martedì 30 aprile 2019

Storie

Organizzati da Jerome Klinkowitz e Dan Wakefield per temi – “Guerra”, “Donne”, “Scienza”, “Amore”, “Etica del lavoro contro fama e fortuna”, “Comportamento umano”, “Il direttore della banda” e “Il futuro” – questi novantotto racconti sono stati scritti tra il 1941 e il 2007, e includono lavori pubblicati su giornali e riviste e poi raccolti in diversi volumi, cinque inediti e una manciata di testi apparsi finora solo in rete. Durante la sua vita Kurt Vonnegut ha pubblicato meno della metà dei racconti che ha scritto, ma seguì il consiglio il suo agente dopo un rifiuto nel 1958: tenerli da parte “per la raccolta delle tue opere che si pubblicheranno il giorno in cui sarai diventato famoso. Anche se per arrivare a quel giorno forse ci vorrà un po’ di tempo.” Questa raccolta ragionata, frutto di una grande opera di recupero, mostra tutta l’intelligenza, la maestria e l’umorismo dell’uomo e dello scrittore che con la sua prosa ha segnato la letteratura americana del XX secolo.

(dal risvolto di copertina di: "Tutti i Racconti", di Kurt Vonnegut. Bompiani. 1440 pagine)

Da "Come Vonnegut imparò a scrivere racconti", del curatore dell'antologia Dan Wakefield,

Un nome scarabocchiato in fondo a una lettera di rifiuto della rivista Collier’s aprì a Kurt Vonnegut la porta della carriera professionale di scrittore. In un primo momento non la riconobbe. Decifrò il messaggio che diceva: “Per noi questo è un po’ sentenzioso. Non sei per caso il Kurt Vonnegut che lavorava al Cornell Sun nel 1942, eh?” Kurt pensò che lo scarabocchio poteva essere “Owen Buyer, Ormes Bruyes o Dunk Briges, tutte persone a me ignote”. Fosse merito del caso, della fortuna o delle Muse, un fotografo col quale Kurt lavorava alla General Electric gli aveva suggerito di spedire alcuni dei racconti che stava scrivendo a un commilitone che aveva conosciuto quando lavorava a Yank. Il nome dell’amico era Knox Burger, che adesso lavorava a Collier’s come fiction editor.
Collier’s. Kurt cercò la lettera di rifiuto e riconobbe in “Knox Burger” il nome che non era stato capace di decifrare. Burger era stato editor di una rivista umoristica chiamata The Cornell Widow quando Kurt lavorava per il Sun. Non perse tempo, andò a pranzo con Knox a New York e trovò in lui una guida, e un’amicizia, che doveva durare molti anni.
Kurt spedì a Knox una scelta di racconti recenti e Knox gli rispose nel modo in cui i buoni editor rispondevano a quel tempo, con una lettera dettagliata di istruzioni (3 luglio 1949) su come migliorare un racconto che secondo lui aveva del potenziale, intitolato “Mnemonics”. Vonnegut, in seguito, avrebbe ricordato che “allora agenti e editori potevano dire a uno scrittore in che modo mettere a punto un racconto come se loro fossero i meccanici e il racconto una macchina da corsa” (dall’Introduzione a Bagombo Snuff Box).
I suggerimenti di Burger erano effettivamente dettagliati come quelli per smontare un’automobile: una pagina intera di istruzioni seguite dall’incoraggiante convinzione che il racconto aveva... delle possibilità. Knox diceva che un certo personaggio doveva essere più motivato e spiegava come farlo; voleva che la lista della spesa di una moglie fosse più fantasiosa e dava esempi di prodotti che avrebbe potuto andare a comprare. Trovava che un riferimento fosse “forzato” e chiedeva di sostituirlo...
Kurt operò immediatamente tutte le correzioni, solo per ricevere un’altra lettera con ulteriori revisioni. Accolse tutti i nuovi suggerimenti e rispose con le ultime revisioni, solo per ricevere un’ultima risposta: il racconto era stato presentato all’editore, che non soltanto pensava che non fosse riuscito, ma diceva che gli aveva lasciato l’amaro in bocca!
Se avessi letto tutto questo in un romanzo su un aspirante scrittore, avrei temuto voltando pagina di scoprire che il protagonista si era buttato, o aveva almeno buttato la macchina da scrivere, nel burrone più vicino. Vonnegut non buttò via nemmeno il racconto. Dovette smontarlo di nuovo, lavorarci su ancora e più a lungo, perché “Mnemonics” fosse finalmente pubblicato su Collier’s un anno e mezzo dopo (28 aprile 1951). Come osserva Ginger Strand nel suo perspicace resoconto in The Brothers Vonnegut, “un grande numero di giovani avevano sogni letterari, ma Kurt aveva anche la disciplina”.
Mentre la maggior parte degli scrittori alle prime armi reagiscono alla valanga di rifiuti decidendo che gli editori sono semplicemente troppo stupidi o insensibili per apprezzare l’immortale prosa dell’autore, Vonnegut ebbe una reazione eccezionale: i suoi racconti erano stati rifiutati perché non erano abbastanza buoni. In “Coda to My Career as a Writer for Periodicals” (in Bagombo Snuff Box) scrisse che quando era agli inizi alcune riviste, “giustamente, non avrebbero toccato la mia roba nemmeno con i guanti di gomma. Non mi offesi e non mi vergognai. Capivo le loro ragioni, ci voleva un po’ di umiltà”.
[...]
L’associazione con Burger, che poi lo passò a Littauer, diede il via alla parte professionale del viaggio di Kurt. Fu Burger a pubblicare il primo racconto di Kurt, “Relazione sull’effetto Barnhouse”, dopo che Ken Littauer gli ebbe fatto cambiare il finale per trasformarlo in una drammatica conclusione anziché in un discorso. Il risultato rispose finalmente alle attese di Burger e Vonnegut ricevette un assegno di 750 dollari, meno il dieci per cento dell’agente.
Il 28 ottobre 1949 Kurt scrisse a suo padre per dargli fieramente la notizia:

Caro papà,
ho venduto il mio primo racconto a Collier’s. Ho ricevuto il mio assegno (750 dollari meno la commissione del dieci per cento dell’agente [dall’agenzia Littauer e Wilkinson]) ieri a mezzogiorno. Pare che adesso altri due dei miei lavori abbiano buone probabilità di essere venduti nel prossimo futuro.
Credo di essere sulla buona strada. Ho depositato il mio primo assegno in un conto di risparmio e, se e quando ne venderò altri, continuerò a fare così finché avrò l’equivalente della paga di un anno alla GE. Basteranno altri quattro racconti per arrivare a qualcosa di più (come non ci è mai successo prima). Allora lascerò questo dannato lavoro da incubo e non ne cercherò un altro finché campo, Dio mi è testimone.
Da molti anni non sono mai stato così felice.
Con affetto,

K.

Le operette morali di Kurt Vonnegut
- di Stefano Massini -

Bompiani pubblica in un solo volume tutti i racconti del grande scrittore americano Inattuali nel senso migliore del termine: perché ci indicano ciò che è giusto e ciò che non lo è
We don’t need no education, cantavano i Pink Floyd esattamente quarant’anni fa. Ed è lampante che in quel contesto l’educazione fosse il simbolo restrittivo del potere più bieco, quello che impone non solo regole, ma schemi e modelli per leggere la realtà. Forse non esiste fattore più politico (nel senso alto del termine) dell’educazione: le dittature ne fanno un presupposto imprescindibile, convertendo però la palestra del libero pensiero nello scatolificio prestampato del consenso, ed è la riprova di quanto l’educazione, nelle sue forme libere e pluraliste, sia il più autentico ingrediente di un sistema democratico, così come lo concepiva don Milani. Parto da qui, perché c’è qualcosa che ai nostri orecchi suona inaudito, in questi racconti di Kurt Vonnegut (1922-2007) raccolti oggi da Bompiani: essi osano porsi nei confronti del lettore con un intento palesemente educativo. E ha ragione Dave Eggers nella sua prefazione: noi oggi ci sottraiamo immediatamente non appena un autore sembra additarci la retta via, la percepiamo come una catechesi non richiesta, perfino irritante. We don’t need no education versione 2.0, con la differenza sostanziale che nel 1979 si accusava l’educazione di regime, mentre oggi spariamo a vista contro chiunque indichi agli altri un barlume di direzione. Ma è giusto, vi chiedo, assecondare un simile rifiuto epidermico? Forse — anche per comprendere al meglio questi scritti di una penna formidabile — converrà allargare un minimo lo sguardo, tentando una franca riflessione su questo nostro ribrezzo anti-pedagogico. D’accordo: esimersi dall’indicare una via è sempre il metodo più furbo, perché consente di non esplicitare una scelta fra bene e male. Questo è il punto: noi non crediamo più né al bene né al male, tacciamo di manicheismo chi allude seppur vagamente allo steccato, e — se proprio dobbiamo — optiamo semmai più felicemente per il dark side, marchiando di buonismo e melassa ogni tenue raggio di luce. Siamo sinceri, una volta per tutte: va bene temere a ogni passo l’erba infestante della retorica, ma quanto gioca invece la codardia? Quanto incide la smania dell’abbraccio consolatorio, in quella nebbia democristiana in cui nessuno è né perduto né perfetto? Viceversa, Vonnegut crede spassionatamente nei buoni e nei cattivi, sentendosi a sua volta chiamato a una scelta di campo. Pare che una delle sue letture preferite fosse Piccola città di Thornton Wilder (un testo che anch’io amo molto), in cui assistiamo alla biopsia sociale di una cittadina americana ritratta sul perenne ciglio di uno sbando morale. Ecco: Vonnegut avverte nella sua missione di scrittore echi di una antica custodia e garanzia collettiva, non dissimile da quella che animava Wilder, più anziano di lui di un quarto di secolo. Non ci stupisce, in fondo: in continuità con quanto iniziato da Wilder prima degli anni ’40, i racconti di Vonnegut coprono un po’ tutto il secondo dopoguerra, traducendo in forma letteraria il sincero bisogno del lettore medio di essere orientato, assistito, indirizzato. Perfino di più: istruito. Era un’epoca in cui si cercavano voci autorevoli, riconoscendo loro un crisma magistrale, e si annotavano le frasi dei romanzi, si sottolineavano passaggi interi trascrivendoli magari sul proprio diario come moniti esistenziali, in nome di un qualche laico rigore.
E non per niente gli esordi letterari di Vonnegut furono nel segno di una fantascienza camuffata, allegorica, in cui il vero oggetto del contendere — fra alieni e automi — era il discrimine etico fra bene e male, e dunque la salvezza del genere umano, altrimenti avviato al mattatoio (non solo il n.5). Tronfia pretesa? Sarà. Ma almeno — mi sia consentito dirlo — implica il coraggio di una scelta drastica, passaggio davvero troppo impegnativo per chi sguazza come noi in un acquario di certezze liquide, provvisorie, continuamente ritrattabili. Perfino alla Marvel e alla Walt Disney hanno sentito il bisogno di intervenire sulla delineazione dei caratteri, sfumando i confini prima troppo netti fra le schiere angelicate del bene e quelle abiette dei villains. L’avranno fatto certo per maggiore realismo psicologico, non ho dubbi… Ma quanto avrà inciso il fatto che nella terra di mezzo ci riconosciamo tutti, mentre gli eroi puzzano di casta? Anche solo per questo, varrebbe la pena di consigliarvi la lettura dei racconti: sono un’allucinante full immersion dentro un tempo ormai tramontato, in cui le affermazioni implicavano una consapevole permanenza, non modificabile a colpi di tweet.

