Jean-Pierre Vernant e altri studiosi come Marcel Detienne e Pierre Vidal-Naquet, oltre a delineare una panoramica delle istituzioni militari e a elaborare il ritratto psicologico del combattente, definiscono qui il ruolo, lo statuto sociale e il significato stesso della guerra nella civiltà greca.
Il mondo miceneo, il sistema classico e l’epoca ellenistica costituiscono i tre momenti in cui si articola il nuovo volto della guerra. Nel mondo miceneo, essa sembra costituire una funzione specializzata. Con la polis classica, la guerra diventa “politica” e l’attività guerriera si confonde con la vita in comune del gruppo. In epoca ellenistica, la guerra si separa dalla politica, per assumere la forma di un’attività professionale al servizio dei sovrani.
(dal risvolto di copertina di: "La guerra nella Grecia antica", di Jean-Pierre Vernant. Raffaello Cortina Editore.)
Vernant e i Greci collettivi del ’68 francese
- di Carlo Franco -
Caduti i muri e le ideologie, la storia ha fornito al nostro tempo varie occasioni per tornare a riflettere sulla guerra. Per molti europei essa ha smesso di essere una realtà remota nel 1991, con i video del bombardamento di Baghdad e gli scontri ai laghi di Plitvice. Eventi successivi l’hanno resa più insidiosamente familiare. Forse per questo il tema torna attuale anche per noi, «sicuri nelle nostre tiepide case». Di guerra hanno ripreso a trattare pure gli studi sul mondo antico: un settore per lungo tempo inquinato da retoriche guerrafondaie, ma ora aperto a sguardi seri e nuovi. Lo provano i libri di Giovanni Brizzi (Il guerriero, l’oplita, il legionario, 2003) e Marco Bettalli (Mercenari. Il mestiere delle armi nel mondo greco antico, ’13). Sintesi recenti offrono la Cambridge History of Greek and Roman Warfare (’07), mentre i Companion su Insurgency and Terrorism in the Ancient Mediterranean (’16), e Military Defeat in Ancient Mediterranean Society (’17) guardano più esplicitamente alla cronaca recente.
In tale quadro si pubblica l’edizione italiana di un volume collettivo su La guerra nella Grecia antica, curato da Jean-Pierre Vernant nel lontano 1968, ripreso nell’85 e nel ’99 (Raffaello Cortina Editore «Saggi», pp. lxiv +350, € 29,00). Il testo, tradotto da Ilaria Calini, è preceduto da un saggio di Umberto Curi, che delinea il lungo percorso intellettuale di Vernant e sviluppa considerazioni sul tema della guerra, cui Curi ha di recente dedicato numerosi contributi. Accostare il libro significa ripercorrere le vie dell’antropologia storica francese, donde i saggi, anche se non tutti nati in quel contesto, trassero il loro senso più profondo. Il punto di vista adottato non lasciò entrare nello studio del tema «nessuna rimozione, nessuna pregiudiziale svalutazione, nessun atteggiamento esorcistico, in nome di un indistinto appello di stampo pacifista». Questa concretezza non era scontata, dato il clima degli anni sessanta: osserva però Curi che un approccio alla guerra come elemento storicamente «necessario» (e non solo preparatorio della rivoluzione anticapitalistica) era ben coerente alla prospettiva di Marx. I contributi del libro furono sufficientemente liberi da schemi ideologici, così da restare attuali, a cinquant’anni dalla pubblicazione. Questo, anche se non riflettono lo stato presente delle conoscenze archeologiche, anche se l’interpretazione dipende talora da posizioni oggi non seguite. Viene anzi da chiedersi se la loro riproposta sia segno di validità e persistenza oppure di crisi, ossia della mancanza di saggi recenti di pari efficacia e sintesi. In qualche caso però sarebbe stato utile informare il lettore sugli sviluppi della ricerca successiva. Lo studio delle fortificazioni, per esempio, ha ricevuto un impulso notevolissimo tra archeologi, storici e epigrafisti: di tutto ciò il saggio di Yvon Garlan presente nel volume è proprio la premessa metodica.
