lunedì 31 ottobre 2022

Qualcos’altro…

Il riscaldamento globale non mi interessa. Parlami di qualcos'altro!
di Sandrine Aumercier

Mentre che gli obiettivi accettati, circa la riduzione dei gas serra, continuano a rendere ridicoli coloro che li hanno sottoscritti, e si moltiplicano gli allarmi scientifici - parallelamente al verificarsi di alcuni eventi climatici estremi o preoccupanti come le temperature di questo autunno – che non mancano di far pervenire alla nostra conoscenza altre relazioni che mostrano alla comunità internazionale lo specchio di alcune soluzioni che sarebbero «a portata di mano», a condizione però che ci sia la «volontà politica». Uno di questi, è il Rapporto 2022 sullo scarto esistente tra i i bisogni e le prospettive in materia di riduzione delle emissioni, pubblicato dall'ONU [*1]. Questo rapporto - il quale anch'esso entra a far parte della letteratura catastrofista del nostro tempo - comincia col mostrare come l'attuale traiettoria ci stia portando a un riscaldamento di 2,8° entro la fine del secolo, e che il rispetto degli impegni presi avrebbe l'effetto che ci porterebbe invece verso la forbice di un riscaldamento che sarebbe compreso solo tra i 2,6 e i 2,8°. La prima conclusione che se ne trae è quella secondo cui, con o senza impegni, condizionati o incondizionati, non farà poi molta differenza. Non si vede perché non dovremmo allora continuare sulla stessa strada, se poi l'enormità degli sforzi richiesti «a livello di sistema» - secondo quelle che sono le parole del rapporto - promette un risultato così mediocre. Ma quale esperto si potrebbe accontentare di una conclusione del genere?
Ed è qui che di solito entrano immancabilmente in gioco le consuete raccomandazioni finalizzate al raggiungimento dei cosiddetti «obiettivi» che sono stati fissati dall'Accordo di Parigi. Tra le soluzioni prospettate, si possono trovare le seguenti perle: elettrificazione dell'industria e del parco auto, promozione dell'idrogeno verde, miglioramento dell'efficienza energetica, attuazione di «flussi circolari di materiali», «carburanti sostenibili» per il trasporto aereo, modifica del regime alimentare, trasformazione del sistema finanziario, ecc. È stata l'aggiunta di tutti questi miglioramenti settoriali che, secondo il rapporto, avrebbe portato a un cambiamento «su scala sistemica», vale a dire al mantenimento di tutti quelli che sono i suoi presupposti di base. Questo porta a imbatterci in una curiosa figura retorica, secondo cui la pretesa novità coincide  in realtà con la conservazione dello stesso.
A qual fine lanciarsi ancora una volta nella confutazione di tutta questa rete di assurdità, identica a innumerevoli altre, e che alla fine equivale a proporre di mantenere proprio ciò che dovrebbe essere abolito? Bisogna arrendersi all'evidenza che anche queste confutazioni sono risultate fallimentari. Convincere della sua assurdità chiunque voglia credere in questo discorso, è altrettanto impossibile che convincere un feticista dell'assurdità del suo feticcio. Dal momento che il feticcio, secondo Freud, di fatto, non è un errore di gusto, bensì un'elaborata costruzione che serve a tenere insieme due percezioni opposte [*2]. E visto che questo feticcio sostiene tutta l'intera costruzione psichica, i suoi effetti non possono essere cancellati.

Nella sua opera, Freud, a seconda delle strutture coinvolte, distingue più figure di negazione. Uno dei suoi esempi paradigmatici consiste nel meccanismo che vediamo all'opera nella costituzione psichica del feticismo: una cosa percepita - in questo caso il pene materno - esiste e non esiste allo stesso tempo. Il feticcio permette di sostenere e gestire questa contraddizione, facendo sì che esso prenda il posto della percezione spiacevole il cui effetto è una scissione del sé. Freud non postula affatto un errore di percezione, o un semplice rifiuto della percezione, quanto piuttosto una vera e propria creazione psichica intermedia che permette di mantenere i due lati della contraddizione. È pertanto in questo modo che dovremmo «leggere» il tipo di rapporto rappresentato sopra. Tuttavia, la concezione ordinaria di «negazionismo climatico», che comprende il negazionismo secondo quella che è la famosa figura dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, non ha capito niente. È a partire da un tale fraintendimento del meccanismo della negazione che si moltiplicano le esortazioni a tirare fuori la testa dalla sabbia e «cominciare finalmente a realizzare le trasformazioni necessarie che sono state messe nero su bianco in questo e in quell'altro rapporto». Generalmente, coloro che invocano la fine del negazionismo credono, da bravi soggetti dell'Illuminismo, di non essere affetti da questo difetto di visione.

Ma chi è che non si accorge che questa esortazione è essa stessa una negazione?
Così come martellare il feticista circa la «realtà» della castrazione femminile non lo convincerà del suo «errore», allo stesso modo, anche il martellamento sulla «realtà» fattuale del cambiamento climatico non servirà a produrre i cambiamenti necessari. Il problema risiede proprio in quei costrutti che ci vengono presentati come se fossero la soluzione alla «negazione», quando invece essi sono parte integrante della negazione stessa. Senza la moltiplicazione delle competenze-feticcio, le quali ci vogliono far credere che il sistema capitalistico abbia un fallo [*3] (e, saltuariamente, lo abbiano anche i suoi rappresentanti) - ossia, farci credere che tale sistema detenga quegli strumenti che possono risolvere i problemi legati al suo carattere di feticcio -  tutto questo non sarebbe possibile. Al giorno d'oggi non è più permesso dire che abbiamo un problema di «percezione errata» del cambiamento climatico, da correggere con l'aiuto di informazioni più accurate e di soluzioni più chiare. Al contrario, tanto la forma della diagnosi, quanto il rimedio corrispondente sono elementi di questa negazione, e nella loro stessa esortazione a rimuoverla, non fanno altro che rafforzarla: è questo il problema, ben più grave, che l'umanità deve affrontare. Ogni «soluzione» che ci viene offerta da una cricca di esperti allarmisti, deve essere vista come se fosse una «formazione di compromesso», in senso freudiano, volta a mantenere a tutti i costi le condizioni del capitalismo in crisi; ed è per questo che a livello sistemico non fa quasi nessuna differenza se la «soluzione» viene attuata o meno.