- Stefano Massini - Pubblicato su Robinson il 28/4/2019 -

lunedì 29 aprile 2019

Contro la rivoluzione del capitale

Gilet gialli: una resistenza alla rivoluzione del capitale
- di Temps critiques -

Quale relazione?
Nel momento in cui troviamo d'accordo nel riconoscere una relazione fra il movimento dei Gilet gialli ed i processi contemporanei di totalizzazione e di globalizzazione del capitale - processo che abbiamo chiamato «la rivoluzione del capitale» -  diventa importante caratterizzare una tale relazione facendolo in maniera diversa da quella che parla di un semplice rapporto immediato di causa/conseguenza. È stato prodotto un flusso di discorsi e di scritti i quali affrontano questa determinazione causale: i Gilet gialli sono in rivolta contro ogni genere di disastro causato loro dalla «globalizzazione», i Gilet gialli sono le vittime de «La Finanza», delle aziende multinazionali e dello Stato che li taglieggia. Un'affermazione simile non è per niente falsa, ma rimane sommaria fino al punto di sfiorare la tautologia, dal momento che si potrebbe dire una cosa del genere riferita a qualsiasi rivendicazione categoriale. Inoltre, non tiene assolutamente conto del carattere inatteso ed imprevisto del sollevamento dei Gilet gialli; cosa che lo rende un avvenimento storico singolare.
Perciò, ci sembra più appropriato sostenere che i Gilet gialli hanno svolto la funzione di aver fatto emergere ed analizzare la rivoluzione del capitale. Questo è un effetto di disvelamento, di delucidazione, di rilevazione e di intervento, e ci sembra più giusto parlare in questi termini di quello che, in Francia e nel mondo, è il momento-dei Gilet-gialli.

Alcuni effetti dei Gilet gialli sulla rivoluzione del capitale
Rovesciamo il ragionamento. Anziché analizzare l'avvenimento Gilet gialli come se fosse una semplice conseguenza della rivoluzione del capitale, specifichiamo alcuni effetti dei Gilet gialli sulla rivoluzione del capitale:

- Quello che gli attivisti di sinistra, ed altri, hanno definito - per denigrarlo - come l'«interclassismo» del movimento dei Gilet gialli è un effetto della cancellazione di quelli che erano i confini ed i «collegamenti» di classe, che è stata prodotta dal processo di "moyennisation" [costituzione di una vasta classe media, e riduzione delle differenze fra le classi sociali] avviato alla fine degli anni '60. Una "moyennisation" che all'inizio, in seguito all'ultimo assalto proletario,  è avvenuta a partire dall'alto verso il basso. Da allora in poi, le varie crisi hanno come inceppato questo processo in una configurazione nella quale questa "moyennisation" sembra perdurare avvenendo sugli strati più bassi, con la pauperizzazione di alcune frazioni della popolazione, senza che però ci sia una proletarizzazione. È come se fosse stata messa a riposo la questione della «composizione di classe», nel senso in cui la intendevano gli operaisti italiani, ma senza quel paradigma di classe che serviva da paradigma teorico. Questo spiega la difficoltà a definire la composizione sociale assai diversa e molteplice dei Gilet gialli: classe media inferiore per alcuni, classe popolare per altri, plebe per altri ancora, ecc. Tutto questo si riferisce alla scomparsa delle identità di classe; e rivela la tendenza democraticistica della dinamica del capitale; il capitale afferma la sua utopia unificante e normalizzatrice. La subordinazione di uno strato sociale rispetto ad un altro in funzione di quello che è il suo posto nei rapporti di produzione - se non è scomparso - non è più il modo di dominio principale esercitato dal capitale, dal momento che i rapporti di potere si sono moltiplicati.

- L'utilizzo massiccio dei social network per mobilitare i Gilet gialli ai fini di qualsiasi tipo di azione, rivela non solo il potere delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nelle interazioni collettive, ma costituisce un indicatore rilevante dell'individualizzazione dei rapporti sociale. Processo di individualizzazione e di particolarizzazione che è uno degli operatori centrali del potere de-socializzante del capitale. Ma il movimento dei Gilet gialli ha dovuto rovesciare proprio quest'ordine di cose, utilizzando le reti sociali al posto delle mediazioni tradizionali di mobilitazione, ed ha dovuto inventarsene delle nuove che le hanno sostituite rapidamente.

- Sulle rotatorie, nelle occupazioni delle piattaforme commerciali, nelle manifestazioni, nelle assemblee generali, i Gilet gialli non si riconoscono affatto, l'un l'altro, a partire dal ruolo che ciascuno di loro svolge nell'economia. Non c'è quel «tu dove lavori?» che, incontrando gli altri, è sempre la prima domanda che viene posta. Se viene formulata una domanda del genere, allora è piuttosto il «tu come vivi?». In quanto sono innanzitutto le condizioni di vita e le difficoltà che attengono al peggioramento del tenore di vita ad aver contribuito a formare quello che abbiamo definito come «un abito giallo che fa comunità» [che può essere letto qui] . Qui, stiamo assistendo ad un cambiamento fondamentale: mentre con la classe operaia, le condizioni generali di vita erano come se fossero integrate nelle condizioni lavorative, e secondarie rispetto ad esse, ora invece sono piuttosto proprio queste condizioni lavorative a costituire solo uno dei tanti elementi delle condizioni di vita. L'aumento delle tasse e delle imposte, l'ingiustizia fiscale, il fatto che venga fissato un prezzo, deciso dallo Stato, per quelli che sono i prodotti di prima necessità, la riduzione delle indennità (disoccupazione, alloggio), sono altrettanti dispositivi economici e di controllo finanziario che la rivoluzione del capitale presenta come se fossero delle fatalità. Ora, tuttavia, il movimento dei Gilet gialli ha osato decostruire questo fatalismo per mezzo di un movimento che si dichiara a favore di un reddito senza illudersi circa quella che è la relazione fra il reddito ed il reale potere di acquisto, una volta dedotte le spese obbligatorie. Il movimento dei Gilet gialli ha rimesso sulla scena tutti questi dispositivi, rivelandone il carattere eminentemente politico. In effetti, il modo che ha lo Stato - secondo livello del dominio - di ricollegarsi al primo livello dell'iper-capitalismo globale rivela quelle che sono delle scelte politiche e continua ancora a far parte del dominio degli Stati-nazione. D'altronde, la scelta europea della Germania, seguita dalla Francia, non è quella della Gran Bretagna e della sua Brexit. La scelta liberale dei Paesi Bassi, non è comunque quella dirigistica del Belgio e della Francia, e così via.

- Ma è anche vero che questa scelta dirigistica, a partire dal momento in cui l'aggancio al ciclo mondiale appare assai più facile, si è ristretta  quando al secondo livello lo Stato adotta una strategia che, schematicamente parlando,  coincide con quella del primo livello, ossia con quella del modello anglosassone.
L'abolizione dei servizi pubblici di Stato nei territori rurali e semi-rurali, la rapida e generale digitalizzazione dell'accesso alla pubblica amministrazione, la desertificazione medica, ecc. sono altrettante misure di «razionalizzazione» dei costi salariali e di «ottimizzazione» degli investimenti pubblici richiesti dalla rivoluzione del capitale. Le istituzioni dello Stato-nazione tendono ad essere riassorbite in una gestione da parte di intermediari virtualizzati. Per rispondere alle esigenze della globalizzazione, lo Stato tende perciò ad abbandonare la sua forma nazione per privilegiare quella della rete. Non è quindi un caso che il movimento dei Gilet gialli sia partito dalle piccole città e dalle campagne, dove questa marcia verso la società capitalizzata ed il suo processo erano stati più lenti. Laddove le riforme liberali hanno portato meno vantaggi rispetto agli svantaggi, al contrario di quel che è accaduto nel mondo delle grandi metropoli, che integra e obbliga immediatamente tutti a mettersi «a quel livello». Ma non è causa di ciò che si deve dedurre che questi luoghi siano disconnessi. Del resto le rotatorie sono dei perfetti esempi delle connessioni in cui il livello locale e quello globale si trovano ad essere immediatamente integrati. L'occupazione delle rotatorie, avvenuta all'inizio del movimento, è stata l'espressione di questa coscienza immediata.

- Sono stati numerosi gli interventi dei Gilet gialli contro questa rete di mediazione dello Stato. Riaffermando il ruolo della solidarietà e dell'uguaglianza svolto dallo Stato, i Gilet gialli dimostrano quale sia la potenza del comando del capitalismo sugli Stati-nazione. L'azione diretta dei Gilet gialli contro il potere dello Stato, concentrata su un capo di Stato europeista e pro-globalizzazione (cfr.: « Macron démission ») mostra da questo punto di vista quale sia l'intensità del processo di collegamento in rete di quelle che erano le vecchie mediazioni gestite dallo Stato-nazione-provvidenza in un paese strutturalmente e politicamente «in ritardo». Il Macron della «start up della nazione»  avrebbe dovuto recuperare questo «ritardo» attraverso una marcia forzata. Per ora, è stata invece la vecchia «questione sociale» che lo ha raggiunto per mezzo di un movimento di insubordinazione che ha rotto con un'apparente sottomissione alle recenti politiche di gestione dello spazio attuate dal potere (nuovi tratti di autostrade, rotatorie ad ogni incrocio, nuove lottizzazioni, ipermercati). Ed è stato proprio in questi spazi che il movimento ha sfruttato a suo profitto il proprio vantaggio bloccandoli (pedaggi autostradali, blocchi delle piattaforme della grande distribuzione e del commercio elettronico), o deviandoli da quello che era il loro utilizzo (rotatorie). Per mezzo di quest'azione, è stato mostrata la fragilità di un'economia di flusso basata sulla fluidità e sulla flessibilità permanente.

- Durante le manifestazioni, o perfino nell'espressione collettiva della loro parola, i Gilet gialli concentrano i loro attacchi contro il capitale, a partire da quelle che sono le figure concrete dei padroni del CAC40 o dei banchieri, e non del padronato in generale (MEDEF [N.d.T.: la confindustria francese]). Sanno che i primi sono coloro che hanno dei poteri esorbitanti al livello superiore del dominio, che è quello dell'iper-capitalismo e della globalizzazione. La parola «oligarchia», frequentemente usata dai Gilet gialli per designare il nemico, è un segno di quello che è il concomitante declino del conflitto di classe e di uno Stato-provvidenza che «socializzava» le disuguaglianze per mezzo di una politica sociale e fiscale compensatoria ed equilibrata. Quell'equilibrio che si realizzava in seno alle istituzioni democratiche dello Stato-nazione, oggi è sconfitto (si veda a tal proposito il nostro concetto « d’institution résorbée ») ed il «popolo» viene reindirizzato, senza mediazioni, contro quelli che sono i grandi di questo mondo. Essi, allora vengano designati e personalizzati dalla vendetta popolare come dirigenti politici indegni, come oligarchie patrimoniali (gli Arnalt ed i Pinault) e finanziarie «che andremo a cercare» oppure come struttura del «Sistema» (i tecnocrati di Bruxelles), sottovalutando in tal modo quella che è la forma reticolare dominante della ridistribuzione capitalista attraverso il processo di globalizzazione.

Queste osservazioni a proposito dei Gilet gialli, che rivelano ed evidenziano quella che è la rivoluzione del capitale, potrebbero continuare, ma già a partire da quanto detto finora siamo nelle condizioni di poter vedere come questo movimento sia già portatore di un potere di conoscenza e di azione che con ogni probabilità aprirà la strada ad un'uscita dal mondo del capitale. Ma cerchiamo di essere più chiari e precisi. Quando leggiamo, o sentiamo, da parte dei Gilet gialli: «Fine del mese, fine del mondo, la stessa lotta», noi non intendiamo questo nel senso catastrofico in cui lo intendono degli attivisti ecologisti, ma nel senso della «fine di questo mondo».

