sabato 31 marzo 2018

Una vita

marx-200-1

Marx 200: un nuovo libro
- di Michael Roberts -

Il mio nuovo libro è pronto. Si intitola "Marx 200" -  A review of Marx’s economics 200 years after his birth". Il 5 maggio cadrà il duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx, ed ho pensato che poteva essere utili tentare di spiegare le idee economiche di Marx e la loro rilevanza per l'economia moderna, 200 anni dopo la sua nascita.
Perciò, in questo libro, sostengo che Marx ha sviluppato quelle che sono tre leggi fondamentali della dinamica del capitalismo, intorno alle quali si può arrivare a comprendere una chiara analisi della natura dell'economia moderna. Da queste leggi, possiamo arrivare a capire come e perché il capitalismo non possa arrivare a sfuggire all'essere soggetto a regolari e ricorrenti crisi; come e perché provochi una feroce rivalità fra gli Stati nazionali che portano a delle guerre perpetue; e come e perché generi l'utilizzo incontrollato e dispendioso delle risorse naturali, che ora minaccia di distruggere il pianeta stesso.
Le leggi di Marx ci dicono che il capitalismo non si trova qui per rimanerci in eterno, ma ha un'esistenza finita. La domanda che 200 anni dopo la nascita di Marx ci troviamo di fronte è quale sarà il modo di produzione e l'organizzazione sociale per gli esseri umani che vivono su questo pianeta?
Lo sviluppo del pensiero economico di Marx può essere visto come diviso in quattro parti: quello dell'infanzia; della giovinezza; della maturità; del Marx vecchio.

Negli anni della sua adolescenza, si trova sotto l'influenza del padre e dell'amico di suo padre, il conte Von Westphalen. Sono entrambi uomini dell'Illuminismo, seguaci degli ideali dei filosofi francesi e della rivoluzione francese. Marx è nato subito dopo la fine delle cosiddette guerre napoleoniche e siamo all'inizio di una graduale ripresa economica dei piccoli statarelli tedeschi. Quando Marx va all'università, alla fine degli anni 1830, le sue opinioni sono quelle di un democratico radicale, è uno di quei "giovani hegeliani" che sono filosoficamente contrari alla superstizione religiosa e all'autocrazia.
Il periodo che vede il giovane Marx nel momento in cui lascia l'università senza alcun incarico accademico, in Europa coincide con un incremento del radicalismo delle idee e dell'azione politica. La Gran Bretagna si trova nel bel mezzo della "rivoluzione industriale", con tutta la sua espansione di macchinari e di merci, che si accompagna ad un conseguente assai cupo sfruttamento del lavoro. Il "Reform Act" del 1832 ha concesso il voto alla classe media ma ora il movimento cartista della classe operaia fa pressione per ottenere tutto il pacchetto del suffragio universale.
In Germania, i lavoratori nelle città si stanno organizzando per la prima volta, e i contadini nelle campagne sono sempre più irrequieti. Economicamente, nel 1940 viene instaurata l'Unione Doganale della Germania, lo Zollverein, che mette fine alle barriere commerciali all'interno della sfera di influenza prussiana e dà inizio ad un'importante ripresa economica.

Lasciata l'università, Marx diventa un giornalista radicale ed in lui si sta formando la concezione materialista della lotta di classe. A partire dall'incoraggiamento del suo nuovo amico, che rimarrà tale per tutta la vta, Friedrich Engels, comincia a nutrire interesse per gli sviluppi economici. Engels vive nel cuore del Capitale, in Gran Bretagna, nell'industriale Manchester, e sta già scrivendo a proposito delle conseguenze economiche e sociali dello sviluppo capitalistico. Marx ed Engels diventano comunisti, un'ideologia progettata per sostituire il capitalismo come modo di produzione e come organizzazione sociale attraverso il controllo comunale, che a tal scopo ha la classe operaia come "becchini" del capitalismo. Nel 1848 (Marx ha 29 anni) scrivono Il Manifesto Comunista, subito poco prima dello scoppiare in tutta Europa delle rivoluzioni contro l'autocrazia. Il Manifesto riconosce in maniera intuitiva la natura del capitalismo, ma lo fa senza esporre una qualche legge economica  relativa alla sua dinamica.

La sconfitta delle rivoluzioni del 1848 e il definitivo esilio di Marx in Gran Bretagna, apre il periodo del Marx maturo (nel 1850, ha 32 anni) e dura fino alla sconfitta della Comune di Parigi nel 1871 (a 53 anni). Questo periodo risulterà poi per essere stato quello del lungo boom delle economie europee. La Gran Bretagna è la potenza economica e politica dominante, ed è quindi il miglior posto da cui studiare l'economia del capitalismo. Il boom ha mostrato a Marx e ad Engels che non esistono scorciatoie per la rivoluzione, e che il capitalismo ha ancora da percorrere un po' di strada in tutto il mondo. La prima crisi internazionale, nel 1857, non porta al collasso del capitalismo o alla rivoluzione. Marx si concentra sull'organizzazione del primo partito internazionale della classe operaia (l'Associazione Internazionale dei Lavoratori) e sulla stesura della sua principale opera, Il Capitale.
La sconfitta della Comune di Parigi, nel 1871, seguita dal panico finanziario e dalla crisi del 1873 negli Stati Uniti, che si diffonde anche in Europa, segna l'inizio della fase finale della vita di Marx. Ed è anche l'inizio di quella che verrà definita la (prima) Grande Depressione, in cui le maggiori economie capitaliste lottano per riprendersi dal collasso e diventano il soggetto di tutta una serie di crisi. Si trattava di una dimostrazione delle leggi della dinamica di Marx. Marx muore nel 1883, nel pieno dell'ultima crisi in Gran Bretagna.

Dopo la sua morte, Marx era rimasto un'oscura figura del pensiero economico e politico, tranne che nelle cerchie dei leader dei fiorenti partiti socialdemocratici d'Europa, dopo che ebbe fine la Grande Depressione. In questo nuovo periodo di ripresa economica, negli anni 1890, i lavoratori non specializzati avevano formato sindacati, e le organizzazioni della classe operaia avevano costruito partiti politici di massa, con un crescente potere di voto. Le idee di Marx ora erano assai più diffuse. Nel 1917, la vittoria dei "Bolscevichi" socialdemocratici nella rivoluzione russa collocava perciò l'opera di Marx ed Engels sul palcoscenico mondiale per tutto il XX secolo.
Il libro ripercorrerà le idee economiche di Marx e vedrà quanto esse siano rivelanti per il XXI secolo.

- Michael Roberts - Pubblicato il 27/3/2018 su Michael Roberts Blog - blogging from a marxist economist -

venerdì 30 marzo 2018

Per Moishe Postone

Moishe postone

Per Moishe Postone
- di Jacob Blumenfeld -

Ho incontrato per la prima volta il libro di Moishe Postone sull'antisemitismo all'inizio degli anni 2000, ma è stato solo intorno al 2008-2009, quando gli Stati Uniti erano preda della crisi finanziaria, che il suo pensiero su Marx, sul capitalismo, e sul valore mi hanno davvero cominciato a colpire. Ricordo di aver fatto delle fanzine in cui pubblicavo pezzi dal suo libro "Critica e Trasformazione Storica", e le distribuivo a New York City agli studenti, agli attivisti, e agli amici, nella speranza di riuscire a dare l'avvio ad un dibattito sulla crisi che fosse più critico . Il punto era quello di riuscire ad andare oltre le superficiali analisi del "capitalismo clientelare" e vedere la totalità del capitale come una dinamica del valore auto-mediante soggetta alla crisi che non può essere semplicemente contrapposta al valore. Inoltre, la teoria critica di Postone sfidava quelli di noi che si erano politicizzati nel movimento "anti-globalizzazione" e nel movimento contro la guerra della fine degli anni '90 e dei primi anni 2000.
Per prendere seriamente la critica del capitale che proponeva Postone, si richiedeva un nuovo orientamento nei confronti della politica e della lotta di classe che avrebbe superato i limiti dell'identità del consumatore, delle agende nazionaliste, dei sogni keynesiani, e le opposizioni semplicistiche fra wall street e main street, fra il capitale finanziario ed il capitale industriale. Per alcuni di noi, Postone non era andato abbastanza lontano nell'inseguire le proprie intuizioni teoriche. Nessuno dei "nuovi movimenti sociali" ci avrebbe salvato - come qualche volta lui aveva detto - ma lo avrebbe fatto solo una rottura radicale nella riproduzione della relazione di valore, avevamo affermato. Una tale rottura non sarebbe provenuta da dei partiti politici o dalle agende dei movimenti, ma solo dalle stesse lotte nel momento in cui sarebbero andate a cozzare contro i propri limiti e l'appartenenza di classe. Postone dubitava che una simile lotta di classe sarebbe mai riuscita a sfuggire al proprio destino di essere solo uno dei due poli della relazione di valore. Che avesse o meno ragione, non poteva essere deciso a priori, ma solamente nel corso della storia.

Nel 2011, avevo invitato Postone a parlare alla New School for Social Research a New York, per fare un intervento chiave durante una conferenza per studenti laureati in filosofia, dal titolo "Lo Spirito del Capitale: Hegel e Marx". Postone fece un'ampia lettura del ruolo che aveva avuto il concetto di Spirito nell'opera di Marx e di Lukacs. La sua critica del lavoro ebbe l'effetto di disorientare molti, così come il suo punto di vista a proposito del capitale visto come un "soggetto automatico", simile al punto di vista di Hegel a proposito della dinamica autoreferenziale dello Spirito. Dopo la conferenza, Postone menzionò il fatto che stava lavorando su tre libri: uno sul Capitale, uno sull'Olocausto, ed uno sulla Teoria Critica. Spero che un giorno questi libri vedano la luce. Nell'occasione della sua morte, offro qui quel che è un breve riassunto di alcune delle sue idee chiave su Marx, sul Capitale e sul Valore. Quello che segue è un estratto dalla mia recensione di  un libro tedesco, "Nach Marx", cui avevo contribuito.

« Moishe Postone, nel suo "Thinking Marx Anew", che fa parte di "Nach Marx" (Suhrkamp, 2013) fonda la sua critica del capitalismo sulla dinamica del valore stesso. L'articolo di Postone è forse la sintesi migliore, fino ad ora, del suo "Time, Labor, and Social Domination" (1993), un impressionante lavoro di re-interpretazione della teoria critica del capitale da Lukacs ad Habermas, svolta attraverso un rinnovato interesse per i Gundrisse di Marx e la fondamentale categoria del valore, nel Capitale. Postone comincia il suo articolo andando all'offensiva. Insieme al declino del dominio del marxismo, la caduta dell'URSS, il percorso verso il capitalismo seguito dalla Cina, la decolonizzazione globale, e la fine del movimento di emancipazione dei lavoratori, assistiamo a tutta una serie di nuovi approcci teorici quali il postmodernismo, il post-strutturalismo, il decostruzionismo ed il post-colonialismo, tutti volti a spiegare nuovamente il mondo attraverso un'enfasi sulla differenza, sulla contingenza, sull'identità e sul discorso. La recente crisi globale, tuttavia, mette in dubbio tutte queste scuole di pensiero; la scienza sociale non può spiegare l'universalità del capitalismo con i loro schemi, e neppure può farlo la tradizionale teoria critica del post-marxismo. L'ascesa universale ed il crollo dello stato sociale dopo la guerra, lo dissoluzione del fordismo Stato-centrico, la fine dell'economia pianificata e anche l'ascesa dell'ordine mondiale capitalista neoliberista non può essere spiegata per mezzo di fattori locali, politici, contingenti o culturali. Piuttosto, il capitalismo dev'essere compreso come una forma storicamente dinamica della mediazione sociale che limita universalmente la politica» (p.367).

