Ciò che è nazionale e ciò che è europeo
- Intervista di "GegEurope" a Jean-François Bayart -
Gegeurope: Dal 1996, con il suo libro "L'illusion identitaire", e soprattutto dopo il 2012, lei ha utilizzato e perfezionato il concetto di "Nazional-Liberalismo". Potrebbe riassumere, per i nostri lettori, quello che intende con quest'espressione?
Bayart: Il dibattito pubblico, sia quello politico che mediatico - ivi compresa l'Università, in particolare gli specialisti nelle relazioni internazionali - è stato bloccato, trincerandosi dietro delle false prove. Lo Stato-nazione sarebbe una vittima della globalizzazione, e l'identitarismo sarebbe una risposta dei popoli ad una tale situazione, qualcosa tipo la reazione che si ha quando le ostriche entrano in contatto con il limone. Secondo questo ragionamento a somma zero, la globalizzazione metterebbe in pericolo la nostra sovranità, la nostra cultura, la nostra identità. Ora, la sociologia storica e comparata della politica mostra che lo Stato-nazione è figlio della globalizzazione, e che quest'ultima ha assunto come ideologia - da quasi due secoli - il culturalismo, rispetto al quale l'invenzione e la commercializzazione della tradizione, la generalizzazione delle coscienze particolaristiche, l'orientalismo, sono state tutte delle espressioni complementari.
Dobbiamo comprendere gli ultimi due secoli a partire da quella che è stata una triangolazione dell'integrazione differenziata di un certo numero di mercati: i mercati di capitali, di commercio, in misura assai minore rispetto a quelli della forza lavoro, i mercati della scienza, della tecnologia, i mercati della fede per mezzo dell'evangelizzazione del mondo, per mezzo dell'espansione dell'islam nell'alveo della colonizzazione - sì, certo - e l'ondata pentecostale, l'universalizzazione dello Stato-nazione come modo di organizzazione politica, e la diffusione dell'identitarismo nella forma dell'etnicità in Africa, del confessionalismo in Libano, del comunalismo in India, del nazionalismo etno-culturale in Europa, della definizione etno-confessionale della cittadinanza in tutto il mondo, in particolar modo nel contesto del passaggio da un mondo di imperi ad un sistema internazionale di Stati-nazione.
È una tesi che ho sviluppato a partire da "L'illusion identitaire", nel 1996, da "Governement du monde", nel 2004, da tutta una serie di articoli apparsi sulla stampa e antologizzati in "Sortir du national-libéralisme?", nel 2012, e da "L'Impasse national-libérale" nel 2017. L'incapacità o la mancanza di volontà da parte della stampa a raccogliere questo chiarimento, anche solo per discuterne, nonostante io venga regolarmente invitato dalle redazioni in quanto "esperto" di questo o di quello, serve solo a confondere. Ci troviamo davvero sottomessi ad un pensiero egemonico che si morde la coda, ma che continua, da quarant'anni, impavido, a riprodursi elettoralmente sulla linea del neoliberismo, avatar contemporaneo del nazional-liberalismo; vale a dire, secondo questa triangolazione fra mercato, Stato-nazione ed identitarismo.
Gegeurope: A partire da questo, qual è la sua analisi del contesto politico francese?
Bayart:In Francia, l'epicentro di questa Weltanschauung nazional-liberale è stata la Grande Coalizione, di fatto fra la destra repubblicana e la sinistra decisamente più liberale che sociale, la quale negli anni '80 ha reso possibile la conversione del partito socialista al neoliberismo, e che oggi si incarna in Macron, un occhio al mercato, l'altro sulla Pulzella di Orleans e sulla pompa monarchica. Questo epicentro si trova ad essere in tensione con due versioni più squilibrare del nazional-liberalismo, che ci vengono offerte - rispettivamente, del lepenismo, all'estrema destra, e del melenchomismo, all'estrema sinistra - da personaggi come Sarkozy, Wauquiez e Valls che giocano, la mascella serrata ed il petto villoso - a fare i moderati ai margini del nazional-liberalismo. Ma i termini dell'equazione rimangono disperatamente gli stessi per tutti i protagonisti, benché essi non risolvano nessuno dei problemi che ci troviamo di fronte, non facendo altro che peggiorarli.
