lunedì 6 luglio 2015

Ciascuno è la sua propria Prussia

intervista

La sostanza superflua
di José Galisi Filho

"Svalorizzando la forza viva del lavoro, la terza rivoluzione industriale distrugge il valore stesso e mette sotto scacco tutto il sistema della produzione di merci", afferma, nell'intervista che segue, il saggista Robert Kurz.

Una delle più notevoli caratteristiche della scrittura di Robert Kurz, riconosciuta dai suoi lettori marxisti e non, è la capacità di drammatizzare, con ironia, nel movimento del testo, il complesso tessuto della trama contemporanea, aggiungendo, all'osservazione del dettaglio, la fantasia, per mezzo della quale immaginare un mondo diverso con categorie sperimentali.
Tale qualità è, per così dire, letteraria, un'antiprosa, il cui saldo deriva da quello che il drammaturgo Heiner Mueller ha chiamato una volta "pressione dell'esperienza autentica" nel movimento del materiale. In tal senso, una riflessione di Kurz sulla costellazione post-Guerra Fredda deve essere pensata nei suoi dovuti termini, dentro la particolarità dell'esperienza tedesca negli ultimi sedici anni a partire dalla Riunificazione, in cui il suo paese, relativamente civilizzato e pacificato dalla socialdemocrazia dopo la barbarie, si è trasformato di nuovo in un laboratorio sociale ed in un incubo darwinista.
E' stato il poeta ed editore Hans Magnus Enzensberger che ha prematuramente riconosciuto in questa immaginazione sulla fatalità storica della Riunificazione e sul suo percorso di disastro l'invito ad entrare in un territorio sconosciuto. Nell'autunno del 1991, "Il collasso della modernizzazione", di Kurz, veniva pubblicato nella Andere Bibliotheke, editato da Enzensberger, due anni prima della pubblicazione di "Prospettive sulla guerra civile", un libro di questo poeta e saggista.
L'ombra delle argomentazioni di Kurz si proietta letterariamente sulle argomentazioni di Enzensberger circa l'eccesso e l'autismo di una violenza liberata dai vecchi ormeggi ideologici, nei Balcani, come metastasi di una crisi che si irradia dalla periferia verso il centro del sistema. Una delle caratteristiche più sorprendenti di questo saggio consiste nell'omologia soggiacente fra la "estasi" di questa "soggettività balcanizzata" ed il pathos nichilista della critica culturale postmoderna.
Nel congedarsi dalle insidie morali dell'universalismo illuminato, impotente davanti al bombardamento di informazioni, Enzensberger invitava il lettore ad un'etica di responsabilità civile, al di là della politica partitica. Se, per Kurz, il collasso del socialismo da caserma non significava la vittoria del capitalismo sulla vecchia dittatura del SED (sigla, in tedesco, del Partito Socialista Unificato di Germania, diventato poi il Partito Socialdemocratico di Germania - SPD), ma il segnale di una crisi del concetto stesso di "lavoro astratto" radicato nell'etica protestante tanto dell'Est quanto dell'Occidente, Enzensberger vedeva in questo processo la fine storica della modernizzazione.
La questione della postmodernità era oggetto dell'antologia di Kurz del 1999, "Il mondo come volontà e design, stili di vita della sinistra ed estetizzazione della crisi", una mappa del nuovo yuppismo intellettuale nelle figure di critici come Nobert Bolz e Diedrich Diederichsen e del disinteresse "individualizzato" di una generazione, gli ex-plebei del '68 "arrivati" alla politica come posa con sigari ed abiti Armani, nel pieno della bolla finanziaria della "new economy". Amore virtuale, internet, Lova Parade, analfabetismo funzionale, legione di ragazze madri impoverite, collasso della mascolinità, Kurz faceva l'inventario della miseria individualizzata della generazione "single".
Nel 2000, "Il libro nero del capitalismo" dava forma enciclopedica al programma categoriale della vecchia rivista "Krisis". Per la prima volta, un'opera di Kurz guadagnava risonanza internazionale, arrivando ad essere considerata da "Die Zeit" come la più importante pubblicazione degli ultimi dieci anni.
Contrariamente al sociologo Ulrich Beck, diventato consigliere dell'ala modernizzatrice del SPD durante gli anni della colazione rosso-verde, Kurz ha sempre mantenuto una distanza critica dalla politica dei partiti. Ma la sua riflessione, in senso concreto, è innanzitutto una correzione alla "scintilla sfuggita" (secondo l'espressione di Roberto Schwarz) della sinistra tradizionale tedesca che, fra le altre aberrazioni, all'inizio degli anni 70 si è trasformata in terrorismo antisemita e oggi si addensa intorno a "LinkBuendnis" capitanata da Oskar Lafontaine, sotto forma di una critica volgare del capitalismo finanziario, tenuta insieme dalla desolidarizzazione a causa del rapido smantellamento della macchina sociale.
Nell'intervista che segue, Kurz parla dell'attuale situazione della Germania e del capitalismo e risponde alla domanda di "Documenta": "La modernità è la nostra antichità?".