- Temps critiques -  Pubblicato venerdì 26 aprile 2019 -

Fonte: Temps Critiques

domenica 28 aprile 2019

Il pozzo e il pendolo, e il capitalismo

Prefazione alla nuova edizione di "Aventures de la marchandise" (La découverte, 2017) di Anselm Jappe
Anselm Jappe -

Quando questo libro venne pubblicato, nel 2003, dalle edizioni Denoël, ciò che si proponeva era di riassumere la corrente della critica sociale nota sotto il nome di «critica del valore», soprattutto nella sua forma, elaborata nel corso dei precedenti 15 anni dalla rivista tedesca Krisis. Il libro comincia attuando una rilettura dell'opera di Marx assai diversa da quella che viene fatta dalla quasi totalità dei marxismi storici. Al centro di questa lettura, troviamo delle concezioni radicalmente critiche del valore e della merce, del denaro e del lavoro. A partire da questa base teorica, il libro passa ad analizzare la crisi attuale della società capitalista, ne rilegge la storia e stabilisce dei legami con l'antropologia. Vengono poi esaminate numerose altre forme di critica sociale, a volta con una certa severità. Essenzialmente, la ristampa di questo libro implica delle correzioni formali. Per quel che concerne il contenuto, sono assai poche le cose che ho trovato da cambiare. Ciò non è dovuto ad una mia particolare perspicacia, della quale avrei dato prova al momento della sua prima stesura, ma piuttosto dimostra, spero, quale sia la solidità delle basi teoriche elaborate dalla critica del valore, ed in particolar modo dal suo principale autore, Robert Kurz.
Tuttavia, da allora la riflessione teorica non si è mai fermata, e la realtà sociale è andata incontro a dei grandi sconvolgimenti. C'è stato quindi bisogno di sviluppare ed approfondire le tesi della critica del valore, e soprattutto di servirsene per poter leggere quello che è il mondo contemporaneo. È questo che ho cercato di fare in numerosi articoli, in una mia raccolta di saggi, "Crédit à mort" (Lignes, 2011), e poi ne "La Société autophage",  che è stato pubblicato dallo stesso autore contemporaneamente a questa edizione tascabile. Andando avanti, nel corso delle mie analisi mi sono liberato degli ultimi residui di una concezione «progressista», ed oramai non credo più che lo sviluppo delle forze produttive sia necessariamente virtuoso; ragion per cui, oggi non rimprovererei più al valore, come faccio in questo libro, di essere una «corazza» che «soffoca» le possibilità produttive. Su un altro piano, è diventato per me chiaro che nelle società precapitaliste non c'era affatto una «circolazione semplice» del denaro, senza accumulazione del capitale, dal momento che allora non esisteva né denaro, nel senso moderno, né lavoro «concreto».  Questo è stato sottolineato con maggior forza, da Robert Kurz nel suo ultimo libro. "Denaro senza valore", pubblicato in Germania al momento della sua morte, nel 2012.
Dopo la scissione di Krisis, avvenuta nel 2004, e dopo la fondazione della rivista Exit!, Robert Kurz, Roswitha Scholz, Claus Peter Ortlieb ed altri hanno sviluppato ulteriormente la critica del soggetto, la critica della ragione così come era emersa dall'Illuminismo e la critica della «scissione-valore», dove viene sottolineato appunto che il valore si basa su una scissione preliminare di quella che è la sfera del «non-valore», e che tale scissione viene scaricata essenzialmente sulle donne. In questo modo, la critica del patriarcato ha finito per giocare un ruolo essenziale nella critica della società delle merci. Da parte mia, ho accolto queste analisi ne "La Société autophage", insistendo soprattutto sulla dimensione psicoanalitica che attiene alla descrizione del feticismo della merce e del «soggetto automatico».
La morte di Robert Kurz, avvenuta nel 2012 all'età di 68 anni, a causa di un errore medico, ha purtroppo interrotto la sua incessante attività; il vuoto che ha lasciato sarà difficile da riempire. Tuttavia, le tesi della critica del valore hanno trovato un eco sempre più ampia in tutto il mondo, e la ricezione della teoria ora comincia ad essere seguita, nella sua rielaborazione e nel suo approfondimento, da nuovi interessati, in Europa e altrove.
Se nel corso dei venticinque anni della sua esistenza, la critica de valore è passata da una condizione ultra-minoritaria a quella di essere un'importante componente del dibattito contemporaneo - almeno per quel che riguarda il campo della critica sociale - questo non è certamente dovuto ad una sua collocazione all'interno di un discorso accademico universitario, né grazie ad aver ricevuto una qualche attenzione mediatica: la critica del valore continua ad essere trattata, da quelli che sono gli organi e le istituzioni ufficiali della produzione e della diffusione del sapere, con un sospetto che non può che fare onore ad una critica che pretende di essere radicale. Piuttosto, è stata l'evidenza tanto della crisi mondiale quanto dell'insufficienza delle vecchie interpretazioni di tale crisi che vengono proposte a sinistra, ad aver accresciuto l'attenzione nei suoi confronti.
Dopo la crisi finanziaria ed economica dell'autunno del 2008, e a volte anche prima, è diventata moneta corrente sentir dire che il capitalismo versa in pessime condizioni di salute, se non addirittura sull'orlo del collasso (se prima questa crisi era ancora assai lontana dal costituire la minaccia di un crollo su grande scala, da allora, ha potuto apparire di grandezza considerevole agli occhi di coloro che negavano - a destra come a sinistra - ogni possibilità che si verificasse una grande crisi; mentre, d'altra parte, agli occhi della teoria della crisi, era solamente un altro sisma premonitore). Giorno dopo giorno, diventa sempre più difficile negare, o rimuovere, quella conclusione che la critica del valore aveva già formulato in un'epoca nella quale si diceva volentieri che il capitalismo aveva «vinto la partita». All'inizio degli anni '90, prima di ogni dimostrazione empirica, essa aveva tratto questa conclusione a partire dall'opera di Marx, potendo quindi dimostrare allo stesso tempo che il nucleo di quell'opera rimaneva la miglior guida per poter comprendere quello che sta accadendo oggi.
Se l'aggravamento della crisi del capitalismo ha dato ragione alla teoria radicale, non ha purtroppo fatto aumentare in egual misura quelle che sono le possibilità di emancipazione sociale. La crescita dei populismi, con dei tratti assai spesso barbari, e soprattutto la crescita di un «populismo trasversale» che riunisce degli elementi di destra e di «sinistra» e che attribuisce alle «banche» e agli «speculatori» quelli che sono tutti i difetti del capitalismo, è stata fin qui il risultato più visibile della disperazione provocata dal declino del capitalismo e dalla terra bruciata che questo ha lasciato dietro di sé. L'«anticapitalismo» contemporaneo, perfino quando è sincero, confonde volentieri il capitalismo in quanto tale con quella che è la sua fase più recente: il neoliberismo, imperante a partire dalla fine degli anni '70. Incapace di riconoscere nelle convulsioni attuali, le conseguenze dell'esaurimento del valore e della merce, dell'esaurirsi del denaro e del lavoro, la stragrande maggioranza delle correnti della sinistra - compresi coloro che si considerano «radicali» - riescono a vedere solo la necessità di tornare ad un capitalismo più «equilibrato», al keynesismo, ad un ruolo forte dello Stato e ad una più severa regolamentazione delle banche e della finanza. I movimenti sociali di questi ultimi anni non hanno fatto altro che esprimere il desiderio di restaurare quella che è stata una tappa precedente dello sviluppo capitalistico. Hanno esplicitamente, o implicitamente, attribuito il potere attuale della finanza internazionale ad una sorta di cospirazione, anziché riconoscere nel credito e nella creazione di somme astronomiche di «capitale fittizio» una fuga in avanti del sistema di mercato, diventata inevitabile dopo che il progresso della tecnologia ha quasi fermato la produzione di plusvalore.
A mancare decisamente, è una riflessione sulla necessità di rompere con con tutta la «civiltà» fondata sul lavoro astratto. Ecco perché "Les Aventures de la marchandise", un libro teorico che non indica una strada immediatamente praticabile per uscire dalla palude in cui ci troviamo, può avere ancora qualcosa da dire.
Ovunque, la crescita congiunta della crisi economica, della crisi ecologica e della crisi energetica pone gli uomini nella posizione in cui si trovava il prigioniero de "Il Pozzo e il Pendolo", di Edgar Allan Poe. Dipende da ognuno di noi se il capitalismo sarà l'ultima parola dell'umanità, oppure se rivelerà una porta che alla fine si apre in una via d'uscita. Contrariamente a quanto avviene nel racconto di Poe, noi, qui, non potremo affidarci ad alcun aiuto miracoloso.

- Anselm Jappe - Pubblicato online su Cairn, il 15 marzo 2019 -

fonte: Cairn

venerdì 26 aprile 2019

Mappe della paura

La mappa in copertina
- Rappresentare la paura: la mappa della minaccia percepita dagli europei -
di  Pascal Orcier

La mappa in cui gli Stati vengono designati come la principale minaccia per gli abitanti dei paesi europei, ci permette di riflettere sul modo in cui l'opinione pubblica percepisce l'equilibrio mondiale e regionale. Nonostante i limiti metodologici inerenti la pratica del sondaggio di opinione, questa mappa ci fornisce informazioni sulla percezione della minaccia in Europa, e mostra una cesura netta fra un'Europa occidentale colpita dal terrorismo e un Europa orientale preoccupata dalla vicinanza della Russia.
La sicurezza e la difesa nazionale appartengono a quelli che sono i domini sovrani dello Stato. In tal senso, lo Stato è responsabile dell'identificazione delle minacce esterne, e di assicurare la protezione del suo territorio e dei suoi abitanti. Ed è sulla base di queste minacce che vengono definite una strategia ed una dottrina, insieme ai mezzi per affrontarle. La percezione della minaccia può essere basata su dei dati oggettivi, ma essa comporta anche una grande dose di soggettività. Ciò perché misurare la minaccia in quanto tale è difficile e delicato, dal momento che, per definizione, essa non è né visibile né quantificabile. Questa mappa in copertina si propone, a partire dai risultati di un sondaggio, di esaminare la rappresentazione della minaccia per gli europei, facendo l'ipotesi che questa rappresentazione dica più di noi stessi che dei nostri presunti nemici.
Identificare e dare un nome alla minaccia, è un esercizio strategico tanto indispensabile quanto delicato.
La questione dell'identificazione di un nemico può rilevare una realtà oggettiva: assenza di relazioni diplomatiche, ripetute crisi, embargo e sanzioni... ma tutto questo fa riferimento a quella che è solo una parte della soggettività, attraverso la rappresentazione della minaccia (reale o presunta). Secondo il Libro Bianco del Ministero della Difesa (del 2013), la Francia non ha degli Stati nemici dichiarati (p.52), ma nella sua prefazione (p.7) il presidente della Repubblica menziona quelle che sono delle minacce diffuse: terrorismo, minacce informatiche, proliferazione nucleare, pandemie... La Difesa osserva come anche in Europa ci siano delle strategie collettive nel quadro della NATO e dell'Unione Europea, che a partire dal 2001 compila una lista delle organizzazioni implicate in atti di terrorismo, «oggetto di misure restrittive». Ora, questo elenco è il risultato di negoziati fra gli Stati membri e differisce dalla lista - assai più consistente - stabilito dagli Stati Uniti (U.S. Department of State, Foreign terrorist organisations.). La definizione di «gruppo terroristico» e la qualifica di minaccia riguardano sempre delle considerazioni politiche: per esempio, gli Hezbollah libanesi, considerati come gruppo politico e non come gruppo terroristico, non sono mai apparsi nella lista europea, mentre il palestinese Hamas ne è stato tolto nel 2014. Tuttavia, vengono entrambi considerati terroristi da altri Stati, in particolare dagli Stati Uniti e da Israele.

In che maniera le popolazioni immaginano la minaccia: il sondaggio ed i suoi pregiudizi.
Qual è il nemico, qual è la minaccia? Questa domanda, posta a dei cittadini di diversi paesi, sotto forma di sondaggio, permette di farsi un'idea di quale sia il parere del pubblico. Questo viene modellato nel prisma di un ambiente politico e mediatico ben preciso, ma anche da quelli che sono dei gradi differenziati di conoscenza, secondo dei criteri socio-economici. La formulazione della domanda posta influenza anche le risposte, ed invita piuttosto a citare una minaccia globale o uno Stato, così come la possibilità di dare una singola risposta, o più d'una in ordine decrescente. Un'inchiesta del  Pew Research Center, condotta su scala mondiale, nella primavera del 2017, su circa 42.000 persone in 38 paesi (Poushter et Manevich, 2017) poneva al primo posto il gruppo dello Stato Islamico [ISIS] (62% degli intervistati), davanti al cambiamento climatico (61%) ed agli attacchi informatici (51%).  Le minacce relative agli Stati occupavano la sesta, la settima e l'ottava posizione: Stati Uniti (35%), Russia e Cina (31%). Ci sono delle forte variazioni secondo i paesi (si veda la mappa). Un altro sondaggio svolto nel 2014 in una sessantina di Stati, fra cui molti paesi europei, aveva rivelato che gli Stati Uniti venivano considerati come la principale minaccia per la pace nel mondo. La formulazione della domanda tende a mostrare che, anche se gli Stati Uniti non vengono percepiti come una minaccia diretta da parte degli intervistati, essi vengono considerati come un fattore di destabilizzazione a livello globale, in parte probabilmente a causa del loro interventismo in numerosi conflitti. La mappa che pubblichiamo ci mostra i risultati di un sondaggio condotto dall' Institut Gallup nel 2015 sull'opinione pubblica degli Stati europei. Tale inchiesta rivela la diversità delle percezioni su scala continentale (Esipova et Ray, 2016). Tale sondaggio è stato effettuato in ciascuno paese, sulla base di un campione di 1.000 intervistati (2.000 in Russia) che avevano un'età maggiore di 15 anni. La domanda posta era a scelta unica: «Qual è il paese nel mondo che secondo voi rappresenta la più grande minaccia per il vostro paese?».

