venerdì 24 luglio 2015

Prima del lavoro

vernant

Aspetti psicologici del lavoro nella Grecia antica
- di Jean-Pierre Vernant -

Il lavoro è un fatto umano a molteplici dimensioni; la sua analisi richiede studi a più livelli: c'è una storia tecnica, economica, sociale, psicologica del lavoro. Le nostre osservazioni concernono più specificamente quest'ultimo aspetto dell'antica Grecia: noi guardiamo al lavoro in quanto forma particolare dell'attività umana e ci interroghiamo sul posto che esso ha avuto nell'intimo dell'uomo, sui suoi significati, sul suo contenuto psicologico. Ciò non vuol dire che la nostra prospettiva non sia storica: ché, allo stesso tempo che non si ha il diritto di applicare al mondo greco le categorie economiche del capitalismo moderno, non si può nemmeno proiettare sull'uomo della città antica la funzione psicologica del lavoro come è delineata oggi.
Per noi, oggi, tutti i lavori professionali, per quanto diversi siano nel concreto, rientrano in un tipo unico di condotta: vediamo in essi una medesima attività forzata, regolata, il cui effetto concerne direttamente altri e che mira a produrre valori utili al gruppo. Quest'unificazione della funzione psicologica procede di pari passo con l'emergere di quello che, nella sua analisi economica, Karl Marx chiama il lavoro astratto. Infatti, perché le diverse attività di lavoro si integrino le une alle altre per comporre una funzione psicologica unificata, bisogna che l'uomo possa cogliere, sotto le forme peculiari di ciascun lavoro, la propria attività come lavoro in generale. Ciò non è possibile se non nell'ambito di un'economia pienamente mercantile, in cui tutte le forme di lavoro mirano egualmente a creare prodotti in vista del mercato. A partire da questo momento, non si fabbrica più un certo oggetto per soddisfare i bisogni di un certo utente; ogni lavoro agricolo o industriale, sfocia egualmente nella produzione di una merce, destinata non ad un certo individuo particolare, ma a delle operazioni di compravendita. Mediante il mercato, tutti i lavori effettuati nell'insieme della società vengono messi in relazione, confrontati gli uni con gli altri, uguagliati. Dal che derivano due conseguenze. In primo luogo, l'attività di lavoro cessa di mettere in rapporto più o meno diretto il produttore e l'utente: per effetto della circolazione generale dei suoi prodotti, il lavoro prende la forma di uno scambio generalizzato all'interno del corpo sociale considerato nella sua totalità, ed appare così come ciò che costituisce il legame per eccellenza fra i diversi agenti sociali, appare come il fondamento del rapporto sociale. In secondo luogo, quest'universale confronto dei prodotti del lavoro sul mercato, mentre trasforma i diversi prodotti, tutti differenti dal punto di vista dell'uso, in merci tutte paragonabili dal punto di vista del valore, trasmuta anche i lavori umani, sempre diversi e particolari, in una stessa attività di lavoro, generale ed astratta. Invece nell'ambito della tecnica e dell'economia antiche, il lavoro appare ancora solo nel suo aspetto concreto. Ogni lavoro si trova definito in funzione del prodotto che mira a fabbricare: quello del calzolaio in rapporto alla scarpa, quello del vasaio in rapporto al vaso. Non si guarda al lavoro nella prospettiva del produttore, come espressione di uno stesso sforzo umano creatore di valore sociale. Nell'antica Grecia non si trova dunque una grande funzione umana, il lavoro, che copra tutti i mestieri, ma una pluralità di mestieri differenti, ciascuno dei quali costituisce un tipo particolare di azione, che produce la sua propria opera. Inoltre, tutte le attività agricole, che ai nostri occhi sono integrate alle condotte di lavoro, per i Greci rimangono esterne al campo professionale. Per un Senofonte, l'agricoltura è più affine all'attività guerriera che alle occupazioni degli artigiani; il lavoro della terra non costituisce né un mestiere, né un'abilità tecnica, né uno scambio sociale con altri; ed il ritratto psicologico del coltivatore che si affatica sul suo campo si disegna in antitesi a quello dell'artigiano al banco di lavoro.