Alcuni psicoanalisti non hanno omesso di rilevare la vicinanza esistente tra il negazionismo freudiano e il negazionismo climatico, ma lo hanno fatto parlando, ad esempio, di un'«agenzia di corruzione nella nostra testa» ovvero di uno stato psichico perverso preoccupato «del perseguimento del piacere individuale a spese degli altri» [*4], come se il perseguimento della felicità individuale non fosse già la professione di fede dei primi liberali, ed essa stessa la matrice psichica del funzionamento capitalista; e che esige quindi che si vada fino in fondo all'analisi di un tale funzionamento.  La psicologizzazione della negazione, così come quella dell'ansia ambientale o quella del senso di colpa, per non parlare della descrizione degli «ostacoli inconsci alla cura del pianeta» [*5], o del nostro innato amore per la natura che verrebbe contrastato dal neoliberismo [*6] sono gli ingredienti di questa ricerca, la quale intende contribuire alla soluzione del problema climatico, analizzandolo dal punto di vista dei blocchi psichici. Ma ci sono anche degli psicoanalisti che si sono messi a parlare del riscaldamento globale per ricondurlo a una concezione atemporale dello spreco [*7] (confutata dalla ricerca storica [*8]) oppure a «un desiderio di finirla e di farla finita con la suddetta natura» [*9]. Occupando quello che è uno dei poli della grande frattura ideologica tra freudiani e lacaniani, ci si rivolge non a dei «meccanismi psicologici» identificabili, come i precedenti, ma piuttosto alla realtà della struttura, che il «discorso della scienza» condurrebbe al suo apice. La scienza farebbe esistere, come ripensamento, ciò che è sempre stato lì senza saperlo. L'establishment psicoanalitico odierno non sembra abbia da proporre altro che, da un lato, la scelta tra la declinazione dei meccanismi psicologici di negazione, e l'invocazione di un reale, tanto mistificante quanto atemporale, dall'altro. Tutto ciò elude completamente la dialettica tra la costituzione moderna di questa psiche e la sua controparte oggettiva, allo stesso modo in cui elimina il problema della mediazione o meno tra le due.

Forse riusciremo a capire un po' meglio ciò che stiamo cercando di identificare, se ci poniamo il problema della posizione da adottare. Ricordiamoci di quello psicoanalista che accolse Marie Cardinal, affetta da continue emorragie, dicendole fin dalla seconda seduta: «Non mi interessa. Parlami di qualcos'altro.» [*10] Oltre al fatto che le emorragie cessarono immediatamente (il che voleva dire che non era poi così grave), l'analisi è potuta iniziare in quel momento. Va da sé che lo psicoanalista non stava prendendo sotto gamba i problemi somatici della sua paziente, ma le stava facendo notare l'impasse di un trattamento incentrato sul sintomo insieme al suo interesse per «il resto». Allo stesso modo, dovremmo avere il coraggio di dire al mondo: «Il riscaldamento globale non mi interessa. Parlami di qualcos'altro.» In questo «qualcos'altro» al quale ci invita il «discorso analitico» (per dirla con Lacan), si cela anche tutta la storia dell'instaurazione del capitalismo, e della creazione dei rapporti di produzione che ci hanno portato al punto in cui siamo oggi. Certo, non è una semplice faccenda di divano, ma forse Lacan non ha sempre detto che la posizione analizzante non può essere ridotta al divano? Il guazzabuglio di allarmi e di avvertimenti, e la valanga di catastrofi climatiche che i media ci propinano hanno lo scopo di distrarci dall'essenziale e di spingerci verso il peggio. Contrapponiamoci a loro con un'astinenza inflessibile, allo stesso modo in cui lo psicoanalista non dispensa né medicine, né consigli, né affetto. Non si tratta di un'astinenza cinica, tutta impegnata a guardare dalla sua poltrona la fine del mondo, no, è un'astinenza determinata a condurre il discorso verso un certo punto di convergenza critica; questa astinenza è pertanto essa stessa piena di attenzione. Dovremmo affermare con decisione che il cambiamento climatico non è il problema, e osare persino dire che non vogliamo più sentirne parlare! Potremmo dover sopportare un gruppo di sinistrorsi sinceramente «eco-ansiosi» e amanti dei pannelli solari che ci sospettano di negazionismo climatico, convinti come sono di contribuire a eliminare la negazione e a realizzare un futuro migliore. Ma che fare? Non si può fare altro che rimanere su questa posizione.

Sandrine Aumercier, 29 ottobre 2022

NOTE:

[*1] - https://www.unep.org/fr/resources/rapport-2022-sur-lecart-entre-les-besoins-et-les-perspectives-en-matiere-de-reduction-des
[*2] - Questo argomento è già stato trattato su un precedente articolo: https://francosenia.blogspot.com/2022/07/piu-verde-del-previsto.html
[*3] - Il termine di «phallus», viene qui usato come significante dell'assenza, o della mancanza del pene, che apre alla sostituzione simbolica.
[*4] - Paul Hoggett, « Climate change in a perverse culture », dans Sally Weintrobe (sous la dir.), Engaging with climate change, Routledge, London, 2013, p. 60 et p. 63.
[*5] - John Keen, « Unconscious obstacles to caring for the planet », dans Sally Weintrobe (sous la dir.), op. cit.
[*6] - Sally Weintrobe, « On the love of nature and on human nature », dans Sally Weintrobe (sous la dir.), op. cit. Voir aussi Luc Magenat, La crise environnementale sur le divan, Paris, In Press, 2019; Sally Weintrobe, Psychological roots of the climate crisis, Bloomsbury academic, New York, 2021; Cosimo Schinaia, La crise écologique à la lumière de la psychanalyse, Paris, Imago, 2022.
[*7] - Voir par exemple Geert Hoornaert, « Malaise dans l’alèthosphére », La Cause du désir, 2020/3, n°106.
[*8] - Baptiste Monsaingeon, Homo detritus, Paris, Seuil, 2017.
[*9] - Martine Versel, « Edito : crise climatique et psychanalyse », L’Hebdo-Blog, n°275. En ligne : https://www.hebdo-blog.fr/category/lhebdo-blog-275/?print=pdf-search
[*10] -  Marie Cardinal, Les mots pour le dire, Paris, Grasset, 1975, p. 35.

Fonte:  GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme

Una breve storia di uccisioni !!

In un futuro flagellato dalle guerre intercontinentali per l’acqua, l’Europa è suddivisa in contee, staterelli, territori chiusi al fine di preservare la propria omogeneità e superiorità etnica. Il potere è di chi possiede e governa l’acqua. E un ingegnere idraulico è la voce narrante del romanzo, membro dell’unica casta a cui sia concesso spostarsi per il pianeta. Mentre si trova sulle rive del Rio Xingu, in Brasile, lo raggiunge la notizia della scomparsa del padre, il “maestro della cascata”, guardiano di una chiusa in un’ombrosa contea del vecchio continente, che un anno prima era stato responsabile involontario di una tragedia in cui avevano perso la vita cinque persone, precipitate nella grande cascata del Fiume Bianco. Ma era stata davvero una tragedia o un omicidio? E ora: quello del padre, tormentato dal rimorso, è un suicidio vero o simulato? Il viaggio all’indietro nella storia della propria famiglia – che ricorda quasi il movimento con cui un fiume interrompe talvolta il suo fluire e risale per un tratto il suo stesso corso –, nella colpa e nell’attesa del perdono, è fosco e doloroso. Un romanzo visionario, scritto con mano forte e potentemente evocativa.