Gegeurope: Il concetto di nazional-liberalismo da lei fornito offre una prospettiva interpretativa riguardo a questa tendenza referendaria che sembra stia soffiando in questa fine di settembre su degli Stati più o meno stabili, come sulla Spagna con la Catalogna, o sull'Iraq con il Kurdistan iracheno, e persino, in meno di un mese, sull'Italia con la Lombardia?
Bayart: In effetti mi sembra che questi referendum confermino il proseguimento del processo di universalizzazione dello Stato-nazione, sebbene avvenga per scissione, ed in maniera identitarista, attraverso l'invenzione di una tradizione, con la creazione di un'identità nazionale, tanto per citare rispettivamente Eric Hobsbawm ed Anne-Marie Thiesse. Nella loro forma attuale, i nazionalismi catalani e curdi sono dei prodotti della fine del XIX secolo, o dell'inizio del XX, piuttosto che attestare una "essenza" nazionale plurisecolare.
Facendo riferimento a Deleuze, essi rappresentano un "evento" che essenzializza una identità, anche se viene assegnata in maniera referendaria. Non dimentichiamo che Erbil [nel Kurdistan] è una città multietnica e multi-confessionale, che oggi, a causa del referendum è minacciata di esplosione e di pulizia etnica. Allo stesso tempo, ci si diverte pensando ad un catalano con un coniuge castigliano... Il referendum metter gli elettori davanti ad una scelta identitaria binaria che distorce la loro vita e la loro esperienza sociale.
Quanto al nazionalismo lombardo e alla Padania, si tratta di un'invenzione abbastanza kitsch, la quale non ha altro significato che il rifiuto dell'Altro, o di chi viene presunto tale: ieri il meridionale, oggi l'immigrato. Nel caso della Catalogna e dell'Italia settentrionale, la rivendicazione stato-nazionale ed identitarista avviene nelle regioni più industrializzate del paese, in quelle più ricche, quelle integrate meglio nell'economia capitalistica mondiale - quello che abbiamo qui, è un nazional-liberalismo la cui sociologia è differente da quella della Brexit o dell'elettorato di Trump. Il caso del Kurdistan ci rimanda soprattutto alla transizione da un mondo costituito da Imperi ad un sistema di Stati-nazione, di cui parlo ne "L'Impasse national-libérale". Le circostanze hanno privato i "Curdi" - denominazione che francamente non è stata controllata - dello Stato-nazione che era stato loro promesso a partire dalle rovine dell'impero ottomano.
Allo stesso modo degli armeni, sono rimasti presi nella tenaglia degli altri Stati-nazione, dallo Stato turco, dallo Stato iracheno, dallo Stato siriano, e dall'impero russo ricostituito secondo un modo sovietico all'indomani della prima guerra mondiale e della dislocazione dell'impero ottomano. Cercano la loro rivincita, e si scontrano con le medesime difficoltà che c'erano negli anni '20. Ma, qualunque sia l'esito della consultazione, è chiaro che il nazionalismo curdo, a Erbil, non ha niente contro il Mercato mondiale (il caso del PKK è assai diverso, anche se fa finta di aver abbandonato la sua ideologia rivoluzionaria abbastanza totalitaria, che gli occidentali preferiscono dimenticare nel contesto della loro lotta contro l'ISIS).
Gegeurope: Crede che si possa spiegare il recente successo del referendum in quanto mezzo di governo del "nazionale" da parte delle élite "liberali", come sembra suggerire un passaggio del suo ultimo libro, "L'Impasse nazional-libérale", sulla Brexit?
