L’eredità di quanto si manifestò nel ’68 non è nelle risposte e nelle proposte che allora furono elaborate. È davvero nella ripresa di quel grido, profetico al di là di quel che allora si percepiva: questo non è che l’inizio. Il sistema scolastico, il lavoro, la cultura capitalista, la Chiesa, il ruolo della donna, la politica: come movimento di massa il Sessantotto intercettò i problemi innescati da un mondo che stava cambiando, e con la sua forte carica contestataria mise in discussione ogni singolo ambito della vita sociale. Se le risposte che diede furono spesso velleitarie o sbagliate, esso tuttavia registrò e accompagnò quella transizione di civiltà di dimensioni epocali che si sarebbe manifestata appieno più tardi e che oggi ci sfida prepotentemente.
( dal risvolto di copertina di: Paolo Pombeni, «Che cosa resta del ’68», il Mulino, Bologna, pagg. 128, € 12.)
L’eredità (mancata) del ’68
–di Raffaele Liucci -
La densa riflessione di Paolo Pombeni sul Sessantotto si apre con la «primavera dei popoli» del 1848, quel vasto movimento che incrinò la Restaurazione e, benché sconfitto, gettò i semi del costituzionalismo e del principio di nazionalità, destinati a ridisegnare l’Europa in cui ancor oggi viviamo. Un parallelismo, quello tra 1848 e 1968, in apparenza sacrilego. Cosa hanno in comune i Cattaneo, i Manin, i Mazzini, i Montanelli, i Saffi con i ben più modesti Capanna, Sofri, Brandirali e Negri? Ma Pombeni – che pure ammette di aver partecipato, giovanissimo e «in quinta fila», al clima di quegli anni – ragiona ora da storico, non da testimone. Quarantotto e Sessantotto hanno più di un trait d’union: non furono soltanto fugaci eruzioni improvvise, bensì il risultato di una lunga incubazione i cui effetti si estenderanno ben oltre la conflagrazione del momento.
Per comprendere l’eredità del Sessantotto italiano, Pombeni ci invita a non soffermarci esclusivamente sugli slogan iperbolici, sugli esami di gruppo, sui vitalizi di Mario Capanna, sui tanti intellettuali di contropotere poi diventati mediocri uomini di potere. Meri epifenomeni, rispetto alla profondità delle correnti che agitavano la società, spesso sfuggendo alla percezione tanto dei contestatori quanto dei loro avversari. Del resto, il discorso pubblico sul Sessantotto è tuttora distorto dalle visioni di parte, apologetiche o denigratorie. Scandagliato invece con gli occhi dello storico, quell’annus mirabilis (o horribilis) rispecchia una mera «transizione di civiltà», né buona né cattiva in sé.
Il «mondo che abbiamo perduto» collassò come un castello di carte non soltanto a causa del «vento della protesta» o di un generico crollo dei valori, ma soprattutto perché edificato su un equilibrio precario. Quanti lo rimpiangono, dovrebbero interrogarsi sui motivi di questa débâcle: «Se fosse stato una solida costruzione di pietra avrebbe probabilmente resistito e costretto gli assalitori a conquistarlo davvero per trasformarlo dall’interno, piuttosto che bearsi della contemplazione delle sue rovine rase al suolo con troppa facilità».
In questa frase è forse racchiuso il senso dell’intero ragionamento di Pombeni. Da un lato, la società ingessata messa in crisi dal Sessantotto conteneva le premesse della propria disgregazione, perché incapace di adeguarsi alla modernità incalzante. Dalla morale sessuofobica al sistema educativo, dall’ottuso classismo alla famiglia autoritaria, il catalogo è fitto. Dall’altro lato, però, questa dissoluzione è stata talmente repentina e irreversibile che alla forza della pars destruens non è seguita una pars construens proporzionata alla sfida lanciata. Anche qui, gli esempi non mancano. L’idolatria della rivoluzione ha sdoganato «l’inclinazione alla violenza come (illusoria) levatrice della storia». Il sindacalismo ideologizzato ha gettato alle ortiche l’«interesse generale», trasformandosi nel «difensore dei soprusi e dei privilegi ingiustificati dei lavoratori». La demonizzazione preconcetta del libero mercato ha prodotto «un keynesismo volgare che riteneva si potesse operare in deficit sulle disponibilità presenti nel bilancio pubblico». Il radicalismo millenaristico ha privato il Paese di una salda cultura riformista. Lo spirito trasgressivo ha soffocato il rispetto delle regole. L’equiparazione dell’autorità all’autoritarismo ha finito col negare che «un principio di autorità sia necessario anche per l’organizzazione del sapere», pena l’anarchismo metodologico.