(dal risvolto di copertina di: "Il Maestro della cascata", di Christoph Ransmayr. Feltrinelli, €16)

Nella guerra per l'acqua il potere è in mano ai costruttori di dighe
- di Laura Pezzino -

«Mio padre ha ucciso cinque persone». Inizia così con uno schiaffo, Il maestro della cascata dell'austriaco Christoph Ransmayr, un romanzo apocalittico e perturbante che, nella versione originale, ha come sottotitolo «una breve storia di uccisioni» e dove il futuro si nasconde nel profondo del passato.
In un mondo dove la crisi climatica ha reso ancora più vitali le riserve idriche semi prosciugate, dove molte terre sono state sommerse dall'innalzamento dei mari e dove l'Europa si è polverizzata in decine di micro-stati governati da autocrati che si fanno la guerra, accomunati dall'unico valore «everyone for himself», ciascuno per sé stesso,un anonimo e irritante narratore, parte di un élite che ha il privilegio di viaggiare liberamente per via del fatto che si occupa della costruzione di dighe, si interroga su un evento di cui il proprio padre era stato protagonista tempo addietro. In quanto «maestro della cascata», ossia guardiano delle chiuse del Fiume Bianco, si era infatti reso responsabile del capovolgimento di una barca e della conseguente morte di cinque persone, scomparse giù per la Grande Cascata.
Ma quello che all'inizio era sembrato un fatale incidente, con il tempo aveva assunto l'aspetto dell'enigma: e se suo padre avesse agito consapevolmente? E se suo padre, che in seguito era scomparso in circostanze misteriose, fosse in realtà un freddo assassino? E se anche lui, che fin da bambino provava soddisfazione nell'uccidere certi animali, non fosse in fondo tanto dissimile dal genitore? A rendere l'atmosfera ancora più vischiosa contribuisce un elemento che emerge violentemente dal passato del narratore. che sotto l'apparenza controllata e l'eloquio pieni di tecnicismi nasconde un rapporto di incesto con Mira, la fragile sorella maggiore per la quale nutre una vera ossessione.
La storia de "Il maestro della cascata" si snoda lungo una molteplicità di corsi d'acqua tra Sudamerica, Europa e Cambogia, e quella che sembra a prima vista una semplice «indagine» sul padre, si rivela una riflessione su alcuni dei temi più sentiti da Ransmayr: il sottile confine che, dentro ciascun individuo, separa la parte pacifica da quella assassina. gli autoritarismi, lo stravolgimento degli ambienti naturali, lo scorrere del tempo, il ritorno della Storia, il peso delle eredità dei padri e l'impossibilità di separarsene una volta per tutte. A dominare su tutto, con i suoi schiocchi, schizzi, vortici e rombi, è l'acqua, unica tremenda super entità nei confronti della quale l'essere umano è definitivamente e tragicamente disarmato.

- Laura Pezzino - Pubblicato su TuttoLibri del 3/9/2022 -

domenica 30 ottobre 2022

Le cose non continueranno a essere così come sono !!

Emancipazione nella crisi
- Nel dispiegarsi della crisi sistemica, il nuovo tuffo nella barbarie sembra preordinato. Ma non deve essere necessariamente così -
di Tomasz Konicz [***]

«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che supera lo stato di cose presente.. Le condizioni di questo movimento derivano dai presupposti attualmente esistenti» Karl Marx, Friedrich Engels, L'ideologia tedesca [*1]

Nel dispiegamento della prassi emancipatoria, nella crisi mondiale del capitale, sussiste una premessa fondamentale che semplicemente non può essere ignorata. Bisogna che le persone vengano informate circa la posta in gioco. Ciò che molti sospettano, o intuiscono vagamente, va invece affermato chiaramente e dev’essere posto alla base dei movimenti e delle lotte sociali: Il capitalismo è arrivato alla fine [*2] - e nella sua agonia minaccia di trascinare con sé l'umanità nell'abisso, privandola di quelle che sono le basi sociali ed ecologiche della vita. Il sistema globale capitalista sta per raggiungere i propri limiti, sia interni [*3] che esterni di sviluppo [*4]. La crisi economica e quella climatica [*5] sono solo due momenti di un unico processo di crisi, nel quale la compulsione alla crescita illimitata del capitale - la coazione a fare sempre più soldi sfruttando la manodopera nella produzione di merci - ha finito per rendere il mondo ecologicamente devastato, e parte dell'umanità economicamente superflua. È  diventato pertanto necessario cercare consapevolmente una via d'uscita dalla crisi e dal capitalismo catastrofico - tanto nella lotta sociale quanto nel dibattito – dal momento che il mondo minaccia di sprofondare nella barbarie. Il superamento della relazione di capitale diventa perciò il principio guida di ogni sforzo pratico della sinistra. Le lotte sociali, le proteste e i movimenti devono essere tutti intesi e condotti come i momenti parziali di una lotta per la trasformazione in una società post-capitalista. Dappertutto nel mondo, questo superamento della folle e criminale compulsione del capitale alla valorizzazione, è il minimo assoluto, la conditio sine qua non per qualsiasi progetto di civiltà nel XXI secolo. Dire qual è la posta in gioco, significa quindi parlare chiaramente del superamento del capitale al collasso definendolo come una necessità per la sopravvivenza della civiltà. Qualsiasi prassi progressista dev'essere orientata in direzione di una simile realtà di trasformazione del sistema. Ed è proprio questa insistenza sulla necessità di una trasformazione emancipatrice del sistema [*6] a rappresentare la chiara linea di demarcazione che ci separa dall'opportunismo di sinistra, dallo sforzo di fare una rapida carriera come manager della crisi per mezzo della demagogia [*7]. Far passare alla storia il capitale, rappresenta l'ultima coercizione materiale impostaci dal capitalismo. Qualsiasi gruppo o partito che si definisca di sinistra, e che predichi un cambiamento graduale senza affrontare la crisi sistemica, evitando di sottolineare la necessità di una trasformazione sistemica, è di fatto opportunista, se non reazionario [*8]. Nell'escalation della crisi sistemica, non esiste più alcuna possibilità di fare politiche di riforma che abbiano "successo", dal momento che le distorsioni della crisi, la cui intensità è in continua crescente, semplicemente impediscono qualsivoglia impresa del genere. Una prassi progressista può svilupparsi solo sulla base degli sforzi per realizzare un percorso progressivo dell'inevitabile trasformazione sistemica. Questo non è un "radicalismo" di sinistra, ma si tratta piuttosto un realismo che procede dalla consapevolezza di quale sia il carattere della crisi. La crisi attraversa tutta la società sotto forma di un processo feticistico e incontrollabile [*9] che si sviluppa con la mediazione della concorrenza e del mercato, senza prestare alcuna attenzione alle opinioni e ai calcoli dei componenti la ciurma del mulino capitalista. Per quanto i salariati non vogliono ammetterlo, anche se tutti gli strati rilevanti della popolazione si aggrappano al capitalismo, il sistema smette di funzionare a causa delle sue contraddizioni interne. Ciò che è in gioco, tuttavia, è ciò che viene dopo - ed è proprio per questo che dev'essere portata avanti la lotta, la lotta per la trasformazione. Questa agonia del capitale è lampante a partire dalle montagne di debito globale, sotto le quali molte economie minacciano di collassare, così come lo è nelle emissioni di CO2 in continuo aumento che vengono prodotte da un'economia globale capitalista intrappolata dalla sua compulsione irrazionale a crescere [*10]. Tuttavia, un movimento emancipatore può evitare che si precipiti nella barbarie, ma solo a condizione che si rifletta socialmente sul processo aperto di trasformazione; solo se questo processo viene compreso e modellato consapevolmente all'interno del quadro dell'altrettanto inevitabile lotta per la trasformazione. Per raggiungere questo obiettivo, la sinistra, sulla base della teoria radicale della crisi, deve dire a tutti qual è la posta in gioco. Diversamente, l'impulso feticista del capitale renderà il mondo inabitabile. Queste tesi introduttive saranno elaborate e giustificate in seguito.