In Europa occidentale, le minacce diffuse sostituiscono le minacce statali.
Nei paesi dell'Europa occidentale, che da quasi vent'anni sono stati presi di mira da attacchi terroristici di ispirazione islamica (Madrid nel 2005, Parisgi nel 2015, Londra nel 2017...), si registra un'unità di vedute. Lo Stato Islamico, che ha soppiantato Al Qaeda, si basa sulla reinterpretazione della medesima ideologia religiosa, mentre appaiono tranquille le relazioni fra gli Stati che si trovano nella «vecchia Europa»  e che confinano fra di loro. In passato, esistita a partire dal XIX secolo, la minaccia terroristica era indipendente dalle lotte per il potere. In questo gruppo di paesi, troviamo quelli che hanno svolto il ruolo di Stati guida della costruzione dell'Unione Europea. Di fatto - dopo gli accordi del Venerdì santo in Irlanda del Nord (1998), il definitivo cessate il fuoco dell'organizzazione basca dell'ETA (2011) e dopo il processo di smilitarizzazione dell'FLNC in Corsica (2014) - è     quasi scomparsa la minaccia che attiene all'esistenza di vecchi movimenti armati e gruppi separatisti. In assenza di uno Stato confinante, percepito come direttamente ostile, e grazie a molti decenni di costruzione europea e di varie cooperazioni , ecco che ad incarnare la minaccia ora abbiamo un'organizzazione terroristica. È un fatto nuovo, rispetto ai precedenti sondaggi svolti negli anni 2013-2014 [si veda la mappa realizzata a partire dai dati del 2013: "Which country is the greatest threat to world peace?"], che mostravano come, in Germania, in Spagna ed in Svezia, a venire citati al primo posto fossero gli Stati Uniti. Ad essere tenuta in conto in primo luogo, è più il rischio di un conflitto planetario avviato dagli Stati Uniti che la paura di un vicino aggressivo. Da parte sua, la Francia ha designato la Siria, l'Inghilterra e l'Iran come le principali minacce alla pace mondiale.

La NATO, minaccia o protezione? L'eredità della Guerra Fredda
Per molto tempo, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, l'esistenza della NATO, la principale alleanza militare esistente sul continente, è stata giustificata a partire dalla minaccia sovietica, sia oggettiva che percepita. Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1991, l'organizzazione atlantica ha dovuto ridefinire la propria ragion d'essere, le sue missioni ed obiettivi, per poter rispondere alla nuove sfide della sicurezza collettiva, alle nuove minacce in Europa, e a quelle relative al suo vicinato. Se l'adesione alla NATO offre una garanzia di pace a tutti i nuovi membri, e rende teoricamente impossibile un conflitto armato con un altro dei suoi membri, la sua estensione viene regolarmente biasimata per il deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Gli Stati Uniti intendono rispondere a quella che è la domanda di sicurezza da parte degli Stati dell'Europa centrale ed orientale, mentre la Russia percepisce il dispiegamento di truppe e di attrezzature statunitensi come una minaccia nei confronti del proprio territorio. Questa ben nota differenza di percezione la ritroviamo nei risultati di un altro sondaggio svolto da Gallup (Smith, 2016), che rivela quella che è la frattura tra, da una parte, i membri della NATO e, dall'altra, quelli che non lo sono o che sono membri di un'alleanza rivale, la Collective Security Treaty Organization (CSTO). Possiamo notare anche la varietà di situazioni che vengono constatate, come l'unanimità nel Kosovo (il 90% degli intervistati associa la NATO  con una protezione, contro il 3% che la vede come una minaccia), opinioni più ripartite in Lettonia (il 49% contro il 16%), in Montenegro, la minaccia sorpassa addirittura la protezione (28% contro 21%). Queste risposte contrastanti sono anche il riflesso delle società nazionali , che sono in gran parte determinate dal fattore etnico, dalla presenza di comunità (di lingua russa in Lettonia, dei serbi nel Montenegro) che si sentono culturalmente più vicine alla Russia.

La minaccia russa, riaggiornata alla luce dei recenti conflitti
Al contrario, la maggioranza dei paesi dell'Europa centrale ed orientale, così come la Svezia e la Finlandia, vedono come la maggiore minaccia uno Stato, la Russia. Questo può essere spiegato a partire dall'immediata vicinanza con questi paesi, e con la paura dettata dal bellicismo e dall'autoritarismo di Vladimir Putin. Quelle che sono le considerazioni regionali prevalgono su quelle globali, tanto più che le prime si basano su dei fatti osservabili: ci sono state ripetute violazioni dello spazio aereo baltico e nordico da parte degli aerei russi. In particolare, gli interventi militari diretti della Russia in Georgia (2008) ed in Ucraina (2014), che, nell'ultimo caso, hanno portato all'annessione della Crimea, facendo temere che potessero verificarsi altre imprese simili nei dintorni. Il fatto che venga messa in discussione l'integrità territoriale e le frontiere degli Stati sovrani, viene denunciato, e giustifica così un aumento delle spese destinata alla difesa - da parte sua, la Russia da dieci anni aveva aumentato fortemente il suo budget militare. Questa parte dell'Europa, ha ancora memoria delle atrocità commesse dall'Unione Sovietica e dal suo regime totalitario. In Russia, l'assenza di un lavoro sulla memoria, insieme ad alcune glorificazione dell'URSS, contribuisce alla sfiducia e al rancore. Soprattutto nei paesi baltici, a causa della recente indipendenza dall'Unione Sovietica e degli abusi che sono stati commessi nel periodo fra il 1989 ed il 1991 dalle forza speciali russe (gli OMON). Negli Stati baltici, la gente mischia la barbarie nazista con quella più lunga, e che ha costato più vite umane, di Stalin. Le ingerenze, reali o presunte, della Russia negli affari interni (sostegno a leader di partiti politici, casi di corruzione e di spionaggio, uccisioni mirate e tentativi di pirateria informatica in Estonia, sostegno ai «compatrioti» russofoni in Transnistria e Lettonis) assicurano l'esistenza di un «pericolo russo». Tutto questo trova una giustificazione nelle dimensioni delle sue risorse economiche e finanziarie di cui dispone quello Stato [12a potenza mondiale rispetto a quello che è il suo PIL, e 7a se guardiamo quello che è  il suo PIL rispetto al potere di acquisto per ogni Stato del mondo (PPA)] in quelle della sua potenza militare. La forte dipendenza energetica dal gas e dal petrolio russo costituisce un fattore aggravante. Infine, gli Stati confinanti con la Russia devono affrontare delle ricorrenti difficoltà di dialogo e di cooperazione con quei paesi all'interno delle strutture regionali esistenti (Consiglio baltico, Consiglio del Mar Nero...), soprattutto dopo l'invasione della Crimea e del Bompass. Al momento dell'inchiesta, il contesto politico ha influito fortemente sulle risposte.

Per la Russia e per i suoi alleati, la minaccia sono gli Stati Uniti
Dal punto di vista della Russia e dei suoi alleati più vicini (Bielorussia, ma anche Serbia e Bulgaria), gli Stati Uniti vengono percepiti come la principale minaccia per la pace. Si intuisce qui la persistenza delle rappresentazioni ostili ereditate dalla Guerra Fredda, alle quali si aggiungono le relazioni tese che da una quindicina d'anni a questa parte, sullo sfondo di una promozione «aggressiva» della democrazia e dei dirittti dell'uomo, parlano di ingerenze americane nelle «rivoluzioni colorate» che ci sono state nelle vicinanze della Russia e a sostegno dei gruppi di opposizione al Cremlino. L'anti-americanismo viene alimentato dai media russi, fra cui "Russia Today" (2017), che dispongono di antenne nell'Unione Europea, e che riprendono volentieri i risultati dei sondaggi di opinione dell'istituto americano Pew Research Center  che confermano l'idea secondo cui gli Stati Uniti rappresentano la più grande minaccia per la pace mondiale. Qui si può anche osservare la memoria dei bombardamenti e dell'embargo della NATO in Serbia, associata a diverse teorie del complotto che hanno riscosso un certo successo (le inondazioni che hanno colpito il paese nella primavera del 2014 sarebbero il risultato di uno sconvolgimento climatico di cui gli Stati Uniti sarebbero responsabili...). Tutto ciò è più sorprendente se lo si considera riferendolo anche alla Bulgaria, che è anche membro della NATO, i cui abitanti sono solitamente più inclini, per delle ragioni storiche, a designare come principale minaccia la Turchia. D'altra parte, nel 2014 designava la Siria come principale minaccia, cosa che mostra anche quale sia l'enorme volatilità delle risposte, e di conseguenza sottolinea una debolezza  della metodologia su cui la mappa si basa.

Nei Balcani, la minaccia è il vicino
La regione dei Balcani si distingue per designare come nemici regionali quelli che sono i vicini. Questa situazione deriva dal carattere recente dei conflitti passati (anni 1990-2000) e dalla persistenza di problemi non risolti. In questa regione che è stata colpita da una guerra che non si è del tutto placata, l'esistenza di movimenti nazionalisti e di questioni minoritarie alimenta la rappresentazione di vicini ostili. I serbi continuano ad essere percepiti dai loro vicini ex jugoslavi come potenzialmente ostili e destabilizzanti, che si rifiutano di consegnare alla giustizia i criminali di guerra, e continuano a ritardare l'adesione alle organizzazioni collettive europee. In Bosnia, per esempio, i blocchi imposti dallo Stato centrale vengono regolarmente attribuiti ad un'entità serba che cercherebbe di sabotarlo e riunirlo alla Serbia. I risultati del sondaggio illustrano quelle che sono le discordanze fra le diverse comunità: come minaccia, Stati Uniti e Serbia sono alla pari. In Montenegro, è il nazionalismo pan-albanese quello che sembra ispirare i principali timori, mentre nel paese la minoranza albanese (3% della popolazione) è numericamente e politicamente meno rappresentata dei serbi. Le rappresentazioni della minaccia sono anche l'eco di questi conflitti che tardano a trovare delle soluzioni, come la disputa greco-macedone riguardo il nome statale che deve assumere quest'ultimo, cosa che giustifica il mantenimento del nome ufficiale «Antica Repubblica Jugoslava di Macedonia» [La "disputa del nome" della Macedonia è stata risolta nel 2019, in quanto per il suo vicino della ex Jugoslavia la Grecia ha accettato il nome di "Macedonia del nord"] ed il conflitto congelato a Cipro (il nord dell'isola designa come minaccia la Grecia, il sud dell'isola la Turchia, la quale mantiene nell'isola una forte presenza militare). La Grecia, da parte sua, si distingue a partire dal fatto che designa quella che è una minaccia inattesa: la Germania. In effetti, è stato questo il paese che è all'origine del grande piano di rigore economico e finanziario imposto al paese in seguito alla crisi finanziaria che lo aveva colpito nel 2008. Per la popolazione greca, le conseguenze sono state terribili, che si è ritenuta vittima di un accanimento e di una volontà di metterla sotto tutela, mentre ci sono state alcune autorità tedesche che raccomandavano che la Grecia vendesse alcune delle sue isole. Si può quindi comprendere il peso della minaccia alla sovranità greca, non solo attraverso l'aspetto finanziario che emergeva dal sondaggio del 2017: la prima risposta dei Greci al sondaggio del  Pew Research Center era stata: «Le condizioni dell'economia globale». Resta da definire il caso della regione del Caucaso. La Georgia ha designato chiaramente la Russia, contro la quale ha perso la guerra del 2008, che ha confermato l'amputazione del suo territorio, ed il suo collegamento con l'insieme dell'Europa dell'est. L'Azerbaijan e l'Armenia si designano a vicenda come nemici, cosa che è logica dato il ripetersi di scontri armati sulla linea del fronte nel Nagorno-Karabakh, regione della quale i due Stati si disputano il controllo. La frontiera fra i due paesi resta chiusa, i budget militari hanno continuato a gonfiarsi e la retorica nazionalista rimane assai presente.