« Per molti teorici critici, la teoria di Marx è una critica dello sfruttamento svolta dal punto di vista del lavoro, nella quale il lavoro cerca di liberare sé stesso dalle catene della modernità e diventa il principio dominante di una nuova società. Questo non solo è categoricamente sbagliato, secondo Postone, ma è dannoso per qualsiasi progetto di emancipazione. Piuttosto, il capitalismo è una forma unica di mediazione sociale che struttura la modernità. Questa forma di mediazione sociale è costituita per mezzo di una forma unica di lavoro sociale, allo stesso tempo astratto e temporale, che manifesta sé stesso nella particolare, forma quasi oggettiva del dominio. Questo dominio non può essere compreso come il dominio di una classe su un'altra classe. Queste forme di dominio sono segnate dalle categorie delle merce e del capitale; non sono statiche, ma generano una dinamica storica che è determinante per la modernità capitalista, e ne formano il suo nucleo. Per Postone, la critica di Marx non è un'affermazione del lavoro nelle società umane, ma è una critica del suo ruolo centrale in quanto storicamente specifico a questa società. Non è né oggettivista né funzionalista, poiché le categorie si riferiscono alle forme sociali storicamente specifiche della prassi, che sono simultaneamente forme sia di soggettività che di oggettività » (p.365).

Per Postone, il marxismo tradizionale si basa sulla teoria di classe dei proprietari privati che sfruttano i proletari attraverso la mediazione del mercato. Il dominio è dominio di classe, e la contraddizione strutturale è fra i rapporti di produzione (proprietà privata) e le forze produttive (lavoro). La critica svolta dal punto di vista del lavoro tenta di istituire nuove forme di proprietà collettiva sui mezzi di produzione. Per Postone, il XX secolo ha ucciso questa teoria, ed essa non è più, se ma lo è stata, emancipatrice. Tuttavia, Marx aveva compreso il capitale in maniera diversa, in quanto forma di dominio mediato dalla forma sociale della prassi, la cui logia storica dà la forma alle attività umane. Marx non nega la libertà personale, ma ne vuole mostrare la dinamica strutturale, storica, che la determina. Nella sua lettura, il lavoro non è il punto di vista, ma è l'oggetto della critica. Quando i post-strutturalisti rispondono agli errori del marxismo tradizionale con il godimento della contingenza contro le grandi narrazioni e le totalità, dimenticano che Marx è stato il primo grande critico della totalità La differenza sta nel fatto che egli riconosceva che la totalità del capitale esiste! Ignorare questa forma di dominio è astorico. La teoria di Marx è una narrazione auto-riflessiva, storicamente specifica, di come la storia stessa arriva a dominare le vite individuali come se fosse una forza aliena.

Per Postone, il punto di vista trans-storico del lavoro fraintende la natura del valore e del plusvalore visto come sfruttamento dominato dalla classe. Ciò può portare naturalmente ad una teoria della rivoluzione, vista come auto-affermazione del proletariato. Tuttavia i Gundrisse forniscono una diversa interpretazione, nella quale queste categorie sono forme dell'essere sociale, sia oggettive che soggettive, specifiche del capitalismo moderno. La qualità astratta di tali categorie (denaro, valore) le fa sembrare trans-storicamente valide, ma ciò fa parte della loro stessa forma. Il valore è piuttosto una forma specifica della ricchezza nel capitalismo, diverso dalla ricchezza materiale. Il valore è allo stesso tempo sia la condizione essenziale per l'esistenza del capitale, sia la condizione per la possibilità del suo superamento. È precisamente questo il punto nel quale emerge la prospettiva critica, nella quale l'auto-abolizione del lavoro, e non la sua auto-affermazione, diviene possibile a causa del, e non malgrado il, valore in quanto forma di ricchezza nella società capitalistica.

Ciò che rende unico il capitale, è la sua forma di dominio astratto. Qui, l'analisi di Marx, secondo Postone, è assai migliore dell'idea di potere di Foucault, perché la forma del dominio analizzata da Marx non solo è spaziale, ma è anche procedutale, temporale e dinamica. È questa dinamica temporale del valore che fonda la possibilità per il suo superamento. Poiché a causa della sua incessante spinta in avanti verso una sempre più crescente produttività, il valore in quanto forma della ricchezza rende possibile la riduzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione di ciascuno, mentre allo stesso tempo ne nega la sua realizzazione. La realizzazione di una simile possibilità, rimane alienata dagli attori che creano questa possibilità, a causa della forma strutturale, astratta, del dominio che lega insieme la ricchezza alla specifica forma di mediazione sociale costituita dal lavoro. Questo stato di muoversi in avanti nel mentre che si rimane seduti, è quello che Postone chiama "effetto del tapis roulant".

L'auto-movimento del valore prende le forme del denaro e della merce, tuttavia il capitale è il soggetto astratto che mantiene la sua unità nella diversità di una tale apparenza. Se qui il linguaggio suona come se fosse hegeliano, ciò è perché Postone afferma il concetto che Marx ha del capitale, ha la stessa qualità che ha per Hegel il concetto dello spirito. È allo stesso tempo la sostanza ed il soggetto della storia, producendo così cicli infiniti di distruzione e di creazione senza alcuno scopo che non sia quello del suo stesso proprio auto-sviluppo. Contrariamente a Lukacs, non è il proletariato, bensì il capitale ad essere il soggetto della storia, la struttura dinamica del dominio astratto, fatto dalle persone, ma indipendentemente dalla loro volontà. Contrariamente a quanto affermano molti marxisti, questa non è l'inversione antropologica materialista della dialettica idealista, ma ne è la giustificazione materialista. Il carattere idealista del capitale ne costituisce il suo nucleo razionale: esprime la relazione alienata che le forme costituite del dominio hanno con un'esistenza quasi indipendente della struttura sociale coercitiva. Il "soggetto storico" che così tanto affligge il pensiero post-moderno non è "l'uomo" bensì questa struttura alienata della mediazione sociale, e Marx è stato il primo a criticarla.

Secondo Postone, l'abolizione di questa forma di mediazione sociale proviene dalla dialettica della trasformazione e della ricostituzione che costituisce la dinamica temporale del valore. Contro ogni concetto di "resistenza" astratta che può assumere forme reazionarie e conservatrici, le quali si presume siano sempre in qualche modo al di fuori del capitale, Postone rifocalizza la critica del capitale sulla possibilità trasformatrice di un'altra forma di mediazione sociale che emerge all'interno di questa dinamica ma che non è caratteristica di essa. Una tale forma di mediazione sociale non dovrebbe essere basata  sul tipo di lavoro storicamente specifico corrispondente al valore, ma ad una forma di ricchezza del tutto diversa.

La celebrazione della contingenza non costituisce una critica del capitale, bensì l'espressione del capitale stesso, visto nella sua più moderna, neoliberista forma di apparenza. Andare oltre una tale apparenza, richiede una critica che vada al cuore della logica capitalistica. La visione critica di Postone toglie il fiato, e dev'essere elogiata e sostenuta contro quasi ogni altro marxismo di paglia che esista. Il suo tentativo di sviluppare la possibilità negativa di un'altra forma di vita dall'interno della dialettica del capitale stesso, costituisce anche un bel rimprovero nei confronti di coloro che credono in un soggetto proletario quasi trascendentale che starebbe solo aspettando di rivelarsi. Tuttavia, la critica del marxismo tradizionale non richiede un abbandono della lotta di classe o della teoria della classe in quanto tale, perché anche in questo modo sarebbe una cosa del tutto unilaterale. Oggi, solamente una comprensione unificata della mutua costituzione della classe e del capitale insieme può riuscire a venir fuori dal punto morto in cui si trova la teoria critica.

- Jacob Blumenfeld - Pubblicato il 26 marzo 2018 su Marx200

Prima dei titoli di coda!

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Più che buono, il film di Raoul Peck, riesce a far sì che si possa riuscire a cogliere la situazione e la congiuntura di tutta un'epoca, insieme ai personaggi che in quell'epoca si muovevano, senza indulgere né alla caricatura né alla tentazione di rappresentarli in maniera troppo compiacente.
Weitling, Bakunin, Proudhon, così come gli stessi Marx ed Engels, sono reali e concreti. E reali e concreti sono i meccanismi, la dinamica, che li muovono sulla scena storica.
Come non tener conto degli avvertimenti di Weitling, a proposito della «critica che tutto fagocita e che finisce per fagocitare anche sé stessa»? e sul pericolo di andare a finire per «tagliare le teste degli amici, dopo quelle dei nemici, fino a tagliare la propria, di testa»; oppure, come non sorridere dell'ironia di Bakunin che si stupisce del fatto che Marx possa parlare bene... di qualcuno?
Le contraddizioni (condite da un pizzico di narcisismo) di Engels, l'incapacità (che si accompagna all'arroganza) di Marx a comprendere i meccanismi della "politica" - del resto, su quel terreno, non ne ha mai azzeccata una che fosse una! - finendo per contribuire col Manifesto [e non per niente, sottolinea il film, che avrebbe dovuto essere un "catechismo"] - lui che marxista non è mai stato - alla fondazione del "comunismo" e del marxismo tradizionale; per poi passare la parte rimanente della propria vita a cercare di porre rimedio a quell'enorme errore commesso, scrivendo prima i Gundrisse e poi Il Capitale (senza mai riuscire a finirlo), per farci comprendere quella che è la dinamica del capitale e, di conseguenza, la dinamica delle relazioni sociali che costituiscono e dominano la nostra vita, così come costituivano e dominavano allora la sua. Fino a quando, alla fine, il film ci fa il prezioso regalo di farci comprendere come la colonna sonora di quelle vite - e forse anche della nostra, di vita - non poteva essere altro che quella "Like a Rolling Stone" - il cui titolo, non per niente, riprende un vecchio slogan degli IWW - che accompagna le ultime immagini che scorrono, prima di titoli di coda.

giovedì 29 marzo 2018

Un «missile teorico»

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Moishe Postone, 1942 - 2018.
- Ripensare una teoria critica del capitalismo -
di Clement Homs

