uomini a possedere e guidare queste macchine esclusiviste, che fanno così tanto male ai territori dove prosperano. Da questa prospettiva, è più facile capire come una simile aberrazione sia stata imposta socialmente: si è sempre trattato dell'affermazione del potere maschile e finanziario, a dispetto della collettività. Qui, l'argomento di Illich, secondo cui il guadagno di alcuni viene pagato dalla perdita di altri, assume dei contorni più chiari. Gli alcuni e gli altri vengono definiti e ricevono un nome. I dati mostrano una chiara relazione tra il tempo trascorso nel traffico, il sesso, il colore della pelle e la classe sociale. Più si è ricchi, meno tempo si perde. Le donne povere, per lo più nere, abitanti delle periferie più lontane della città generate dalla diffusione delle automobili e utenti prigionieri dei precari sistemi di trasporto pubblico, sono quelle che passano più tempo a fare i pendolari. Oggi, in Brasile, le donne rappresentano poco più di un terzo delle persone con una patente di guida, ma sono responsabili di una minima parte degli incidenti e delle morti. Secondo i dati della polizia statale di San Paolo, analizzati dalla ONG InfoSiga, solo il 6,4% degli incidenti gravi nello stato si è verificato con le donne al volante nel 2017, rispetto a quasi il 94% degli uomini. La cultura dell'auto dà sfogo e favorisce le cosiddette mascolinità tossiche: soggettività individualiste, irresponsabili e oggettivanti dell'altro, alla ricerca del piacere a tutti i costi, cosa a partire dalla quale molti hanno a lungo investito sull'auto come mezzo di potere, distinzione e violenza. La trasmutazione dell'automobile da superflua a necessaria, è avvenuta non solo nella prospettiva individuale, ma anche nell'economia dei paesi. La crescita economica che si è verificata dopo la fine della seconda guerra mondiale ha avuto nell'industria automobilistica uno dei suoi pilastri principali. Richiedendo una catena di attività che vanno dall'estrazione mineraria alla fabbricazione di componenti, dall'estrazione del lattice a tutta la rete di servizi di manutenzione, l'automobile è diventata uno straordinario motore di attività economica. Il successo delle vendite di automobili è diventato sinonimo di buone prestazioni del prodotto interno lordo. In questo modo, il progetto dell'universalizzazione dell'automobile ha trionfato in quello che era il suo secondo campo di battaglia. I governi di tutto il mondo, sensibili alle tendenze delle economie dei propri paesi, divennero così sempre più dipendenti dall'industria automobilistica e dei carburanti, che il tutto si tradusse nelle sovvenzioni economiche. Secondo uno studio degli economisti del Fondo Monetario Internazionale, le sovvenzioni ai combustibili fossili in 190 paesi hanno totalizzato 4,7 trilioni di dollari nell'anno 2015. Anche i sussidi all'industria automobilistica sono enormi. In Brasile, dal 2008 al 2019, i vari programmi di incentivi per l'industria - IPI Zero, Inovar Auto, Rota 2030 - hanno contribuito con circa 35 miliardi di Reais in sussidi alle case automobilistiche. Tali sussidi sarebbero giustificati a partire dai benefici economici prodotti dall'industria automobilistica. Tuttavia, il calcolo dei benefici raramente considera le esternalità - nome dato in economia a quelli che sono i diversi impatti "esterni" prodotti da una decisione o dall'adozione di un prodotto. L'uso stesso di questo termine denota il punto di visto parziale della logica economica dominante, poiché le attività considerate produttive (commercio di materie prime, pagamento dei salari, risultati di vendita, servizi) vengono contabilizzate nel bilancio economico del segmento, mentre i costi pagati dalla società nel suo insieme, vale a dire in ingorghi, incidenti, inquinamento, manutenzione delle corsie, tra le altre cose, non rientrano nei calcoli economici che costituiscono il dibattito sociale.
Dal momento che non abbiamo alcuna notizia di un luogo, in questo vasto mondo, laddove il traffico automobilistico esista senza tali impatti, ecco che allora diventa necessario considerarli inerenti al modello. E inoltre, questo non chiude il conto dell'automobile: i costi delle esternalità superano di gran lunga i guadagni economici della catena di produzione.