Settembre 2006 - Intervista a Robert Kurz,
su "fine della modernizzazione", declino della cultura ed individualizzazione dell'atomizzazione sociale

José Galisi Filho: Quando si parla di fine della modernizzazione, a quale paradigma ci stiamo ancora riferendo?

Robert Kurz: Il concetto di moderno è abbastanza mutevole e viene compreso in modi del tutto diversi, in quanto dipende dal contesto secondo il quale si argomenta. Fra gli storici, per esempio, esiste il concetto di "pre-moderno", che viene datato fra il 16° ed il 17° secolo, mentre il moderno comprenderebbe tutto il processo storico a partire da tale epoca. Già nella filosofia, l'inizio del moderno viene frequentemente assimilato all'Illuminismo del 18° secolo, cui tutte le teorie e le ideologie posteriori, fino ad oggi, si sono direttamente o indirettamente riferite. Per la maggioranza degli economisti e sociologhi, a loro volta, il moderno comincerebbe con l'industrializzazione all'inizio del 19° secolo, da cui ha origine una storia delle diverse rivoluzioni industriali, che culminerebbe oggi nella terza rivoluzione industriale della microelettronica.
Nel campo dell'arte e della cultura, il concetto di moderno si stabilizza nettamente solo nella riflessione sul 20° secolo, prima Prima Guerra mondiale, e non si estende come "moderno classico" oltre i decenni del 50 e del 60, quando sembra esaurirsi e sembra sfociare nel cosiddetto postmoderno.
Nel frattempo, dal campo dell'arte e dell'apparato culturale, il tema della fine del moderno e dell'inizio di un postmoderno si estende alla filosofia, alle teorie della storia, alla sociologia e perfino all'economia. La "nuova economia" del capitalismo-casinò-internet è stata descritta come un paradigma socio-economico postmoderno, come una nuova era di accumulazione del capitale e di prosperità, la cui bolla, in maniera patetica, è già scoppiata da alcuni anni.

La confusione appare così completa che Juergen Habermas proclamava, all'inizio degli anni 80, una "nuova mancanza di trasparenza". Il problema consiste nel fatto per cui, nello sviluppo del moderno, la prospettiva della totalità sociale e della storia diventa sempre più sfuggente. Le scienze sociali si "differenziano", mentre le teorie si riferiscono sempre più soltanto a "parti del sistema". L'insieme si è perso, e a partire da questo riflusso e da questo svuotamento, il postmoderrno ha fatto suonare la sua ora al servizio di tale disconnessione.
Nella post-storia, è la storia stessa ad essere atomizzata; in sociologia, i "processi di individualizzazione" (Ulrich Beck) sono riabilitati; ed in economia, i punti di vista "microeconomici" evidenziati e l'insieme capitalista viene dissolto nella particolarità dei "soggetti economici".
La medesima atomizzazione ha avuto luogo nell'arte, nell'industria culturale e negli stili di vita alternativi. Ciascuno per sé e Dio contro tutti. Questa tendenza all'atomizzazione non è solo pura ideologia, ma presenta anche presupposti sociali ben oggettivi, i quali, ciò nonostante, non sono ancora stati riflessi. La società sembra dissolversi in un'assenza di connessione reale, ed un tale processo viene pensato in maniera anch'essa senza connessione con la base sociale reale, cioè, viene riduplicato idealmente. In questo senso, il postmoderno è, per così dire, la realizzazione della sua stessa profezia.
Ma quando consideriamo l'insieme della società e della storia, ci viene offerta un'altra prospettiva. Il moderno costituisce un continuum ed una connessione categoriale, una certa formazione storica della società, che si distingue dalle sue tradizionali forme agrario-religiose. In questo processo, è essenziale la costituzione del capitalismo, da un lato, cioè, del moderno sistema di produzione di merci, e, dall'altro lato, delle relazioni moderne fra i sessi, dove il patriarcato, così come la riproduzione sociale, sono stati "oggettivati".