Bayart: Direi piuttosto che la tecnica referendaria si iscrive all'occorrenza nella continuità della dottrina wilsoniana dell'autodeterminazione delle minoranze, e del trattato di Versailles (così come dei trattati correlati). Con i risultati che sappiamo... La Shoa, la seconda guerra mondiale, la pulizia etnica dei tedeschi dell'Europa centrale e dei Balcani, l'ingegneria demografica dello stalinismo in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari. Una storia dalla quale non siamo ancora del tutto usciti, nonostante la costruzione europea, o nella quale ricadiamo con la grande risonanza delle radici cristiane o giudaico-cristiane.
Il caso della Brexit è diverso e costituisce un'anomalia politica per quel che riguarda la storia parlamentare del Regno Unito. Si lega al gioco delle tre carte di David Cameron, una sorta di gioco di prestigio che ha completamente sorpreso la classe politica britannica. Non è il generale de Gaulle ciò che vuole. Quest'ultimo aveva fatto una scelta plebiscitaria. David Cameron ha pensato di farla franca sottoponendo a referendum una Brexit che non voleva. Inoltre, il referendum può essere anche al servizio di una concezione universalista, e non identitaria, della città, una cosa tipo quel "plebiscito quotidiano" con cui Renan definiva la nazione - sebbene autori come Marcel Detienne o come Gérard Noiriel hanno giustamente sottolineato che non sono obbligati tutti a parteciparvi, e che questa concezione della nazione forse non è troppo diversa da quella del nazionalismo etno-culturale tedesco contro il quale si voleva porre. Si dovrebbe riflettere anche sull'uso che in Venezuela ha fatto Maduro del referendum, e che non spaventa Mélenchon: molto nazionalismo, poco liberalismo...
Gegeurope: L'affetto "nazionale" viene confuso con quest'altra tendenza che lei ha definito in un suo libro recente: l'illusione identitaria?
Bayart: Certamente. Il nazionalismo è sempre l'invenzione di una tradizione, vale a dire di un'identità. La città è un atto immaginario, ed è stato il contributo di Benedict Andersen ad avercelo ricordato a proposito della nazione. Più fondamentalmente, l'immaginazione è costituente, come ha detto Paul Veyne a proposito della religione e della politica. Castoriadis, quanto a lui, parlava dell'istituzione immaginaria della società. Ecco che si pongono qui due domande.
Gegeurope: Questa istituzione immaginaria della società, in quale relazione si pone con il passato? Di rottura o di continuità?
Bayart: Su questo punto Castoriadis e Ricoeur non sono d'accordo. Penso che sia Bergson a contribuire con una risposta interessante, con la sua idea di "compenetrazione delle durate". E quindi, questa finzione, è utile o no? Non sono del tutto convinto dell'utilità dell'illusione nazionale che ha mandato a morte milioni di europei e di mediorientali nell'arco di un secolo, e che volentieri ha portato avanti la pulizia etnica, o perfino il genocidio. Il trionfo nella Turchia di Erdogan del nazional-liberalismo, il rinnovo della definizione etnico-confessionale della cittadinanza in Medio Oriente, da Israele all'Iraq passando dal Libano alla Siria, i demoni malvagi che si aggirano di nuovo per i Balcani, la brutalità anti-migranti dell'Unione Europa che va attribuita sempre più ad un Tribunale penale internazionale, non fanno sì che io possa abbandonare il mio scetticismo patriottico. Si è giustamente scandalizzati per i crimini del nazionalsocialismo e dello stalinismo. Ma non dimentichiamo che anch'essi sono indissociabili dall'idea nazionale. Ne "L'Impasse national-libérale", sono rimasto scioccato nel ricordare quelle terribili frasi di Victor Klemperer che, in piena seconda guerra mondiale, che mettono fianco a fianco il nazismo ed il sionismo, riconoscendo le cause dell'uno e dell'altro. Ma questi lettori spaventati - a cominciare da Laurent Joffrin - sembrano ignorare che è stato Victor Klemperer, le cui parole, per quanto scomode, meritano quanto meno un minimo di attenzione e di riflessione circa il modo in cui noi definiamo la nostra appartenenza politica.
Gegeurope: Qual è la sua prospettiva riguardo la situazione catalana ed il suo evolversi?