Natura non dominata
Il contraddittorio modo di produzione capitalistico non si limita solo a costituire la forza motrice [*11] di quello che appare come un debito sempre più crescente, e delle crisi economiche [*12]; ma esso è anche la causa dello scoppio della catastrofe climatica. In realtà, appare evidente che il cambiamento climatico sia «causato dall'uomo», e che, per l'esattezza, è stato essenzialmente causato dal sistema sociale - dalla forma nella quale la società è organizzata e si riproduce - e dal modo in cui le persone vengono costrette a vivere. La crisi climatica è una crisi climatica capitalista, è un «mutamento climatico prodotto dal capitale». Il fatto che anche così, dire questa semplice e scomoda verità sembri qualcosa di mostruoso, ciò è dovuto alla tremenda pressione ideologica che grava sul discorso sociale; e che è espressione della sempre più crescente densità, oltre che della propensione alla crisi della socializzazione capitalistica, la quale attraverso l'opportunismo [*13] o la repressione [*14] cerca di soffocare ogni pensiero e azione di opposizione. Già a partire dall'Illuminismo, il nucleo dell'ideologia capitalista è stato quello di ideologizzare il capitalismo come un modo di produzione "naturale" - privo di contraddizioni e adeguato alla natura umana - come se si trattasse di una formazione sociale che è semplicemente espressione della natura umana e che poi - al più tardi, a partire dall'ascesa del darwinismo sociale - si sviluppa economicamente secondo quelle che sarebbero le medesime leggi dei sistemi ecologici "naturali". Di conseguenza, questa «natura capitalistica» sintetica, espressione del dominio senza soggetto del capitale [*15] , con i suoi diversi gradi di mediazione, del mercato, della politica, della giustizia, dell'industria culturale ecc. ne è sempre solamente la base, e non diventa mai oggetto del discorso pubblico delle società tardo-capitaliste. Ed è proprio per questo che la caccia ai capri espiatori, che ben presto vira rapidamente verso il fascismo, acquista così tanta popolarità nei tempi di crisi [*16] ,dal momento che l'economia di mercato "naturale" viene letteralmente immaginata come naturale, e potenzialmente senza contraddizioni. Così, alla persona "illuminata" della società borghese, il capitalismo appare "naturale", allo stesso modo in cui il feudalesimo sembrava fosse stato donato da Dio all'uomo medievale. Eppure la classica comune ideologia dell'«essenza naturale del capitalismo» reca in sé un granello distorto di verità. Esiste un parallelo tra i processi di crisi ecologica ed economica, ed è quello che ne favorisce la loro percezione come "naturali": Il frammento di «natura selvaggia indomabile» che si trova al centro della società, e che promuove l'illusione di uno stato di natura capitalistico, corrisponde al processo incontrollabile della valorizzazione del capitale; vale a dire, al già citato feticismo sociale. La dinamica distruttiva della valorizzazione del capitale, prodotta inconsapevolmente dai soggetti del mercato - «a loro insaputa», proprio perché viene mediata dal mercato - appare come un fenomeno naturale che attraversa tutta la società. Questo feticismo affiora e si manifesta apertamente soprattutto negli episodi di crisi, allorché l'«economia» diventa all'improvviso un Amok, e le «tempeste di crisi» o i «terremoti di mercato» provocano lo scempio socio-economico di intere regioni; allo stesso modo in cui lo fanno gli eventi meteorologici estremi. La sensazione di trovarsi in balia di forze quasi naturali, anonime e dominanti, diventa allora evidente. Questo impulso irrazionale del capitale - prodotto inconsapevolmente dai soggetti del mercato nel corso di quella che è la loro apparentemente razionale ricerca del massimo profitto possibile - rappresenta pertanto il momento di pseudo-natura non dominata che, a causa delle sue crescenti contraddizioni interne, sta distruggendo la civiltà e le sue basi ecologiche. Fintanto che il capitale - nella sua illimitata mutazione di quella che è la forma del denaro, che diventa merce e poi ancora denaro - si muove ciecamente nella società, con attriti sempre maggiori, né la crisi climatica né la crisi sociale potranno mai essere superate. Si tratta perciò di superare proprio questo feticismo, questa pseudo-natura capitalista, se si vogliono preservare le basi naturali della società umana. In ultima analisi, in un certo qual modo, il processo di civilizzazione umana deve essere completato, la riproduzione incontrollata della società svolta attraverso processi di valorizzazione eseguiti alla cieca, dev'essere sostituita, in un tremendo processo di trasformazione, a partire dall'organizzazione e dalla discussione consapevole della riproduzione sociale, in modo che essa non sia più subordinata all'accumulazione illimitata e irrazionale, sotto forma di capitale, di quantità sempre maggiori di dispendio di lavoro astratto; avendo come obiettivo razionale quello della soddisfazione diretta dei bisogni al di fuori della forma merce.

