martedì 28 luglio 2015

Inutili

jappe

Critica del valore e società globale
- Intervista con Anselm Jappe -
( L'intervista è apparsa nel 2015 sul sito "Philosophie, Science et Societe")

PJ: Anselm Jappe, lei è un filosofo e si è interessato alla questione economica, politica e sociale. Ho letto con interesse il suo ultimo libro, del 2011, "Crédit à mort", edito in francese per le Nouvelles Éditions Lignes. Mi piacerebbe farle delle domande sul suo lavoro riguardo la critica del valore, sviluppatasi negli ultimi vent'anni. Quello che proponete è una nuova lettura dell'opera di Marx che permetta una critica dell'economia politica assai diversa rispetto a quella del passato. Una tale riflessione propone un approccio teorico che riserva un'attenzione particolare al carattere feticista della produzione di merci, così come agli effetti sociali del lavoro astratto.

Anselm Jappe: La critica del valore è stata elaborata a partire dalla fine degli anni 80 dalle riviste tedesche Krisis ed Exit!, e dall'autore principale di queste riviste, Robert Kurz. Essa si inscrive nel pensiero di Karl Marx, ma rompe con quasi tutto quello che è conosciuto come "marxismo", e perfino col "marxismo critico". Riprende, piuttosto, le categorie centrali della critica dell'economia politica di Marx: il lavoro astratto, la merce, il valore, il denaro ed il feticismo della merce. Per Marx, queste categorie non sono né "neutre" né "sovra-storiche", ma costituiscono il carattere specifico della società capitalistica. Spiegandone così il carattere distruttivo. E' soprattutto il concetto di lavoro astratto a rivelarsi centrale per comprendere la crisi attuale della società delle merci: nel lavoro astratto - le cui origini si situano pressappoco alla fine del Medioevo - l'attività umana non viene presa in considerazione per le sue qualità reali e per il suo contenuto, ma solamente in quanto dispendio indifferenziato di energia, misurato dal tempo. Questo implica un'inversione fra l'astratto ed il concreto: ciascuna attività, ciascun prodotto conta solamente in quanto quantità determinata di un lavoro senza contenuto - il suo lato astratto. Il lato "concreto" - ciò che interessa realmente gli esseri umani - non ha alcun diritto all'esistenza se non in quanto "portatore" dell'astratto. Questo lo vediamo a partire dal fatto che il prezzo in denaro decide del destino di ogni oggetto, di ogni attività: tuttavia, ciò non è affatto dovuto alla "avidità" di una classe sociale, particolare, ma è un fatto strutturale. Il marxismo tradizionale, al contrario, ha sempre accettato, quanto meno implicitamente, l'esistenza del lavoro, della merce, del denaro e del valore e si è battuto essenzialmente per la loro distribuzione più "giusta", non per la loro abolizione. La "lotta di classe", sebbene reale, non è andata oltre l'orizzonte formato dalle categorie di base del capitalismo.

PJ: L'esclusione di una parte della popolazione, da parte del sistema capitalista, così come si sviluppa, appare ormai evidente, con il perdurate della disoccupazione di massa, con l'aumento del lavoro precario e con una parte della popolazione che è marginalizzata o in prigione, come negli Stati Uniti dove questo fenomeno investe un gran numero di persone. Quest'esclusione non produce solamente un disagio materiale, ma anche un disagio psicologico: perdita della stima di sé e senso di inutilità dovuta al fatto di essere escluso dalla comunità.

Anselm Jappe: Si tratta di una situazione storica assolutamente inedita. Lo sfruttamento ed il dominio dell'uomo sull'uomo hanno una lunga storia. Ma lo sfruttatore ed il dominante avevano bisogno dello sfruttato e del dominato, e questi occupavano un posto nella struttura sociale, per quanto misero fosse tale posto. Potevano organizzare una resistenza a partire dalla loro situazione comune. Da qualche decennio a questa parte, masse sempre più grandi di persone vengono espulse dal mondo del lacoro, senza alcuna possibilità di reintegrazione. Sono "inutili", "in sovrannumero" dal punto di vista dell'accumulazione del capitale. Allo stesso tempo, il lavoro continua ad essere il principio della "sintesi sociale", e ciascuno "vale" la quantità di lavoro che rappresenta (o che non rappresenta). Gli esclusi - che ben presto finiranno per essere la stragrande maggioranza della popolazione mondiale - non hanno soltanto grandi difficoltà ad assicurarsi la sopravvivenza materiale. Soffrono anche perché non hanno più alcun posto in un mondo che li esorta implicitamente ad uscire di scena, dato che non ha più bisogno di loro. Spesso li tratta come parassiti o come criminali, soprattutto quando vengono obbligati a cambiare paese o quando sono discendenti di persone che sono state obbligate. Tutti sanno  confusamente che saranno "superflui" a medio termine, anche quelli che hanno ancora un lavoro. Questa minaccia permanente crea la sorda rabbia populista che, attualmente, si sta diffondendo dappertutto. "Essere superflui" viene visto praticamente come un destino individuale, come una mancanza di adattamento ad un'evoluzione vista come inevitabile. Ciò rende assai difficile adottare delle strategie collettive e favorisce piuttosto la ricerca di capri espiatori. Ma la risposta non potrà consistere in una "integrazione" degli esclusi: il sistema capitalista è in forte declino ed ha esaurito le sue possibilità di integrazione. Inoltre, non è affatto desiderabile venire integrati. Ancor meno si tratta di un problema di ordine puramente psicosociale o simbolico che possa essere risolto riscoprendo dei "valori". La questione (che rimane aperta) è piuttosto quella di sapere  se quest'epoca di convulsioni sfocerà in una società profondamente differente dove il lavoro (il lavoro astratto) non costituirà più il legame sociale e dove sarà possibile una forma di concertazione sociale meno feticista.