Il "lavoro astratto", la forma merce, la mediazione del mercato mondiale e la concorrenza universale divengono determinazioni centrali.Tali forme apparentemente neutre sono anche "strutturalmente maschili", cioè, rispecchiano la supremazia maschile in politica ed in economia, in un certo senso, anche nell'apparato culturale. Le donne sono rappresentate in questo settore, ma sono anche, come afferma la sociologa Regina Becker Schmidt, "doppiamente socializzate", in quanto quei momenti non originari della riproduzione sociale (attività domestiche, educazione dei figli, empatia, lavoro amoroso), nel "lavoro astratto", nella politica e nell'apparato culturale sono stati separati dal capitalismo in ascesa della socialità ufficiale e sono stati storicamente delegati alle donne. Il capitalismo, l'obiettivo del moderno sistema di produzione di merci come "valorizzazione del capitale" e della sua sfera politica, costituisce, sotto questa forma, ugualmente, un sistema di "separazione dei sessi" (Roswitha Scholz).
Ma il "moderno" così inteso non ha costituito un continuum statico, bensì dinamico. Per questa ragione, il concetto di "moderno" va di pari passo con quello di modernizzazione. Inizialmente, la modernizzazione è stato un processo di colonizzazione esterna ed interna, ossia, un processo di consolidazione delle moderne categorie sociali attraverso il colonialismo europeo, esternamente, e la sovversione delle vecchie relazioni agrario-religiose e dei vincoli personali, internamente. Questo processo è stato diseguale ed è stato portato a termine nelle diverse parti del mondo fuori dall'Europa e dall'America del Nord con ondate intermittenti successive, che si sono estese fin dentro al 20° secolo. Per tale motivo, si parla anche di "non-simultaneità storica".

Ma, in secondo luogo, il concetto di modernizzazione designa lo sviluppo delle moderne relazioni a partire dalle "sue proprie basi" (Marx), la storia della Rivoluzione Industriale, le metamorfosi emergenti della sfera politica (democratizzazione) e le nuove forme di espressione e di separazione fra i sessi.
Il postmodermo sarebbe, pertanto, un'epoca essenzialmente distinta dal moderno. D'altro canto, il discorso del postmoderno presuppone che la modernizzazione abbia raggiunto i suoi liniti storici. Il capitalismo e la sua divisione di genere sono diventati, nella globalizzazione, un sistema planetario e, in questa simultaneità, tale sviluppo interno appare essere esaurito. Vi sono, di fatto, nuove forme di individualizzazione, come Internet, l'economia trans-nazionale, ma le categorie sociali moderne sono diventate vuote e cave. Le mutazioni economiche, sociali e tecniche non corrispondono più ai nuovi contenuti ed alle nuove prospettive. Questo appare particolarmente chiaro nella sfera sensibile dell'arte e della cultura. Ma questa dinamica è solo esteriore. Con Paul Virilio, si potrebbe parlare di una "inerzia polare".

Tutto ciò arriva insieme con una "crisi economica radicalizzata" che si estende dalla periferia fino ai centri capitalistici, sotto forma di disoccupazione e di miseria di massa, di infrastrutture disarticolate, di declino della classe media, con le persone sempre più immerse nella precarietà sociale, fra le quali molte esistenze intellettuali ed artistiche. Anche la crescente migrazione globale è parte della sindrome. Nell'insieme, siamo di fronte ad una crisi globale di qualità nuova. Il postmoderno non è un'epoca al di là del moderno, bensì un'epoca di crisi fondamentale del moderno, un'epoca di trasformazione critica in cammino verso l'ignoto, giacché non si può essere "più moderno", cioè, la modernizzazione non trova più nessun spazio dove avanzare.
Per lo più, la teoria e la scienza non hanno capito questa situazione nuova e cercano ancora di alzare le vele al vento, in quanto non vogliono riconoscere il postmoderno come crisi del moderno arrivato alle sue frontiere storiche. Il postmoderno viene in parte presentato come una presunta e completa nuova epoca di virtualità sicura di sé e piena di contingenze "aperte", mentre la realtà sociale si sgretola contro la durezza dei presupposti reali del capitalismo, cui ormai non è più in grado di assolvere.
E' in questo modo che Ulrich Beck e Anthony Giddens parlano di una "modernizzazione riflessiva" e di una "nuova scoperta del politico". Il moderno deve diventare "auto-riflessivo" riguardo ai suoi stessi potenziali ed alle sue minacce crescenti, soprattutto in relazione all'equilibrio ecologico. Ma qui non c'è assolutamente nessun lavoro compatibile col moderno. La distruzione capitalista delle risorse vitali prosegue senza freni, e politicamente non c'è niente di nuovo che dev'essere scoperto, poiché la politica, come strumento correttivo della regolamentazione dello Stato nazionale, non sortisce più alcun effetto sulla crisi globalizzata.
E questa crisi fondamentale appare evidente anche nel quotidiano delle relazioni. Gli individui atomizzati non si sopportano più fra di loro, nell'amore le relazioni si precarizzano, la divisione dei generi si decompone ed il quotidiano ed il trattamento personale vengono, per così dire, "barbarizzati". Il postmoderno come una nuova epoca, o come continuazione della modernizzazione, è semplicemente un pacco di inganni.