Secondo i dati del Ministero dell'Economia, nel 2015, la sommatoria delle vendite di auto e di ricambi auto, in Brasile, ha portato a 59 miliardi di Reais, mentre le tasse raccolte sono state 39 miliardi. Tuttavia, secondo una stima fatta dall'Istituto di ricerca economica applicata e la polizia federale autostradale, soltanto gli incidenti stradali hanno generato, quello stesso anno, un costo di 40 miliardi di Reais in spese ospedaliere, perdita di produttività, perdite materiali e istituzionali (senza contare le vite perse, non monetizzabili).
Nel suo libro già citato qui, Ivan Illich affermava che «nessuno studio evidenzia i costi indiretti del trasporto». È vero. Il primo sforzo un po' più ampio per misurare i costi sociali del trasporto, è stato svolto dall'economista di Berkeley Theodore E. Keeler, il quale pubblicò i risultati in "The Full Costs of Urban Transport", nel 1975.
Keeler ha confrontato i diversi costi del pendolarismo in auto, autobus e treno nella regione di San Francisco, in California. Il suo studio menziona già la presenza di costi interni (relativi agli utenti) e di costi esterni (che hanno un impatto sulle altre persone); di costi di mercato (che possono essere immediatamente misurati) e di costi non di mercato (che invece richiedono stime), per un totale di dieci costi quantificati. La più completa e recente revisione bibliografica sull'argomento, effettuata da Todd Litman al Victoria Transport Policy Institute, quantifica un totale di 23 costi (diciassette esterni e sei interni).
L'indagine di Litman ha elencato più di 40 studi che confrontavano i costi e i benefici dei diversi modi di trasporto, e ha elencato per ognuno di essi quali attributi sono stati analizzati - come il tempo perso, gli incidenti, l'occupazione del territorio da parte di autostrade e parcheggi, la manutenzione delle strade, l'inquinamento dell'aria, il cambiamento climatico, il rumore e le vibrazioni e l'espansione urbana, tra gli altri.
Misurare tutti questi elementi non è semplice. Per stimare il costo dell'inquinamento atmosferico, per esempio, bisogna calcolare quali sono i costi del trattamento sanitario per le varie malattie respiratorie e cardiovascolari, la perdita di produttività sociale, la sporcizia urbana, il degrado di edifici e monumenti a causa dell'anidride solforosa, oltre ai gravi effetti a catena prodotti dal cambiamento climatico (anche un paese impegnato a ridurre le emissioni di gas serra - come la Germania - a causa delle automobili, che diverranno presto la sua principale fonte di emissioni, non raggiungerà l'obiettivo del 2020.
La maggior parte delle misurazioni sono state effettuate nei paesi del mondo ricco. In Brasile, c'è ancora molto da fare. Un calcolo fatto dall'Associazione nazionale del trasporto pubblico, ANTP, ha stimato in 483 miliardi di Reais i costi socioeconomici della mobilità urbana nell'anno 2016, la maggior parte di loro generati dalle automobili. La stima include solo tre costi esterni (rumore, inquinamento atmosferico e incidenti) su un totale di 17 elencati nell'articolo di Litman, ragion per cui questa cifra è certamente sottostimata.
Ci sono impatti che appaiono essere minori, ma che influenzano ugualmente la vita in maniera rilevante. Il flusso di veicoli compromette le interazioni quotidiane e la vita dei pedoni attraverso quelli che sono spesso chiamati effetti barriera. Una ricerca condotta negli anni ‘60 dall'urbanista americano Donald Appleyard, ha confrontato tre strade con tipologie di edifici simili a San Francisco - una con traffico pesante, una con traffico medio e una con poco traffico. Sulla base delle interviste, il ricercatore ha scoperto che i residenti delle strade a traffico leggero (2.000 auto al giorno) avevano tre volte più interazioni con i vicini rispetto ai residenti delle strade a traffico pesante (8.000 auto al giorno). Qual è il costo di avere meno conversazioni con i vicini? La questione evidenzia come l'uso egemonico degli indicatori economici finisca poi per definire ciò che nel dibattito pubblico riceve o meno attenzione, escludendo tutto ciò che non può essere finanziato. Come disse il sociologo William Bruce Cameron, in una frase erroneamente attribuita ad Albert Einstein, «non tutto ciò che può essere contato conta, e non tutto ciò che conta può essere contato». I costi sociali dell'automobile sono molto più grandi di tutto quello che si può contare.