Conclusione: i limiti dell'inchiesta
Ogni sondaggio ha i suoi limiti, e i risultati ottenuti sono il prodotto di metodologie differenti, che richiedono di essere interpretate e comparate con cautela. In ogni caso, occorre premunirsi rispetto ad ogni sovra-interpretazione. I vari studi rivelano che le rappresentazioni hanno la vita dura, ci mettono del tempo ad evolversi, a volte vengono strumentalizzate dal potere in atto al fine di saldare la nazione intorno al suo leader, o per giustificare una qualche decisione politica. Le divergenze dei punti di vista che vengono regolarmente osservate in seno all'Europa, in queste differenti spiegazioni trovano in parte una loro spiegazione, e sono a volte fonte di malintesi e di incomprensioni. In tal senso, l'Europa appare ancora tagliato in due da una cortina invisibile, che può essere rivelata solo per mezzo di retoriche, di gesti, a volte di azioni. In tal modo, esistono degli effetti relativi al contesto che in parte determinano le risposte e che possono spiegare la loro volatilità. Tra qualche anno sarà interessante seguire l'evoluzione nelle opinioni relative a queste rappresentazioni di ostilità. Se in occidente prevale la paura di un conflitto globale sotto l'effetto di un terrorismo islamico, l'Est teme assai più un conflitto regionale che coinvolga la Russia, a causa delle sue ripetute ingerenze nei confronti del suo vicinato. Tra la pacificazione o la cristallizzazione delle rappresentazioni, la percezione delle minacce contiene sempre una forte parte di soggettività, che proviene altrettanto dal fantasma della propaganda e dal trattamento dell'imformazione da parte dei media.

Pascal ORCIER -

fonte: GéoConfluences -  Ressources de géographie pour les enseignants

mercoledì 24 aprile 2019

L’alba della critica del valore

Lavoro Astratto e Socialismo
- Sulla teoria del valore di Marx e la sua storia -
di Robert Kurz - da Marxistische Kritik IV (1987)

[Frammento tratto dalla I parte: «Il destino della teoria del valore nel marxismo tradizionale»]

Si potrebbe pensare che la teoria del valore - in quanto al centro dell'opera di Marx - avrebbe dovuto diventare la principale arma teorica del vecchio movimento operaio, e del "marxismo" tradizionale che si era sviluppato su questo terreno. Niente affatto. Non c'è nessun'altra parte della costruzione teorica di Marx che abbia un significato meno reale, per i marxisti, di quello che per loro ha la teoria del valore. La maggior parte delle conclusioni politiche, strategiche e programmatiche marxiste non fa alcun riferimento organico alla critica del valore svolta da Marx. Ogni tanto, perfino gli avversari e i difensori, in linea di principio, negavano che, per essere "marxista", bisognasse rimanere sul terreno della teoria del valore di Marx [*1]. Questo fenomeno, a prima vista sorprendente, merita di essere esaminato più da vicino. Vista in termini di contenuto, finora, la scarsa rilevanza della teoria del valore, fondamentale per il marxismo, si basava soprattutto su due punti. Da un lato, non era tanto il valore ad essere interessante a livello elementare, ma semmai il plusvalore. Il valore come tale veniva livellato attraverso delle determinazioni aride, che lo definivano, intendendolo acriticamente come se fosse una pura ovvietà. Questo atteggiamento, tuttavia, deriva necessariamente da quello che è un certo stadio di sviluppo della relazione capitalistica del valore in quanto prassi storico-sociale, giacché ha dominato direttamente le condizioni empiriche della vita della classe operaia. In un certo senso, a partire dal XV secolo, la produzione di merci si era sviluppata seguendo un grande impulso, e la relazione di valore tendeva a generalizzarsi, sebbene ciò avvenisse solo in delle aree parziali o periferiche della riproduzione degli individui. Nel processo di espansione della relazione di valore, del resto, inizialmente il lavoro salariato emerse solo in alcuni punti; significativamente, le prime grandi manifatture venivano gestite da detenuti (si veda: Kuczynski, 1967). Tuttavia, una gran parte della produzione di merci veniva svolta per lunghi periodi, soprattutto fra i piccoli produttori artigianali e contadini, sulla base del lavoro autonomo. Anche nei paesi occidentali più sviluppati, ancora all'inizio del XX secolo, il capitale non copriva affatto tutti i rami interni della produzione. La reale, e quasi totale, generalizzazione del lavoro salariato comincia solo dopo la seconda guerra mondiale. La classe operaia tradizionale ed il suo movimento, quindi, erano ancora fortemente influenzati da una logica artigianale, soprattutto nella forma di operai qualificati, che ne costituiva ovunque anche il nucleo principale. E la classe operaia, nella sua coscienza, ha conservato la memoria recente dell'esistenza di un produttore senza il comando del capitale monetario, ha conservato l'orgoglio del proprio lavoro come operaio manuale qualificato dentro il sistema della fabbrica, e insieme a queste cose ha conservato anche quella che era la visione immediata dei grandi settori di produttori indipendenti, i quali hanno continuato ad esistere per lungo tempo nel settore capitalista: «Le aspettative di vita dell'operaio erano abbastanza piccolo-borghesi» (Grebing. 1962, p.125). Tale coscienza non era in alcun modo capace di criticare il fatto che l'operaio creasse «valore», ma, al contrario, ne esprimeva l'immagine positiva. Proprio come nel modo in cui, per il marxismo tradizionale, la teoria del valore di Marx era più positiva che critica. Se Kautsky e,più tardi, Lenin difenderanno la «teoria del valore-lavoro», contro la Scuola dell'Utilità Marginale e contro altri critici borghesi, questo è sempre avvenuto nella forma dell'affermazione dell'operaio che «crea il valore», e non, per esempio, come critica del valore in quanto potenza negativa e distruttiva. La scientificizzazione della produzione e, pertanto, la sussunzione reale del lavoro salariato sotto il capitale, non era ancora sufficientemente avanzata da poter scardinare una tale fiducia.
In simili condizioni, la critica del lavoro salariato non poteva che essere limitata alla critica del plusvalore, compresa in maniera grezza. Gli operai non volevano veramente liberarsi dalla forma di valore e di merce della produzione, ma solamente dal capitale monetario che attanagliava la loro gola; ciò corrispondeva, visto da oggi, a quella che era una fase poco sviluppata della socializzazione, nella quale le basi scientifiche della socialità diretta (istituzioni scientifiche, educazione generale, tecnologia, infrastrutture e logistica sociale della produzione) non svolgevano un ruolo così tanto dominante, e dove gli operai di una fabbrica avrebbero potuto dirigerla facilmente, e mandarla avanti in quanto operai «auto-organizzati», come se fossero un artigiano quasi collettivo che si basava sulla produzione di merci. L'alternativa alla relazione di capitale, non sembrava essere l'abolizione del lavoro in quanto tale, ma piuttosto una produzione cooperativa di merci. Il socialismo cooperativo, nelle sue molteplici varianti, riflette questa fase «intermedia», ancora non matura, della socializzazione capitalista. In questo contesto, sulla base inconsciamente presupposta del valore, i concetti di società di classe e di sfruttamento sono stati trasformati in una grossolana concezione di «poveri» e di «ricchi», ed il concetto di plusvalore è diventato la rappresentazione dell'accaparramento di «tutta la produzione del lavoro» deliberatamente attuata da parte del capitale; una comprensione, questa, che testimonia quanto fosse irremovibile lo spirito artigianale, e quanto il lavoratore fosse aggrappato ai propri mezzi di produzione. Marx, d'altra parte, che pensava secondo la logica del processo di socializzazione e scientificizzazione, attaccava con forza un tale mondo immaginario - rappresentato nella sua forma più pura dal Lassallismo - nella sua (abusata) «Critica del Programma di Gotha». Ma anche il «marxismo» va considerato a partire dalla coscienza storicamente condizionata degli operai avanzati; ciò si traduce in una lettura allo stesso tempo ancora dominante e riduttiva. L'affermazione dell'operaio «creatore di valore» non fa apparire il plusvalore come se fosse lo status moderno del valore, ma come una categoria della relazione di valore, vista come un supplemento esterno. Se l'abolizione del plusvalore non significava la restituzione della «produzione totale», una simile comprensione sembrava non avere alcun senso. Pertanto, Bernstein, prontamente, trasformò l'argomentazione di Marx in una giustificazione della relazione di capitale (si veda: Bernstein, 1923). Il concetto di sfruttamento doveva così tradursi, senza rendersene conto, in una relazione diretta di dominio personale («violenza» del capitalista, come slogan di agitazione).  Nel livellamento sociologico, le classi acquistavano un'esistenza indipendente ed autonoma, «a fianco» del concetto del valore; e non è un caso che nell'articolo di Lenin, «Karl Marx» (1913), che propone solo una «dottrina economica» generale, la «lotta di classe» sia logicamente un'entità quasi indipendente, ex ante la teoria del valore (Lenin, 1970), Le classi non sono - come nella costruzione logica dell'opera di Marx - derivate del valore e del suo movimento, apparendo invece piuttosto come indipendenti nelle loro azioni contro il valore; un approccio, questo, che apre le porte a quelli che saranno i malintesi politici della critica dell'economia politica [*2]. Il «marxismo occidentale» non ha superato questa riduzione della teoria di Marx; al contrario, l'ha rafforzata e l'ha ampliata. Non si è fatto ricorso alla critica del valore, bensì al «soggetto», sia esso collettivo o individuale, ed inteso come se fosse indipendente da quella critica. Ma il soggetto, che non intende sé stesso in quanto definito dal valore, il cui superamento  è la condicio sine qua non della sua stessa liberazione, deve rimanere in questo modo un soggetto borghese astratto. Quanto poco il moderno «marxismo occidentale» riesca a superare quello tradizionale, appare esattamente laddove tenta esso stesso di ricostruire la critica dell'economia politica. Ed ecco che, quindi, secondo Louis Althusser, la teoria del valore di Marx non è in alcun modo la base logica della teoria del plusvalore e, perciò, quest'ultima non è affatto una conseguenza della prima. Piuttosto, al contrario, la dottrina del plusvalore è una «teoria scientifica di ciò che i proletari fanno esperienza quotidianamente: lo sfruttamento della propria classe» (Althusser, 1973, p.88). Qui diventa visibile in maniera ancora più esplicita la medesima riduzione che era già stata applicata nel marxismo tradizionale, ed ecco che dietro l'apparente oggettivismo strutturalista salta fuori la soggettività astratta di quelle che sono quasi tutte le nuove costruzioni teoriche marxiste [*3].
In tale contesto, bisogna richiamare l'attenzione su una citazione di Marx del 1859: « Per i fisiocratici, tuttavia, così come per i loro avversari, la scottante questione controversa non consiste nel sapere quale sia il lavoro che crea valore, ma quale lavoro crea plusvalore. Perciò, affrontano il problema in maniera complicata ancor prima di averlo risolto in quella che è la  sua forma elementare; secondo la stessa identica maniera in cui il cammino storico di tutte le scienze arriva ai propri veri punti di partenza solo dopo numerose deviazioni e derive» (Marx, 1968, S.55). Evidentemente, l'ironia della storia risiede nel fatto che il cammino di questa scienza basata sul marxismo si ripete in maniera diversa, allo stesso modo in cui lo ha fatto il vecchio movimento della classe operaia, passando attraverso tutti i momenti di emancipazione borghese, facendolo però su una scala più elevata di socializzazione capitalista, quella di una forma «proletaria» o «marxista», senza potere però uscire dalla categoria del valore e, pertanto, dalla relazione di capitale. In secondo luogo, è stata la «legge del valore» che, in contrasto con la teoria del valore stessa, per il marxismo tradizionale è diventata oggetto di critica e di controversia. A prima vista, quest'affermazione può sembrare bizzarra. Tuttavia, «valore» e «legge del valore» non sono immediatamente identici. Generalmente, la legge del valore indica la forma per mezzo della quale avviene l'«allocazione delle risorse» attraverso la categoria del valore; la forma in cui si dà la proporzionalita sociale della distribuzione della forza lavoro e dei mezzi di produzione nei diversi rami della produzione. Pertanto, va intesa come forma indiretta della regolazione sociale, la cui istanza centrale è rappresentata dal mercato. A tal proposito, come sappiamo, il topos del marxismo tradizionale e del vecchio movimento operaio è quello dell'«anarchia del mercato». In tale definizione, la «legge del valore» in gran parte si dissolve. Allo stesso modo in cui lo stesso plusvalore, all'interno della stessa categoria del valore, è stato frainteso, lo è stata anche la legge del valore vista come «principio anarchico di concorrenza». L'anarchia del mercato è stata altrettanto fraintesa del plusvalore, non in quanto esistenza reale del valore stesso, ma come se fosse un effetto esterno ed erroneo delle azioni dei capitalisti orientate al profitto. Questo pensiero «marxista» rifletteva quelle che erano le crisi descritte anche da Marx a metà del XIX secolo, la Grande Depressione alla fine del Gründerzeit (1874-1879), la stagnazione congiunturale minore avvenuta prima della prima guerra mondiale e, infine, la Grande Depressione (1929-1933). Tuttavia, l'approccio centrale della critica, fondamentalmente, non riguardava la categoria del valore in sé, ma soprattutto il meccanismo «cieco» del mercato. Così come sembrava si potesse rendere libero l'operaio «creatore di valore» dall'erroneo principio del plusvalore, la medesima cosa venne estesa alla riproduzione sociale basata sul valore, relativamente alla regolazione «cieca» del mercato e alle sue crisi. Le teorie della crisi di Kautsky e di Rosa Luxemburg rimanevano del tutto fissate sul «meccanismo del mercato» o sulla «realizzazione del plusvalore». Le teorie del sottoconsumo e della sproporzionalità (Hilferding), nel loro contesto della spiegazione della crisi, ne differiscono in maniera secondaria. L'economia di guerra «pianificata» tedesca della prima guerra mondiale aveva immensamente rafforzato quello che era il malinteso marxista  della produzione di merci, o della socializzazione «organizzata» del valore. Infatti, superare la legge del valore, o il «cieco mercato», sembrava fosse solo una questione di organizzazione. Ai fini di una simile comprensione, tecnicamente ridotta, nella quale la relazione sociale del valore veniva intesa come se si trattasse di una mera «assenza di pianificazione», la formazione di grandi trust, di grandi imprese e corporazioni, la loro integrazione e compenetrazione e, infine, l'intervento statale, nel senso della regolamentazione sociale totale, non doveva significare altro che un «superamento della produzione di merci» (si veda: Hilferding, 1974). Un'interpretazione più radicale di questo meccanismo di regolazione puramente organizzativo, vedeva in esso perfino una possibilità di mettere in atto una transizione verso un'«economia naturale proletaria» deprivata del denaro, senza toccare realmente il problema della categoria del valore (come fa Neurath nel 1919, e ad Est  Bukharin/Preobrashensky nel 1921). Anche Lenin ha visto nell'economia di guerra tedesca un modello organizzativo che avrebbe potuto essere trasformato in «socialismo» per mezzo di una mera conversione politica (la presa del potere da parte del partito proletario) [*4]. Diventa così comprensibile come la descrizione ridotta della legge del valore - visto come un «mercato cieco», il cui male potrebbe essere superato ed eliminato per mezzo della semplice organizzazione sul  terreno del valore - doveva sfociare nelle diverse varianti del socialismo di Stato. Proprio così come la critica limitata del plusvalore aveva prodotto il socialismo cooperativo, la stessa cosa avvenne con la critica limitata dei «mercati ciechi», per quel che riguardava il socialismo di Stato. Entrambe le ideologie si condizionarono e si interpretarono a vicenda, e, in quelli che erano dei contesti formali modificati, entrarono in contraddizione l'una con l'altra. La condizione storica fra di esse simile consiste nell'incapacità di trascendere la categoria del valore in sé. Senza rendersene conto, l'affermazione che parlava dell'«operaio creatore di valore» era comune alle parti in lotta. L'antagonismo dei riformisti e dei rivoluzionari politici, dentro il movimento socialista che si era sviluppato su questo terreno, ha contrassegnato tutta un'epoca.