Moishe Postone, storico e teorico, autore di un importante libro legato all'opera di Karl Marx, è morto a Chicago lunedì 19 marzo all'età di 75 anni.
A cavallo dei due secoli - nel momento in cui una sinistra politicamente e teoricamente fallita, riesce a sopravvivere solo continuando a far girare il disco rotto del marxismo tradizionale, quando non cavalca i sudici cavalli del populismo, del nazionalismo, della peste identitaria e della logorrea antisemita dell'«anti-finanza» - Postone ha elaborato un'importante reinterpretazione della teoria critica marxiana.
Con grande accuratezza, e rigore accademico, nel suo "Tempo, lavoro e dominio sociale" ha portato avanti un vero e proprio attacco frontale a quelle che erano le certezze di base dei precedenti pensieri critici. L'attacco è diretto innanzitutto contro il sancta sanctorum della società borghese, contro quella categoria che viene adorata, parimenti, sia dalla destra che dalla sinistra, così come dalle diverse maschere del populismo produttivo contemporaneo: il lavoro nel capitalismo. Per il pensiero feticizzato, non c'è niente che sempre più naturale dell'idea secondo cui qualsiasi società non può essere che basata sul lavoro. Vede il lavoro come un principio trans-storico, lo vede come se fosse il lavoro a rendere umano l'uomo. Ed è proprio questo principio ritenuto ovvio che Postone ha messo sostanzialmente in discussione.
E Postone lo fa riprendendo una teoria critica di quello che è il nocciolo del capitalismo, essendo fra quelli che danno la parola al Marx «critico del valore», al Marx delle opere della maturità (i Gundrisse ed Il Capitale) che pongono il lavoro astratto ed il valore al centro della critica, mostrando nella rottura però anche una certa continuità con il concetto erroneo di alienazione, del periodo della giovinezza.
Rompendo con una critica del capitale svolta dal punto di vista del lavoro, Postone è fra coloro continuerà ad essere importante, ancora a lungo, per chi non ha intenzione più di illudersi riguardo alle proprie debolezze teoriche. e quindi pratiche.
Il capitalismo è l'unica fra tutte le formazioni sociali ad avere il lavoro come nucleo, è la sola formazione sociale dove il contesto sociale viene mediato attraverso il lavoro. Questa funzione socialmente mediatrice, assunta dal lavoro, è una caratteristica storicamente assai specifica, la quale distingue la formazione sociale capitalistica da tutte le precedenti società. Una simile conclusione ha profonde conseguenze.
La mediazione che viene svolta dal lavoro - il lavoro astratto - è essenzialmente una mediazione con sé stesso, è un'auto-mediazione. Si oppone al controllo cosciente e alla pianificazione svolta attraverso lo Stato, e diventa il «soggetto automatico» della società, una forma di auto-dominio della prassi che in questo modo va a costituire una forma storicamente specifica del dominio astratto. Quindi, nelle forme oggettivate della merce e del valore, gli individui si confrontano con una forza apparentemente esterna che li sottomette alle sue costrizioni oggettive, come la costrizione alla crescita quantitativa permanente; si tratta di forme di coercizione che appaiono come se fossero delle leggi naturali insormontabili, anche se sono prodotte esse stesse, in maniera alienata, da degli esseri umani, nel contesto stesso della loro prassi mediata dal lavoro. Se siamo costretti a lavorare, la causa non è naturale, è sociale.

La funzione svolta dal lavoro, in quanto attività socialmente mediatrice, «si esternalizza come sfera sociale astratta, indipendente, che esercita una forma di costrizione impersonale sugli esseri umani che la costituiscono. Il lavoro sotto il capitalismo genera una struttura sociale che domina il lavoro stesso. Questa forma di dominio che si riflette in maniera auto-generante, è l'alienazione» ("Tempo, lavoro e dominio sociale"). Per Postone, l'alienazione è il processo di oggettivazione del lavoro astratto, è un «processo della costituzione storica della potenza umana che avviene attraverso il lavoro che oggettivizza sé stesso in quanto attività socialmente mediatrice. Attraverso questo processo appare una sfera sociale oggettiva, astratta, che acquisisce una vita propria e che esiste in quanto struttura di dominio astratta al di sopra e contro gli individui» ("Tempo, lavoro e dominio sociale").
"Non tutto quello che si muove è necessariamente rosso!" Lo sfruttamento del lavoro e la pretesa "dissimulazione" di questo sfruttamento attraverso lo scambio delle merci, è stato criticato, ma non lo è stata la forma del lavoro astratto ed il ruolo specifico che ha il lavoro nel capitalismo. In tal senso - come non ha mai smesso di sottolineare Postone - il marxismo tradizionale non fa altro che assumere positivamente il punto di vista del lavoro, a partire dal quale ha criticato la circolazione, la proprietà privata ed il mercato, riducendo l'essenza del capitalismo ad una semplice modalità di distribuzione di un principio trans-storico e ad una forma di ricchezza astratta - il lavoro ed il valore.
La sinistra ha sviluppato una forma feticizzata di anticapitalismo legato al modo in cui si manifestano necessariamente i rapporti sociali feticizzati. Il centro della critica anticapitalista di sinistra, resta limitato ad una critica dell'appropriazione del plusvalore da parte della classe capitalista, e non critica il valore ed il lavoro in quanto forme sociali capitalistiche. La sua principale preoccupazione è stata perciò quella di liberare il lavoro dal capitale, e non quella di sbarazzarsi del lavoro, che è la vera sostanza del capitale.
Questa critica, svolta dal punto di vista del lavoro, è stata una battaglia persa in partenza, poiché non si combatte la relazione di capitale che ci domina affermando quella che ne è la sua vera sostanza. Questa fissazione irriflessiva che pone la critica al livello della circolazione e della distribuzione, è anche il motivo per cui il marxismo tradizionale ha raggiunto i suoi limiti, e perciò è ora e per sempre incapace di analizzare e criticare in maniera corretta gli sviluppi contemporanei del capitalismo.
I numerosi saggi che Postone ha dedicato all'antisemitismo moderno, in cui è riuscito a distinguerlo dal razzismo e a pensarlo come una forma di «anticapitalismo feticizzato», i saggi dedicati ai Gundrisse, al tempo astratto, alle questioni relative alla dinamica del capitalismo, alla questione della memoria e dell'identità in Germania dopo la seconda guerra mondiale, ma anche le sue critiche a Lukacs, a Derrida, alla Scuola di Francoforte, la sua storia dell'impotenza politica, la sua teoria della soggettività sotto il capitalismo, la sua difesa di un universalismo diverso da quello dell'Illuminismo, ecc., costituiscono tutti altrettanti «missili teorici» ben calibrati per abbattere tutto ciò che vive nella relazione del capitale.
Anche se Postone non può essere annoverato fra gli autori della Wertkritik o della Wert-abspaltungskritik - a causa dell'assenza nella sua opera della teoria della crisi, così come a causa di alcune imprecisioni che riguardano la natura bifida del lavoro - la sua scomparsa è una pesante perdita per la sinistra radicale. Per molto tempo ancora, la sua opera teorica continuerà ad essere per noi una sfida e una fonte d'ispirazione.

- Clement Homs -

- Pubblicato il 28/3/2018 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

mercoledì 28 marzo 2018

Moishe Postone, 1942 - 2018

postone« Quando noi, un piccolo gruppo di autori impegnati nel rinnovamento della critica sociale radicale, alla fine degli anni '80, ci siamo imbattuti nell'allora misconosciuto saggio di Moishe Postone sulla logica dell'antisemitismo, ecco che quel testo ci ha colpito come un fulmine.
Allora, la critica del valore si trovava ancora solo ai suoi inizi e doveva affermarsi contro i guardiani del marxismo tradizionale, contro il quale all'epoca abbiamo combattuto battaglie polemiche; ed ecco che, improvvisamente c'era qualcuno che la pensava in maniera molto simile.
L'analisi dell'antisemitismo visto come una forma di anticapitalismo feticistico, ovviamente, è stato per noi un'idea del tutto nuova e pionieristica. Ma questo non era tutto. La lettura soggiacente che veniva fatta della teoria marxiana, l'attenzione della critica rivolta al lavoro ed al valore visti come una relazione sociale, rivolta proprio a quel nucleo che anche noi avevamo sviluppato teoricamente per tentare di uscire dal vicolo cieco del ristagno della critica sociale.
Questo momento di allegra sorpresa per aver incontrato qualcuno che camminava su una strada così simile riguardo alla nuova interpretazione della teoria di Marx ha segnato la mia relazione con Moishe Postone; anche se ho dovuto aspettare alcuni anni prima di poterlo conoscere ed apprezzare personalmente.

Non meno segnante è stata, successivamente la mia partecipazione alla traduzione in tedesco della sua opera fondamentale, "Tempo, lavoro e dominio sociale", un compito che non avrebbe potuto incontrare successo senza un'intensa analisi dei concetti e delle linee di ragionamento che a partire da quel libro avevamo sviluppato. Ancora oggi mi nutro di tale analisi. Mi ha aiutato, come lo hanno fatto poche altre cose, ad affinare i miei stessi concetti e le mie idee, ivi incluse quelle dove non concordavano con Moishe Postone.
Tuttavia, siamo rimasti delusi dal fatto che la pubblicazione del libro di Postone abbia contribuito poco a risvegliare nella sinistra tedesca un comprensione completa e profonda del suo approccio teorico. È stato ricevuto essenzialmente come se si trattasse solo dell'autore di un nuovo punto di vista nell'analisi dell'antisemitismo, basata sulla critica del feticismo. Sebbene questo fosse corretto, quest'analisi è rimasta quasi del tutto separata dalla sua critica del capitalismo. L'idea di una forma di socializzazione basata sulla mediazione per mezzo del lavoro e che è soggetta ad una dinamica storicamente specifica, diretta verso un punto di fuga che è precisamente la soppressione di questa mediazione, per la sinistra tedesca è rimasta incomprensibile, soprattutto per il ramo accademico di quella sinistra. Questo è stato evidente a partire dalle varie critiche rispetto al libro di Moishe Postone, le quali indicavano quasi sempre resistenza al libro e mancanza di comprensione.

In altri paesi, come il Brasile o la Francia, è stato diverso; forse perché lì esisteva già un precedente contesto di dibattito della critica del valore, prodotto dalla pubblicazione dei testi di Krisis, che avevano aperto alcune porte. Ma la ricezione singolarmente ristretta nel dibattito in lingua tedesca continua ad essere fastidioso. Ampliarlo e dare anche qui alla prospettiva teorica di Moishe Postone il valore che merita, è ancora un compito che non è stato portato a termine. Non ha alcuna importanza il fatto che fra di noi ci fossero alcune differenze teoriche - soprattutto, Moishe Postone non è mai stato d'accordo con la nostra interpretazione teorica della crisi svolta a partire dalla dinamica del capitalismo. Le nostre strade - quella Krisis e quella di Moishe Postone - non sono mai state una sola strada, ma erano strade parallele e, sotto molti aspetti, si incrociavano frequentemente. Anche personalmente. Con Postone, perdiamo un compagno di viaggio. La sua morte ci riempie di tristezza. »

Norbert Trenkle (Gruppo Krisis)

Norimberga, 24 marzo 2018 -

Temi

delillo

1 - Motivi kafkiani nel romanzo "Zero K", di Don DeLillo: la questione della filiazione e dell'eredità. La voce narrante è quella di Jeffrey Lockhart, un uomo che non svolge nessuna attività definita e che segue il proprio padre - ricchissimo investitore - in quelli che sono i meandri di un progetto scientifico di conservazione ed immagazzinamento dei corpi umani per mezzo della criogenia. Dietro la verniciatura futuristica, traspare una costante preoccupazione per il modo in cui egli viene visto dal padre, una preoccupazione continua per l'approvazione e l'avallo paterno. «Questo lavoro farà di me "il Figlio"», pensa Jeffrey ad un certo punto. «Quand'è il momento in cui un uomo si trasforma in padre?», riflette più avanti. Un romanzo su qualcosa che è tanto incerto ed astratto quanto lo è il futuro che perciò ha bisogno di qualcosa di palpabile cui ancorarsi, qualcosa che possa far riferimento ad un'esperienza umana condivisa in qualche tempo ed in qualche spazio; da questo ne deriva l'uso della filiazione, della sopravvivenza del soggetto attraverso i suoi discendenti.