Una grande azienda presenta un'invenzione. Il nuovo prodotto è il risultato dell'applicazione di tecnologie all'avanguardia, presenta caratteristiche ingegneristiche e di design straordinarie, genera comfort e piacere per i suoi futuri utenti. Dopo aver esaltato tutte queste virtù, i presentatori del prodotto, in uno slancio di sincerità, si lasciano scappare l'avvertimento che «sarà responsabile della morte di milioni di persone ogni anno, oltre a notevoli impatti sulla salute collettiva, sul territorio urbano e sul consumo di tempo delle persone». Quale sarebbe la reazione sociale all'invenzione? Il dibattito sulle automobili ha bisogno di una tale prospettiva. Più di cento anni di diffusione dell'automobile ci hanno fatto credere che queste macchine nate superflue sono, più che necessarie, inevitabili. Abbiamo naturalizzato un'aberrazione e oggi non sappiamo vivere senza. Continuiamo in un'inerzia suicida. Chiudi gli occhi e pensa al lontano futuro. Lì, tutti i veicoli a motore individuali del pianeta sono stati eliminati. Ora è possibile sentire il suono degli uccelli, delle persone che camminano, il dolce scivolare dei tram e degli autobus elettrici, senza l'inferno dei motori a combustione e dei clacson. Milioni di chilometri quadrati di strade, che occupavano circa un quarto dello spazio delle città, sono stati trasformati in piazze, giardini, parchi, fiumi rinaturalizzati, case popolari, biblioteche, club pubblici, scuole. Possiamo respirare di nuovo aria pulita, possiamo muoverci in sicurezza in bicicletta o a piedi, possiamo parlare con i nostri vicini all'ombra degli alberi in mezzo alle strade. Abbiamo recuperato il tempo prezioso che passavamo viaggiando e abbiamo iniziato a utilizzarlo nella nostra vita sociale, negli incontri con gli amici e la famiglia, nelle attività di svago o nel puro divertimento. Di conseguenza, la salute della popolazione è migliorata notevolmente, riducendo la pressione sul sistema sanitario pubblico, che è stato in grado di migliorare la sua risposta a situazioni inevitabili. L'enorme guadagno di efficienza nei viaggi è stato perfezionato grazie all'uso razionale di alcuni veicoli elettrici per il trasporto di persone anziane o malate, residenti di zone rurali, il trasporto di cibo e di prodotti in generale. Per la prima volta in un secolo, siamo riusciti a ridurre le emissioni di gas serra. Racconteremo con orgoglio ai nostri nipoti come abbiamo intrapreso questo cambiamento, che a loro potrà anche sembrare banale, ma che ha richiesto un grande sforzo collettivo per superare un vizio sociale che serviva ad alimentare la ricchezza di pochi. L'economia ha scoperto altre catene di produzione, stavolta finalizzate al benessere collettivo. Il solo riciclaggio dei materiali di più di un miliardo di automobili ha smosso interi settori, per non parlare della massiccia fabbricazione di tram, treni, metropolitane, autobus elettrici e biciclette. Le città vengono rimodellate, alla ricerca della coesistenza tra le varie forme di vita e la gestione rispettosa delle risorse naturali. Tutto questo avviene in concomitanza con un grande processo di cambiamento politico e sociale, in cui l'individualismo orientato all'auto, il quale genera esclusione e violenza, è stato sostituito dalla condivisione dei ciclisti e del trasporto pubblico, che genera solidarietà. Milioni di vite sono state risparmiate. Se vivessimo ancora in un mondo dominato dall'imperativo delle automobili - oggi, solo nel tempo che avete impiegato a leggere questo testo - 500 persone sarebbero morte per incidenti stradali e inquinamento atmosferico. Ora vanno avanti con le loro vite, si occupano dei loro figli, giocano con i loro genitori, fanno piani per il futuro, sognano i loro amori, curano il giardino.
- Roberto Andrés - Pubblicato originariamente su PISEAGRAMA, Belo Horizonte, número 14, página 92 - 99, 2020.
fonte: Outras Palavras
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