José Galisi Filho: E come definire il nostro tempo in contrasto con questo ciclo che si chiude e con l'attuale fase di accumulazione capitalistica?

Robert Kurz: Se possiamo descrivere il nostro tempo come crisi del moderno, segnato da una perdita di sostanza, allora questo problema ha una base sociale elementare nell'economia del moderno sistema di produzione di merci. Secondo Marx, il lavoro astratto costituisce il trasferimento di energia umana con il fine di valorizzare la sostanza del capitale. Con la terza rivoluzione industriale della microelettronica, è questa sostanza stessa del capitale a diventare sempre più superflua.
Per la prima volta nella storia del capitalismo, la razionalizzazione della produzione supera l'espansione dei mercati. Nella misura in cui la forza lavoro umana viene via via ritirata dal processo produttivo, il capitale reale rimane indietro. Smette di essere l'istanza che mantiene intrecciato l'insieme economico e sociale. Il trasferimento della capacità produttiva verso i paesi con salari bassi, come la Cina o l'India, non è un gioco a somma zero, ma è legato all'esportazione di alta tecnologia. Ed è limitata, in questi paesi, solo ad una minoranza di "zone preferenziali di esportazione".
Nella globalizzazione, non esiste più alcun "sviluppo" economico nazionale, in cui la popolazione, come un tutto, possa essere integrata. Anche in questo senso, la modernizzazione è finita. Il capitalismo è diventato un capitalismo di minoranze. Esso stabilisce la connessione planetaria dell'umanità, ma soltanto in senso negativo, come processo di crisi, che dissolve dappertutto le connessioni elementari del sociale. La società capitalistica mondiale costituita non è in grado di integrare la maggioranza delle persone.
Ma questo non è solamente un problema di miseria e disoccupazione di massa. La frammentazione sociale crescente libera, in egual misura, a livelli macro e micro, processi di disintegrazione "post-politici". Dappertutto nel mondo, si sviluppano, come continuazione della concorrenza con altri mezzi, nuove relazioni di forza. Possiamo parlare, da un lato, di un processo furtivo di destatalizzazione. Nei luoghi tradizionali di guerra appaiono, in questa anomia, guerre civili di un nuovo tipo, legate ad una violenza particolare contro donne e bambini. Le zone di insicurezza crescono giorno dopo giorno.
Ma non è solo a causa della sua propria incertezza auto-prodotta che sta soffocando il capitalismo planetario. Nella stessa proporzione in cui la forza lavoro viene svalorizzata, ha luogo simultaneamente una "desustanzializzazione" del capitale. Il valore, e la sua apparizione sotto forma di denaro, derivano, in ultima analisi, da un'energia umana trasferita, ed è solo per questa ragione che i prodotti assumono la loro forma di merci, cioè, in un'astratta "cosicità del valore" opposta alla sua qualità sensibile. Svalorizzando la forza viva del lavoro, la terza rivoluzione industriale distrugge il valore stesso e mette sotto scacco tutto il sistema della produzione di merci. La crisi del "lavoro astratto" diventa la crisi del capitale stesso, in quanto la "valorizzazione del valore" raggiunge i suoi limiti storici.

José Galisi Filho: Come intendere la produzione culturale in questo contesto? Lei ritiene che, sul piano dell'arte, la modernità sia la nostra antichità?