2 - Un altro tema di Kafka che è centrale per DeLillo è la trasformazione, la metamorfosi. In "Zero K", la metamorfosi si riferisce alla sopravvivenza dei corpi al di là della morte, per mezzo della criogenia - una vita postuma che si svolge in un ambiente controllato, in delle capsule ermeticamente sigillate, una delle quali è conformata in maniera speciale di modo da poter accogliere il cervello, che viene rimosso insieme agli altri organi. «Morire da umani, rinascere come androide isometrico», scrive DeLillo. In Kafka, la metamorfosi non riguarda solamente l'insetto. Ma ci parla e si riferisce anche alle diverse possibili oscillazioni che vanno dall'essere umano all'animale, fra l'umano e qualcosa che sta al di là o al di sotto dell'umano. Josef K., ne "Il Processo", viene ammazzato «come un cane», scrive Kafka.

3 - Il narratore DeLillo fluttua fra la descrizione, lo stupore, la repulsione e la fascinazione per la trasformazione. "Zero K" è un'esplorazione di quel «Unheimliche», il Perturbante, di Freud - di quel che è strano, dell'inquietante che irrompe attraverso ciò che è familiare, dell'androide isometrico che guarda con gli occhi del padre, simultaneamente astratto e concreto. Walter Benjamin ha coniato la formula per esplorare questa fascinazione per tutto ciò che sfugge all'umano e che, allo stesso tempo rende umano: «sex appeal dell'inorganico». La formula di Benjamin abbraccia tutta una costellazione di temi che vanno dal cranio esposto, come allegoria barocca, fino al feticismo della merce, così come viene definita da Marx nel Capitale.
Benjamin offre come esempio la moda, per riferirsi a questa miscela di fascino e di ripulsa. Per DeLillo, il sex appeal dell'inorganico non risiede solo nella visione del corpo umano visto come manichino o androide, ma sta anche nel denaro. Come già in "Cosmopolis", anche "Zero K" vibra del godimento derivante dalla ricchezza, vibra della shock che avviene quando il flusso astratto dei titoli azionari e degli investimenti si scontra con i risultato palpabile che si tocca nel mondo dei super-ricchi.

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martedì 27 marzo 2018

repubblica globale delle banane

pollai

Volpi nel pollaio
- di Robert Kurz -

Giorno dopo giorno. diventa sempre più chiaro che i vecchi centri del mondo occidentale somigliano via via sempre più alle strutture di una volta del Terzo mondo. Non si è trattato solo della disgregazione sociale, la povertà di massa sempre più crescente e le forme di un'economia informale miserabile che hanno raggiunto le metropoli del capitalismo. Non si tratta solo della rottamazione dell'infrastruttura resasi visibile a New York, Londra, Parigi o Berlino, allo stesso modo in cui è visibile a Calcutta, Lima, Algeri o Bangkok. Ma anche gli scandali della "classe politica" sono riusciti ad ottenere, nelle democrazie più rinomate, le proporzioni che avevano in una qualsiasi "repubblica delle banane". Non è passato molto tempo da quando la corruzione generalizzata veniva considerata come un fenomeno tipico del "sottosviluppo". In questo campo, le democrazie occidentali amavano essere immaginate come degli insegnanti che davano lezioni ai buoni alunni dell'Est e del Sud: il Brasile è stato elogiato per la procedura di impeachment nei confronti di Collor de Mello, così come la stessa cosa è avvenuta per i governi precari dell'Europa post-socialista, per le loro dichiarazioni di principio contro il pericolo delle strutture mafiose e dell'arricchimento illecito. Così ci siamo resi conto che il pollaio era stato affidato alle cure della volpe: nemmeno il lignaggio degli schiavisti del Nordest brasiliano era in grado di poter competere per potenziale di corruzione e protezione con quello che si può ora osservare nelle istituzioni democratiche occidentali. In Germania, il partito conservatore della democrazia cristiana (CDU) ha dimostrato di essere stato, negli anni in cui era al potere, una grande impresa per il riciclaggio di denaro. Al fine di camuffare i bilanci del partito, sono state trasferite grandi somme di denaro dalle istituzioni ufficiali verso conti bancari all'estero. Milioni di marchi sono spariti senza lasciare traccia; si suppone che in questo processo alcuni funzionari del partito, fino a quel momento sconosciuti, abbiano accumulato delle vere e proprie fortune personali.

Apparati clandestini
Abbiamo cominciato a discernere i contorni oscuri di un apparato illegale e clandestino, che agiva parallelamente alle strutture democraticamente elette e controllava con metodi mafiosi uno dei maggiori e rispettati partiti conservatori dell'Unione Europea. Ed il padrino di questa mafia inter-partitica era nientemeno che Helmut Kohl, che per 16 anni, come primo ministro, ha guidato il governo tedesco. Dal momento che la Germania si è sempre vantata delle sue virtù prussiane - lavoro e disciplina, ma anche incorruttibilità e mantenimento delle garanzie giuridiche formali - lo stupore è stato particolarmente grande. Nel frattempo, non passa giorno che non prometta nuove rivelazioni. A partire dallo scandalo della seconda cassa, le nuove dimensioni della corruzione sono diventate sempre più visibili. Dal sospetto si è passati alla quasi certezza che le donazioni illegali provenivano dalla privatizzazione dell'industria degli armamenti e dalla privatizzazione delle imprese statali. Ed in questo modo, il caso assume dimensioni europee e addirittura transcontinentali: al centro di tutto questo, si trova il conglomerato petrolifero statale francese, il gruppo Elf Aquitane, che a quanto pare da molto tempo agisce da intermediario nei trasferimenti illegali di denaro. In diversi paesi d'Europa, le procure pubbliche stanno investigando per vedere se la vendita della grande raffineria statale Leuna, nell'ex Germania Orientale, alla Elf Aquitania sia stata ottenuta per mezzo di tangenti. La stessa cosa vale anche per le spedizioni di armi da parte dell'industria bellica tedesca verso l'Arabia Saudita; dal suo esilio in Canada, l'imprenditore bavarese Karl-Heinz Schreiber, dalla dubbia reputazione ma molto vicino ad importanti politici tedeschi, minaccia rivelazioni in tal senso.

Feste movimentate
Rispetto ad una simile tempesta, le faccende della piccola corruzione dei politici socialdemocratici appaiono quasi inoffensive. Wolfgang Glogowski, una delle speranze del nuovo pragmatismo, ha dovuto rassegnare le sue dimissioni dall'incarico di segretario del Turismo di Stato della Bassa Sassonia, per aver fatto dei viaggi di lusso a spese delle compagnie turistiche. La stessa sorte è toccata a Heinz Schleusser, segretario delle Finanze del Nordrhein Westfalen, i cui viaggi privati in compagnia delle sue amiche venivano pagate dalla Westdeutsche Landesbank. Secondo le dichiarazioni degli ex piloti, questi viaggi erano comuni fra i politici, talvolta con destinazione Maiorca (Spagna), dove si svolgevano delle feste movimentate con delle prostitute che fungevano da hostess. L'elenco dei casi di corruzione si potrebbe allungare a piacere. Non è molto che tutta l'equipe della Commissione Europea, l'organismo esecutivo dell'Unione Europea, ha dovuto rinunciare, per l'accusa di corruzione e protezione. Il Belgio, la cui capitale Bruxelles è anche la sede della burocrazia europea, si è distinto per anni a causa di tutta una serie interminabile di scandali, che vanno dalla mafia agli ormoni per l’allevamento di bestiame, fino ai casi di pedofilia; si dice che i criminali, che a volte non arretrano nemmeno di fronte all'omicidio, dispongano di buoni contatti con l'apparato giudiziario e con le alte cerchie governative.

Crimine e immunità
Perfino in Svizzera, tradizionalmente così seria, emergono notizie che riguardano frodi finanziarie e donazioni illegali ai partiti. Questo per non parlare della periferia europea, dalla Bulgaria alla Turchia, dove il crimine e l'economia sono strettamente intrecciati: notizie di questo genere sono una lettura quotidiana sui giornali, e si possono leggere accanto alle lodi per la lungimirante democratizzazione di questi paesi. Il culmine dell'audacia è stato però raggiunto dall'oligarchia russa: il presidente Eltsin, il cui clan si è arricchito senza che ci fosse nessun impedimento (e probabilmente facendo uso dei fondi di emergenza del FMI), è andato in pensione per mezzo di una legge speciale, che ha garantito, in caso di accuse, piena immunità non solo a lui, ma a tutta la sua famiglia. In questo modo, le istituzioni della società capitalista moderna e dello Stato del Diritto borghese affondano fino alle ginocchia negli affari della mafia e ne vengono moralmente screditate. Basta pensare al discorso neoliberista e neoconservatore sulla "tolleranza zero" riguardo alle più piccole infrazioni delle leggi. È chiaro che fin dall'inizio questo slogan populista si è distinto per la sua estrema ignoranza sociale, e non è andato oltre quella che è una dichiarazione di guerra abbastanza esplicita da parte delle élite borghesi nei confronti dei disoccupati, degli esclusi e dei nuovi poveri. Ma l'accettazione di questo slogan da parte di ampie fasce della popolazione. che si aggrappano alla chimera piccolo-borghese di una "vita rispettabile" e prendono parte attiva alla discriminazione degli emarginati sociali, è quanto meno legata all'illusione di una certa quota di integrità personale delle élite economiche e politiche. Ma ormai questa è una cosa del passato. In Germania, l'ex ministro degli Interni Manfred Kanther ha innalzato la bandiera della "tolleranza zero"; per raccattare più voti, avrebbe condannato duramente qualsiasi ladruncolo o qualsiasi passeggero della metro che viaggia senza biglietto, se questa durezza propagandata dai media, fosse servita allo scopo. E ora si scopre che Kanther, nel frattempo, partecipava alla "seconda cassa" della CDU, e andava avanti e indietro con le tasche piene di denaro riciclato, come qualsiasi buon mafioso.

