Lotta nelle strade contro lo spettacolo?
di Anselm Jappe
Le teorie sociali nascono per spiegare gli eventi del proprio tempo, più o meno rilevanti. Con il passare degli anni, e con la società che cambia, il loro valore euristico tende a diminuire. Pertanto, il tribunale della storia conserva solamente quelle letture della realtà che hanno dimostrato di poter essere applicate a situazioni diverse rispetto a quelle da cui sono nate, in quanto hanno catturato le tendenze generali di un'epoca più ampia. Queste teorie non sono "profetiche" (categoria vuota), ma sono state in grado di comprendere l'essenza di un lungo periodo storico. Coloro che oggi si richiamano ancora all'epoca di Tocqueville, o di Marx, o di Weber, o di Pareto, affermano che essi compresero, uno o quasi due secoli fa, alcuni elementi della società moderna che ancora oggi sono presenti, seppure in maniera differente. Come contropartita, teorie più recenti che, per fare un esempio, hanno visto nell'alleanza fra gli operai delle fabbriche ed i cittadini un elemento capace di trasformare la società capitalista, ci appaiono già irrimediabilmente datate.
Le teorie elaborate negli anni 50 e 60 del secolo passato, in particolare da Guy Debord e dai situazionisti, fanno parte di quest'analisi dell'effetto prolungato? Sono in grado di aiutarci a comprendere i fenomeni che questi autori non potevano allora ancora conoscere? La categoria critica di "spettacolo", una volta che è stato chiarito che descrive un fenomeno assai più ampio del potere eccessivo della televisione, si applica anche alla dimensione politica e sociale del mondo globalizzato, quarantacinque anni dopo la pubblicazione del libro di Debord?
E' ancora troppo presto per poter esprimere un parere sulle contestazioni che a partire dal maggio del 2013 hanno scosso prima la Turchia e poi il Brasile. Questi movimenti di protesta, di un tenore ben diverso da quello espresso dagli Indignados, da Occupy Wall Street e dalle Primavere arabe, come verrà spiegato in seguito, hanno sorpreso tutti gli osservatori ed hanno prodotto molte analisi visibilmente confuse ed insufficienti. D'altra parte, alcuni dei concetti situazionisti possono forse aiutare a comprendere una serie di caratteristiche rilevanti ed innovative di questi movimenti, che sembrano sfuggire alla sociologia ed alla scienza politica tradizionali, sia a sinistra che a destra.
I situazionisti si sono attribuiti il merito di aver fortemente contribuito alla preparazione del clima da cui nacque il Maggio 68 in Francia e di averne espresso il suo contenuto profondo, indipendentemente dalla questione di una "influenza" diretta. Il 68 francese colse di sorpresa quasi tutti gli osservatori, e non fu la conseguenza di una più ampia crisi economica. Le proteste in Turchia ed in Brasile appaiono altrettanto "inspiegabili", vale a dire, dopo vari anni di forte sviluppo economico, a protestare sono le stesse nuove classi medie, giovani, che hanno approfittato fortemente di questa crescita. Sembra un paradosso. Alcuni economisti ora si affannano a spiegare il malcontento a partire da una diminuzione della crescita e con il ritorno dell'inflazione. Oppure, in forma più generale, con le aspettative che un tale sviluppo aveva creato senza che potessero essere soddisfatte, soprattutto nell'ambito dei servizi pubblici. Questo significa, però, assumere che sia lo sviluppo capitalista, la sua forma di ricchezza e di consumo, ad essere di per sé desiderabile e che l'insoddisfazione sociale nasca solamente quando manca e quando non esiste più questa ricchezza e questo consumo. Ora, i situazionisti sono stati i primi a proclamare che la vita nel capitalismo è sempre alienante, anche quando scompare la povertà di massa. "Il punto non è constatare che le persone vivono più meno in povertà, ma che vivono sempre in un modo che sfugge loro", ha detto Debord in un suo film del 1961, e nel libro "La società dello spettacolo", nel 1967, ha affermato che "ora è l'abbondanza capitalistica ad aver fallito" (§115). Questa può garantire la "sopravvivenza", ma non la "vita". Questa analisi, che si poneva in contrapposizione col marxismo tradizionale, ma in parallelo con un pensiero come quello di Herbert Marcuse, si rivelò chiaroveggente riguardo all'esplosione del 1968 e alla sua continuità: l'esistenza nel capitalismo si dimostra sempre insopportabile, anche quando il piatto è pieno. E se le persone che manifestano oggi con tanta costanza nelle strade delle città turche e brasiliane esprimono raramente idee chiaramente anticapitaliste, si constata, allo stesso tempo, che i pretesti iniziali (taglio degli alberi in un parco di Istanbul, prezzo del biglietto dei trasporti pubblici in Brasile) sono stati rapidamente superati. Quello che si percepisce è un'insoddisfazione generale per quel che riguarda la vita che si è costretti a condurre, anche se non sempre si riesce ad esprimerlo.