Robert Kurz: Ritengo che, se ci riferiamo alla relazione economica vista come il centro della società ufficiale, si può vedere una chiara distinzione fra moderno e postmoderno. Il moderno è stato la continuazione dell'ascesa storica e della consolidazione del lavoro astratto. La sostanza del capitale, nel processo di accumulazione, è diventata sempre più rarefatta. Essa comprende sempre più aspetti della vita e si estende alla produzione culturale, la quale si organizza secondo la logica capitalistica dell'industria culturale.
Letteratura ed arte riflettono in maniera immanente questo movimento sostanziale, il cui nome è modernizzazione, fin dentro i pori più remoti e nelle nicchie del quotidiano, nelle mutazioni delle relazioni psichiche, dei caratteri sociali, della sessualità e della percezione del mondo. Su questo punto si sono adoperate tanto la critica tradizionale delle sinistra quanto quella del vecchio campo de socialismo reale, così come la critica conservatrice in tutte le sue sfumature. Ma tale critica ha sempre mantenuto come suo tacito presupposto la dinamica dell'espansione del lavoro astratto.
Questo si vede non solo dal punto di vista culturale, ma anche dal punto di vista politico ed economico. La "democratizzazione" politica  ha coinciso con l'integrazione delle masse nel capitalismo. Il riconoscimento del lavoratore salariato come soggetto del diritto civile, così come della cittadinanza (suffragio universale, voto alle donne soltanto nel 20° secolo, diritto di sciopero e libertà di riunione), costituiscono solo il rovescio della medaglia della sua sottomissione al lavoro astratto. Ed il socialismo reale è stato soltanto un sistema alternativo, concepito a partire dai medesimi fondamenti sociali ed ontologici. Come socialismo reale nella periferia del mercato globale a partire dalla Rivoluzione d'Ottobre, si è sviluppato come un paradigma della modernizzazioni di recupero, nella quale il lavoro astratto non è stato superato, ma solo introdotto ed applicato in ritardo.
Come contropartita, il postmoderno rappresenta il processo di dissoluzione e declino del lavoro astratto. La fine del socialismo reale appartiene a questo contesto e segna la fine della modernizzazione di recupero. Il sistema mondiale unificato non può più permettere un'unità sostanziale, se non in piccole regioni, isole dalla redditività decrescente. Mentre si sbriciola la classica coesione nazionale del moderno, ora, la desustanzializzazione del capitale si irradia in direzione opposta, verso tutti i domini dell'esistenza, come un senso di svuotamento generale e di crisi.

La crisi della sostanza economica e, di conseguenza, la crisi della politica diventano la crisi della moderna identità maschile, che aveva il suo ancoraggio in quella sostanza, mentre le donne, a causa della loro doppia socializzazione e definizione nei momenti appartati della riproduzione reale, sono sempre state semi-integrate. In questa crisi, le conquiste del movimento femminista vengono via via revocate - e finora senza che vi sia molta resistenza. Sul terreno di questo riflusso, l'identità maschile svuotata avanza "al galoppo", esprimendosi dappertutto con una violenza sessista sempre maggiore.
Tornano, con vestiti nuovi, i vecchi demoni della modernizzazione - razzismo, antisemitismo, etno-nazionalismo - sia negli uomini che nelle donne. Essi rappresentano solamente una reazione distruttiva alla nuova minaccia esistenziale, per ristabilire, in maniera immaginaria, il nesso sociale perduto, la cui perdita viene attribuita all' "altro".
Si osserva lo stesso svuotamento anche nella produzione culturale. Per questo, la crisi della cultura e dell'arte non deriva soltanto da una crisi finanziaria e dalla precarizzazione dei suoi attori, ma anche da suoi contenuti. Il nuovo è soltanto un remake di seconda scelta del vecchio (retrò). Non sono solo le serie televisive a ripetersi all'infinito. Mode e contenuti svuotati tornano in circolazione ad intervalli sempre più brevi. Culturalmente, la dinamica dello sviluppo si è trasformata in una sorta di eterno ritorno dello stesso.
Dacché tutto è diventato indifferente, l'arte non riesce più a provocare. Sui palcoscenici tedeschi, nudità e bagni di sangue suino provocano dei grossi sbadigli. Oggi, in Germania, il sensazionale è quando gli attori appaiono sulla scena vestiti. Non c'è più alcun contenuto culturale ad essere espresso in forma capitalistica, proprio perché quella forma stessa ha perso il suo contenuto. La frammentazione sociale e la disintegrazione, in quanto disconnessione universale, diventano mancanza di contenuto universale o de-realizzazione di ogni contenuto critico del passato, che opponeva un segno negativo a quello sviluppo.
Nella comunicazione si osserva anche il riduzionismo tecnologico. Quanto più gli individui incrementano l'arsenale tecnologico, e vengono da questo mobilitati, tanto meno ha da dirsi l'un l'altro.
Da questa tendenza non rimangono escluse le scienze sociali. Ulrich Beck parla anche di sé stesso, quando si riferisce ad una perdita di significato e all'irrealtà della sociologia auto-inflitta. L'irrealtà della sociologia è la stessa dell'arte e della cultura, e di questo essa viene giustamente "incolpata", nella misura in cui rimuove la sua perdita di sostanza elaborando concetti vuoti. Per tale motivo, la sociologia non può più offrire alcuna risposta ai problemi urgenti della crisi. Essa descrive superficialmente alcuni fenomeni, ma si rifiuta di riconoscere le correlazioni fra di essi.
Per venir fuori dalla lista di attesa del postmoderno c'è una sola via d'uscita: che la teoria si riferisca nuovamente "al tutto", a partire dalla crisi del "lavoro astratto" e delle moderne relazioni fra i generi, realizzando una critica radicale dell'ontologia capitalista, la quale era ancora presupposta in maniera positiva dai critici obsoleti del passato. Forse, con questo intento di critica profonda, diverrà possibile fare nuovamente dell'arte qualcosa di provocatorio.