Il lavoro è dunque strettamente limitato al campo dei mestieri artigianali. Questo tipo di attività è caratterizzata innanzitutto dalla sua rigorosa specializzazione, dalla sua divisione: ogni categoria di artigiani è fatta per un solo lavoro. Ma come ha notato Marx, nell'antichità la divisione del lavoro viene vista esclusivamente in funzione del valore d'uso del prodotto fabbricato: mira a rendere ogni prodotto il più perfetto possibile, dato che l'artigiano fa una cosa e la fa tanto meglio in quanto fa solo quella. Non compare l'idea di un processo produttivo d'insieme, la cui divisione permetta di ottenere, dal lavoro umano in generale, una maggior massa di prodotti. Al contrario, ogni mestiere costituisce un sistema chiuso, all'interno del quale tutto è solidalmente subordinato alla perfezione del prodotto che si deve fabbricare: gli strumenti, le operazioni tecniche e, fin nell'intima natura dell'artigiano, certe qualità specifiche che sono solo sue. Dunque, il mestiere si presenta come un fattore di differenziazione e di separazione fra i cittadini. Se questi si sentono uniti in una sola città, non è in funzione del lavoro professionale, ma malgrado questo e al di fuori di questo. Il legame sociale si stabilisce al di là del mestiere, sul solo piano su cui i cittadini possono amarsi reciprocamente perché, lì, si comportano tutti in un unico modo e non si sentono differenti gli uni dagli altri: e cioè sul piano delle attività non professionali, non specializzate, che compongono la vita politica e religiosa della città. Non essendo colto nella sua unità astratta, il lavoro - nella forma di mestiere - non si manifesta ancora come scambio di attività sociale, come funzione sociale di base.
Esso sembra piuttosto stabilire, fra il produttore e l'utente di un bene, un legame personale di dipendenza, un rapporto di servizio. Nella sfera del suo mestiere, le capacità dell'artigiano sono rigorosamente sottoposte all'opera, e l'opera rigorosamente sottoposta al bisogno dell'utente; l'artigiano e la sua arte esistono "in vista" del prodotto, ed il prodotto esiste "in vista" del bisogno. E non può essere altrimenti finché il prodotto del lavoro viene considerato, come è considerato nel mondo antico, esclusivamente sotto l'aspetto del valore d'uso, e non sotto quello di valore di scambio. Infatti, in quanto valore d'uso, il prodotto si definisce in relazione ai servizi che rende a colui che se ne serve. E' solo in quanto valore di scambio che può essere considerato indipendentemente dalla sua utilità concreta, in rapporto al valore in esso posto. Nella prospettiva del valore d'uso, il prodotto non è visto in funzione del lavoro umano che l'ha creato, non viene visto come lavoro cristallizzato; è invece il lavoro ad esser visto in funzione del prodotto, come atto a soddisfare un certo bisogno dell'utente. Dunque, mediante il prodotto, il lavoro istituisce fra l'artigiano e l'utente un rapporto economico di servitù, una relazione irreversibile di mezzo e fine.
Trasposto, dal piano dell'economia, sul piano della riflessione filosofica, questo sistema di rapporti fra l'artigiani, la sua attività, il prodotto e l'utente, trova espressione in una teoria generale dell'attività demiurgica. In ogni produzione demiurgica, l'artigiano è causa motrice; agisce su un materiale - causa materiale - per dargli una forma - causa formale - che è quella dell'opera finita. Questa forma costituisce allo stesso tempo il fine di tutta l'operazione - causa finale. E' questa causa finale ciò che comanda l'insieme dell'attività demiurgica: la vera causalità del processo di operazione non risiede nell'artigiano, ma fuori di lui, nel prodotto fabbricato. L'essenza del prodotto fabbricato è essa stessa indipendente dall'artigiano, dai suoi procedimenti di fabbricazione, dalla sua abilità o dalle sue innovazioni tecniche. Modello immutabile e non-generato, tale essenza si definisce in termini di finalità in rapporto al bisogno che deve soddisfare nell'utente: l'essenza di una sedia è il perfetto adattamento di tutte le sue parti all'uso che se ne fa. La produzione artificiale nella sua dinamica non richiede principi diversi da quelli della produzione naturale. E' sempre il fine del processo, la "forma" realizzata in atto nell'opera, ad essere il principio e la fonte di tutta l'operazione. La causa motrice non è realmente produttrice: ha l'ufficio di un mezzo col quale una "forma" preesistente si attua in una materia: come l'uomo viene dall'uomo mediante il seme, la casa viene dalla casa mediante il muratore.