- Robert Kurz - 1987 -

NOTE:

[*1] - La successione dei punti di vista rilevanti è lunga. Comincia con Bernstein, che volle accettare quella che era la teoria del valore marxista che si poneva meramente «a lato» della Scuola dell'Utilità Marginale, vista come di «uguale importanza», e di certo non termina con Baran/Sweezy, i quali, nel loro «Capitale Monopolistico», per tener conto delle «realtà trasformate» del «capitalismo organizzato», credettero di aver «rinunciato» alla teoria del valore di Marx . Esplicitamente, o quanto meno implicitamente, quella che per il marxismo del dopoguerra  era l'irrilevanza di fatto della teoria fondamentale del valore divenne sempre più una variante del keynesismo di sinistra (Dobb, Robinson, ecc.) (Si veda Deutschmann, 1973).

[*2] - È stato deliberatamente scelto il termine «politicista» in quanto antitesi che viene usata contro l'accusa inflazionata di «economicismo», il quale ha perso ormai da molto tempo la sua relativa giustificazione ed è diventato l'arma di un marxismo accademico «sociologicamente» livellato, il quale, all'interno dei suoi concetti riformisti, evita qualsiasi approccio fondamentale della critica del valore (a tal riguardo, è tipica la posizione di J. Hirsch, si veda:  Hirsch/Roth 1986). Nel contesto di questo lavoro, tale problema non può essere ulteriormente discusso.

[*3] - Il neo-marxismo della nuova sinistra della Germania occidentale non fa eccezione. Nella Repubblica Federale, in particolare, le esperienze di una ricostruzione sistematica della critica dell'economia politica di Marx a partire dalla fondazione della teoria del valore si possono contare sulle dita di una mano (Reichelt, Backhaus, ad esempio). Il fallimento di simili esperienze, viene attribuito al clima «politico» precedentemente menzionato che riguarda il processo di costruzione della teoria limitata della Nuova Sinistra, sia dentro che fuori dall'università.

[*4] - Lenin si è richiamato all'economia di guerra tedesca del «capitalismo di Stato», e non ha considerato in alcun modo che sul suolo russo tale forma economica fosse impropria per un grande processo sociale in direzione dell'industrializzazione e della «modernizzazione». Si riteneva che il «contenuto socialista» fosse puramente esteriore, e quasi garantito dal segno politico astratto, ed una base (o meglio, un punto di partenza) per la successiva formazione dell'ideologia in Unione Sovietica: «Il capitalismo di Stato è incomparabilmente più elevato di quanto sia il nostro attuale modo economico. E in secondo luogo, non c'è nulla di terribile nel potere sovietico in sé, poiché lo Stato sovietico è uno Stato in cui viene garantito il potere degli operai e dei contadini poveri» (Lenin 1978, p.331). Qui, il riferimento alla base sociale dello «Stato sovietico» ha il carattere di una cospirazione anticipata contro i poteri di una nuova struttura di riproduzione in via di sviluppo con contenuti capitalisti, che non può essere usata a piacimento come se fosse uno «strumento» per un «potere politico» di opposizione. In fin dei conti, Lenin fa una chiara distinzione tra «Stato sovietico», da una parte, e «capitalismo di Stato», dall'altra (anche in Russia); vale a dire, senza ulteriori indugi, non pone il «piano» nella categoria del valore del «socialismo».

martedì 23 aprile 2019

Le lancette di un orologio al polso di un morto

«Viviamo in una barbarie permanente, e amministrarla assumerà forme di violenza militare».
- Intervista di «Sul21» a Marildo Menegat - 11/2/2019 -

Le crisi cicliche del capitalismo hanno sempre prodotto situazioni distruttive, insieme a regressioni alla barbarie. Tali crisi, tuttavia, non sono solo meramente cicliche. Esse vanno accumulandosi, diventando così sempre più crisi sistemiche e strutturali, in cui la regressione alla barbarie diventa sempre più permanente. Stiamo già vivendo quella che è una situazione di barbarie permanente, dove il sistema insiste a funzionare con la medesima identica logica, anche se l'umanità e la natura non riusciranno a sopravvivere ad una simile situazione.  È questa una delle tesi centrali del libro «A Crítica do Capitalismo em Tempos de Catástrofe» (Editora Conseqüência), de Marildo Menegat, professore di Filosofia all'Università Federale di Rio de Janeiro. Menegal, in una intervista a «Sul21», ha parlato del suo libro, il quale, fra le altre cose, analizza l'attuale fase del capitalismo, che sta portando il mondo in un vicolo cieco. «Perché si possa continuare ad avere un lavoro, a produrre merci e a far circolare il denaro, in quanto base di questa società, dobbiamo distruggere l'umanità e la natura», sostiene.
Menegat, inoltre, valuta su scala globale quella che è la situazione brasiliana in questo scenario di barbarie permanente. Per lui, la vittoria di Bolsonaro è l'espressione politica di un collasso sociale.  Secondo i criteri dell'ONU, il numero di violenze che avvengono in Brasile caratterizzano quella che è già una situazione di guerra civile a bassa intensità. Menegat richiama l'attenzione sul ruolo svolto dai militari in un simile scenario, e rispetto all'esperienza avuta ad Haiti: «Nella misura in cui il capitalismo sta collassando in tutto il mondo, inclusa l'America Latina - vedi il caso del Venezuela, dell'Argentina e, in un certo qual modo, del Brasile - per esso, diventa necessario garantire spazi territoriali nei quali possa ancora eesere capace di accumulare. Ad Haiti, l'esercito brasiliano è riuscito a fare questo non solo rispetto al Brasile, ma a tutta l'America Latina. Probabilmente, il proseguimento di quest'esperienza verrà ad essere in Venezuela.»

Sul21: Il sottotitolo del suo libro parla di "far girare le lancette dell'orologio che si trova al polso di un morto". Nel contesto della sua analisi circa lo stato attuale del capitalismo, qual è il significato che assume tale espressione?