Onore provvidenziale
Proprio in questo contesto, è particolarmente degno di nota il fatto che sia tornato di moda il concetto arcaico di "onore". Non si tratta di ridare nuova vita al concetto ottocentesco e borghese di "onore". L'ex cancelliere Kohl, che recentemente si atteggiava a grande statista ed a figura storica "alla Bismarck", si è sottratto alla legge con una franchezza che ha sconcertato i suoi colleghi di partito: la sua "parola d'onore" gli impedirebbe di rivelare quale sia l'origine di alcune regalie e tangenti. Tutto questo si inserisce perfettamente nel contesto del principio di "omertà", la legge del silenzio della mafia siciliana e della ndrangheta calabrese.
Non si tratta più dell'onore della "buona vecchia società" borghese, ma l'onore disonesto del crimine organizzato. quello stesso onore che, negli anni '80, la casta politica delle democrazie affermava essere la principale minaccia all'ordine sociale. E ora sembra che una buona parte dell'élite politica appartenga all'una o all'altra di queste "onorate società".
Naturalmente possiamo chiederci se tutto questo sia veramente una novità. Una società che si riproduce per mezzo della concorrenza dei mercati anonimi, e che viene amministrata attraverso un apparato statale che si presenta agli uomini come un potere burocratico senza volto, non può non recare in sé una tendenza alla corruzione, al nepotismo ed alla formazione di clan. Questi fenomeni sono solo l'altra faccia delle istanze anonime del mercato e della burocrazia statale, così come il diritto borghese e la criminalità non sono altro che le due facce, che si condizionano vicendevolmente, di una sola medaglia. Solo fino ad un certo punto si può dire che il crimine sia il grande nemico del sistema capitalista; non appena acquisisce un certo volume, il crimine diventa parte accettabile della vita della "buona società". Lo Stato di Diritto implica la sua trasgressione sotto forma della continuazione della concorrenza con altri mezzi. Ed il Diritto universale, imparziale ed essenzialmente formale allo stesso tempo apre anche lo spazio alla relativizzazione logica di qualsiasi crimine: alla fine del XVII secolo, il famoso e famigerato Marchese de Sade aveva solo tratto le conclusioni più estreme del liberalismo, richiedendo la legalizzazione del furto (che presuppone la proprietà borghese) e perfino dell'omicidio.

La legge del più forte
Nelle relazioni fra i vari Stati, non siamo andati molto lontano dalla legge del più forte; in quest'area, la forma socioeconomica della concorrenza si mostra in tutta la sua asprezza, e continua tingere le vicende politiche all'interno di ciascuna nazione. Machiavelli sapeva già che la politica e la morale non hanno niente in comune. La richiesta di integrità morale non è altro che la facciata delle relazioni di concorrenza, la cui stessa dinamica determina il contenuto dell'attuale stato di diritto, mentre allo stesso tempo lo mina continuamente. In questo senso, l'intimità esistente fra lo Stato di diritto e le strutture illegali, fra l'economia anonima e pseudo-naturale e le relazioni oscure, fra la politica ed il crimine, rivelano la vera natura della società capitalista e della coscienza borghese schizofrenica.
La democrazia degli Stati Uniti - il paese più sviluppato e la potenza dominante del mondo libero - è quella che manifesta con maggior chiarezza tale schizofrenia. Non c'è altro luogo al mondo in cui venga mobilitato politicamente, e con tale drammaticità, il moralismo più crudo; in nessun altro luogo, il concetto di legge del più forte è maggiormente radicato nella coscienza delle masse: in nessun altro luogo si trovano quelli che sono dei clan familiari (come i Kennedy o i Bush) con così tanto potere sulla politica e sulle istituzioni pubbliche. E in nessun altro luogo dell'Occidente si può osservare la presenza di una rete così fitta di legami fra il crimine organizzato, le banche, le grandi corporazioni, i sindacati, la politica e lo show-business; legami che a volte risalgono al XIX secolo. In Europa, c'è solo l'Italia che può reggere il confronto, dal momento che è la culla storica della connessione mafiosa fra crimine, capitalismo e politica. È interessante notare come questi fatti (ai quali possiamo aggiungere le organizzazioni mafiose presenti in Giappone ed in tutta l'Asia) dopo la seconda guerra mondiale, sotto l'impatto delle democrazie di massa, siano praticamente scomparsi dal dibattito pubblico. Il risorgere, alla fine del XX secolo, degli scandali mafiosi rimane l'indice di una mutazione sociale qualitativa.

«Italianizzazione»
Sarebbe una pietosa esagerazione supporre che rilevazioni di questo genere di affari oscuri, possa essere dovuto ad una maggior maturità democratica del capitalismo. o ad una vigilanza più stretta da parte dei mezzi di comunicazione. Nell'Italia degli anni '80, la rivelazione della presenza mafiosa nel sistema politico e l'autodissoluzione dei maggiori parti politici, non ha portato alla purificazione desiderata. La corruzione ha assunto una forma nuova, mentre si assiste ad una crescente "italianizzazione" delle altre democrazie. Se tutta questa sporcizia è emersa solo ora, ciò si deve al collasso incipiente del diritto borghese per mano del capitalismo in crisi sociale e dei bagordi finanziari internazionali. Sotto la pressione di una concorrenza selvaggia e sfrenata, cedono tutti gli argini sociali, sia in alto che in basso.
D'altra parte, con la globalizzazione transnazionale del capitale, la politica democratica su base nazionale ha perso ogni capacità effettiva di regolare la vita sociale. In questo processo, anche i partiti politici persono la loro capacità di formare le opinioni, e regrediscono ad un sistema mafioso, dove la leadership personale prende il posto dei processi decisionali pubblici. Ma questi nuovi leader - e questo vale per Kohl, per Blair o per Haider - non rappresentano né simboleggiano la formattazione capitalistica delle relazioni sociali, e come avveniva per le dittature dell'inizio del XX secolo sono solo dei "padrini".
La facciata moralista crolla con una rapidità da togliere il fiato. Nel mondo dei mercati globali, la "repubblica delle banane" è diventa l'unica forma di Stato possibile e appropriata.

- Robert Kurz - 5 marzo 2000 -

fonte: EXIT!

lunedì 26 marzo 2018

Due libri sugli algoritmi…

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"Lenin e Zuckerberg sono due rivoluzionari, l'uno appartiene al Novecento, l'altro al secolo che miliardi di persone stanno vivendo dentro la sua sfera. Anche Lenin ha avuto negli anni venti-trenta del Novecento una sterminata massa di credenti ma poi, quasi alla fine del Novecento, le statue erette in suo onore sono state fatte a pezzi, con l'accusa di non aver cambiato lo stato delle cose o al contrario di aver tentato di farlo. L'altro - i cui antenati venivano anch'essi dalla vecchia Europa - appartiene al tempo nuovo che ha contribuito a plasmare. Ed è consapevole delle conseguenze. Il Novecento è il focus del libro, dove è data rilevanza a ciò che è accaduto ma che poteva diversamente accadere. Ben altri poteri premono sul XXI secolo, emerso dalle macerie dell'altro ed è un tempo nuovo su cui gli Zuckerberg decidono per i loro follower cosa fare, cosa avere, cosa sapere. Come non pensare." (Dalla premessa al libro di Rita di Leo)

(dal risvolto di copertina di: Rita Di Leo: Cento anni dopo, 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse.)

Nell’oceano degli algoritmi senza reti umane
- di Luciana Castellina -

Il libro già dal titolo – Cento anni dopo, 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg (Ediesse, pp. 144, euro 12) – è spiazzante, non crediate dunque di poterlo leggere in autobus. La tesi finale di Rita Di Leo è tuttavia chiarissima, perciò vale la pena di fare la fatica per vedere come l’autrice ci è arrivata. In sostanza questa: quanto segna il passaggio del secolo è il ritorno dell’essere umano da animale politico ad animale asociale, e così si compie il percorso inverso che era stato imboccato nel tentativo di far maturare la capacità di convivere con i propri simili.
Gli sconfitti sono i Lenin, i Di Vittorio, i ministri laburisti laureati a Cambridge, i socialdemocratici tedeschi e svedesi, chi nel bene e nel male – ognuno a proprio modo – ha cercato di creare l’uomo politico, consapevole delle proprie responsabilità collettive. Tutti ormai fantasmi che ora assistono impotenti dalle loro tombe alla vittoria della teologia della tecnica che è riuscita a reclutare i loro stessi successori, abbacinati dagli algoritmi.
Il «balletto Excelsior» (il famoso spettacolo teatrale di fine ’800 che glorificava le magnifiche sorti del progresso suscitato dalla rampante borghesia industriale) è tornato sul proscenio. Per festeggiare il fatto che, sebbene l’idea stessa di una scienza che avrebbe liberato l’uomo dalla schiavitù si sia rovesciata, non suscita più reazioni.
In questo anno in cui più che commemorare il cinquantesimo del ’68 quell’insorgenza viene sotterrata questa conclusione è un epitaffio crudele. Il ’68 è stato importante proprio perché, con anticipazione (e certamente anche molta approssimazione), aveva intuito che la modernità nell’orizzonte del capitale avrebbe portato barbarie. «La scienza e la tecnica non sono neutrali» è stato non a caso uno dei suoi slogan più significativi. Ma quello era comunque un messaggio ottimista, perché indicava una via d’uscita: contemporaneamente si riconosceva infatti che era il capitale quello che chiudeva le porte che scienza e tecnica aprivano. La lotta al capitalismo poteva dunque rispalancarle. Oggi invece una simile ipotesi è tramontata, in quanto ormai del tutto irrealistica.
Non solo perché nell’89 il capitalismo ha vinto ma è stato così anche perché il socialismo sovietico era cresciuto dentro il suo stesso universo, proprio come la sua classe operaia. Il «golem» scavato nella creta della classe operaia («il golem operaio» archetipo dell’intera società socialista di cui parla Rita nel suo libro) si prevedeva che avrebbe dovuto operaizzare tutta la società e che l’operaio, in quanto operaio, sarebbe stato capace di far funzionare al meglio politica ed economia. E però le aspettative che erano state caricate sulle sue spalle sono andate deluse, e così sono stati travolti tutti coloro che su di lui avevano puntato per i loro progetti, l’intera sinistra. In primo luogo le sue sirene ( che Rita Di Leo chiama Platone), vale a dire gli intellettuali. In particolare gli intellettuali-politici che pretendevano di rappresentarlo.
Quanto è accaduto nel frattempo è non solo il fallimento del golem-operaio ma la scomparsa dei soggetti che avrebbero potuto compiere l’impresa a lui affidata dalle «sirene Platone», perché i Khomeini degli algoritmi hanno trionfato, hanno chiuso col passato ancora popolato dall’uomo politico, e la «legittimazione dello stato di natura, la asocialità, sono diventate le pietre miliari del tempo nuovo che nulla accetta del vecchio».
Il risultato è dunque aver cancellato ogni progetto di universo alternativo, ogni teoria e ogni esperimento inteso a superare i comportamenti negativi, un obiettivo che aveva impegnato secoli. Esserci riusciti costituisce una vera «rivoluzione» tanto che, in confronto, l’ottobre e l’89 francese appaiono bazzecole. Il futuro non interessa più. Per sbagliato che fosse, nell’agire dell’operaismo stalinista c’era un progetto di società alternativa: al Khomeini degli algoritmi delle sorti dell’umanità, del futuro, non importa niente.
Non è accaduto perché è stato ripristinato un comando sull’esercito sconfitto, ma perché quell’esercito è scomparso. Il prevalere dell’economia sulla politica ha infatti annullato – dice Rita – la sua essenza collettiva. E crudissima è la sua descrizione di questo assassinio: le fabbriche, certo, qualche volta ci sono ancora, ma dentro non c’è più la classe operaia, ci sono infinite varietà di lavoratori catalogati (e perciò regolati e pagati) in mille modi diversi, molti ormai considerati autonomi piccoli imprenditori di sé stessi o giornalieri di fantomatici appaltatori, sparito il contratto collettivo. Non servono più come produttori, bensì come consumatori; e per questo vengono tenuti in vita in qualche modo. Unificati da questa condizione che li rende tutti omologati, sciti e sunniti, jihadisti e cristiani che siano: tutti con scarpe Adidas, comprate su Amazon, pagate con Paypal, più l’un l’altro sconosciuti e connessi nei social, tanto più soli e disperati. Questa è la disumanizzazione, perché nella solitudine ci si incista nel proprio buco socio-culturale: nell’oceano degli algoritmi sono affogate le reti umane che un tempo addestravano l’uomo a convivere, a prendere in considerazione l’altro da sé, a usarlo come risorsa critica di sé stesso. Così l’uomo torna allo stato di natura, cioè alla asocialità, che la politicizzazione aveva combattuto.
E tutto questo in un contesto in cui il drone diventa l’archetipo del tempo, secondo una prassi che consegna persino il potere di fare la guerra a uno scienziato che decide, con i suoi algoritmi, il destino di esseri umani che non conosce, così come nulla sa dei luoghi lontanissimi dove essi abitano.
Spariti anche i luoghi fisici dove abita il potere, e anche quelli dove abitava chi voleva abbatterlo: palazzi d’inverno e fabbriche. Insomma: la lotta di classe messa in clandestinità, affondati i becchini del capitale che il sistema stesso produceva. Cosi come gli intellettuali-politici, ridotti al silenzio, o a un servizio servile del potere, perché spariti sono coloro che avrebbero dovuto rappresentare.
Lenin e i telefonini, il golem operaio e il golem algoritmico, la rivoluzione d’ottobre e la vittoria del capitalismo: il quadro disegnato da Rita Di Leo è apocalittico ma denso di verità traumatiche. Il suo scritto si può assumere come un disperato grido di impotenza; o, invece, come un accorato appello a ripensare tutto. In grande, come la questione richiede. È una scelta che dipende da noi.

