martedì 5 ottobre 2021

Fare cose, vedere posti ...

Vandali
- di Theodor Adorno -

Le manifestazioni di nervosismo, di agitazione e di instabilità che sono state osservate fino dall’epoca della formazione e dello sviluppo delle grandi città, si diffondono ora in forma epidemica come accadeva un tempo per la peste e il colera. Nel corso di questo processo si manifestano forze e tendenze di cui i passanti frettolosi del diciannovesimo secolo non avevano ancora la minima idea. Tutti devono avere continuamente qualcosa da fare, devono coltivare e portare avanti qualche progetto. Il tempo libero deve essere consumato e utilizzato fino in fondo. Esso viene programmato, impiegato in iniziative di vario genere, speso a partecipare a tutte le manifestazioni e ad assistere a tutti gli spettacoli possibili, o anche solo negli spostamenti più rapidi possibili da un luogo all’altro. Tutto ciò non può fare a meno di proiettare la sua ombra sul lavoro intellettuale. Esso viene eseguito, ormai, quasi con un senso di colpa, come se il tempo dedicato ad esso fosse rubato ad altre occupazioni urgenti, anche se, magari, puramente immaginarie. E allora, per giustificarsi di fronte a se stesso, esso adotta il piglio dell’attività febbrile, dello sforzo frenetico, dell’impegno professionale soggetto a scadenze precise e continuamente ossessionato dalla mancanza di tempo: un atteggiamento che è di ostacolo a qualsiasi riflessione e quindi, in ultima istanza, al lavoro intellettuale stesso. A volte si ha l’impressione che gli intellettuali riservino, alla loro produzione intellettuale vera e propria, solo e strettamente le ore che restano loro libere dagli impegni, dalle uscite, dagli abboccamenti e dagli svaghi inevitabili. Addirittura repellente, eppure in un certo senso logico, è il fenomeno dell’ulteriore aumento di prestigio di cui beneficia chi è in grado di figurare come un personaggio così importante da dover essere presente in ogni occasione. Costui organizza e stilizza la propria vita, con una affettazione intenzionalmente mal simulata di fastidio, come un unico acte de présence. La gioia con cui declina un invito facendo presente di averne già accettato un altro segnala il trionfo riportato nella concorrenza. Come in questo caso, le forme del processo produttivo si ripetono universalmente nella vita privata e nei settori di lavoro che, di per se stessi, non sono assoggettati a quelle regole. Tutta la vita deve assumere l’aspetto dell’attività professionale e nascondere accuratamente, con questa somiglianza artificiosa, ciò che non è ancora direttamente finalizzato al guadagno. Ma l’angoscia che si manifesta in questo atteggiamento non è che il riflesso di un’inquietudine e di un disagio molto più profondo. Le innervazioni inconsce, che, al di là dei processi intellettivi coscienti, accordano l’esistenza individuale al ritmo della storia, non possono fare a meno di avvertire la collettivizzazione del mondo che si approssima. Ma dal momento che la società integrale, invece di risolvere positivamente in sé i singoli, li comprime e li salda in una massa docile e amorfa, ogni individuo singolo è preso dal panico di fronte alla prospettiva – sentita come ineluttabile – di essere risucchiato e inghiottito dalla totalità. «Doing things and going places» è un tentativo del sensorio di sviluppare una sorta di barriera protettiva che lo renda insensibile e refrattario alla collettivizzazione incombente, di allenarsi, per così dire, ad essa, in quanto ci si esercita ad agire come membri della massa proprio nelle ore apparentemente riservate alla libertà e lasciate alla discrezione del singolo. La tecnica di questo procedimento consiste nel rincarare, se possibile, la minaccia (nell’essere, per così dire, più realisti del re). Si vive, in un certo senso, ancora peggio, e cioè con una soggettività ancora più ridotta, con un grado ancora minore di io, di quanto ci si aspetta di dover vivere. Nello stesso tempo si impara, eccedendo volontariamente e per gioco nella rinuncia a se stessi, che vivere sul serio senza io potrebbe riuscire, per il soggetto, non già più penoso, ma, al contrario, più facile e riposante. In tutto questo si procede senza perdere tempo, poiché il terremoto, si sa, non è annunciato dalle campane. Se non si collabora, e cioè se non si nuota fisicamente e di persona nella corrente dei propri simili, si teme (come iscrivendosi troppo tardi al partito unico nei regimi totalitari) di perdere l’autobus e di esporsi così alla vendetta del collettivo. La pseudo-attività è una forma di contro-assicurazione, l’espressione della propria disposizione a far getto di sé, con cui solo si ha l’impressione di potersi garantire ancora, in qualche modo, la propria possibilità di conservazione. La prospettiva della sicurezza si affaccia solo nell’adattamento all’estrema insicurezza. Essa è concepita come un salvacondotto per la fuga che ti porta da un luogo all’altro nel più breve tempo possibile. Nell’amore fanatico e sviscerato per le automobili vibra la sensazione, sempre presente, della mancanza fisica di riparo e di domicilio. Questo sentimento è alla base di quella che i borghesi chiamavano un tempo, impropriamente, la tendenza a fuggire da se stessi, dal proprio vuoto interiore. Chi vuol partecipare, chi vuol andare con gli altri, non può pretendere di distinguersi da loro. Il vuoto psicologico è già di per se stesso l’effetto della falsa integrazione sociale dell’individuo, e la noia da cui gli uomini fuggono non fa che rispecchiare il processo della fuga in cui sono impegnati da tempo. È solo per questo che l’apparato ipertrofico e mostruoso dell’industria dei divertimenti si mantiene in vita e continua ad estendersi e a dilatarsi sempre di più, nonostante che nessuno ci provi il minimo gusto. Esso incanala, per così dire, l’impulso irresistibile ad essere della partita, che, senza di esso, non potrebbe fare a meno di rovesciarsi, in modo anarchico e indiscriminato, nelle forme della promiscuità sessuale o dell’aggressione selvaggia, direttamente addosso al collettivo, anche se questo poi, a ben vedere, non è composto di altri che di quelli che sono in giro. La categoria a cui assomigliano di più è quella dei tossicomani. Il loro impulso reagisce esattamente alla dislocazione in atto dell’umanità, che va dalla torbida confusione dei confini fra città e campagna, e dalla liquidazione della casa, attraverso le carovane di milioni di disoccupati, fino alle deportazioni e ai trasferimenti di popolazioni nel continente europeo devastato dalla guerra. Visto retrospettivamente, il carattere vuoto e inconsistente di tutti i rituali collettivi, a cominciare da quello del movimento giovanile dell’inizio del secolo, appare quasi come un’anticipazione, ancora incerta ed esitante, delle micidiali batoste storiche che sarebbero venute in seguito. Gli innumerevoli individui che, in schiere compatte, soccombono improvvisamente, come a una droga, alla propria quantità e mobilità astratta, al bisogno di cambiare di posto e di mutare di sede, sono le reclute della nuova migrazione dei popoli, nei cui spazi deserti e imbarbariti la storia borghese si accinge a finire i suoi giorni e a esalare l’ultimo respiro.

(Theodor Adorno, da “Minima Moralia”)

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