Il libro nacque da seminari «collettivi», vòlti a indagare gli «atteggiamenti degli uomini» di fronte alla guerra e alle sue conseguenze. Fa da guida il concetto di «funzione guerriera», mutuato dagli studi di Georges Dumézil (Aspects de la fonction guerrière chez les Indo-Européens,1956), che aveva individuato nelle società tre «funzioni» pervasive, legate all’ambito religioso, guerriero, economico. E poi c’è Louis Gernet, il maestro di Vernant che aveva insegnato a guardare ai Greci «senza miracolo», ossia senza le idealizzazioni del filtro classicista. Al tema della guerra Vernant (1914-2007) approdava anche per l’esperienza personale nella resistenza all’occupazione nazista. Perciò il suo sguardo era libero sia dalle deprecazioni pacifiste sia dai fervori bellicisti. Per questo egli poteva analizzare l’etica dell’oplita spartano senza le ambigue implicazioni che contagiano la guerra dei greci, quando è letta in funzione delle «razze superiori».
Nei vari lavori (Detienne sulla falange, Vidal-Naquet sull’oplita ateniese), lo strutturalismo e l’antropologia storica sorreggono una lettura sistematica in cui tutto «torna» rigorosamente, e ciò fa effetto in un’epoca in cui tutto invece pare sempre «liquido». I due saggi di studiosi anglosassoni (Geoffrey S. Kirk su Omero, Moses Finley su Sparta) sono già diversi, più fattuali e più scettici allo stesso tempo. Altri contributi hanno un taglio più storico (Jean Taillardat sulla trireme, Garlan sulle fortificazioni, Pierre Lévêque sull’età ellenistica). Nella varietà, il quadro sui fatti e gli aspetti della «sociologia della guerra» nella Grecia antica è efficace. Certo, «guerra in Grecia» è un tema ampio. Il libro studia soprattutto l’età arcaica, dalla guerra omerica (anzi, dalle guerre del mito) a quella degli opliti, ripensate secondo le categorie antiche, esaminando i comportamenti riconosciuti meritevoli di biasimo o di elogio. Sparta e Atene rappresentano due poli fondamentali, meno opposti di quanto si crederebbe. Entrambe diffidarono a lungo del carisma che circonda il militare vittorioso, in quanto esso scardina l’uguaglianza del gruppo. Per Atene, l’emarginazione della funzione guerriera passò per il «discorso» democratico, che celebrava il «non specialismo» di ufficiali e soldati (vero in parte, certo non per la flotta). L’evoluzione storica di armi e soldati è da leggere in rapporto alla trasformazione sociale. Perciò la guerra del Peloponneso emerge come una svolta profonda nella società greca: mise fine ai giorni eroici dei guerrieri e della «bella morte», allentò alquanto il nesso tra la guerra e la comunità dei cittadini, aprì all’epoca dei professionisti della battaglia. Colse bene il punto Tucidide, che parlò di una «maestra di violenza» (3.82.2).
Non proprio impeccabile
Nell’introduzione si definisce la traduzione «davvero impeccabile per l’accuratezza e il rigore filologico». Il lettore incontra un quadro più vario. Nel saggio sulle triremi si ammirano impressionanti tecnicismi di marineria (i «traniti»!), si rinuncia però a tradurre «à clin», che come ciascun sa è il «fasciame a labbro». Più fastidiose certe sviste, ingannevoli per il non specialista. In quale lingua è la parola keleuste (p. 228)? Perché la grafia papyri? Che cosa sono le feste Apaturies (p. 7)? In corsivo, sembrano parole greche, ma. In quale lingua sono citati i «teti epibates» (p. 196)? Anche epibates, per di più in corsivo, pare una parola greca, ma non lo è: si tratta della resa francese di parole greche, secondo un uso diverso dall’italiano. Andava italianizzato in «epìbati» (come altrove, alle pp. 228-29, sfruttando il latino epibata), o traslitterato, scrivendo «epibàtai». Il testo francese può essere ambiguo, e certo ha generato lo stesso errore nella precedente traduzione italiana del saggio, e anche nelle versioni in tedesco e in spagnolo. Nullo il gaudio di questo mal comune. Che per tradurre Vernant serva sapere anche un po’ di greco antico? Mah. Il problema si ripropone per certi nomi propri. Sotto «Fravito» si cela Fravitta, celebre capo visigoto, mentre un ignoto «Eneo Tattico» è l’infelice esito (per tre volte!) di un non difficilissimo «Énée» (già, Enea…). D’altra parte, i pochissimi passi in greco generano refusi sfiguranti (p. 205), e un editing bizzarro rinvia per il testo degli editti del re indiano Asoka a un manuale di storia per i bienni (!) invece che all’edizione Adelphi, curata da Pugliese Carratelli… Rigore filologico, appunto.