- Luciana Castellina - Pubblicato sul Manifesto del 15.2.2018 -

moneta di leo

Una storia di mutevoli rapporti di forza tra uomini della moneta, della spada, del lavoro, dei libri, fra élite economiche ed élite politiche. Queste pagine descrivono una parabola che attraverso il feudalesimo, il nazionalismo, l’imperialismo, il socialismo, la democrazia e la finanziarizzazione dell’economia, giunge al tempo nuovo dell’ information technology. Grazie agli algoritmi dopo secoli di subalternità dell’economia al potere politico, si è passati al conflitto per la guida della società, che vede prevalere gli «uomini della moneta» con una vittoria di cui la stessa costruzione europea è massima espressione.

(dal risvolto di copertina di: L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo - di Rita Di Leo - Il Mulino.)


L’inarrestabile ascesa degli uomini della moneta e degli artisti dell’algoritmo
- di Massimiliano Panarari -

Il potere e le élites. Il lavoro della studiosa di geopolitica Rita di Leo (professore emerito di Relazioni internazionali dell’Università La Sapienza, e già tra gli animatori dell’operaismo negli anni Sessanta e Settanta) ha ruotato spesso intorno a questa coppia di concetti. E la propensione definitoria e per l’individuazione di categorie generali emerge con forza anche da questo suo ultimo libro, "L'età della moneta", nel quale analizza la storia occidentale sotto il profilo dell'alternarsi dei sistemi e delle gerarchie di potere. Una storia concettuale dei rapporti di forza, e dei loro detentori, che vede il susseguirsi dei conflitti tra uomini della spada  (l'aristocrazia), della moneta, del lavoro (le classi lavoratrici) e del libro (i chierici e gli uomini di cultura).
    Il volume dipinge una serie di affreschi consacrati soprattutto alle mutazioni di ruolo e all'inarrestabile scalata degli uomini della moneta, i quali si svincolano dal rapporto servo/padrone dell'età feudale, si affermano, si dividono e combattono tra tipologie diverse, rovesciando definitivamente le relazioni con la politica, di cui non hanno più bisogno da qualche decennio grazie all'inarrestabile dominio della finanza. Gli uomini della moneta cominciano a consolidare la loro influenza nelle vesti del mercante, il quale - dall'offerta di merci e beni per i castellani fino al finanziamento delle guerre dei monarchi - mette in crisi la concezione dell'autarchia economica e della comunità-borgo. E inaugura la stagione di un loro agire direttamente politico, scaturito da quello economico e dal maturare della convinzione che l'economia dello scambio, per fortificarsi ed estendersi, abbia bisogno di servirsi degli strumenti della politica, che vengono utilizzati per spazzare via il «potere comunitario», come lo chiama l'autrice - una «reminiscenza» che si fa oggetto di eterno ritorno, e che vediamo ritornata prepotentemente alla carica in questa nostra epoca di populismo e sovranismi vittoriosi.
    I mercanti, progenitori della borghesia, sono i protagonisti della «grande trasformazione» della società occidentale e del suo trapasso nella modernità, come tutta una parte della sociologia  - da Ferdinand Tönnies a Karl Polanyi - ha messo in evidenza. L'uomo della moneta dall'irrefrenabile ascesa sociale ha vissuto una sequenza di metamorfosi. Nell'America del Nord - il suo habitat più naturale, dal momento che non esisteva un sistema feudale da scalzare -, ha innescato la «rivoluzione manageriale», con i suoi rinnovati circuiti educativi (il master in business administration, l'Mba), la sua ideologia e la sua fede nell'idealtipo del new economic man, che ha trovato uno dei propri profeti in Alfred Sloan, presidente dal 1923 della General Motors (ed il miglior aedo nel padre della business history Alfred Chandler). Il management - espressione peculiare della nazione che ha inventato le corporation, convertendole in un tratto della propria identità anche culturale - ha edificato una burocrazia (come avveniva negli imperi del passato), ed è diventato uno degli snodi fondamentali dei processi decisionali in tutti i Paesi ove la grande impresa ha identificato il modello economico dominante (o quello da prendere ad esempio).
    E, così, il Secolo breve ha visto fronteggiarsi due paradigmi di pianificazione, quello manageriale Usa (l'economic planning, basato sul perseguimento di un'ininterrotta innovazione tecnologica e gestionale) e quello sovietico, immensamente più statico. Dove, nell'interpretazione dell'autrice, gli uomini dei libri non hanno potuto mettere in discussione il sistema a causa dell'ortodossia, e l'esperimento messo in atto da Lenin sarebbe pertanto imploso per la scelta del piano deciso dal partito al potere, quello di fare concorrenza all'economia capitalista sul suo stesso terreno, sebbene da una «prospettiva socialista». Ne derivava così la sconfitta epocale dell'uomo del lavoro nel suo conflitto con quello della moneta, il quale, in concomitanza con il tempo di questa vittoria (gli anni Ottanta), procedeva alla dismissione dell'industrialismo per abbracciare la finanza con la sua logica dell'investimento a breve termine - in controtendenza rispetto alle prescrizioni del management novecentesco - e l'information technology, e si circondava di una nuova figura sociale, quella dell'«artista dell'algoritmo».
    Nell'ultima parte, di Leo affronta il tramonto del ruolo pubblico dell'intellettuale, e la deriva di una sinistra che si ritrova priva di una teoria alternativa a quella dell'homo oeconomicus: «Gli uomini del lavoro appaiono essere divenuti quasi ovunque estranei alle visioni dei filosofi-re, e immersi nell'antropologia culturale degli uomini della moneta».
    Un libro con una precisa matrice e un ben definito perimetro ideologici che, alla lettura, lasciano a volte un retrogusto di eccessivo determinismo, ma che offre anche grandi quadri talora suggestivi, e sui quali vale, in ogni caso, la pena di riflettere.

- Massimiliano Panarari - Pubblicato su Tuttolibri del 24/3/2018 -

Nuove Tradizioni

thaler

Richard Thaler, vincitore del premio Nobel per l'economia 2017, ha dedicato l'intera carriera a studiare l'idea radicale per cui gli agenti economici sono individui prevedibili e inclini a commettere errori. Misbehaving è il resoconto affascinante e divertente della sua lotta per riportare una disciplina accademica con i piedi per terra e per cambiare il modo in cui pensiamo l'economia, noi stessi e il mondo. La teoria economica tradizionale assume che gli individui siano razionali. Fin dall'inizio della sua ricerca, Thaler ha compreso che questi automi non somigliavano affatto alle persone vere. Quando acquistiamo una radiosveglia o chiediamo un mutuo, siamo tutti vittime di distorsioni cognitive che ci allontanano dai criteri di razionalità postulati dagli economisti. In altre parole ci comportiamo in modo anomalo e, ciò che più conta, con serie conseguenze. Inizialmente sottovalutato dagli economisti come un campo divertente ma irrilevante, lo studio degli errori degli esseri umani e dei loro effetti sul mercato ora guida gli sforzi per migliorare le decisioni nelle nostre vite, nelle imprese e nelle politiche pubbliche.

(dal risvolto di copertina di: Richard H. Thaler, Misbehaving. La nascita dell'economia comportamentale. Einaudi)

Offri una ciotola di anacardi agli amici: scoprirai come funziona il mercato.
- di Alberto Mingardi -