Il fatto stesso per cui molti scendono in strada, bloccano il corso normale dell'infelicità, la rottura stessa con il quotidiano, la sensazione di forza e di vendetta che deriva dall'occupazione dello spazio pubblico e dallo stare insieme, implica quella "critica della vita quotidiana" in azione che era sempre al centro dell'agitazione situazionista. Non si manifesta soltanto per ottenere l'approvazione di una rivendicazione concreta, e poi tornarsene a casa o al lavoro, ma anche per sfuggire alla passività organizzata ed al tedio di una vita guidata da altri. "We want to riot, not to work", vogliamo ribellarci non lavorare, dicevano già i rivoltosi di Brixton nel 1981, scandalizzando i conformisti sia di sinistra che di destra. Mentre la sinistra tradizionale rimane sconcertata di fronte al carattere "apolitico" del movimento in Brasile, alcune delle sue caratteristiche sembrano confermare quello che i situazionisti preconizzavano: un movimento senza capi né programmi, che si situa al di fuori dei partiti e dei sindacati, né desidera formarne altri, in quanto rifiuta la "politica" nel suo senso tradizionale tout court e ritiene che la presunta sinistra non si distingue dalla destra. (Naturalmente, sotto altri aspetti, questo è ben lontano da ciò che volevano i situazionisti, che evocavano rivolte proletarie, consigli operai ed occupazioni di fabbriche).
I situazionisti sono stati pionieri anche quando hanno indicato un nuovo terreno centrale delle lotte sociali nell'urbanismo e nell'opposizione alla ristrutturazione autoritaria e mercantile dello spazio urbano e nell'opposizione alla scomparsa dei luoghi pubblici e degli scambi diretti fra le persone che tali luoghi permettevano. L'importanza di questi tempi si è immediatamente constatata in Turchia, dove il pomo della discordia è stato la trasformazione in centro commerciale di un parco e, in generale, la devastazione di Istanbul per mezzo di megaprogetti architettonici, e, in Brasile, dove ha fatto da detonatore la questione dei trasporti.
Ma l'aspetto più notevole sembra risiedere in quello che si può chiamare la contestazione dello "spettacolo". Per "spettacolo", Debord ed i situazionisti non intendevano solamente i media, ma anche un'organizzazione sociale dove gli individui consumano, sotto forma di immagini e di ideologie, tutto quello che la società capitalista impedisce loro di vivere realmente. Qui si inserisce tanto la religione quanto il consumismo, tanto la star system quanto la politica dei partiti e dei dirigenti. Ciò che non esiste nella vita, lo si contempla sopra un palco o dentro uno schermo (termine che dev'essere considerato anche in un senso più ampio). Lo spettacolo è pertanto un proseguimento della religione nell'epoca delle merci, delle immagini riprodotte magicamente e del consumo compensatorio. Ora, le rivolte in Turchia ed in Brasile contestano un aspetto centrale dell'alienazione spettacolare nei loro rispettivi paesi.
In Turchia, (e questo costituisce un grande differenza rispetto alle Primavere arabe) si è combattuto contro il ritorno allo "ordine morale" imposto da un governo islamista che vuole vietare l'alcol e che sollecita le donne ad avere "almeno tre figli". Ancora più spettacolare è mettere in discussione lo spettacolo in Brasile: come tutti sanno, il calcio svolge qui, da molti anni, un ruolo assolutamente centrale nell'alienazione quotidiana e funziona da "oppio del popolo". Il governo poteva anche aspettarsi che le spese più selvagge ed inutili, insieme alla distruzione dei quartieri popolari vicini agli impianti sportivi, venissero accettate, dal momento che si trattava di calcio. Il rifiuto generalizzato, improvvisamente manifestato, a sacrificare gli interessi immediati della vita allo spettacolo sportivo ha costituito, in quel momento, la vera sorpresa! Decine o centinaia di migliaia di persone, in occasione di ogni partita della "Confederations Cup", hanno marciato per raggiungere la stadio, scontrandosi frequentemente con la polizia, mentre alcuni tifosi contestavano all'interno dello stadio. Lo slogan "Più pane, meno circo, la Coppa per chi?" ha trovato ampio consenso. Secondo i sondaggi, un terzo dei brasiliani è contrario ad ospitare la Coppa del Mondo in Brasile! Molti osservatori si dicono perplessi di fronte ad un movimento al cui interno convivono gli individui più diversi, e dove ciascuno arriva con la sua rivendicazione personalizzata per mezzo di un cartello. Ma si piò già dire in anticipo che l'ideologia sportiva, tassello fondamentale nel processo di passività della popolazione brasiliana, ha perso quasi tutta la sua funzione. E questo potrebbe essere ancora più grave per il sistema della perdita di fiducia nei partiti e nei politici, ossia, nello spettacolo politico, in cui nessuno crede più da molto tempo e che è sempre lo stesso. La vita reale, quotidiana, scopre la sua propria miseria e non accetta più di dimenticarla nella contemplazione di una perfezione illusoria.
Naturalmente, molti altri aspetti di questa contestazione di nuovo tipo non sono immediatamente percepibili per mezzo delle categorie annunciate al tempo dei situazionisti. Ma considerando la paura della maggior parte dei commentatori di professione, e l'evidente obsolescenza di molte categorie interpretative, la parziale utilità delle intuizioni situazioniste di quasi mezzo secolo ne conferma la pertinenza.
- Anselm Jappe - Pubblicato su Rebeca, anno 2° n° 3 del 2013 -
fonte: Rebeca
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