Che cos'è il capitale? Cos'è che dev'essere superato?
A partire da queste osservazioni sul feticismo sociale - che sembra "naturale" - diventa chiaro anche in che modo debba essere inteso il concetto di capitale che deve passare alla storia. Con questo, intendiamo che il capitale non è una cosa, non è solo denaro, non è né la fabbrica né i macchinari. E non è nemmeno una semplice persona, come il capitalista, il manager o lo speculatore. Questa visione tronca porta alla reificazione, o personificazione del capitale, che a sua volta è la base di tutta l'ideologia del capitalismo. Il capitale va inteso come un rapporto sociale, come una relazione di capitale che attraversa tutta la società, in quanto mera fase transitoria della sua moltiplicazione senza limiti in quella che è una produzione di merci. Solo dentro questo movimento di valorizzazione - la combustione di risorse nella forma del lavoro, che avviene in vista della massimizzazione del profitto - le persone, o le cose devono diventare capitale. Dopo il lavoro, l'operaio e il manager non funzionano più come capitale. E la stessa cosa vale per gli utensili - in quelli che sono i loro spazi hobbistici - i quali sono semplicemente degli oggetti d'uso, mentre in fabbrica funzionano invece come capitale (costante). Il rapporto di capitale va quindi inteso come una dinamica di valorizzazione calibrata per una crescita permanente, e che abbraccia l'intera società. Il capitale, in tutte le sue contraddizioni sociali ed ecologiche, è perciò un'astrazione reale che subisce un cambiamento di forma, da denaro a merce e infine ancora ad altro denaro, in ogni ciclo di valorizzazione: cose e persone concrete vengono messe in moto da esso, nel modo più efficiente possibile, al fine di accumulare sempre più quantitativi di lavoro astratto (la fonte e la sostanza del capitale); il tutto in un irrazionale fine in sé stesso. Questa coazione alla crescita realmente astratta del capitale è pertanto in un certo senso totalitaria; la relazione di capitale diventa una totalità sociale. Nella fuga delle sue contraddizioni interne ed esterne, occupa tutti i domini e le nicchie sociali - a eccezione della sfera dissociata, e connotata come femminile della riproduzione domestica e familiare [*17] - e li conduce verso la valorizzazione. L'apparato dello Stato, le istituzioni giuridiche e politiche, i livelli politici, economici, giuridici e ideologici di mediazione del dominio, sono stati prodotti e plasmati dalla relazione di capitale nel suo processo storico cieco. Pertanto, è proprio nella sua agonia che il capitale ha assoggettato il più possibile l'intera società, arrivando perfino fino ai movimenti subculturali. Il dominio senza soggetto del capitale è totale. E nel momento storico in cui soffoca nelle sue contraddizioni, sono proprio tutte queste istituzioni, e livelli di mediazione prodotti o modellati dal capitale, che ora stanno collassando insieme alle sue dinamiche. Ciò che ha bisogno di essere superato, è dunque questo movimento cieco di valorizzazione del capitale che devasta la società umana e gli ecosistemi. Questo feticismo distruttivo va sostituito da una comprensione consapevole del processo di riproduzione della società, da parte dei membri della società, senza che ci sia la divisione delle attività per genere o cose simili. Questo è necessario per la sopravvivenza, proprio perché il processo di valorizzazione, dal cui nutrimento endogeno dipendono tutte le società capitalistiche sotto forma di tasse e salari, ora sta morendo a causa delle sue contraddizioni. Ma insieme al capitale stanno scomparendo anche le istituzioni e le strutture sociali che esso ha storicamente prodotto.  La riproduzione post-capitalista della società non può quindi avvenire sotto forma di una «nazionalizzazione», come immaginato dalla sinistra ortodossa, proprio perché lo Stato, sotto forma di «capitalista globale ideale», è un'istituzione del capitalismo, in esso storicamente cresciuta, e necessaria, che deve essere finanziata dal capitale per mezzo delle tasse; è questo il motivo per cui molti Stati sovra-indebitati della periferia, negli anni '90, si sono trasformati in «Stati falliti», una volta che il processo di crisi aveva superato un certo grado di maturità. Lo Stato non è la soluzione, bensì parte del problema. In un processo storico cominciato con le crisi del debito del "Terzo Mondo" negli anni '80, la crisi procede per gradi avanzando dalla periferia del sistema mondiale verso i centri. Il futuro della crisi può quindi essere intuito dall'andamento della crisi nella periferia. Senza un superamento consapevole ed emancipatorio della relazione di capitale ormai al collasso, si cadrà in forme altrettanto barbare di anomia, o di dittatura della crisi, come in Somalia, Congo o Eritrea [*18]; a meno che il processo di civilizzazione non si concluda con una catastrofica guerra nucleare. Mad Max o 1984: questa è l'alternativa, immanente al sistema, che nella sua agonia il capitalismo ci lascia in sospeso.