Come nasce un nuovo programma di ricerca? Misbehaving di Richard Thaler (Premio Nobel per l’economia 2017) è l’appassionante autobiografia di una teoria. Uno scienziato sociale si mette al lavoro confrontando le sue intuizioni con la realtà, si scontra coi critici e cerca alleati. Quando il suo obiettivo è sviluppare una tradizione "nuova" è anche un po' imprenditore: cercare finanziamenti e sviluppare iniziative fa parte del suo lavoro.
Il nuovo paradigma di ricerca avviato da Thaler è l'«economia comportamentale». Il punto di partenza è una lista di comportamenti che smentiscono, in tutto o in parte, gli assunti più tipici della scelta razionale. Per esempio: «Alcuni amici vengono a cena. Come stuzzichino, offro una ciotola di anacardi. Dopo cinque minuti, la ciotola è mezzo vuota e il nostro appetito è in pericolo. Tolgo di mezzo la ciotola e la nascondo in cucina. Tutti sono d'accordo». Ma nessuno dovrebbe esserlo. Chi non vuole mangiare gli anacardi, per preservare l'appetito o la linea, potrebbe semplicemente astenersi. Al contrario, chi vorrebbe mangiarne si trova a perdere una possibilità che gli è gradita.
Per Thaler, l'economia è fatta per l'Homo Economicus ma il mondo è popolato di Homo Sapiens: i «razionalisti» ragionano come se le preferenze delle persone fossero costanti nel tempo. Al contrario, per Thaler esiste sia un «», orientato al presente, sia una sorta di «super io» economico. La parte di noi che vuole assolutamente finire gli anacardi, e quella che poi se ne pentirà quando verrà servito l'arrosto.
Bisogna escogitare soluzioni per fornirci l'autocontrollo che ci manca. Dicesi «paternalismo libertario». L'obiettivo è «truccare» le percezioni delle persone affinché il «super io» del lungo periodo possa prevalere. Ovviamente il problema è che si comincia levando la ciotola di anacardi e esponendo in bella vista il buffet delle insalate (e nascondendo invece gli hamburger) nelle mense aziendali: ma non si sa dove si va a finire. La ricerca di anomalie è sempre un gioco appassionante. A patto di non dimenticarsi che ogni tanto gli esseri umani riescono a cavarsela, imperfetti come sono.
Il loro comportamento scombussola i «modelli»? Giova ricordare che questi ultimi sono, per l'appunto, «modelli». Sono rappresentazioni stilizzate, non puntuali, della realtà. Proprio come la mappa della metropolitana: che non ci dice granché su come è fatta la città in cui viviamo ma è utile per raggiungere un certo luogo, con quel mezzo di trasporto. L'ambizione di Thaler è quella di proporre modelli alternativi, basati su una razionalità più realistica. Bisognerebbe però capire «perché» la gente si comporta in modo che ci sembra irrazionale, ma forse non è irragionevole. Taluni «errori» sono l'esito di contesto, cultura, istituzioni.
Un esempio. Thaler ci spiega che le imprese debbono essere attente a sostenere un'impressione di «equità», più che ad operare come attori «razionali». Uber, per esempio, aumenta il prezzo delle corse quando sale la domanda. Trova prima un passaggio chi è disponibile a pagarlo di più. Ma se la maggiore domanda è dovuta, per esempio, a un incidente ferroviario, la gente si arrabbia quando percepisce che Uber «ci specula». Per questa ragione, potrebbe smettere di usare il servizio in futuro. L'azienda farebbe dunque bene a mettere fra parentesi la «fredda» razionalità dei prezzi.
Thaler racconta come, negli anni Novanta, la First Chicago Bank volesse incoraggiare i clienti a usare il Bancomat. Perciò addebitava tre dollari a chi interpellava un bancario in carne ed ossa per operazioni che avrebbe potuto fare una cassa automatica. Un giornale scrisse che «perdeva il contatto con gli umani», venne presa in giro in TV, e i concorrenti fecero ottimi affari. La conclusione è che violare le «norme di equità» può essere controproducente. Ma se oggi una banca fa grossomodo la stessa cosa e sceglie di addebitare qualche centesimo in più a chi desidera ancora l'estratto conto cartaceo, questa strategia riscuote il plauso generale.
È cambiata la cultura e così le «norme di equità»: l'idea di ridurre il consumo di carta ci pare un'ottima cosa, se a pagare è il correntista «che vuole il rapporto umano», pace.
Come ogni azienda, Uber si pone il problema di preservare la propria reputazione, evitando aumenti di prezzo repentini dovuti a un evento catastrofico. Ma, in linea generale, è davvero controproducente che chi ha più necessità di una macchina, perché deve raggiungere la moglie in ospedale o deve prendere un aereo e non si è svegliato in tempo, acquisisca una «priorità» pagando di più?
Una volta John Cochrane, discutendo gli argomenti di Thaler, osservò che la teoria economica «standard» avrà tutti i limiti del mondo, ma di solito se aumenta il prezzo dei pomodori la gente effettivamente ne compra di meno. L'Homo Sapiens ogni tanto è anche Homo Economicus.

- Alberto Mingardi - Pubblicato sulla Stampa del 24/2/2018 -

domenica 25 marzo 2018

Limiti & Contraddizioni

tronti

Questa raccolta di scritti di Mario Tronti, la prima a coprire l'intero periodo della sua produzione teorica, nasce dalla constatazione di un consolidato ritorno di interesse nei confronti del suo pensiero, oltre che dalla sostanziale irreperibilità di molte sue opere. Corredata da un'introduzione che ne storicizza il percorso politico e teorico, l'antologia offre una ricostruzione unitaria del pensiero di un intellettuale novecentesco tra i più conosciuti e internazionalmente citati, evidenziandone tanto le continuità quanto le fratture teoriche. Gli scritti selezionati sono raggruppati in quattro sezioni cronologiche, che individuano diversi periodi nel corso dell'evoluzione del pensiero di Tronti: "Il punto di vista" (1958-1967); "Il politico e il movimento operaio" (1968-1984); "Realismo e trascendenza" (1985-1998); "Pensare il Novecento" (1999-2015). In ciascuno di questi periodi l'autore sottopone a critica e in parte ripensa le proprie categorie, aprendo di volta in volta nuovi campi di ricerca e nuove prospettive per l'azione politica. Riproponendo i frutti più significativi del lavoro di Tronti, il volume risponde non solo a un'esigenza ricostruttiva e periodizzante, ma esprime una specifica natura interpretativa, caratterizzandosi come un utile strumento per la ricezione critica dell'intera opera trontiana.

(dal risvolto di copertina di: Mario Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015)

La contraddizione immedicabile che assedia il mondo
- di Marco Assennato -

 

Per costruire una teoria critica del tempo in cui viviamo, non è necessario partire da Karl Marx. Impossibile invece è utilizzare Marx per pensare «contro il mondo, l’uomo, la società». Valutare l’arco complessivo della vicenda intellettuale di Mario Tronti significa sfidare questo estremo impossibile. Ne è occasione la bella pubblicazione, per il Mulino, di una poderosa antologia trontiana, Il demone della politica, che raccoglie scritti compresi tra il 1958 e il 2015. Il volume, curato con sapienza da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat (Il Mulino, pp.656, euro 46), funziona attorno ad alcuni nuclei teorici – la scoperta del punto di vista di classe; il viaggio tra gli arcani del politico; l’asintotico dibattersi tra realismo e trascendenza – per approdare allo sguardo nostalgico che questo singolare Freigeist posa sul Novecento.
Nella disposizione del volume gli anni della formazione, alla scuola di Ugo Spirito, sono forse liquidati con troppa fretta, mentre decisivo viene considerato l’incontro con il padre nobile dell’operaismo italiano, Raniero Panzieri. E, in effetti, è qui che Tronti apprende a pensare nel mondo, tra i soggetti antagonistici, dentro lo sviluppo capitalistico. In fondo, il ritorno a Marx dei Quaderni Rossi è tutto qui: il dipanarsi dinamico della macchina produttiva è solcato da lotte operaie, punto di vista parziale che può spezzare l’oggettività della scienza economica, decostruire il grand récit dell’interesse generale, sbattere nel fango le bandiere del riformismo socialdemocratico e fare i conti definitivamente con lo storicismo allora egemone nelle organizzazioni del movimento operaio.
Già dentro i Quaderni Rossi, tuttavia, Tronti distende in conseguenza politica il rovesciamento epistemologico che Panzieri aveva imposto nell’analisi del boom economico: dalla fabbrica alla società si vede prima la classe, poi lo sviluppo; prima gli operai, poi il capitale – che è come dire: prima sta la lotta, poi la struttura economico-politica. Il pensiero si fa integralmente mondano, si mischia ai conflitti e da qui risale al cielo della logica, alla tendenza, ogni volta rilevandone contraddizioni e salti. Rivoluzione copernicana. Scienza operaia. Marx si verifica nella contingenza, sperimentando il futuro. Esiste forse altro modo d’intendere il più terrestre dei filosofi classici? No. Questo assunto di metodo lo dobbiamo certamente a Mario Tronti, come si vede avvicinando le pagine scritte tra il 1961 e il 1966: un pugno di anni su una traiettoria di mezzo secolo. Ma se scegliamo lo «sguardo lungo» troviamo un altro percorso, tutto svolto nel tentativo di scongiurare gli esiti di questa straordinaria immersione nel reale.
Dentro e contro, la «nuova sintesi» da cui riparte Tronti sul finire del 1967, certo segnala una originaria domanda attorno alla politica organizzata – già interna a Operai e Capitale. Ed è indubitabile che sia questo il nodo che lo allontana dall’esplosione del ’68. Ma più in generale il dualismo trontiano determina una fibrillazione decisiva che accompagnerà tutta intera la sua avventura intellettuale. Nell’introduzione al volume si chiarisce bene questo punto: «lo schema trontiano è sempre quello dell’uno travagliato dal due, nel quale la contrapposizione tra le parti struttura l’unità in quanto negazione reciproca». Tuttavia dentro e contro può leggersi in due direzioni. Integrazione nel ciclo produttivo o rivoluzione della macchina capitalista. Tenerle entrambe, è il demone di Tronti.
In mezzo sta quella «storia di passionale innamoramento verso la novecentesca cultura mitteleuropea» di cui Tronti ha parlato altrove. Transito fondamentale questo, agito in dialogo serrato con il pensiero della crisi, senza il quale non si capisce il salto dall’operaismo «alle cose ultime della teologia politica». Inutile, a questo punto, sarebbe cercare continuità. A partire dal celebre Poscritto di problemi pubblicato in calce alla seconda edizione di Operai e Capitale, «la mano operaia», dentro lo sviluppo, resta invischiata nella figura del deus absconditus. Muove i fili, ma non cambia il mondo. Si tratta allora, per noi, di rilevare la qualità filosofica di questo Tronti, leggendolo essenzialmente come un critico di Marx. La sua linea di condotta cerca di stringere in unità «la necessità della rivoluzione» con «la necessità del potere», perdendo così di vista il potere che si esercita in ogni rivoluzione. L’operazione non è certo indolore: si può fare a condizione di isolarsi dal battere della storia e lavorando solo su figure ideali.