José Galisi Filho: Si può ancora parlare di lotta di classe? Il proletariato può essere ancora una forza di opposizione al capitale?

Robert Kurz: A partire dall'industrializzazione, il moderno è stato segnato dall'antagonismo di classe fra "lavoro salariato" e "capitale"; tra "proletariato" e "borghesia". Quest'opposizione appariva essere ontologica, perché il "lavoro astratto" era inteso come una necessità naturale eterna e, soltanto in un senso del tutto esterno, come sostanza del capitale. Nell'ideologia borghese ufficiale, la forma capitalistica era inseparabile dalla necessità del "lavoro" stesso, e nell'ideologia socialista il "lavoro eterno" si supponeva che avrebbe dovuto liberarsi dalla forma capitalistica.
Oggi, i presupposti sociali comuni di entrambe le ideologie sono stati corrosi e si percepisce, per così dire, che ambedue le parti avevano, solo parzialmente, metà della ragione. La sostanza astratta del lavoro è, di fatto, parte inseparabile della forma capitalista, ma solo nella misura in cui tale forma viene successivamente svuotata della sua propria sostanza. La "ontologia del lavoro" si rivela storicamente limitata e caduca come la merce universale e come la forma monetaria del capitale.
Quegli "eserciti del lavoro" invocati da Marx, nella sua epoca, come base organizzata della lotta di classe, sono spariti. Oggi, si ripete solo apparentemente la mobilitazione di tali "eserciti", in zone preferenziali di esportazione come la Cina e l'India, in cui, simultaneamente, nel mercato interno e nella produzione agricola, il "lavoro" è, in gran parte, smobilitato. Dal punto di vista globale, il volume assoluto del lavoro regolare declina senza posa.
A questa crisi interna, il capitale reagisce per mezzo della costituzione di un'economia interconnessa alla bolla finanziaria. Una volta che gli investimenti reali e le fabbriche, le macchine e la forza lavoro sono sempre meno redditizi e si osserva dappertutto una "sovra-capacità". che dev'essere sempre più smobilitata (ad esempio, con la chiusura delle fabbriche). Il capitale finanziario fugge verso un'accumulazione virtuale (fittizia) nei mercati finanziari. I guadagni non derivano più dalla produzione o dalla vendita delle merci, ma quasi solamente dagli innalzamenti, senza sostanza, dei prezzi sui mercati azionari ed immobiliari, dalle transazioni con titoli finanziari di multinazionali e delle loro parti (ad esempio, battaglie di acquisizioni e scalate).
Così come le scienze sociali nelle loro riflessioni teoriche, anche il capitale cerca, da un punto di vista economico pratico, di navigare sfruttando il vento. Anche queste zone preferenziali minoritarie di esportazione in Cina ed in India, gestite da multinazionali, sono in realtà dipendenti dall'economia della bolla finanziaria, soprattutto del deficit esterno degli Stati Uniti, e non rappresentano alcuna accumulazione produttiva reale.
Il processo sociologico di individualizzazione descritto da Ulrich Beck è stato, fin dall'inizio, legato a questa virtualizzazione economica del capitale. In esso, il proletariato classico si è dissolto e la lotta di classe tradizionale ha perso, con il "lavoro", la sua base ontologica. Quando, nel 1986, Beck constatava la liberazione delle persone dai loro vecchi vincoli di classe, egli trascurava del tutto il carattere di crisi di tale processo economico. Nel frattempo, egli stesso ha dovuto smentire il suo ottimismo iniziale, ma ancora si rifiuta di ammettere la relazione interna fra individualizzazione e carattere di crisi della virtualizzazione.
L'opposizione fra miseria e "ricchezza astratta" (Marx) nella forma monetaria si è radicalizzata drammaticamente, ma questo non deriva dallo sfruttamento della forza viva del lavoro. Le persone sono individualizzate e socialmente atomizzate, proprio nella misura in cui il capitale può accumulare sempre meno. All'interno di questa nuova miseria di massa, si sviluppano i campi di disparità sociale, che non possono più essere ricondotti al denominatore comune di una "classe" sociale uniforme.