Poniamoci ora su un terreno più propriamente psicologico. L'operazione dell'artigiano costituisce quello che i Greci chiamano poiésis, produzione, e che oppongono alla pràxis, che è l'azione propriamente detta. Infatti, perché vi sia azione nel senso proprio del termine, bisogna che l'attività abbia in sé stessa il proprio fine, e che così, nell'esercizio del suo atto, l'agente usufruisca direttamente di quello che fa: per esempio, nell'attività morale, l'agente, dando forma a sé stesso, produce un valore del quale contemporaneamente ha l'uso. Per la poiésis non è così: essa crea un'opera esterna all'artigiano ed estranea all'attività che l'ha prodotta. Fra il lavoro dell'artigiano e l'essenza dell'opera definita dal suo uso, non c'è comune misura; si situano su due piani differenti, uno dei quali è sottomesso all'altro, come il mezzo è subordinato al fine senza partecipare della natura di questo. La fabbricazione di un oggetto è una cosa, l'uso di quest'oggetto un'altra, radicalmente differente; perciò nessun artigiano, in quanto lavora, ha l'uso di quello che fa. Il lavoro dell'artigiano, alienandosi nella forma concreta del prodotto, nel suo valore d'uso, si manifesta come servizio ad altri, schiavitù. L'artigiano, nelle mani dell'utente, ha l'ufficio di uno strumento destinato a soddisfare i suoi diversi bisogni. Ed Aristotele, definendo i poiétika òrgana, cioè "gli strumenti che 'producono' un oggetto", può così citare, fianco a fianco, gli attrezzi e gli artigiani.
Da questa differenza di piano fra l'azione produttrice ed il prodotto, risulta che non è l'artigiano , come tale, ad avere la migliore conoscenza della "forma" che deve incarnare nella materia. Le sue manipolazioni concernono i procedimenti di fabbricazione, le regole tecniche: cioè i mezzi di azione sulla materia. La "forma" lo trascende. La scienza del prodotto nella sua essenza, come "forma", cioè come fine, è esclusivamente di colui che sa a che serva la cosa e sa come servirsene, cioè dell'utente. Al limite, il lavoro artigianale appare come pura abitudine, come applicazione di ricette empiriche per rendere un materiale conforme ad un modello la cui natura si fa conoscere dal di fuori attraverso le indicazioni e gli ordini dell'utente.
Così, assoggettata ad altri, tendente verso un fine che la trascende, come potrebbe la poiésis dell'artigiano essere sentita come una vera condotta d'azione? Aristotele, per distinguerla dall'attività autentica, dalla praxis, la definisce come un semplice movimento, kinèsis. Un movimento che implica un'imperfezione: rincorrendo un fine che è al di là di esso, non possiede in sé l'enérgeia, cioè l'atto; l'atto appare nella "forma" realizzata, nel prodotto, non nello sforzo di lavoro, non nell'energia umana spesa nella produzione. Quando l'attività umana - scrive Aristotele - non genera niente all'esterno, è praxis, e l'atto risiede nell'agente stesso; ed aggiunge: in tutti i casi in cui, indipendentemente dall'esercizio, vi è produzione di qualcosa, l'atto è nell'oggetto prodotto: l'azione di fabbricare, per esempio, è in ciò che è fabbricato, l'azione di tessere in ciò che è tessuto.

Si capirà che, in questo sistema sociale e mentale, l'uomo "agisce" quando utilizza le cose, non quando le fabbrica. L'ideale dell'uomo libero, dell'uomo attivo, è quello di essere universalmente utente, mai produttore. Ed il vero problema dell'azione, almeno per i rapporti dell'uomo con la natura, è quello del "buon uso" delle cose, non della loro trasformazione con il lavoro.
A diversi livelli della società e della cultura greca sembra così ritrovarsi una stessa struttura: sul piano economico, il valore d'uso prevale sul valore mercantile, il prodotto è visto in funzione del servizio che rende, e non del lavoro in esso posto; sul piano filosofico, la causa finale, ciò "in vista di cui" ogni cosa è fatta, prevale dal punto di vista dell'atto, dell'enèrgeia, sullo sforzo del lavoro del produttore; la praxis, che conferisce direttamente all'agente l'uso della sua azione, prevale, come tipo e come livello di attività, sulla poiésis, sull'operazione di fabbricazione che mette il produttore, mediante l'oggetto prodotto, alle dipendenze ed al servizio personale dell'utente.

Jean-Pierre Vernant - da "Mito e pensiero presso i Greci" - Einaudi, 1965 - pp. 309 - 316 -

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