Marildo Menegat: «Per circa vent'anni, ho portato avanti un'analisi del marxismo che gli facesse pelo e contropelo, unendomi ad una lettura internazionale che va avanti da un periodo di tempo ancora più lungo, soprattutto negli Stati Uniti e in Germania, che si chiama Critica del Valore. La critica del valore poggia su due assi molto importanti. Il primo consiste nel fare una critica di quelle che chiamiamo le categorie che si trovano alla base della società moderna, come, per esempio, lavoro, denaro, valore, merci. Dall'altro lato, la seconda asse è quella che tenta di analizzare il processo di crisi del capitalismo, un tema assai controverso e complesso. Controverso, in quanto il marxismo, alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX, portò avanti della grandi discussioni riguardo quello che era il respiro storico del capitalismo, chiedendosi se si trattasse di una forma eterna di produzione, o se oppure avesse un tempo storico determinato. Inoltre, è stato anche discusso intorno a quali fossero i segnali di una possibile crisi strutturale di tale forma di vita sociale. Gli autori che parlavano della possibilità di un collasso del capitalismo, alla fine smarrirono il senso delle loro argomentazioni, allorché, nel periodo del dopoguerra, il capitalismo si ricostruì. Ma questi autori avevano ragione a dire che il capitalismo aveva un limite storico. Rosa Luxemburg, ad esempio, sosteneva che il capitalismo aveva un limite di espansione. Arriva un dato momento in cui la sua riproduzione allargata non riesce più a produrre alcun nuovo valore.
In sostanza, il capitalismo è una sfera a parte dell'economia, la quale domina tutte le altre sfere della vita sociale. Si tratta di una novità storica. Ciò non è avvenuto nell'Antichità, e neppure nel Medioevo. Moses Finley, uno storico ebreo-tedesco che emigrò in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, afferma che nell'Antica Grecia e nell'Antica Roma quello che noi chiamiamo modernamente economia non esisteva. È ovvio che queste società avevano bisogno di una sfera di produzione di quella che era la loro esistenza materiale, così come ne ha bisogno ogni e qualsiasi società. Ma nessuna società ha mai prodotto questo per mezzo delle oggettivazioni astratte, nel modo in cui il capitalismo produce. Il valore è un'oggettivazione astratta. Il capitalismo si regge attraverso una logica di accumulazione delle oggettività astratte, che sta diventando sempre più folle. Perciò, quando parliamo di crisi economica, stiamo parlando dell'essenza del capitalismo. Il valore, per essere prodotto, dev'essere estratto dal plusvalore. Solo che questa estrazione di plusvalore dipenderà sempre più dallo sviluppo delle forze produttive. C' un preciso momento dello sviluppo della tecnica, nel quale il lavoro umano diventa residuale, e non accumula più quel nuovo valore che permetta un processo di espansione del capitale. La critica del valore comincia a sviluppare un'analisi che dice come, a partire dagli anni '70, con la Terza Rivoluzione Industriale, si sia cominciato a raggiungere quello che è questo limite storico. A partire da allora, i fenomeni che osserviamo nel capitalismo sono sempre più un'espressione di tale limite dell'accumulazione. La crisi del 1973-1975 è già un'espressione di questo. Da quella crisi in poi, tutta la storia del capitalismo è un disperato tentativo, da parte del capitale, di cercare una via d'uscita a questo limite. Faccio parte della generazione degli anni '80, ed in quegli anni, in Brasile, vennero create organizzazioni come il PT [Partido dos Trabalhadores], la CUT [Central Única dos Trabalhadores], l'MST [Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra]. È stato nel mezzo di queste esperienze che ho cominciato a pensare a quali fossero i limiti programmatici di quelle organizzazioni. Ciò che ci mobilita come orizzonte politico, ormai non è più fattibile. Alla fine degli anni '80, l'Unione Sovietica stava collassando, ed il socialismo reale smetteva di esistere. Il limite programmatico che dobbiamo affrontare, è quello per cui oggi non c'è spazio per una critica radicale del capitalismo che difenda un'altra forma di vita sociale. Tale limite consiste nel fatto che il capitalismo, in quanto forma sociale totale globale, è arrivato al capolinea, ed ha dato così inizio ad un ampio processo di collasso. La mia elaborazione affronta tale collasso dal punto di vista della periferia, dal punto di vista della nostra esperienza brasiliana. Sviluppo questa elaborazione, a partire dal concetto di barbarie. «La Critica del Capitalismo al Tempo della Catastrofe» è il quarto libro di questo mio percorso di elaborazione teorica
».

Sul21: Nei suoi libri, esiste quindi una linea di continuità?

Marildo Menegat: « Sì. Dagli anni '90 al 2018, ciò che sto facendo, è cercare di specificare che cos'è che io chiamo barbarie. Questo concetto era già presente nell'Antichità. Per i greci, la barbarie era qualcosa che si trovava sempre esternamente rispetto alla loro cultura. Nel caso dei Romani, il quadro è un po' più complesso, poiché avevano compreso che anche la loro stessa cultura poteva produrre barbarie, nonostante il fatto che loro chiamassero tutto questo più con il nome di decadenza. Per l'Illuminismo, la barbarie sarà sempre esterna: l'indigeno, il colonizzato, chi non é europeo occidentale. In Marx, c'è una riflessione assai lucida a proposito della barbarie. Per lui, la barbarie è un prodotto dello sviluppo stesso del capitalismo. Marx pensa questo concetto in due momenti. Da un lato, parla di una barbarie momentanea. In tutti i momenti di crisi - che sono ciclici nel capitalismo - si produce una situazione distruttiva, con regressioni alla barbarie. Tuttavia, queste crisi non sono meramente cicliche. Si accumulano anche, e così diventano sempre più crisi sistemiche e strutturali, dove la regressione alla barbarie diventa sempre meno momentanea. La barbarie va diventando in tal modo sempre più permanente. Nella nostra epoca, essa è permanente. Ed è qui che emerge l'idea di far girare le lancette dell'orologio che si trova al polso di un morto. Il sistema insiste a voler funzionare, ma l'umanità non sopravvive a questo ».

Sul21: Le crisi del capitalismo che avvennero alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX furono "risolte" per mezzo di due guerre mondiali. Quest'elemento di distruzione è una condizione per la sopravvivenza del capitalismo?

Marildo Menegat: « Di sopravvivenza non direi; però la guerra moderna nasce con il capitalismo. Robert Kurz mostra come uno degli aspetti fondamentali delle origini del capitalismo sia legato alle armi da fuoco. Queste armi hanno introdotto uno squilibrio in quella che era la guerra feudale, la quale aveva delle armi che venivano prodotte in maniera artigianale. Fra i signori feudali, l'equilibrio del combattimento era ragionevole. Quando le armi da fuoco cominciano ad essere introdotte, si viene a produrre un immenso squilibrio di potere. Inseguire queste armi, diventa una questione di vita o di morte. Le armi non vengono più prodotte nelle officine artigianali. E per poter essere acquisite, si esige un tipo di mediazione che è il denaro, in quell'epoca sotta forma di oro, argento, metalli preziosi. Le armi da fuoco producono una enorme fame di denaro, la quale finirà per disorganizzare completamente la società medievale e darà inizio ad un processo di riorganizzazione della vita sociale.
A partire da questo momento storico - nel XVI e nel XVII secolo - la guerrà divenne parte permanente del processo di produzione e di riproduzione del capitalismo. Ogni importante economia del mondo, aveva un significativo settore degli armamenti. Il grande salto del capitalismo industriale, avvenuto in Inghilterra, nel XIX secolo, avviene durante le guerre napoleoniche. Tali guerre, richiesero all'industria inglese un settore di produzione di beni strumentali, di macchinari ed armi, separato dal settore di produzione di beni di consumo. Pertanto, la produzione di armi è inerente alla storia del capitalismi. In alcuni momenti, anche la produzione di armi diventa un buon modo di dare uno sbocco alla sovraccumulazione di capitale. Ad essere distruttiva è l'intera logica del capitalismo. Il capitalismo è un modo di produzione distruttivo. Tornando a quella che era l'idea di Marx, la barbarie è il telos, è il fine in sé del capitalismo. Non è certo una base di organizzazione sociale che possa essere compatibile con la costruzione di una civiltà emancipata. Aspettarsi dal capitalismo le basi di questa emancipazione umana è un enorme errore
».

Sul21: Se consideriamo tale logica distruttiva e l'attuale contesto politico ed economico internazionale, qual è, nella tua valutazione, la possibilità che la crisi possa sfociare in una nuova grande guerra su scala globale?

Marildo Menegat: « È già in atto. Negli anni '90, ci sono stati alcuni sintomi dell'attuale crisi in corso, col collasso dell'Unione Sovietica e dell'Est europeo, con lo smantellamento della Jugoslavia, con la guerra dei Balcani, la crisi del debito in America Latina e del Nord Africa, fra le altre cose. Questo contesto storico produrrà un tipo di fenomeno sociale del tutto nuovo: delle nuove forme di guerra civile che ormai non hanno più alcuna concezione definita di che cosa sia la presa del potere. C'è un collasso dell'economia e dello Stato, e questo spazio viene occupato dalla violenza. Nei Balcani, abbiamo visto come ha avuto luogo questa forma di guerra civile, con la pulizia etnica e con le azioni della NATO. L'altro esempio, è il processo di separazione delle repubbliche che facevano parte dell'Unione Sovietica, come la Georgia e la Cecenia. In America Latina, il nostro schema è stato diverso. Qui, questo processo si è espresso attraverso un'esplosione di criminalità che non sventolava alcuna bandiera nazionale o etnica, sebbene siano i poveri ed i neri ad essere schiacciati dalle armi.
Alla fine degli anni '70 e all'inizio degli '80, il numero di morti per cause esterne in Brasile non superava gli 11.000 all'anno. Verso la metà degli anni '90, quel numero era già salito fino a 36.000 morti. Si tratta di una crescita assai superiore a quella della popolazione che c'è stata in quel periodo. Pertanto, abbiamo una situazione di violenza endemica che è il risultato di scontri armati che si verificano nei territori urbani. Non abbiamo a che fare con eserciti definiti, ma c'è una guerra permanente. Abbiamo una media di 29 morti (per cause esterne) ogni 100.000 abitanti. Secondo le Nazioni Unite, queste cifre sono quelle di una guerra civile di media intensità. Quindi, anche se non c'è una guerra civile dichiarata, essa esiste. Questa guerra civile non dichiarata è contemporanea a quella occorsa in Cecenia e nelle altre parti del mondo, ciascuna con caratteristiche particolari, ma che fanno tutte parte dello stesso processo di crisi del capitalismo. Che cos'è questa crisi? L'organizzazione della società per mezzo della produzione di merci, insieme alla sua permanente espansione, ormai non è più possibile. C'è una quota sempre più crescente della popolazione che è in eccedenza. E queste persone superflue sono dei soggetti monetari senza denaro. Tutti noi che viviamo nel capitalismo abbiamo bisogno di denaro per poter soddisfare le nostre necessità. C'è una parte sempre più grande di persone che non ha alcun modo per accedere a questo denaro, e rimane così esclusa dalla vita economica. Assistiamo a  questo fenomeno in molte parti del mondo, ciascuna con le sue particolarità che si dimostrano sempre più letali.
Nei Balcani, abbiamo visto quello che la critica del valore chiama Guerra di Ordinamento Mondiale. Queste guerre di ordinamento mondiale hanno una caratteristica differente rispetto alle vecchie guerre imperialiste, dove c'era una grande potenza che voleva dominare i territori. L'Inghilterra e gli Stati Uniti si espandevano dominando territori. La stessa Germania nazista tentò di espandersi dominando territori. Al momento, l'ultima grande superpotenza, gli Stati Uniti, non hanno alcun interesse a dominare direttamente dei territori. Invece, fanno delle guerre di intervento per poter mantenere minimamente, in diverse regioni del mondo, degli spazi di accumulazione di capitale. In Medio Oriente, ad esempio, ogni accumulazione di capitale passa attraverso il controllo della popolazione di quella regione in modo da non for collassare il resto dell'Europa occidentale.
Negli anni '90, l'immigrazione della popolazione della regione dell'ex Jugoslavia è arrivata a circa un milione di persone. È stato il primo grande focolaio di rifugiati europei. Oggi, nel mondo, controllare queste masse di rifugiati è diventata una questione strategica per poter mantenere ancora possibili le isole di accumulazione di  capitale. Anche in America Latina ci sono questi problemi. Ad un primo livello, questi conflitti vengono organizzati come guerre civili, ma poi tendono ad espandersi, e in questo ampliarsi poi tendono ad essere guerre di un altro ordine, guerre aperte che implicano l'intervento degli eserciti di più paesi. Forse questo può aiutarci a comprendere un po' quello che è uno dei fenomeni che si trova dietro quella che è la grande presenza militare nell'amministrazione Bolsonaro. Nella mia lettura, questo fenomeno ha una relazione diretta con la nuova fase, per cui entriamo in questo processo di guerre che sono immanenti al collasso del capitalismo. Le guerre degli anni '90, sono oramai insufficienti a spiegare le guerre che iniziano dopo il 2008, e che hanno una portata più generalizzata ed esigono interventi più aperti
».

Sul21: Quindi, i militari brasiliani potrebbero costituire quella che è una formulazione rispetto a questo fenomeno?