PJ: Vorrei criticare un punto fondamentale della teoria critica del valore. Essa ammette che il valore è dato dalla quantità di lavoro, valore che dipende dalla media del livello di produttività della società. Ora, il costo di produzione dipende anche dal capitale costante (investimenti). Inoltre l'offerta e la domanda fanno variare il valore al di sotto o al di sopra del costo di produzione. Esistono numerosi esempi in cui il valore di un bene non ha alcun rapporto con la quantità di lavoro richiesto per produrlo.

Anselm Jappe: Il capitale costante - come ha dimostrato Marx - non fa altro che trasmettere il valore che è stato speso per la sua stessa produzione. Le macchine non creano alcun valore, non aggiungono affatto del nuovo valore. Solo la forza lavoro umana ha un tale potere (non per una sua qualità naturale, ma in quanto proiezione feticista implicitamente accettata dai membri della società delle merci). Questo fatto viene oscurato dall'esistenza del prezzo: pur avendo la sua base sul valore, il prezzo, sottomesso all'offerta ed alla domanda, se ne può differenziare. Non si può determinare il valore di una merce particolare, ed ancor meno misurarla empiricamente. La coincidenza fra valore e prezzo non esiste che a livello di massa globale di valore. Gli attori economici - e la scienza economica borghese - si interessano solamente al prezzo, che forma la realtà quotidiana. Ma il valore non è una categoria puramente speculativa: esso è realmente costituito dal lavoro produttivo (produttivo di capitale, beninteso!) effettivamente speso. E grazie alla sostituzione permanente della forza lavoro da parte delle tecnologie, questa massa di valore da tempo diminuisce. Questo processo compare solo indirettamente nelle statistiche economiche, ma spiega la crisi attuale e le sue conseguenze in tutti i settori.

PJ: Il profitto proviene dal valore aggiunto da parte dell'imprenditore al momento della vendita del bene, e che risulterebbe dalla differenza fra il valore di acquisto del lavoro ed il valore dato al bene prodotto da tale lavoro. Una verifica empirica sarebbe possibile. Basterebbe comparare il costo del lavoro ed i profitti e mostrare che questi ultimi sono proporzionali alla quantità di lavoro. Non conosco nessun lavoro degli economisti che lo abbia provato.

Amselm Jappe: Ovviamente, si può misurare il tasso di profitto di un capitale investito, a tutti i livelli, dal capitale particolare fino al capitale globale. Il tasso di profitto, secondo la teoria marxista, coincide col tasso di plusvalore, dal momento che la sola fonte del profitto è il valore che il lavoratore aggiunge al capitale lavorando più a lungi di quanto sia necessario per ricostituire il valore del suo salario. Inoltre "l'imprenditore" non compra affatto il lavoro, ma la forza lavoro, e questo è un punto cruciale. Normalmente lo compra ad un prezzo "corretto": il prezzo della sua propria produzione, cioè a dire il prezzo necessario a "produrre" un lavoratore - il suo costo della vita, che può variare secondo il contesto sociale e culturale. Ma dopo quest'acquisto, il capitalista è libero di far lavorare l'operaio oltre il tempo necessario a ripagare il suo acquisto. Questo meccanismo di base non deve assumere necessariamente la forma dell'operaio dalle mani callose che crepa di fame nel suo tugurio, anche se è spesso così, soprattutto nelle "economie emergenti", ma c'è bisogno che da qualche parte nel mondo abbia luogo una produzione di plusvalore attraverso delle persone che lavorando più del necessario valorizzino il capitale iniziale (possono essere dei lavoratori high-tech ben pagati). In realtà, questo è sempre più difficile, a causa del peso delle tecnologie (del capitale costante), Ciò costituisce la ragione profonda, e che viene da lontano, della crisi che ha colpito il sistema capitalista mondiale negli ultimi decenni.