La motivazione: non c'è alcuna alternativa alla trasformazione
Dal carattere assunto dalla crisi qui descritta - in quanto processo feticistico del crescente sviluppo della contraddizione interna della relazione di capitale - deriva la necessità di lottare per il suo superamento emancipatorio. Come già detto all'inizio, si tratta semplicemente di una questione di volontà di sopravvivenza. Dobbiamo fare appello all'istinto di sopravvivenza delle persone, che si attiva inconsciamente nella crisi e contribuisce a esasperare la concorrenza di crisi. E questo istinto di sopravvivenza - visto nella sua forma poco riflessa e quasi un riflesso - è stato quasi sempre efficace, visto su una scala di massa. Inconsapevolmente, la maggior parte degli inquilini del tardo capitalismo ha sempre reagito, nel corso delle crescenti distorsioni legate alla crisi, esasperando in maniera quasi istintiva il meccanismo della concorrenza. L'istinto di sopravvivenza si realizza in maniera inconscia a partire da una competizione ancora più dura, nella quale la propria sopravvivenza dev'essere garantita eliminando i concorrenti a tutti i livelli (dal mobbing, alla concorrenza selvaggia, alla concorrenza di posizione, fino all'imperialismo della crisi). Ed è proprio questa concorrenza di crisi, alimentata dal nudo istinto di sopravvivenza, che contribuisce in maniera causale all'imbarbarimento del capitalismo e all'ascesa della nuova destra, la quale maschera questa concorrenza di crisi con il razzismo, il nazionalismo, l'antisemitismo, il fanatismo religioso, ecc. Questo istinto di sopravvivenza praticato in maniera inconscia, e imbrigliato nella crescente concorrenza quotidiana del tardo capitalismo, andrebbe «sublimato» nel quadro di una prassi emancipatrice. Ciò dev'essere inteso come una riflessione consapevole e analitica su quelle che sono le cause inconsce dell'azione sociale - in questo caso l'interazione tra comportamento competitivo e processo di crisi sistemica - nella quale verrebbe reso evidente l'effetto fatale dell'«imbarbarimento» dovuto alla concorrenza individuale. Allo stesso modo in cui l'istinto di sopravvivenza individuale e «cieco» non fa altro che accelerare le dinamiche della crisi e ad aprire le porte alla barbarie, anche un istinto di sopravvivenza collettivo riflesso - che si preoccupa della necessità di sopravvivenza legata al  superamento del capitale nella società nel suo complesso, nella lotta al fine di trasformare il tardo capitalismo - potrebbe costituire un potente fattore motivante per le forze emancipatrici. E questa non è una questione che riguarda solo la sinistra «della sinistra radicale». Un simile legame, così consapevolmente stabilito, tra la sopravvivenza - collettiva - e la necessità di superare il sistema, può diventare una preoccupazione anche per quel borghese che vuole lasciare ai propri figli un futuro degno di essere vissuto. Ed è proprio per questo che è importante dire alla gente qual è la posta in gioco. È importante trasformare il «senso di crisi» che hanno le grandi masse in una coscienza di crisi riflessa; proprio perché non esiste un «soggetto rivoluzionario», formare un'effettiva coscienza di crisi radicale nelle masse, diventa indispensabile perché avvenga un superamento emancipatorio della crisi. E infatti, la difficoltà centrale non sarebbe quella di diffondere una coscienza emancipatrice nella crisi palese, quanto piuttosto riuscire a trasmettere la fiducia in una valida alternativa sistemica al crollo del capitale. Il mutamento ideologico indotto dalla crisi, in cui la fede cieca nel capitale, come condizione naturale della civiltà umana, si trasforma improvvisamente in un pessimismo culturale fatalista, è di fatto la reazione ideologica standard nelle situazioni di crisi evidente. A questa produzione panica del tardo capitalismo va perciò contrapposta la visione acquisita grazie a una riflessione teorica radicale circa la necessità di trasformare il sistema, motivata da un istinto di sopravvivenza sublimato che ha preso coscienza dei propri presupposti sociali ed ecologici. I "prepper" [i predicatori] di destra non ci salveranno; questo può essere ottenuto solo collettivamente e a livello della società nel suo complesso. Evitare l'imminente catastrofe ecologica e sociale attraverso la trasformazione del sistema, corrisponde a «influenzare» il processo di crisi - il quale è spinto dalla sua dinamica feticista - e rappresenta solo il rovesciamento critico dialettico delle stesse  contraddizioni intrinseche del capitale. Più precisamente: il capitale si sta dissolvendo, ed è importante indirizzare questo processo di trasformazione che sta correndo ciecamente verso una direzione progressista ed emancipatrice, nel quadro di una lotta di trasformazione, al fine di superare finalmente il feticismo e passare quindi alla modellazione consapevole della riproduzione sociale. Questo superamento della preistoria feticista dell'umanità è semplicemente, come spiegato, una questione di sopravvivenza. Ancora una volta, non esiste alternativa alla lotta per un superamento emancipatorio dell'inevitabile trasformazione del sistema.

Emancipazione ed estremismo nella crisi sistemica
È anche a partire da questo punto che si sviluppa il concetto di emancipazione: un'emancipazione dal feticismo sociale, vale a dire dall'«eteronomia» dei soggetti sottoposti alle dinamiche sociali che questi stessi soggetti producono inconsapevolmente attraverso il mercato. Questo può essere ottenuto solo grazie a un movimento che sia consapevole della propria situazione, che sia cosciente del carattere di crisi descritto. Solo in una lotta consapevole per un futuro post-capitalista, frutto di una visione della necessità, possono ancora nascere dei momenti di emancipazione. Di conseguenza, esiste una regola di prassi politica che i movimenti, i gruppi o i partiti emancipatori del XXI secolo dovranno seguire, se vogliono fungere ancora da forze sociali progressiste nell'attuale epoca di convulsioni e di crisi. Il capitalismo deve essere consegnato alla storia il prima possibile, la relazione di capitale dev'essere abolita. Tutte le azioni della sinistra, tutte le tattiche, tutte le proposte di riforma, tutte le strategie dovranno essere guidate da questo imperativo categorico. E la lotta per un futuro post-capitalista degno di essere vissuto non è «radicalismo». È esattamente il contrario: l'adesione alle forme in dissoluzione della socializzazione capitalista, l'adesione al mercato e allo Stato porta alla barbarie, all'estremismo di centro. I successi che la nuova destra ha conseguito nella crisi, derivano proprio dal fatto che essa riesce a spingere quell'ideologia  che risulta efficace rispetto al centro neoliberale della società tardo-capitalista, e che spinge verso una brutalizzazione ancora maggiore. Arricchito da fantasie di odio contro dei capri espiatori, il pensiero concorrenziale neoliberista è stato portato dalla destra fino all'estremo nazionalista-razzista. La competizione tra soggetti di mercato e localizzazioni economiche viene ideologicamente sovralimentata nel quadro di uno scontro di nazioni, culture, "razze" o religioni. A essere decisivo è il fatto che in questa competizione "razziale", religiosa o legittimata a livello nazionale, non c'è alcuna rottura con il neoliberismo e con il suo pensiero implicitamente nazionalista di localizzazione economica. In queste linee di continuità ideologica sta il segreto, non tanto segreto, del successo ottenuto dalla rivolta conformista della nuova destra. Essa non rompe la prigione capitalista del pensiero, o i suoi cosiddetti vincoli materiali. Al contrario, i personaggi autoritari continuano a rimanere su quel sentiero ideologico ben collaudato che porta dal centro neoliberale all'estremo barbarico. Ecco perché è soprattutto la destra a beneficiare della crisi attuale. È molto facile diventare un nazista. Pertanto, il fattore decisivo è proprio la suddetta evasione mentale dalla prigione del pensiero capitalista, la quale dev'essere accompagnata da una prassi emancipatrice, in modo da evitare la deriva estremista del centro. Per questo è importante dire alla gente qual è la posta in gioco. Di fronte alla crisi letale del capitale, la lotta per un'alternativa sistemica per cui valga la pena vivere rimane l'unica cosa sensata, concreta e moderata da fare. Il progresso può essere realizzato solo al di là del capitale. Ancora una volta: questo non è necessario che avvenga per la volontà dei soggetti o per gli umori e le sensibilità della popolazione, ma avviene perché il capitale, in quanto totalità feticista globale, si sta sgretolando su sé stesso.