Quest’ultimo aspetto spicca anche nel campo degli studi storici. Prima del Sessantotto, era quello un milieu forse sin troppo polveroso e paludato. Svecchiandolo, si è però buttato via il bambino con l’acqua sporca. Oggi ci sono storici che non soltanto non hanno mai messo piede in vita loro in un archivio, ma che addirittura teorizzano un metodo del genere: prigionieri di un’ipertrofia interpretativa che ha privilegiato le fonti immaginifiche e messo da parte i capisaldi del mestiere, ossia il rispetto dei fatti e il rigore degli scavi documentari. Per non parlare dell’iperspecialismo trionfante. Cosicché gli antichi maestri di un tempo, capaci di muoversi agevolmente attraverso cinque o sei secoli di storia, ci appaiono figli di una stagione di studi irripetibile.
Il Sessantotto non è passato invano neppure sul versante religioso. In pagine fra le più ispirate del libro, Pombeni illustra gli influssi a lungo termine non soltanto sulla politica cattolica, ma anche sull’organizzazione istituzionale della Chiesa e sul modo di vivere la fede, riscoprendo i «temi più autenticamente religiosi, legati alle grandi domande della vita». Anche per merito del Sessantotto, l’attuale presenza cattolica nella società italiana è quanto mai lontana da quella restaurazione sognata dalle alte gerarchie all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ma è pure vero che la modernizzazione delle istituzioni ecclesiastiche non ha sempre assunto fisionomie progressiste. Forse sarebbe esagerato reputare Giovanni Paolo II un figlio del Sessantotto, eppure, come sottolinea Pombeni, egli fu assai abile nel rivestire con un involucro comunicativo particolarmente moderno un messaggio tradizionalista.
In definitiva: il Sessantotto ha vinto o perso? È risultato vittorioso sul piano del costume, perché ha sancito ufficialmente una laicizzazione socioculturale da tempo latente. E tuttavia, conclude Pombeni, la nostra epoca è assai lontana da quella immaginata dai sessantottini e paventata dai loro nemici. Forse perché è il frutto di mutamenti che gli intellettuali del Sessantotto non avevano lontanamente immaginato, dall’avvento dell’informatica a un mondo del lavoro sempre più destrutturato. Si parla persino di fine della modernità, «qualcosa di più complesso della retorica sul postmoderno». Riusciranno le nuove generazioni, come si augura Pombeni, a concorrere per «dare uno sbocco costruttivo alla grande trasformazione in cui ci troviamo immersi»?
- Raffaele Liucci - Pubblicato sul Sole del 30/1/2018 -
La leggenda nera del Sessantotto
- di Marco Bascetta -
Cinquanta anni ci separano dal 1968, tanti quanti separano quell’anno dalla prima guerra mondiale e dalla rivoluzione di ottobre. Un abisso storico. Sufficiente a decretare la piena inattualità di quella stagione. Anche se, come i movimenti degli anni ’60 e ’70 non mancarono di fare, dal passato, anche il più inattuale, è pur sempre possibile trarre ispirazione. Dalla comune di Parigi e perfino dalla ribellione spartachista.
Gli anni della contestazione sono diventati insomma, di decennale in decennale, un periodo storico indagato, ricostruito, interpretato a più riprese e da diversi punti di vista. Oppure l’oggetto di nostalgie talora compiaciute, talaltra risentite. Non resterebbe dunque che mettersi nella scia della tradizione storiografica o memorialistica più vicina alla nostra sensibilità politica in cerca di qualche aspetto e significato rimasto fino ad oggi in ombra. Se non fosse che un riferimento costante a quell’anno pervade insistentemente tutta la più recente storia politica in buona parte del mondo. Si tratta dell’odio per il ’68, reale o immaginario, schiacciato su questa o quella lettura del suo «spirito», della «leggenda nera» che gli è stata ricamata addosso e che, più o meno manifestamente, sottende il discorso pubblico dominante e gran parte delle cosiddette «riforme» dell’ultimo trentennio. È dunque l’attualità di questa avversione che meriterebbe di essere presa in esame.