PJ: Tenuto conto dell'evoluzione tecnica, ci dovrebbe essere un abbassamento costante del tasso di profitto. Se così fosse, il capitalismo cercherebbe (per mantenere i suoi profitti) di mantenere la quantità di lavoro, evitando la concorrenza (per mezzo di accordi, cartelli, monopoli, conglomerati, quote di mercato, ecc.). Ora, ci troviamo in un capitalismo concorrenziale che lo proibisce e la diminuzione della mano d'opera è la costante ossessione delle imprese. E' curioso che degli attori economici seghino il ramo sul quale sono seduti. Il capitalismo mantiene volontariamente (politicamente) una concorrenza che contro la valorizzazione del capitale.

Anselm Jappe: Questa è la metafora che uso sempre: il capitalismo sega il ramo su cui è seduto. Ciò dimostra il suo carattere intrinsecamente irrazionale, distruttivo ed autodistruttivo. Il capitalista individuale deve imporsi nella concorrenza se non vuole essere schiacciato da essa. Quindi, deve produrre con meno manodopera possibile per poter vendere a buon mercato. Tuttavia, questo interesse del capitalista individuale si oppone in maniera assoluta all'interesse del sistema capitalista nel suo insieme, per il quale l'abbassamento del tasso di plusvalore, e alla fine della massa di plusvalore, rappresenta una minaccia mortale, a lungo termine. Ciò che caratterizza la societò capitalista è proprio quest'assenza di una vera istanza che assicuri l'interesse generale, non esiste altro che l'interesse capitalista. Il capitalismo si basa sulla concorrenza e sull'isolamento degli attori economici. Laddove regna il feticismo della merce, non può esistere la coscienza a livello collettivo. Ogni tentativo storico di "regolazione", che sia fatto attraverso lo Stato o attraverso dei cartelli, accordi fra capitalisti, ecc., ha funzionato solo temporaneamente. Per un lungo periodo, fra gli anni 1930 e 1970, si è parlato spesso di "capitalismo monopolistico" o "regolato": l'interesse generale del sistema capitalista avrebbe dovuto trionfare sugli interessi dei capitali individuali, si diceva, per mezzo di Stati molto forrti ed attraverso la concentrazione di capitale sotto forma di monopoli. Molti teorici marxisti, anche fra i migliori, come la Scuola di Francoforte, Socialisme ou Barbarie o i situazionisti, vi hanno visto uno stadio definitivo del capitalismo, segnato dalla stabilità. Poi, in seguito, il trionfo del neoliberismo ha smentito un simile pronostico. La concorrenza selvaggia ha fatto il suo ritorno su uno sfondo di crisi, e la deriva autodistruttiva del sistema è divenuta visibile. Nell'economia come nell'ecologia, così come nel disordine sociale, ciascun attore contribuisce, per garantirsi la propria sopravvivenza immediata, ad una catastrofe globale che alle fine li colpirà sicuramente.

PJ: La discussione che concerne l'evoluzione socio-storica non si limita affatto all'economia, riguarda anche la dimensione filosofica ed ideologica propria alla nostra civiltà occidentale. Dany-Robert Dufour parla di "delirio occidentale", a causa della nostra ideologia dell'eccesso, che riunisce la volontà di potenza, la fame di conquista e la fascinazione per la tecnologia, Potrebbe essere interessante, come fa Norbert Elias, legare insieme il culturale, il politico-economico, con l'organizzazione psichica degli individui.

Anselm Jappe: La critica del valore non è affatto una teoria puramente economica. Essa considera la società moderna nella sua totalità: il valore è una forma di pensiero e di azione che si è imposto, direttamente o indirettamente, su tutti gli ambiti della società. La dittatura dell'economia non è un problema economico, ma è ciò che assoggetta l'insieme delle forme di vita a questa unica pseudo-necessità di trasformare un capitale in un capitale più grande per mezzo di un lavoro senza contenuto. Dobbiamo quindi porre mano ad un cambiamento di civiltà. Non si tratta di combinare delle analisi relative, che avrebbero ciascuna una propria logica, a delle differenti sfere sociali. Ma bisogna piuttosto descrivere e combattere il totalitarismo reale della merce, del valore, del denaro e del lavoro, totalitarismo che non lascia più alcuno spazio aperto verso altre logiche di vita. Attualmente, vi sono degli autori che prendono atto di una tale necessità di cambiare la civiltà; ma spesso trascurano la critica dell'economia politica e si perdono nel moralismo o nella semplice psicologia, e di conseguenza si limitano ad opporre la presente epoca neoliberista a delle fasi precedenti del capitalismo che ritengono essere più "sane".

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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