Bayart: Onestamente, non ne ho, poiché non conosco abbastanza la penisola iberica. Farò semplicemente notare che lo Stato assolutista spagnolo, potenzialmente nazionale, è nato dall'impero coloniale, fra il XVI ed il XVII secolo, e che la Spagna contemporanea è, costituzionalmente, uno Stato plurinazionale, un po' come lo è il Regno Unito. La questione catalana riecheggia quella scozzese, e non ha alcun equivalente in Francia, o in Italia.
Gegeurope: Nel nostro lavoro, abbiamo cercato più volte di riprendere la vecchia opposizione geopolitica fra nomadi e sedentari, articolandola a partire da una nuova tipologia: nomadi virtuali (quelli che possono partire senza essere declassati) e sedentari essenziali (coloro per i quali un dislocamento è essenzialmente un declassamento). Il nazional-liberismo non è forse un tentativo di organizzare politicamente un ordine geo-politicamente rovesciato, a causa dell'emergere relativamente recente di modi di dislocazione pressoché istantanea di persone e di flussi che venivano trattenuti dagli Stati-nazione? L'impasse nazionale-liberale non è forse causata dall'assenza di una configurazione geopolitica adeguata ad un'accelerazione?
Bayart: Sono sempre un po' sospettoso verso questo genere di opposizioni binarie che, in questo caso, danno troppa importanza all'idea della virtualità, a mio avviso piuttosto abusata, e lasciano nell'ombra altri fenomeni. Avendo lavorato molto sull'Africa, per esempio, constato piuttosto che l'instaurazione di un ordine nazional-liberale tende a costringere alla sedentarietà gli africani - i quali sono storicamente avidi di mobilità, ed in particolare coloro che sono dei veri e propri nomadi - territorializzandoli, e questa dislocazione viene vista dai migranti come se fosse un'opportunità, una consacrazione sociale; cosa che naturalmente non impedisce alle altre dislocazioni di essere dei declassamenti, se non peggio, in caso di guerra o di espulsione. D'altra parte, il concetto di nazional-liberalismo non riguarda solo il periodo più immediatamente contemporaneo, ma vuole rendere più comprensibile questo effetto di triangolazione fra integrazione mondiale, universalizzazione dello Stato-nazione e generalizzazione dell'identitarismo che può essere osservato a partire dal XIX secolo.
Per quel che attiene a questo effetto di "accelerazione", è tutto relativo. Un'esperienza del genere, l'hanno fatta, parallelamente, i nostri antenati con il battello a vapore, il telegrafo, il telefono, l'aereo. Ricorrendo ad un binomio, ripeterei che il nazional-liberalismo, è liberalismo per i ricchi, e nazionalismo per i poveri. Oggi, così come nel XIX secolo. Tuttavia, la formula è troppo polemica per non essere troppo facile. Il contributo dato dalla sociologia storica e comparata della politica alla quale mi rifaccio mantiene una sua riluttanza nei confronti di ogni forma di ragionamento binario o lineare.
Gegeurope: Non vedo delle differenze qualitative fra il nazional-liberalismo di Orban, di Marine Le Pen o di Macron e quello di Xi, di Putin o di Trump. Questi ultimi sembrano disporre di una effettiva capacità di trattenere, almeno in parte, i flussi (cioè, gli oligarchi russi vivono nel nomadismo che viene loro permesso a partire da delle enorme quantità di denaro, e sono in parte sedentarizzati a causa dei loro legami con Putin - possono vivere a Londra o a Courmayer, ma vengono penalizzati dalle sanzioni). Non abbiamo perciò a che fare con un liberalismo neo-nazionale?
Bayart: Il nazional-liberalismo è un Idealtipo che non corrisponde mai alla realtà di una società concreta. Si tratta di un concetto. Inoltre, questo idealtipo è intellegibile solo alla luce di una storicità propria delle società che stiamo considerando.