Mentre nei paesi occidentali esistono ancora i resti dello Stato del benessere sociale, un numero sempre più crescente di persone diviene dipendente dal trasferimento di risorse pubbliche, che cammina di pari passo con il crescente indebitamento statale. Quanto più restrittivi sono tali trasferimenti nell'amministrazione di crisi statale, tanto più si estendono le forme di lavoro precario, in aggiunta al lavoro industriale remunerato.
La maggior parte di queste nuove relazioni di occupazione non si riferiscono più alla produzione di beni, ma alla sfera della circolazione, al puro processo di mercato di compravendita o ai servizi individuali, alle false attività autonome, al lavoro compulsivo comunitario dei beneficiari del sussidio di disoccupazione, agli impieghi ad 1 euro, ai servizi di assistenza precari, all'aiuto nel lavoro domestico, alle brigate degli spazzini, alle attività nei call center, alla vendita di servizi telefonici, ai lavori temporanei, alla cosiddetta sottoccupazione (qualche ora la settimana nel supermercato, alla cassa o agli scaffali), al lavoro nei bar, al piccolo commercio di strada, all' "imprenditoria della miseria" o perfino semplicemente a mendicare.
Questa tendenza ha raggiunto da tempo la giovane generazione dei laureati della classe media, che, in gran parte, non trova più nessuna occupazione regolare e deve arrivare alla soglia dei 40 anni facendo "stage" con una piccola o nessuna remunerazione, o con contratti temporanei. In Francia si parla già di una "generazione precaria".
In simili condizioni, gli individui non vengono soltanto atomizzati sociologicamente e psicologicamente, ma anche economicamente. Essi non trovano più un'istanza comune di unificazione nelle forme di organizzazione delle loro occupazioni precarie. Sotto la pressione dell'impoverimento e del peggioramento delle condizioni di vita, si schiudono nuove lotte sociali, come le proteste di massa della gioventù universitaria in Francia. Ma questi movimenti sociali (ed anche i cosiddetti movimenti anti-globalizzazione ed i loro forum sociali) non possono più essere unificati sotto l'etichetta di "lotta di classe" oppure di "classe lavoratrice", come richiede inutilmente la sinistra anacronistica tradizionale. Già negli anni '70, i "nuovi movimenti sociali" avevano perso per strada il paradigma della vecchia "lotta di classe".
Da questo, naturalmente, ne è risultato un indebolimento del potere e della capacità reale, da parte di questi movimenti, di far prevalere le loro rivendicazioni. Spesso, si tratta di un puro "movimento di una causa singola" per questioni specifiche. Anche le proteste sociali rimangono mirate e senza una sostanziale organizzazione. Questo ha a che vedere col fatto che la "classe lavoratrice" obsoleta e la fine della "lotta di classe" fra i diversi campi sociali non solo ha delle difficoltà con la questione organizzativa, ma anche col fatto che, come nei nuovi movimenti sociali, similmente alla sociologia e alle pratiche culturali, si è persa la prospettiva dell'insieme sociale.
Non c'è più alcun obiettivo comune, il vecchio intendimento del "socialismo" è stato liquidato, così come l'ontologia del "lavoro". Proprio nella sua crisi storica, il capitalismo appare come una pura condizione di ordine sociale insormontabile. Per unificare i movimenti sociali di uomini e donne atomizzati in una nuova forza storica, ci sarebbe bisogno di stabilire anche dei nuovi obiettivi comuni oltre il capitalismo, una critica generalizzata del "lavoro astratto", del moderno sistema di produzione di merci e della sua divisione fra i generi.
Di questo, attualmente, si intravvede assai poco. Invece, si può vedere una diffusa e grande nostalgia capitalistica. Quanto più il capitale, per mezzo della sua stessa dinamica si "desustanzializza" e quanto più obsoleto e precario diventa il "lavoro" residuale, tanto maggiore si fa la nostalgia di un tempo passato di relazioni di lavoro stabili e di "miracolo economico" successivo alla seconda guerra mondiale.