In altri termini, contro Marx, Tronti rivendica ciò che Marx non poteva dargli: strappa ai grandi reazionari del Seicento una teoria dello Stato, costringe Lenin tra Hegel e Weber, per consegnare queste armi esiziali tra le mani «delle masse». Se il politico è stato determinante per entrare nel capitalismo, egli pensa, può essere altresì la leva fondamentale per uscirne. Non più lotte operaie nello sviluppo, dunque, ma masse organizzate nello Stato capitalistico, per gestire la transizione verso «un’altra formazione economica e sociale». Poteva essere questo l’orizzonte fondamentale del pensiero antagonista sul tornante degli anni ’70? Evidentemente no. L’autonomia del politico chiude il «contro» delle lotte «dentro» la semplice innovazione del ciclo sociale capitalistico e scopre che nessuna trasformazione «di parte operaia» dello sviluppo è possibile, dall’alto della macchina amministrativa.
Qui il politico-pratico s’inceppa. I dualismi diventano una trappola logica. La «ragione storica nemica» diventa una «fortezza inattaccabile». E allora? Allora non resta che «volgere le spalle al futuro ». Il pensiero, mosso da «disperazione teorica», prende forma «tragica», diventa «astratto, indiretto». Dalla metà degli anni settanta in avanti, all’opposto del momento operaista, Mario Tronti rivendica il più completo disinteresse – e anche un certo disprezzo – verso i nuovi soggetti sociali: «a che pro studiare le nuove forme di capitalismo, se ormai aveva vinto?». Contro il mondo, contro l’uomo, contro la società, il filosofo lancia pensieri «sommi»: «con Carl Schmitt in divergente accordo. Con Karl Marx in convergente disaccordo». Realismo è trascendenza. Per uscire dal labirinto della modernità, il conflitto viene proiettato in cielo, come sempre con ali di cera: si compone un’apocalittica della società borghese e della sua «regressione depoliticizzante». Qui opera il richiamo – in chiave di teologia negativa – al potere che frena. Qui si passa da Karl a Carl. La polemica contro la democrazia liberale evoca le grandezze d’una, mai avvenuta, stagione neoclassica. In alto, l’appello alla «grande forma», alla «decisione sovrana» diventa ossessivo. In basso, si polemizza contro le «forme di vita» contemporanee, nel tentativo di spezzare l’equivalenza tra homo oeconomicus e homo democraticus.
Il lungo détour nel pensiero reazionario rinnova in forma eversiva la vecchia Kritik-Kritik. Il filosofo cerca di introdurre dualismi, conflitti, nell’universale macchinazione della storia. A partire dall’esperienza della rivista Bailamme e dalla frequentazione dei monasteri camaldolesi di Monte Giove e di San Gregorio al Celio, Tronti trova i materiali teorici con i quali forgiare il suo Freigeist. L’analisi antropologica definisce una pratica della libertà come «esercizio terreno di distacco spirituale». La libertà dello spirito contro il «borghese-massa», dunque. Il discorso da qui va ripreso sul serio. Tronti oppone alla figura concreta dell’individuo proprietario, un’immagine ideologica. Bloccata l’azione, libertà si da ancora in interiore homine. Da questa fortezza egli urla al mondo: «ecco voi qui, con le vostre idee, non mi prenderete». Raccoglie le forze, in attesa di una congiuntura propizia «per ripartire, per sortire all’attacco degli assedianti».
La ricerca trontiana chiarisce per tutti noi le contraddizioni e i limiti della verticale sovrana. Possiamo allora servirci, ancora oggi, di questo singolare congegno teorico ma ribaltandolo, facendo leva sui suoi limiti. Dal palazzo dell’impero, il suo messaggio ha provato a raggiungere il basso della società e, come nel racconto kafkiano, è rimasto impigliato nel dedalo infinito delle stanze, dei corridoi, delle corti. «Io ho sistemato l’alto – dice ai curatori del volume – quello che oggi fa problema è come rideclinare il basso. Cioè qual è la parte? Questo è un problema irrisolto». Tronti, in fondo, non vede ciò che, appena sfiorato in quel grumo stretto degli anni sessanta, si è imposto di non guardare per i decenni successivi. Le coppie astratte della sua aporetica chiedono un bagno di concretezza. Si vedrebbe che la libertà non è spirito ma pratica cooperativa, amicizia politica, comune, che si costruisce dentro all’intelletto generale. Nel mondo.

- di Marco Assennato - Pubblicato sul Manifesto del 16/1/2017 -

Freno di emergenza

fagia

Capitalismo ed Autofagia: Davanti all'abisso
- di Renaud Garcia -

Erisittone, dopo aver sfidato una proibizione della dea Demetra, ed aver distrutto un albero sacro popolato di ninfe, per costruirsi un fastoso palazzo, viene posseduto dalla fame, una fame impossibile da placare, puramente quantitativa ed incurante del contenuto delle cose. Agli occhi di Anselm Jappe, questo mito ci parla della folle traiettoria che viene oggi percorsa dal treno dell'umanità, ed anticipa la dinamica di autodistruzione che è contenuta nella logica stessa del valore, della merce e del denaro. A partire da questa risonanza mitica, veniamo portati a tornare alla radice dei nostri mali, a quasi cinquecento anni fa. È a partire da quel momento, da quella matrice, che il capitalismo emergente secerne (e allo stesso tempo si basa su) una forma umana della quale noi scopriamo veramente solo oggi, alla fine della corsa, il nucleo irrazionale: il soggetto narcisistico, per cui il reale e gli altri sono unicamente il prolungamento delle fantasie di onnipotenza, oppure il luogo di una resistenza intollerabile che genera paura, rabbia e odio sordo.
Ma questo libro, La Società autofaga, non è forse esso stesso un progetto teorico caratterizzato da eccessi? Non è forse un tentativo vertiginoso  ed altamente astratto, in fin dei conti destinato ad una piccola consorteria di "happy few" sublimi e disperati?
Anselm Jappe, formatosi alla scuola del Marx del Capitale e dei Grundrisse, di Theodor Adorno e di Guy Debord, non fa le cose a metà. Una critica parziale del sistema capitalista non lo interessa affatto. Ai suoi occhi, prima di situarsi in quella che è un'opposizione di classe rispetto agli interessi antagonisti, il capitalismo è un "rapporto sociale" che coinvolge, assai spesso ad insaputa dei protagonisti, un insieme di categorie strutturanti. In questo senso, La Società autofaga è da cima a fondo animata dalla preoccupazione di spiegare il nostro presente alla luce di tali categorie (valore, denaro, lavoro astratto, merce), che presiedono alle successive trasformazioni di un sistema al cui cuore c'è sempre stata l'accumulazione, il profitto per il profitto.

Totem del nostro auto-divorarci
Per questo motivo, Jappe non è il ventriloquo di astrazioni che sono improvvisamente discese nella Storia. Al contrario, egli mostra come l'astrazione stessa sia divenuta reale, come essa si sia impadronita du quello che un tempo chiamavano mondo e umanità, per trasformarli in semplice materiale della crescita del capitale. Se l'autore non ha alcuna simpatia per gli innovativi incravattati e per gli "startupper" alla moda, egli non cerca di discutere animatamente con i capitalisti nella speranza di "moralizzarli", di ripristanare per loro le condizioni di una sana concorrenza (come ai fortunati tempi del "compromesso fordista") o di denunciare la loro smodata inclinazione alla concussione. Infatti, anche se guidate da manager illuminati, le imprese continueranno a ricercare un ritorno sugli investimenti. E quest'ossessione di redditività ha come effetto quello di dissolvere inevitabilmente molti dei valori morali e sociali che il capitalismo non ha creato, ma senza i quali non avrebbe finora potuto evitare di cadere nell'abisso. E così, anziché cercare costantemente di migliorare la struttura, a colpi di lotta per il posto di lavoro, a colpi di reindustrializzazione o a colpi di presenza "cittadina" in assemblea, Jappe esce dagli schemi e rivela la nostra fascinazione feticistica per delle creazioni che sono diventate idoli: il valore di mercato ed il suo materializzarsi nel denaro, il lavoro astratto (senza qualità) e la crescita, la cui salute ci preoccupa così regolarmente. Ecco quelli che sono i totem del nostro auto-divorarci.
Questa faccia oggettiva del dominio capitalistico si accompagna ad una faccia soggettiva, che si annida nel cuore stesso della psiche umana. L'inconscio storico si riflette nell'inconscio soggettivo. Da Cartesio a Sade e a Max Stirner - due vacche sacre dell'estrema sinistra trasgressiva - e passando per Kant, l'autore traccia l'archeologia di un soggetto che oscilla fra le "fantasie di fusione" ed i "desideri regressivi" di un ritorno all'unità originaria. Da buon lettore di Hegel, Jappe ci mostra come l'attuale egemonia del soggetto narcisista segnali questo momento vertiginoso nel quale il capitalismo, sbarazzatosi della maggior parte dei suoi ostacoli pre-capitalisti, arriva ad incontrare il suo concetto. E, ce lo ripete, questo suo arrivare a sé stesso ora non è supportata ormai da nient'altro che dall'immaginario tecno-furioso di tutti coloro che vorrebbero superare l'umano in direzione della fabbricazione concertata di una specie aumentata, privata di ogni difetto e di ogni mancanza. Ancora una volta, qui l'analisi si situa agli antipodi della febbre transumanista che sembra toccare perfino gli "Insoumis" per i quali - lo si legge perfino sui loro manifesti - si tratterebbe di "superare le frontiere dell'umano".

Revoca delle tutele
Come fare a crescere mentre si è davanti all'abisso? Come fare a sostenersi nell'esistenza, sia che uno non abbia un lavoro, sia che uno è convinto da tempo che quel lavoro è vuoto, senza nessuna finalità e che può essere sostituito da un algoritmo qualsiasi? Alla fine della giornata e del tutto inutile, il soggetto narcisista risucchiato dalla sua vita ripone la sua causa nel nulla, e torna al suo odio contro tutti i volti dell'alterità che gli capitano sotto le mani - donne, omosessuali, seguaci dell'altra religione o dell'altra cultura - in una furia vendicativa che assume la forma di un suicidio allargato (nuova versione di quello che la società malese tradizionale chiamava la corsa dell'amok). Conclusione: «Le ideologie mortifere - razzismo, etnocentrismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso - non sono affatto incompatibili con la razionalità del mercato. Ne costituiscono il rovescio.»
Quel che è davvero cambiato, non è il serbatoio fantasmatico di violenza e di onnipotenza al centro del soggetto, ma è la revoca delle diverse salvaguardie che frenano il passaggio all'azione, ereditate da epoche precedenti e progressivamente eliminate a partire da una vita del tutto sottomessa agli imperativi della concorrenza, del rendimento e della crescita senza limiti. «Più trionfala società basata sul valore e sulla merce, sul lavoro e sul denaro, più essa distrugge queste reliquie, ed insieme ad esse distrugge ciò che le impedisce di precipitarsi essa stessa nella follia che nel corso dei secoli si è inscritta nel suo cuore.» I massacri di massa contemporanei vengono qui assoggettati ad una interpretazione sistemica particolarmente illuminante, rispetto alla quale le morbose traiettorie di uno Stephen Paddock (il killer di Las Vegas) o di un Devin Kelley (il killer del Texas) ci hanno recentemente offerto una triste conferma.

Gettare lo sguardo nell'abisso
Dal momento che le analisi de La Società autofaga dipendono da una chiave di lettura assunta come tale, esse verranno sicuramente discusse legittimamente da dei filosofi di professione: non si dovrebbe più fare attenzione all'esperienza personale dello sfruttamento, anziché recepirla nel quadro del dominio feticista impersonale? Possiamo far davvero finta che certe forme di uccisioni di massa non hanno niente a che vedere con la religione? Indubbiamente, altre questioni alimenteranno intensi dibattiti accademici, senza che tuttavia vengano escluse dalla pratica. Su un tale piano, coerente con i suoi principi, Jappe si rifiuta di far bollire le pentole dell'avvenire. Davanti alla rituale domanda del "che fare?" a fronte di una simile situazione, ci invita a coltivare un modesto realismo che ci permetta di «accettare i limiti e mettersi comodi  per arrivare a delle soddisfazioni realistiche».
Questo programma è allo stesso tempo minimale e radicalmente anticapitalista, senza che per intraprenderlo ci sia bisogno di essere laureato in critica sociale. Chiunque potrà rispondere a questa chiamata, a condizione che accetti di impegnarsi in uno sforzo intellettuale radicale: gettare lo sguardo nell'abisso, anche a rischio di estrarne quello che ci salva. Per riprendere la citazione di Walter Benjamin: «Marx ha detto che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia mondiale. Ma può avvenire che le cose si presentino in maniera diversa. Può succedere che le rivoluzioni siano l'atto, compiuto dall'umanità che viaggia su quel treno, di tirare il freno di emergenza.» Probabilmente, il gioco vale la candela.

- Renaud Garcia - Pubblicato sul n°160 del mensile di critica e di sperimentazione sociale "CQFD" del dicembre 2017 -