La posta in gioco non è mai la stessa, non più, da un caso all'altro, in particolare in materia di libertà civili. Utilizzerei piuttosto la metafora del barista: il nazional-liberalismo è un cocktail che ciascun barista compone e prepara alla sua maniera. C'è quello che spinge sul nazionale, mentre l'altro lo fa sul liberale. Ma nessuno può fare a meno di uno di questi ingredienti, a meno di non inventare un altro cocktail. La differenza qualitativa fra queste diverse versioni del cocktail nazional-liberale, consiste nel suo carattere letale. Xi e Putin in questo sembrano essere in buona posizione. Ma non dimentichiamo che la repressione, molto nazional-liberale, dell'immigrazione attuata dalla virtuosa Europa ogni anno fa più morti di Boko Haram.
Gegeurope: Si può rintracciare, come lei fa più volte nel suo libro, una chiara tendenza infra-europea al nazional-liberalismo (in Francia, la Le Pen insiste sul nazionale, Macron insiste sul liberale). Tuttavia, allorché si cambia scala, si pone una domanda. La politica europea continentale esprime veramente delle tendenze nazional-liberali? Come lo spiega lei il fatto che non lo faccia?
Bayart: Sì, certo, poiché il nazional-liberalismo, su scala nazionale, è indissociabile dalla "governance" - preferirei dire la "governamentalità", nel senso foucaltiano del termine - su scala europea. Tutte le politiche pubbliche degli Stati membri dell'Unione vengono passate al setaccio da quest'ultima, e perfino parametrate per quel che riguarda la loro adesione al neoliberismo, che oggi è l'ultima versione del nazional-liberalismo.
Di fronte al neoliberismo di Bruxelles, i popoli europei sono come i Curiazi: elettoralmente, vengono uccisi uno dopo l'altro. Fino a quando non ci sarà un esercizio europeo del suffragio universale, l'alternanza non sarà possibile, ed è questo il motivo per cui i governi nazional-liberali non ne vogliono sentir parlare, e si aggrappano ad un'Europa dell'inter-governamentalità. È questo quello che blocca il continente nel neoliberismo, e permette loro di sottrarsi ad ogni responsabilità politica, e di scaricare tutto sulla malvagia Bruxelles.
Un'interessante esperienza di laboratorio: in che modo il nazional-liberalismo va a riconfigurarsi in Gran Bretagna dopo la Brexit? Perché sarà il «Regno Unito per primo» che non rinuncerà alla globalizzazione liberale, come dimostra la storia dell'imperialismo britannico, che ha sempre messo al primo posto i suoi interessi finanziari rispetto a quelli che sono i suoi interessi industriali, commerciali o territoriali, com'è stato dimostrato da Cain ed Hopkins. Ugualmente eloquente, su questo piano, è anche il "trumpismo": fa appello al protezionismo commerciale e demografico, ma al Tesoro nomina un ex fiduciario di Goldman Sachs.
Gegeurope: Nel suo ultimo libro, lei ha insistito più volte sugli errori di interpretazione dovuti ad una griglia di lettura che comporta una sorta di schizofrenia politica che ha conseguenze disastrose. A suo avviso, quali sono le discipline nell'ambito delle scienze sociali (quali sono le scuole e le istituzioni) che permettono di indugiare facilmente ad una simile schizofrenia?
Bayart: Indubbiamente l'economia, che ha voltato le spalle all'economia politica, e la scienza politica, quando abbraccia la normatività della "governance", dimentica il potere - il concetto di governance, è Foucault senza il potere - e trasforma i suoi ricercatori e i suoi insegnanti in "cani da guardia" del nazional-liberalismo. Non è certo il senso critico - nella sua accezione filosofica del termine, non nella sua accezione militante - quel che soffoca la maggior parte dei miei cari colleghi.
Vorrei solo far semplicemente notare che il ricercatore deve praticare l’effetto di straniamento tanto caro a Brecht - "Verfremdungseffekt", generalmente maltradotto con il termine di "distanziamento", mentre in tal caso Brecht parlava allora di "Distanzierung" – ed è quello che io chiamo "cinismo euristico". Dev'essere un libero pensatore, e non un portavoce del governo, un intellettuale organico.
Intervista pubblicata da Gegeurope su Le Grand Continent, il 27/9/2017
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