Questa nostalgia è pericolosa, poiché il carattere illusorio di queste illusioni retrospettive ben presto diventa cosciente in quanto contraddizione e sfocia in vincoli ideologici distruttivi. I nuovi poveri, e proprio i più istruiti fra di loro, non sono persone migliori. E' proprio il loro risentimento che li spinge a caccia dei colpevoli, invece di interrogarsi in maniera critica sulle loro condizioni di esistenza socialmente modificate. Il capitalismo della bolla finanziaria virtualizzata, dove, di preferenza, si desidera partecipare come avventurieri, appare simultaneamente come minaccia soggettiva, da parte delle "cavallette" dei Private Equity Funds e di altre società di investimento, e che avvicina chiaramente all'antisemitismo (al cliché dei "finanzieri ebrei").
Le teorie cospirative sono all'ordine del giorno nei best seller, così come lo è una "critica" abbreviata e volgare del capitalismo sotto la forma di un antiamericanismo rozzo. Quei confini chiari del passato fra ideologie di "destra" e di "sinistra" si diluiscono nella crisi dei presupposti socialmente comuni. Il futuro dipenderà dal fatto se i movimenti sociali riusciranno a prevalere, al di là della vecchia lotta di classe e della tendenza nostalgica, antisemita ed antiamericana. E se, al contrario, si realizzerà una critica radicale delle apparenti leggi naturali delle forme sociali del moderno.

José Galisi Filho: Nel dramma sull'illuminismo prussiano, "Gundling", di Heiner Mueller, parlando di Lessing, la domesticazione del corpo, per mezzo della camicia di forza, viene presentata dal professore ai suoi allievi, come uno "strumento della dialettica" esercitato su un paziente in stato di masturbazione compulsiva. "Ciascuno diventa la sua propria Prussia", afferma ironicamente. Tuttavia, lo strumento sembra che aumenti soltanto, nel paziente, l'intensità dell'impulso masochista di andare oltre. Quasi che la completa colonizzazione dell'immaginario da parte della nuova virtualità dispensi dalla camicia di forza reale. Che spazio è rimasto alla fantasia?

Robert Kurz: Quella di Heiner Mueller è senza dubbio una bella metafora. Bisogna stabilire un legame fra lo svuotamento della soggettività e la virtualizzazione del capitale, nella misura in cui gli individui, quanto più si allontanano dalla realtà in quest'immersione virtuale, diventano sempre più repressi.
Quel che avviene nella bolla finanziaria si svolge anche, in maniera concreta, nel quotidiano delle relazioni. In psicologia, abbiamo il concetto di instabilità, come si verifica nella personalità "borderline". Questa scena fa riferimento al processo di Tantalo della colonizzazione interna della soggettività. Nella misura in cui, il capitale - in funzione dell'intensità tecnologica - si ritrae dalla realtà ed avanza nell'intimità, nei nostri sentimenti e nei nostri pensieri, per mezzo dell'economizzazione dei sogni, senza restituire la sostanza viva sottratta, l'auto-repressione aumenta e gli individui si comportano, in quasi tutti i settori, come dei piccoli imprenditori che amministrano questa sostanza svuotata.
Allora avviene l'economizzazione totale delle relazioni, delle donne, dei bambini e degli amici. Tutto deve avvenire secondo una "qualità gestionale" e dev'essere organizzato come una piccola azienda, poiché, nella misura in cui rimangono sempre meno aziende reali, allora tanto più dobbiamo estendere una simile struttura contro noi stessi. Questa forma senza contenuto è allo stesso tempo molto barbara nella sua crudezza e sfocia facilmente, nella vita pratica, nell'aggressione fisica, in quanto l'idea insopportabile di un'irrealtà crescente nel virtuale richiede inevitabilmente una valvola di sfogo. Questo mondo ci rende capaci di tutto e pronti a tutto. Gli individui diventano sempre più imprevedibili.

- Pubblicato su Tropico e su Antivalor -

fonte: EXIT!

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