- Carlo Franco - Pubblicato su Alias del 4/3/2018 -
La guerra innovatrice di Odisseo e Diomede
- di Giovanni Brizzi -
A cinquant’anni esatti dalla prima edizione (e a ben 54 dal convegno in Sorbona che ne aveva anticipato i temi…) esce in italiano la raccolta di saggi a cura di Jean-Pierre Vernant La guerra nella Grecia antica (Raffaello Cortina). Riparazione dovuta, se pur tardiva, verso un curatore e una raccolta che hanno coperto ogni fase cronologica (micenea ed omerica, arcaica, classica, ellenistica) e ogni aspetto (mitologia e politica, società, tecnica, diritto) del campo d’indagine prescelto; e che ne hanno affidato la trattazione ad alcuni tra i migliori studiosi, non solo francesi, di quell’epoca.
Tutto invecchia; ma gran parte dell’opera possiede ancora una straordinaria forza di pensiero, come sottolinea nella sua mirabile introduzione Umberto Curi, che arriva infine a rimpiangere funzioni e sostanziale innocenza della guerra antica. Già, perché Vernant — giovane e brillantissimo agrégé del 1937 divenuto poi il leggendario «colonel Berthier» a capo delle Ffi (Forze francesi dell’interno), la resistenza interna ai nazisti nel Sud Ovest della Francia, lo studioso sollecitato da Georges Dumézil a entrare nell’École pratique des hautes études e qui salito alla testa di una sezione dedicata alle scienze religiose, il leader carismatico di una «scuola» che annoverava figure come Marcel Detienne e Pierre VidalNaquet — era altresì l’«eretico» irriducibile a ogni schema, il marxista capace, prima ancora di uscire dal Partito comunista francese, di criticare un’ideologia per lui «senza più alcuna relazione con l’economia e la politica odierne» e di liberarsi di qualunque assunto preconcetto, a cominciare da quel pacifismo di maniera che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tanto aveva nuociuto alla corretta interpretazione della storia.
Della storia antica, in particolare: «La guerra era al centro della cultura classica… Nei mondi greco e romano — ha scritto lo storico Harry Sidebottom — quasi ogni cosa si possa leggere, ascoltare o guardare potrebbe evocare la guerra». E Vernant lo sapeva. « Pólemos è padre e re di tutte le cose», disse Eraclito; e il nostro autore ritiene che in Grecia sia la guerra la matrice di ogni mutamento; sicché, con siffatte premesse, «rovescia di fatto le modalità con le quali… è concepito il rapporto guerra-pace. È il primo termine del binomio, e non il secondo, a introdurci alla comprensione delle forme di organizzazione e funzionamento delle società antiche», osserva Curi.
La storia militare diviene così, per lui, ciò che dovrebbe essere sempre: un’insostituibile chiave di lettura. Governato da questa concezione, il volume offre una ricca serie di spunti, vitali ancor oggi, dei quali chi scrive è debitore di persona. Due temi, fra tanti.
Aprendo il fondamentale lavoro di quattro anni prima ( La fonction guerrière dans la Grèce ancienne) che prelude al volume collettivo di cui stiamo parlando, Vernant non si limita a sottolineare come la forza della falange oplitica risieda nella coesione dei ranghi serrati; ricorda che «la città rimodella i valori antichi. Ciò che conta nella guerra è la padronanza di sé, il senso dell’azione collettiva». Tra l’eroismo individuale di Aristodemo, che a Platea contro i Persiani si slancia «come un forsennato fuori dallo schieramento», e il valore cosciente di Posidonio, il quale rimane al suo posto in nome dell’eutaxía, della disciplina che fa degli opliti un mondo di uguali, gli Spartani scelgono senza esitare il secondo. Checché si voglia pensare del formalismo oplitico e del reale funzionamento della falange sul campo, l’idea di base è comunque feconda.
