Oltre il moralismo e l'economicismo
- di Michael Heinrich -
Nelle teorie dell'imperialismo si incontrano economicismo e critica moralizzatrice. E in tal modo non ci permettono di analizzare il capitalismo mondiale. In un epoca nella quale il discorso sulla società civile minimizza la nocività del capitalismo, e mentre le guerre vengono presentate come se fossero degli interventi volti a promuovere i diritti umani, il discorso che fa riferimento al concetto di imperialismo può apparire radicale. Negli anni '90, numerosi ex-estremisti di sinistra - avendo nel frattempo scoperto le virtù del mercato - hanno perciò abbandonato il concetto di imperialismo. Però, non dobbiamo concludere che l'attaccamento alle teorie dell'imperialismo ci possa permettere di portare avanti una critica radicale dell'ordine esistente.
In generale, il concetto di imperialismo dovrebbe servire a rendere evidente il fatto che la politica delle potenze dominanti non mira affatto a rendere migliore il mondo, bensì ad imporre gli interessi del capitale. Di fronte ad ogni intervento militare di una «potenza imperialista», i teorici dell'imperialismo si lanciano alla ricerca delle fonti di materie prime, o dei percorsi per i potenziali gasdotti che andranno a costituire le «vere cause» delle operazioni condotte dallo Stato in questione.
La teoria dell'imperialismo di Lenin - combinando il marxismo volgare della socialdemocrazia dei suoi tempi con la critica borghese dell'imperialismo svolta da John A. Hobson - si basa sulla tesi secondo cui «il capitalismo della concorrenza» sarebbe stato rimpiazzato dal «capitalismo monopolistico». Non sarebbe più la concorrenza e la legge (impersonale) del valore, ma il dominio cosciente della «oligarchia finanziaria» - quello dei rappresentanti del capitale finanziario, vale a dire l'associazione del capitale industriale e di quello bancario - a caratterizzare il capitalismo contemporaneo. Questa «oligarchia finanziaria» si sarebbe anche impadronita dello Stato, e quindi la politica estera ora servirebbe solamente a garantire le esportazioni di capitali ed al controllo sulle fonti di materie prime.
Contro questo punto di vista, è già stato dimostrato, in più occasioni, che questa caratterizzazione del capitalismo del XX secolo, visto in termini di «dominio dei monopòli», non è per niente adeguata. La crescente concentrazione del capitale, la cosiddetta «prova empirica» della monopolizzazione, non è affatto sinonimo della scomparsa della concorrenza, e del dominio personale di alcuni monòpoli. Questo perché la concezione economicista di Lenin e di Hobson, per la quale lo Stato è innanzitutto strumento per l'imposizione degli interessi dell'oligarchia finanziaria, non regge e non può essere mantenuta. Tuttavia, le concezioni economiciste dello Stato e della politica continuano ad essere ampiamente diffuse, ben al di là delle correnti leniniste. Conseguentemente, quest'aspetto delle teorie dell'imperialismo non viene quasi criticato.
Un altro aspetto essenziale della teoria dell'imperialismo ispirata da Hobson: la critica moralizzatrice dello sfruttamento dei popoli stranieri (e non solo dei propri) da parte dell'imperialismo. Ogni discorso sul carattere «parassitario» dell'imperialismo - che in Lenin svolge un ruolo importante - proviene, parola per parola, da Hobson. Una simile concezione appare coerente rispetto ad una critica borghese dell'imperialismo che mira a sostituire il cattivo capitalismo imperialista con un capitalismo migliore e riformato, ma non per un teorico che cerca di formulare una critica fondamentale del capitalismo. Questa critica moralizzatrice è stata mantenuta, sotto più forme, nelle nuove versioni della teoria dell'imperialismo, anche se non fa più una questione di «parassitismo». Seguendo la linea di Lenin, la resistenza «nazionale» dei paesi sfruttati dall'imperialismo, che mirano alla creazione del loro proprio Stato, è stata vista come se fosse un progetto progressista a priori, in quanto antimperialista. Per quanto, in molti paesi, questa resistenza possa essere comprensibile, ciò non significa che la lotta per uno Stato borghese sovrano abbia una qualche relazione con il socialismo, o che addirittura possa minare il funzionamento del sistema capitalista mondiale, come pensava il movimento studentesco degli anni 1960-1970 a proposito del movimento antimperialista nel Terzo mondo.
Questa combinazione di economicismo e di moralismo ci spiega perché, ieri come oggi, le teorie dell'imperialismo non siano riuscite a fornire degli strumenti pertinenti all'analisi del capitalismo globale. Il fatto che oggi i gruppi di estrema destra si considerino «antimperialisti» e che esaltano le lotte dei «popoli oppressi» non ci parla solamente di un furto intellettuale. Anche se «l'antimperialismo» di sinistra non può essere messo sullo stesso piano di quello della destra, l'esistenza di un anti-imperialismo di destra costituisce un indicatore di quello che è il deficit fondamentale delle teorie dell'imperialismo. Tuttavia, se si cerca di parlare di imperialismo e si cerca di superare le scorciatoie economiche, allora il significato analitico di questo concetto rimane per lo più oscuro. Sarebbe più coerente sbarazzarsi di un simile vecchiume impregnato di marxismo volgare, di economicismo e di moralità proveniente dal marxismo tradizionale.
