«I cinesi non amano il loro governo, ma hanno fiducia in esso», questo secondo l’affermazione di un ricercatore cinese riportata da Khanna. La democrazia occidentale, invece, oggi non pare essere in grado né di farsi amare, né di ispirare fiducia, afflitta da una classe politica incapace di stare al passo coi tempi; strutture legislative vecchie e ingessate; parlamenti ostaggi del campanilismo di partiti che fanno parte dello stesso salotto; una rappresentanza politica incapace di mettersi in ascolto della voce del popolo, o che ne scimmiotta l’eco nella sua forma populista. Potrebbe essere il momento di rinunciare all’idea della democrazia come forma di governo autosufficiente? La risposta che Khanna fornisce è, se non proprio un abbandono della democrazia, quanto meno una sua implementazione con quella che definisce “tecnocrazia diretta”, un sistema di governance ibrida (info-Stato) in grado di garantire sia la liberta` democratica, sia l’efficienza tecnocratica. Perché?, ed è questo il nodo, oggi a contare sono i risultati, non i mezzi con i quali si ottengono: non é un caso che nell’elenco dei paesi da seguire come modelli all’avanguardia Khanna non abbia remore a inserire tanto la Svizzera, con la sua secolare tradizione democratica, quanto Singapore e la Cina. Parag Khanna conduce una disamina spietata dei difetti strutturali delle democrazie odierne e lo fa, questa e` la sua forza argomentativa, mostrando delle alternative valide, funzionanti, già presenti. Forse potranno non piacere, forse si potrebbe non condividere il suo entusiasmo per un mondo governato da info-Stati, ma da questo momento non possiamo più fare finta che non esistano.
(dal risvolto di copertina di: Parag Khanna: La rinascita delle città-stato. In che direzione dovrebbe andare l'Europa?, Fazi)
La democrazia è al capolinea, meglio il capitale
- di Ben Olds -
Spregiudicato nel restituire una tendenza dello sviluppo dell’economia mondiale e delle relazioni interstatali come fosse una realtà omogenea e indiscutibile, lo studioso Parag Khanna si è ritagliato un posto al sole tra i tanti commentatori, consulenti, interpreti dello stato del capitalismo mondiale dopo la crisi (per questo autore ormai da archiviare negli incidenti di percorso di uno sviluppo lineare dell’economia globale).
In anni recenti, Khanna ha apoditticamente affermato che la sovranità nazionale era una reliquia del passato in un mondo definitivamente interconnesso, e che le geografie dei rapporti di potere a livello mondiale erano ormai consolidati, registrando una progressiva sostituzione della leadership statunitense con un gruppo eterogeneo di paesi (Cina, India, Brasile). Temi affrontati in altrettanti libri pubblicati, anche in Italia, da Fazi editore. Ogni sua previsione si è però trasformata in una profezia dallo statuto di verità incerto, se non inesistente. Khanna potrebbe infatti essere considerato un supporter della post-verità.
La sovranità nazionale non è quindi svanita al sole della globalizzazione, ma ha visto riconfigurare i rapporti tra i poteri istituzionali nazionali (l’esecutivo e il giuridico che la fanno da padrone, marginalizzando il potere legislativo) e tra il locale e il globale, con quest’ultimo che definisce vincoli e compatibilità. Il mondo è sì interconnesso, ma fenomeni di de-globalizzazione sono molto forti e provocano fibrillazione negli assetti mondiali. Il potere globale è meno definito, a dispetto delle convinzione di Khanna e alla luce anche delle dinamiche che stanno maturando dopo l’elezione di Trump, un presidente che non nasconde le oscillazioni tra isolazionismo e politica di potenza, prospettive entrambe che provocano reazioni anche tra il capitale «made in Usa».
Nel suo ultimo libro, Parag Khanna si propone di individuare modelli istituzionali e sociali che ogni paese dovrebbe far propri per adeguare la sua forma stato alla nuova realtà mondiale. Il titolo è apparentemente programmatico (La rinascita delle città-stato, Fazi, pp.200, euro 20, in uscita per il 14 settembre), ma fuorviante, perché l’obiettivo dello studioso di origine indiana è quello di legittimare la tecnocrazia quale soggetto politico fondamentale per gestire una governance che subentri alla democrazia rappresentativa, giunta ormai alla sua crisi terminale.
Si garantirebbe così la continuità dello sviluppo capitalistico, aggirando il gioco a somma zero e rovinoso per il business delle elezioni politiche, della dialettica tra partiti, della caotica agora pubblica scandita da media vecchi (la tv e la carta stampata) e nuovi (la rete, i social network).
I paesi scelti come modelli sono diversi, però possono essere accomunati da questa tecnocrazia che, dietro le quinte, assicura lo sviluppo capitalistico. Il primo è la Svizzera; il secondo paese è Singapore. La Confederazione elvetica è ritenuta la patria della democrazia diretta, con la possibilità di dar voce al popolo attraverso i referendum su ogni cosa, anche se per come vengono descritti sembrano più dei sondaggi che segnalano alla tecnocrazia cosa ribolle in una società civile incapace di darsi una dimensione politica progettuale. Non è un caso che la Svizzera sia qualificata come una forma di tecnocrazia diretta. Sono cioè i tecnocrati a garantire la rule of law della proprietà privata.
Singapore è un altro tipo di società, una vera e propria città stato. La sua storia parla di generali dalle iniziali vaghe simpatie socialiste che, una volta al vertice, hanno concentrato il potere nelle mani di un gruppo ristretto di funzionari, concentrandosi nella formazione di una qualificata burocrazia, garantendo ai singaporesi alcuni servizi sociali di base. Nulla però viene detto dei tanti migranti che svolgono un lavoro dequalificato e pagato con salari di fame: leggendo il libro di Khanna viene in mente la celebre distinzione di Saskia Sassen tra la città di giorno (della finanza e dei professional) e quella di notte (dei lavori dequalificati e dei migranti).
In ogni caso, Singapore è una metropoli ricca, affollata di divieti, ma per l’autore c’è libertà di espressione – le elezioni blindate per il partito al potere sono bazzecole. Per sapere cosa ne pensino i governati servono i sondaggi compiuti attraverso la rete. La democrazia, manda a dire Khanna, è lo spazio dei particolari che confliggono tra loro, degli interessi personali da soddisfare, insomma è quel caos che fastidioso, ma tuttavia necessario affinché possa essere trasformato in innovazione.
Libro irritante, dunque, in particolare modo quando invita Stati Uniti, Cina, India e la vecchia Europa a favorire il consolidamento di una governance gestita da tecnocrati. Emerge nel volume di Khanna una visione «pastorale» della tecnocrazia, dove i governati devono essere trattati quasi come un gregge da indirizzare verso lo sviluppo capitalistico.
Insomma, è quel passaggio dalla democrazia all’oligarchia definito dai classici greci, dove gli oligarchi non si arricchiscono, ma depredano la ricchezza prodotta dalla società e operano come il noto comitato di affari (oltre che economici, anche sociali) di Monsieur le capital.
- Ben Olds - Pubblicato sul Manifesto del 12.9.2017 -
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