Ad ogni anniversario rifiorisce contrapponendosi alle celebrazioni, una pubblicistica alquanto mediocre che si vorrebbe «controcorrente» anche se, in realtà, asseconda pienamente il «revisionismo» dominante. Neanche un autore originale e acuto come Mario Perniola è sfuggito a questo vezzo con il suo Berlusconi o il ’68 realizzato del 2011, nel quale fa del rifiuto della cultura, delle competenze e di ogni limite oggettivo la cifra caratteristica del mondo sessantottino. Questa pubblicistica, non solo italiana, è accomunata dal guardare agli eventi, alle idee e agli stati d’animo dei movimenti dell’epoca in un ottica essenzialmente nazionale che, nel frammentare il fenomeno per poter emettere la propria sentenza, perde completamente d’occhio la complessità del passaggio storico nella sua dimensione globale.
Ad ogni buon conto i fustigatori del’68 si dispongono lungo due direttrici argomentative prevalenti. La prima imputa alla gioventù ribelle di quella stagione la responsabilità di aver aperto la strada, con il suo individualismo narcisistico e la sua insofferenza nei confronti di ogni regola, nonché con il suo radicale antistatalismo, alla deregulation neoliberista e al trionfo della competitività. Pionieri di un anticomunismo insidioso e vincente nel suo sventolare le bandiere rosse e brandire la falce e il martello. Un punto di vista non dissimile, in fondo, da quello espresso dai sovietici sulla Primavera di Praga.
La seconda corrente accusa invece i contestatori di aver coltivato germi totalitari (Unser Kampf dello storico tedesco Goetz Aly che stabiliva improbabili similitudini tra i giovani del ’68 e quelli ’33), o, tutto al contrario, di un anarchismo che minava ogni ordine sociale e disciplina produttiva. In sostanza di aver mandato a rotoli il buon funzionamento della vita in società. Attendiamo al varco chi farà risalire al 1968 l’origine delle molestie sessuali. Agli uni e agli altri presta ripetutamente i suoi servigi il sermone della psicoanalisi alla moda che, afflitto dall’eclissi della figura paterna, reclama regole, limiti e autorità. Talvolta a nome di un perbenismo anticapitalistico, talaltra del perbenismo punto e basta. La discreta confusione mentale che regna nei due campi, sovente contigui o intrecciati, impedisce di attribuirli univocamente alla destra o alla sinistra.
Ma non è tanto questa pubblicistica, tutto sommato marginale, quanto una teoria ininterrotta di scelte politiche concrete a incarnare l’avversione per il ’68 e a decretarne l’attualità. La lunga sequenza delle riforme della scuola e dell’università che di fallimento in fallimento le ha condotte alle misere condizioni in cui versano oggi non si spiegherebbe se non attraverso questo filo conduttore. Nessun’altra logica se non quella di cancellare lo spettro del Sessantotto può dar conto di un’insistenza così povera di risultati.
Irreggimentare i corsi di studio nell’incertezza crescente degli sbocchi professionali, moltiplicare gli sbarramenti e i numeri chiusi di fronte a un calo progressivo degli iscritti, burocratizzare le procedure, istituire pleonastici e gravosi apparati di controllo che spacciano l’arbitrio per «meritocrazia», affidarsi a una domanda delle aziende sempre più misera e aleatoria sono tutte scelte di natura squisitamente ideologica al servizio di un ordine astratto e irreale alle prese con i fantasmi del passato. Per non parlare del vertiginoso aumento delle tasse universitarie (che non colpiscono il numero insignificante dei ricchi, ma il vasto ceto medio impoverito) motivato da quella gretta concezione secondo cui lo studio non rappresenta una condizione generale di crescita dell’intera società ma un puro e semplice investimento di capitale a beneficio dei singoli in carriera.
Come spiegare, poi, il ritorno prepotente dell’etica del lavoro nell’epoca della sua crescente scarsità, precarietà, intermittenza? Quanto peggio pagato e povero di diritti tanto più esaltato nel suo «valore morale». Quanto più sostituito dalle moderne tecnologie, tanto più imposto come fattore di riconoscimento sociale da conquistarsi con fatica e abnegazione. Questa enfasi, in aperta contraddizione con la natura attuale delle forze produttive, non si spiega se non come una resa dei conti con chi pretendeva che il lavoro non dovesse più costituire il centro della vita, il principio di identità dei singoli e la base privilegiata della rappresentanza politica. Con chi ne considerava l’eclissi come una conquista di civiltà.