Ciò però non significa che le relazioni di dominio e di dipendenza economica non svolgano più un ruolo sul piano internazionale, come invita a pensare il discorso sull'emergere di una società civile globale, in cui in ultima analisi tutto verrebbe ad essere sottomesso al «Diritto». Il tentativo di superamento delle teorie dell'imperialismo fatto da Antonio Negri e Michael Hardt, si avvicina in larga misura a queste concezioni affermative, in particolare per quanto riguarda la loro idea secondo la quale la concorrenza inter-imperialista, descritta in maniera adeguata dalle teorie classiche dell'imperialismo, verrebbe ad essere sostituita da un singolo Impero, privo di un esterno e di un centro di potere. In questo modo, la critica non prende veramente di mira l'economicismo, e si accontenta di constatare che le relazioni apparentemente più trasparenti del passato si sarebbero dissolte.
Quindi, andrebbe sottolineato, anche da una prospettiva non economicista, che lo Stato borghese in quanto «capitalista collettivo ideale» deve assicurare le condizioni per la possibilità dell'accumulazione capitalista. In particolare, questo dovrebbe garantire, attraverso la sua funzione di Stato sociale, l'esistenza di una classe che può essere sfruttata. Quest'ultima non è solo una condizione funzionale del capitalismo, ma è anche un prerequisito dell'esistenza economica dello Stato che si basa su delle entrate fiscali sufficienti, su una spesa sociale limitata e su una moneta «stabile».
Tuttavia, questa rassicurazione statale di una accumulazione riuscita, non è guidata da una considerazione politica degli interessi di classe preesistenti. Tutto quello che è necessario ad una tale rassicurazione statale, il modo in cui vengono ripartiti vantaggi ed inconvenienti dev'essere innanzitutto determinato all'interno delle diverse istituzioni statali e della «sfera pubblica borghese», e dev'essere oggetto di un consenso sociale. Quest'ultimo aspetto non attiene solamente all'adesione delle differenti frazioni del grande capitale, ma deve anche ottenere il consenso delle classi subalterne per quel che riguarda gli oneri e i sacrifici richiesti. Tuttavia, la produzione di questo consenso non costituisce il progetto cosciente di un gruppo di politici onniscienti, ma si svolge nell'ambito delle forme feticizzate della socializzazione capitalista, nell'ambito della «religione della vita quotidiana» (Marx). A livello internazionale, non ci troviamo solo di fronte ad una collisione di questi Stati con quelli che sono gli interessi che essi difendono. Mentre le relazioni inter-statali sono mediate da una miriade di istituzioni internazionali, la crescente internazionalizzazione del capitale coinvolge a sua volta degli attori non statali ed impone agli Stati nazionali delle restrizioni specifiche, che sono allo stesso tempo stimolate dalla loro politica. Questo complesso intreccio è caratterizzato da una moltiplicazione delle contraddizioni e dei livelli a cui si esprimono. Stati della Nato che fanno fianco a fianco la guerra ad uno Stato terzo, possono perseguire, nel contesto dell'OMC [Organizzazione Mondiale del Commercio], degli interessi divergenti, fino la punto di arrivare ad una vera e propria guerra commerciale.
Pertanto il potere dello Stato non scompare affatto e non viene nemmeno livellato. Possiamo ancora parlare di egemonia americana, anche se il concetto di «egemonia» designa assai più che la semplice imposizione, da parte degli Stati Uniti, dei loro «propri» interessi, definiti in senso stretto. Si tratta di garantire un certo «ordine» del sistema capitalistico mondiale, dal quale gli altri possono trarre più o meno profitto (come ricompensa della loro accettazione della potenza egemonica). Tuttavia, l'Unione Europea, attraverso il suo sviluppo che va in direzione di una formazione di un insieme statale proprio, potrebbe emergere come un concorrente, non solo economico ma anche politico, degli Stati Uniti.
A livello internazionale, è essenziale per tutti gli Stati che si creino e si mantengano delle possibilità di azione autonome, come dimostrano i tentativi disperati della Germania riunificata di partecipare agli interventi militari in Somalia, nel Kosovo o in Afghanistan. L'utilizzo di una potenza militare «sovrana» dev'essere imposta e normalizzata sia nei confronti degli alleati sospettosi che nei confronti della propria popolazione.
Guadagnare in influenza ed esercitare un dominio, sono condizioni importanti per poter giocare al livello della politica mondiale. Perciò, numerose azioni politiche e militari, volte a garantire la sicurezza delle sfere d'influenza e la neutralizzazione dei potenziali rivali, non possono essere spiegate riducendole alla promozione di interessi capitalistici specifici.
Se le cerchiamo, ci saranno sempre delle fonti di materie prime e dei gasdotti, per poter spiegare i conflitti militari. Ma non c'è niente che può sembrare meno sicuro che affermare che sono queste le vere cause di questi conflitti, come affermano le frettolose conclusioni economicistiche delle teorie dell'imperialismo.
- Michael Heinrich - Pubblicato su Jungle World n° 16, 2002 del 10/2/2002 -
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