Marildo Menegat: « Sì. L'esperienza brasiliana ad Haiti è servita a definire tutto questo. In un primo momento è servita a controllare un paese che era collassato. In relazione ad Haiti, la paura dell'ONU non era che la popolazione stesse morendo di fame, ma quella che desse inizio ad un processo di migrazione di massa. Era necessario garantire minimamente la governabilità dei paesi della regione. L'intento che era alla base della risoluzione dell'ONU, che decideva che sarebbe stato il Brasile a guidare la missione dei caschi blu, era quello di far sì che la popolazione rimasse ad Haiti. Ad Haiti, l'esercito brasiliano acquisisce un'esperienza di intervento e di governo senza precedenti per quell'esercito. Il generale Augusto Heleno, insieme agli altri generali che presero parte alla missione, divenne praticamente il vice presidente di Haiti. Dove il presidente era una figura formale, di facciata. Buona parte del governo era nelle mani dei generali brasiliani, ici compresi i ragionevoli finanziamenti dell'ONU. Questi generali dovevano anche rimanere in contatto con i comandanti dei principali eserciti che facevano parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, in particolar modo con l'esercito americano. Per i militari brasiliani, questa esperienza internazionale definirà la consapevolezza del ruolo che avrebbero dovuto svolgere in futuro, in America Latina. Nella misura in cui il capitalismo sta collassando in tutto il mondo, inclusa l'America Latina - si vedano i casi del Venezuela, dell'Argentina e, in un certo qual modo, del Brasile - è necessario garantire spazi territoriali dove il capitalismo sia ancora capace di accumulare. Ad Haiti, l'esercito brasiliano è stato addestrato a fare questo non solo in Brasile, ma anche in tutta l'America Latina. Il Venezuela, possibilmente, sarà il proseguimento di quest'esperienza ».

Sul21: In un dibattito tenutosi a Porto Alegre, in gennaio, Paulo Arantes ha detto che i militari brasiliani considerano il Venezuela come una potenziale Siria. Pensi la stessa cosa?

Marildo Menegat: « Esattamente. Il collasso del Venezuela ha già prodotto una massa di rifugiati che assomma all'incirca a 3 milioni di persone, che sono andati in Colombia, Ecuador, Brasile, ed una parte minore negli Stati Uniti ed in Europa. I futuri sviluppi che coinvolgono il Venezuela, sono chiaramente articolati con lo scenario precedentemente descritto. In questo processo di collasso del capitalismo, l''America Latina sta entrando in una nuova fase. Nella misura in cui vanno collassando le frontiere nazionali,  producono man mano un incredibile movimento di masse umane. Il capitalismo brasiliano è il capitalismo più organizzato dell'America del Sud e possiede dei settori di attività che hanno della capacità di sopravvivere un po' meglio nei confronti della valanga che si delinea all'orizzonte. Perciò, è naturale che buona parte di queste popolazioni sia attratta dal Brasile. Per i militari, un miglior controllo di queste frontiere ed una capacità maggiore di intervenire all'interno di questi paesi, per controllarne le popolazioni, diventa una questione fondamentale ».

Sul21: Nel contesto dell'analisi che fai a proposito dell'America Latina allo stato attuale di crisi del capitalismo, l'elezione di Bolsonaro sarebbe come una specie di espressione politica di questo collasso che è in atto?

Marildo Menegat: « Sì. La tua osservazione è perfetta. I governi del PT [Partido dos Trabalhadores] si sono trovati nel bel mezzo di questo processo di collasso che è in atto a partire dagli anni '80. negli ultimi 40 anni, abbiamo avuto tre delle quattro peggiori crisi della nostra storia. La prima di queste quattro crisi, è avvenuta nel 1929 e, curiosamente, è stata la più mite delle quattro. Poi abbiamo avuto quella del 1981-1982, che è stata violentissima e ha definito la fine della dittatura militare. In seguito è arrivato il periodo di Collor. E, infine, la crisi del 2014-2017. Considerando questa nostra storia, consapevolmente o inconsciamente, il dibattito politico si riduce a come amministrare  quelle crisi, che ormai sono solo i sintomi di un collasso. Non siamo ripresi bene da nessuna di esse. Un buon criterio di osservazione di tutto questo, risiede nel peso dell'industria rispetto al PIL brasiliano, che è in calo dagli anni '80. Siamo un paese in deindustrializzazione; un processo, questo, che è un marchio del mondo odierno. Tranne la Cina, la deindustrializzazione è una realtà in tutto il mondo, inclusi gli Stati Uniti, dove è un serio problema.
I quattordici anni dei governi del PT [Partido dos Trabalhadores] sono stati una forma dell'amministrazione di questa crisi. Nel momento in cui ha associato questo collasso del capitalismo ad una regressione permanente verso la barbarie, va detto che i governi del PT sono stati forme di gestione della barbarie. In che modo il PT attua questa amministrazione della barbarie? C'è da dire intanto che possiede un know-how che è andato accumulandosi in quelle che sono state le sue esperienze municipali nelle prefetture. In queste prefetture, sviluppa il concetto di governabilità sociale, il quale consiste nel rendere redditizie persone che, dal punto di vista sociale ed economico, non lo erano. Nella misura in cui l'economia smette di assorbire le persone "insostenibili", monetizzare questi individui diventa una questione fondamentale se si vuole assicurare la continuità della loro esistenza. Il PT fa questo a bassa intensità, attraverso un insieme di programmi sociali, che consentono a queste persone di poter mangiare, di vestirsi, di avere accesso alla scuola per i loro figli, vale a dire, un minimo di condizioni di esistenza sociale secondo quello che è un modello culturale molto degradato.
Il PT [Partido dos Trabalhadores] è riuscito a realizzare questo nel governo federale anche per una pura coincidenza, ed è proprio questo caso che aiuta a spiegare il concetto di crisi che ho menzionato prima. Il capitalismo, ormai a partire dagli anni '70, non è più in grado di espandersi in maniera vigorosa, producendo nuovo valore. Pertanto, allora si espande portando avanti un'accumulazione di valore fittizia, e quest'accumulazione fittizia è il processo speculativo. Per mezzo di tale processo, ciascuno di noi prevede e consuma ora quello che pensa di andare a produrre in futuro. Vale a dire, consuma nel presente quel futuro che pensa di poter avere, ma che non necessariamente andrà a realizzare. Secondo questa logica, a partire dagli anni '70, sono state prodotte delle grandi bolle a livello mondiale, le quali stanno reggendo l'economia. Questo meccanismo ritarda una crisi molto più brutale, e crea l'illusione che l'economia starebbe funzionando. E' in questo che consiste il far girare le lancette dell'orologio che si trova al polso di un morto.
Alla fine degli anni '90, abbiamo avuto la grande bolla dei dot.com, quando abbiamo assistito alla crescita delle imprese come Microsoft e Apple. All'inizio del XXI secolo, quella bolla è scoppiata. Nel mese di aprile del 2001, la bolla di New York precipita, un chiaro segnale del fatto che questo meccanismo aveva della difficoltà nel continuare a riprodursi. Una volta svuotata questa bolla di alta tecnologia, si sono create due nuove grandi bolle, quella delle costruzioni civili e quella delle materie prime. La bolla immobiliare delle costruzioni coinvolge Stati Uniti, Spagna, Inghilterra e diversi altri paesi nel mondo, mentre la bolla delle materie prima interessa la Cina e buona parte dell'America Latina. Queste bolle sono articolate, e costituiscono un medesimo movimento di realizzazione di una capitale che non trova valore reale. È un capitale che ha solo forma contabile e che è ha bisogno di continuare a riprodursi in maniera contabile.
Quest'ultima bolla ha coinciso con il periodo in cui il PT [Partido dos Trabalhadores] aveva vinto le elezioni. In quel periodo, avevamo una grande espansione nella produzione di materie prime come ferro, petrolio, soia, mais ed altri prodotti. In questo modo, è stato possibile riequilibrare un'economia che era già avviata, cosa che permette al PT di ristrutturare al minimo alcune funzioni statali, e garantire quelle risorse per poter fare delle politiche pubbliche che, come ho detto, sono politiche di amministrazione della barbarie. Quando questa bolla scoppia, nel 2008, nel governo del PT si erano già prodotte delle crisi. A partire dal 2008, Lula sarà costretto a fare una politica anticiclica, aumentando l'indebitamento pubblico. In un primo momento, l'economia risponde bene, e cresce più del 7%, Abbiamo un periodo di ri-articolazione dell'economia. Nel 2008-2009, si riequilibra anche la bolla internazionale, fino a che, nel 2012, scoppia e scompare completamente. È in questo periodo che cominciano le crisi dei governi di Dilma.
Ciò che permetteva al PT [Partido dos Trabalhadores] di amministrare la barbarie non esiste più, ma la gestione della barbarie continua ad essere necessaria. La via della governabilità sociale adottata dal PT non è più possibile, ma bisogna gestire queste masse umane senza alcuna funzione per il sistema. La mio ipotesi è che la gestione della barbarie verrà ora assunta per mezzo di forme di violenza militare, sia attraverso l'Esercito, sia attraverso la polizia militare o le milizie. In Brasile, la diffusione delle milizie, da nord a sud, è un fenomeno spaventoso e sconcertante. Siamo entrati in una nuova fase di quest'immensa degradazione sociale, dove il bolsonarismo si mostra come la forma aggressiva più in grado di interpretare i bisogni di coloro che nel nostro paese  hanno ancora un qualche ruolo nell'accumulazione del capitale
».

Sul21: Nel libro, si sostiene la necessità di una profonda trasformazione teorica, da parte della sinistra, che tenga conto di questo scenario di degrado sociale. A partire da quali categorie, dovrebbe verificarsi questo cambiamento? Ai fini di questo compito, in che misura è importante l'opera di Marx?

Marildo Menegat: « Marx resta ancora un'opera obbligatoria, ma non può essere letto in maniera fondamentalista. Come tutte le opere storiche, richiede un lavoro di attualizzazione e contiene alcune insidie relative al tempo storico in cui è stata elaborata e redatta. In generale, i marxisti sono una forza modernizzatrice, e non anticapitalista. I marxisti più tradizionali, che tutti noi conosciamo, che militano in partiti ed in movimenti sociali, come orizzonte storico condividono l'idea secondo cui il capitalismo è un modo di produzione in grado di generare un livello di benessere per l'umanità. Una simile idea è assolutamente insostenibile. Nel corso di tutto il XX secolo, siamo venuti a conoscenza di quelle che erano le elaborazioni di Marx più adeguate alle situazioni di modernizzazione. Noi, brasiliani, siamo stati guidati per molto tempo dall'idea che produrre un parco industriale sovrano fosse l'apice della modernità. Le categorie del pensiero di Marx, hanno bisogno di essere messe in moto dal punto di vista di un'analisi critica. Una delle idee che dev'essere discussa, è quella che dice che il lavoro è un elemento ontologico della vita sociale. Il lavoro, in realtà, non è una categoria fondamentale della vita umana, dal momento che, nella società moderna, esso è un'attività astratta. Chiamiamo lavorare, tanto quello che è il lavoro relativo a finire un corso come studente universitario, quanto il lavoro di qualcuno che spazza la strada. Entrambi stanno lavorando. In cosa consiste l'astrazione del lavoro? Si tratta di un'attività che viene misurata dal tempo. E questa attività misurata dal tempo produce un valore e riceve un valore di scambio, ma in tale attività non c'è niente di emancipante. È solo un'attività necessaria all'accumulazione di valore e all'accumulazione di capitale. Lavoro, merce e denaro non sono forme eterne, bensì forme di una data società. E sono forme astratte ed irrazionali. Per poter continuare a mantenere il lavoro, la produzione di merci e la circolazione del denaro, in quanto fondamento di questa società, allora dobbiamo distruggere l'umanità e la natura. È un'assurdità, ma la logica che viene attuata socialmente è questa. Se non svolgiamo una critica radicale a questi fondamenti che ci muovono socialmente, ci troveremo di fronte ad una bizzarra situazione, dalla quale non c'è alcuna via d'uscita. L'umanità, nonostante tutto quello che ha accumulato, dovrà acconsentire alla propria autodistruzione. Non è forse una follia, tutto questo? »

- Intervista pubblicata l'11 febbraio 2019 su Sul21 -

fonte: Sul21