Il Sessantotto, insomma, contro «l’uomo a una dimensione». L’alternanza scuola-lavoro incarna perfettamente quel principio di «addestramento» (cosa ben diversa dall’acquisizione effettiva di competenze) che la cultura critica degli anni ‘60 aveva radicalmente preso di mira come grave minaccia alla libertà di scelta e modalità di integrazione subalterna nella gerarchia sociale. Alla critica del lavoro che c’era subentra l’esaltazione del lavoro che non c’è. Alla conquista del welfare, la disciplina punitiva del workfare.
La deregulation neoliberista assurdamente considerata, almeno sul piano antropologico, una conseguenza dell’individualismo libertario di fine anni ’60, in realtà di libertario non conteneva assolutamente nulla. Si è accompagnata infatti a una iper-regolamentazione della vita quotidiana, a un proliferare infinito di censure, divieti, diritti proprietari, motivati dalla volontà di porre fine alle pretese di autodeterminazione delle soggettività politiche emerse proprio in quegli anni e di ricondurre ogni esercizio di libertà alla dimensione privatistica dello scambio mercantile. Né servirebbe spendere troppe parole per spiegare come tutte le politiche condotte sotto la bandiera della «tolleranza zero» e della sicurezza non siano state semplicemente una crociata draconiana contro la criminalità o le cosiddette «classi pericolose», ma una criminalizzazione a tappeto di ogni devianza e ogni conflitto che il decennio dei movimenti avevano valorizzato.
Per concludere questa provvisoria ricognizione delle politiche e delle ideologie che continuano a fare della resa dei conti con il Sessantotto buona parte della loro ragion d’essere, non si può certo tralasciare la riscoperta dei «valori tradizionali» nella chiave di un conformismo xenofobo e identitario che rovescia nel suo contrario quella scoperta dell’Altro che negli anni ’60 e ’70 aveva rappresentato un principio critico nei confronti dell’autocelebrazione dell’Occidente e delle sue politiche di rapina mascherate da progresso.
La persistenza dello spettro sessantottino è una delle diverse spie che meglio rivelano la natura del capitalismo contemporaneo. Il neoliberismo, infatti, a differenza del suo antenato liberale, si manifesta nella forma della controrivoluzione. Caratteristica di una controrivoluzione non è tanto il ripristino delle condizioni che precedevano l’insorgenza rivoluzionaria ( a prescindere dal suo grado di radicalità o di successo) quanto la neutralizzazione o la messa sotto controllo dei possibili fattori di cambiamento, in un processo articolato di delegittimazione delle soggettività ribelli. Una controrivoluzione, in altre parole, non restaura un assetto ma un corso della storia ritenuto alterato e deviato dall’illusoria ricerca di un’alternativa. E imputa a quella ricerca effetti grotteschi o disastrosi. È dunque la facoltà stessa di ricercare che essa intende abrogare. Non è un caso che un controsenso come il «non ci sono alternative», sia diventato la colonna sonora preferita dall’establishment.
Sia chiaro, la controrivoluzione neoliberista si è trovata a fare i conti con una storia ben più lunga e potente della stagione a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, che tuttavia ha rappresentato l’ultimo momento in cui un diverso corso (diverso anche dal socialismo d’anteguerra e dalla sua discendenza) fu spasmodicamente sperimentato. Per questa ragione l’«odio per il ’68» occupa un posto così importante nel discorso pubblico e influenza ancora a distanza di mezzo secolo le riforme politiche destinate a garantire l’ordine del mercato e l’autorità dello stato che gli fa da cornice. Del 1968 si può insomma pensare tutto quello che si vuole, dilettarsi a celebrarne le virtù modernizzatrici o stigmatizzarne le distruttive illusioni, a patto di non perdere di vista gli effetti di quella demonizzazione implicita che ne sottende financo la celebrazione.
Ogni politica di «legge e ordine» ha assoluto bisogno di un tempo del caos con il quale misurarsi, del ricordo di un mondo turbolento e minaccioso che faccia risaltare la pacificazione che essa promette sorvolando sugli inconvenienti che comporta. Alla stagione dei movimenti è toccato in sorte questo compito. Il «libro nero» del Sessantotto ci rivela ciò che oggi i poteri costituiti aborriscono e temono. È la ragione per cui vale la pena di sfogliarlo tra un decennale e l’altro.
- Marco Bascetta - Pubblicato sul Manifesto del 28.1.2018 -
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