Recensendo mesi fa proprio su queste pagine il bel volume di Paola Angeli Bernardini Il soldato e l’atleta (il Mulino, 2016), mi sono chiesto per esempio se la fortuna degli agoni sportivi, che comincia a imporsi appieno nel momento in cui la guerra piega verso l’oplitismo, non sia una forma surrogata, da collegarsi alla svolta, sociale più ancora che tattica, e all’istituzione della pólis; e se non sia per questo che il mondo greco finisce coll’ignorare nello sport ogni «gioco» di squadra, riservandone la pratica alla guerra e riconoscendo al gesto del singolo la gloria, certo prestigiosa in tutta l’Ellade, dei trionfi panellenici, ma limitandola di norma a quei Giochi che, durante il loro svolgersi, sospendono ogni conflitto.
Ricorda infine Vian, nel ricchissimo saggio su La funzione guerriera nella mitologia greca incluso in questo volume, come Esiodo ( Le opere e i giorni, 143-173) distingua due stirpi di combattenti — la Stirpe del Bronzo, cui «le gesta di Ares stavano a cuore, piene di pianto, e le opere della tracotanza»; e i «più giusti e migliori» — e due concezioni diverse della guerra, che si richiamano all’opposizione tra Ares e Atena. Atena, già Vian lo ricorda, prevale in Omero su Ares di cui pure ha amato uno dei discepoli: quel Tideo al quale, sotto le mura di Tebe, ha rinunciato a dare l’immortalità solo perché l’ha visto, ferito, divorare il cervello del nemico. Dopo di lui ne amerà il figlio, Diomede, da lei prediletto, suo assistente ad Argo e a Salamina Cipria. Ma c’è di più: ciò che Vian sembra non aver colto è il fatto che Diomede non è solo il beniamino della dea, ne diviene figura in certo qual modo complementare, sancendo una ricomposizione tra due opposte forme di guerra che è evidentemente affermata già in Omero. Non è Afrodite soltanto a esser ferita da Diomede, ma lo stesso Ares; sicché, accettando Vian, si potrebbe dire che il Tidìde ripudia così la sua stessa figura di riferimento. Il dio del ménos, della furia cieca, soccombe sul campo di fronte a un mortale che, in condizioni normali, avrebbe ben poco da opporgli; ma a guidarlo è Atena, che — come ha detto altrove proprio Vernant — «nell’Olimpo divino è l’intelligenza incarnata», figlia e simbolo di quella mêtis alla quale già nei poemi omerici viene assegnata una preminenza assoluta.
Altro mi pare dunque il modello: è la guerra razionale che modera quella istintiva. Un’ulteriore figura vi è infatti che, vicaria rispetto alla dea, in assenza di questa accompagna Diomede in tutte le sue gesta più brillanti, il polytropon (versatile), il polymêtis (ingegnoso) per eccellenza, che di Atena è la proiezione terrena, davvero «maggior corno», come ha intuito Dante ( Inferno XXVI, v. 85), rispetto al compagno che protegge e guida: Odisseo.
Già nell’età di Omero, dunque, le due anime, di Ares e di Atena, sono riconciliate; e il combattente greco esibisce una natura duplice, vorrei dire «duale». Il riferimento non è Achille, il quale — è ancora Vernant che parla — riassume «tutte le contraddizioni dell’ideale eroico…», ma resta un «essere marginale» colpevole di hybris (superbia) perché chiuso «nell’altera solitudine del suo sdegno»; sono Odisseo e Diomede, doppia, indissolubile figura sinergica che incarna in archetipi eterni le due anime della guerra, eroismo e razionalità.
- Giovanni Brizzi - Pubblicato su La Lettura dell'11/2/2018 –
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