Falsa immediatezza
E proprio per questo diventa importante evitare, per quanto possibile, diffondendo un'adeguata coscienza della crisi, che un tale processo di trasformazione oggettivamente in corso si trasformi in un'illusione ideologica e in una barbarie fascista. Forse la consapevolezza di una valida alternativa al collasso del clima e del capitale è in grado di svilupparsi in maniera ampia solo nel contesto di un movimento di lotta. Nell'accelerazione della crisi sistemica, non mancano certo scontri, insurrezioni e lotte. In Europa, a parte le proteste per il clima, sono spesso le lotte difensive antifasciste, o quelle sindacali e socio-politiche a fungere da punti focali per la mobilitazione delle masse in opposizione; e per lo più avvengono senza sviluppare alcuna prospettiva di trasformazione. Questi movimenti spesso rimangono intrappolati nella falsa immediatezza delle loro richieste dirette; ad esempio, vogliono una migliore redistribuzione della ricchezza capitalistica astratta, piuttosto che la sua abolizione. Il crescente impoverimento genera la domanda di più stato sociale, mentre l'inflazione viene affrontata a partire dalla richiesta di un suo contenimento attraverso sussidi e tetti ai prezzi. Queste rivendicazioni che appaiono come se fossero immediatamente «plausibili», vengono inevitabilmente e obbligatoriamente ridicolizzate dalla realtà della crisi. La situazione è del tutto simile a quella in cui si parla di misure per combattere la crisi climatica - come la tassa sul CO2, il boicottaggio dei voli, la rinuncia alla carne o le auto elettriche - e che, viste alla luce della drammatica accelerazione del cambiamento climatico e delle misure che invece sarebbero effettivamente necessarie, mostrano una sproporzione quasi scoraggiante.
Già all'inizio del XXI secolo, il teorico della crisi Robert Kurz [*19] aveva affrontato questa contraddizione esistente tra le lotte sociali immanenti al sistema e le conseguenze sociali della crisi sistemica:

«La critica del valore non consiste semplicemente nel porsi contro le lotte sociali immanenti al capitalismo. Esse sono un punto di partenza necessario. Tuttavia, la questione è quella di sapere in che senso tali lotte si sviluppano. A tal proposito la logica gioca un ruolo importante. I sindacati sono abituati a presentare le loro richieste non come se derivassero dai bisogni dei loro iscritti, quanto piuttosto come se fossero un contributo al miglior funzionamento del sistema. Per cui viene quindi detto che sarebbero necessari dei salari più alti al fine di rafforzare la situazione e il contesto economico, e che la cosa sarebbe possibile a partire dal fatto che il capitale realizza profitti elevati. Ma, ovviamente, non appena la valorizzazione del capitale si ferma, ecco che un tale atteggiamento porta ad arrendersi volontariamente alla cogestione della crisi, nel "superiore interesse" dell'economia imprenditoriale, delle leggi del mercato, della nazione, ecc. Questa falsa coscienza esiste, non solo tra i professionisti dei sindacati, ma è diffusa anche nella cosiddetta base. Se i lavoratori salariati si identificano con quella che è la loro funzione nel capitalismo, e chiedono ciò di cui hanno bisogno solo in nome di tale funzione, allora diventano essi stessi "maschere di carattere" (Marx) di una determinata componente del capitale, vale a dire, della forza lavoro. Così facendo, essi riconoscono di avere diritto alla vita, solo se riescono a produrre plusvalore. Ne consegue una feroce concorrenza tra le diverse categorie di lavoratori salariati che determina un'ideologia di esclusione sociale darwinista. Questo appare particolarmente evidente in quella che è la lotta difensiva per la conservazione e la difesa dei posti di lavoro, che al di fuori di questa non ha alcuna altra prospettiva. In questo caso, spesso avviene anche che i dipendenti di aziende diverse dello stesso gruppo concorrono tra loro per la sopravvivenza. Ragion per cui diventa comprensibile, e anzi volendo ancora più realistico, che i lavoratori francesi abbiano minacciato di far esplodere le fabbriche al fine di ottenere una ragionevole indennità di licenziamento. Queste nuove forme di lotta non sono né difensive né positive, ma potrebbero essere coniugate con altre richieste, come il miglioramento del reddito dei disoccupati. Nella misura in cui, da tali lotte sociali emerga un movimento sociale - che abbia anch'esso consapevolezza dei suoi limiti pratici - questo si confronterà con le problematiche di una nuova "critica categorica" del feticismo fine a sé stesso del capitale e delle sue forme sociali. Realizzare una simile prospettiva avanzata, è il compito della nostra elaborazione teorica, la quale non esiste in un Aldilà astratto, ma va intesa come momento di dibattito sociale».

Tenendo conto della dinamica assai avanzata della crisi, appare controproducente avviare ora una critica fondamentale, volta a costruire un «nuovo» movimento trasformativo ed emancipatorio. I movimenti emancipatori dovranno lavorare con ciò che esiste ancora, tenendo conto dell'urgenza, e tenendo conto delle finestre di opportunità che si stanno chiudendo. Ritirarsi nella torre d'avorio della «dottrina pura», in modo da poter così lavorare a una graduale «diffusione» , all'interno della sinistra, di un'adeguata coscienza della crisi non è una strategia praticabile. Piuttosto, al contrario, l'unica opzione è quella di utilizzare la crisi per cercare di portare un'adeguata coscienza di crisi direttamente nelle lotte attuali. Come ho detto, bisogna dire alle persone spaventate - sulla base della teoria della crisi - qual è la posta in gioco, in modo che i movimenti di protesta possano svilupparsi in una direzione emancipatoria. In realtà, le possibilità non sono poi così scarse, dal momento che anche contesti di sinistra ideologicamente ciechi - ad esempio dello spettro vicino ai verdi, a quello della sinistra-liberale [*20], o del marxismo tradizionale - difficilmente possono oramai ignorare le conseguenze della crisi. La crisi è simultaneamente sia nemica che amica del movimento progressista: restringe sempre più gli spazi del discorso sociale, provoca il panico e l'aumento delle illusioni di estrema destra; ma allo stesso tempo costringe tutte le forze sociali che non hanno ancora perso la testa a confrontarsi con l'innegabile necessità di un fondamentale superamento della socializzazione del capitale al collasso. Il tentativo di introdurre, nelle dispute e nei conflitti sociali attuali, una coscienza della crisi che corrisponda al processo oggettivo di crisi, in ultima analisi si riduce alla lotta contro la falsa immediatezza che caratterizza queste controversie. La falsa immediatezza ha a che fare con la tendenza che hanno i movimenti sociali a perseguire inconsciamente delle forme di pensiero che equivalgono alle condizioni sociali e alle contraddizioni contro cui sono effettivamente diretti. Le persone che sono coinvolte nei crescenti conflitti relazionati alla crisi non sono precisamente possedute da un «automatismo rivoluzionario» che conferirebbe loro una coscienza anticapitalista della crisi. Più spesso, al contrario. Nel fissare obiettivi concreti, apparentemente realizzabili nel contesto dell'esistente, la logica sistemica ne esce rafforzata, anche nei confronti della lotta di opposizione. La lotta per la chiusura delle miniere di lignite, le lotte contro l'inflazione e l'erosione sociale, per l'aumento dei salari o contro i tagli salariali, la lotta-contro-i-mulini-a-vento condotta dalla sinistra delusa e socialdemocratizzata, contro lo smantellamento (che avanza allegramente) della democrazia e del welfare sociale non fanno altro che solidificare le corrispondenti strutture sociali, e le forme di socializzazione capitalista in cui e per volontà delle quali la lotta ha luogo:

Il lavoro, la democrazia borghese e i «diritti civili» capitalisticamente castrati [*21] , lo Stato come "Stato sociale" diventano in tal modo dei presupposti quasi naturali della società umana, anche all'interno del movimento impegnato nelle lotte sociali. Gli obiettivi immediati che vengono perseguiti all'interno del sistema sono pertanto «sbagliati», e portano alla formazione della suddetta falsa immediatezza, dal momento che, in primo luogo, non rompono con la logica del sistema in crisi, ma al contrario la cementano; e visto che, in secondo luogo, devono essere conquistati all'interno di una socializzazione del capitale che sta collassando, la loro realizzazione è del tutto illusoria. Dopo l'inevitabile fallimento delle grandi lotte sociali in tempi di crisi - ad esempio, nell'Europa del Sud dopo lo scoppio della crisi dell'euro - ha prevalso la rassegnazione e l'apatia, perché a questi movimenti mancava una prospettiva trasformativa di più ampio respiro, che sarebbe potuta nascere solo a partire da una coscienza della crisi adeguata al processo di crisi. Le forze coinvolte nell'aumento delle proteste sociali legate alla crisi, non vogliono ottenere nulla di più di ciò che postulano: lottare contro l'estrazione della lignite, per i posti di lavoro, per salari più alti, contro i tagli sociali e contro la distruzione dei posti di lavoro, contro la costante erosione dei «diritti civili», ecc. Sembra assurdo: nella crisi, la sinistra si batte per mantenere le forme di socializzazione capitalistiche che si stanno erodendo a causa della crisi. E allo stesso tempo non esiste un'alternativa realistica a queste stesse lotte, poiché si tratta per lo più di forme più o meno aperte di semplice lotta per l'esistenza. Nel capitalismo, la riproduzione della propria forza lavoro è possibile solo attraverso il lavoro salariato; proprio o sfruttato. Anche l'istituzione di salari da fame al di sotto del livello di sussistenza sta progredendo nei centri capitalistici. La perdita del lavoro è sempre più spesso accompagnata da una caduta nel pauperismo che minaccia la vita. La lotta contro lo smantellamento della democrazia, e l'onnipresente fascismo europeo, è necessaria al fine di mantenere aperti il più  lungo possibile gli spazi per una politica emancipatrice. Fino a quando la relazione di capitale continuerà a esistere, nella forma della totalità sociale descritta, anche le forze di opposizione resteranno incatenate alle sue forme di socializzazione. Ciò non significa, tuttavia, che queste forze debbano impegnarsi nella lotta socio-ecologica solo in queste forme, né tantomeno percepirla solo in queste forme. È quindi decisivo con quale coscienza vengono condotte le proteste e le lotte attuali, anche se il loro corso concreto all'inizio non differisce molto dalle lotte riformiste immanenti al sistema. Il confronto con l'ideologia della crisi, con la critica tronca del capitalismo e con la falsa immediatezza perseguono lo scopo ultimo di elevare il processo di trasformazione a «coscienza politica» dei movimenti sociali, innanzitutto al fine di comprendere come tale la lotta di trasformazione inconsciamente condotta, e di conseguenza modellarla consapevolmente.

Il focus, l'obiettivo delle lotte portate avanti in maniera consapevole, apparentemente immanenti al sistema (lotta per il clima, lotta salariale, protesta antifascista, manifestazioni contro lo smantellamento della democrazia, lotte difensive contro i tagli sociali), cambia nel momento in cui esse vengono permeate da una coscienza trasformativa; quando esse vengono comprese e propagate in tal modo, come una fase iniziale della lotta per la trasformazione, una lotta che già imperversa nella periferia, con tutta la sua brutalità omicida di massa. Per riprendere l'esempio delle proteste sociali: invece di postulare semplicemente che i ricchi devono pagare, dovrebbe essere chiaro che i ricchi devono pagare per la trasformazione; finché il denaro ha ancora valore, e ha senso fare questa richiesta. Il percorso diventa la meta: l'auto-organizzazione delle persone nei movimenti di opposizione corrispondenti, dovrebbe quindi già essere portata avanti a partire dallo sforzo di formare momenti di socializzazione post-capitalista. Ma al di là delle misure di ridistribuzione ed espropriazione, si porrà anche la domanda: come organizzare l'assistenza sanitaria, l'alimentazione, l'abitazione, ecc. senza le corrispondenti risorse finanziarie o senza il posto di lavoro redditizio? Prima che l'inflazione svaluti il denaro, e tutto rischi di essere chiuso o ridotto per mancanza di redditività, l'organizzazione della riproduzione sociale secondo criteri diversi da quelli capitalistici si trova già all'ordine del giorno. Non a partire dallo slogan «Come finanziare le pensioni?», ma «Come organizzare la ricchezza materiale e sociale in modo che gli anziani possano vivere dignitosamente?». Non «Come si possono creare posti di lavoro?», ma «Come si dovranno mobilitare le persone e le risorse e cosa si dovrà fare per realizzare cibo, alloggi, salute ecc.» (e questo non a livello di Hartz IV, di slum o di gulag). O la sinistra si impegna a questo livello, o sarà costretta a partecipare all'attuazione di soluzioni immanenti al sistema, le quali non saranno altro che mettere gli anziani in dei gulag a basso costo, oppure massacrarli immediatamente in maniera «socialmente accettabile». Le rivendicazioni e le forme di organizzazione della resistenza contro l'imminente catastrofe climatica, contro le imposizioni della gestione della crisi, dovranno perciò contenere di già delle forme germinali di socializzazione post-capitalista. Lo sforzo di definire i movimenti di opposizione immanenti al sistema, innanzitutto sotto forma di spazi discorsivi aperti, dovrebbe essere centrale. Il discorso sulla crisi, che non è più possibile a livello di società nel suo complesso (e che viene sabotato dal Partito della Sinistra per calcolo opportunistico) [*22], deve quanto meno essere condotto in contrapposizione. Inoltre, nella lettura delle strategie e delle forme di protesta, appare già l'auspicato processo post-capitalista di comprensione della riproduzione della società nel suo complesso. Gli spazi di discussione dovranno pertanto essere mantenuti aperti il più a lungo possibile, anche a fronte di una crescente repressione. Il processo aperto di discussione, l'organizzazione e il coordinamento della resistenza trasformativa possono fungere da apripista di una consapevole autocomprensione globale della società mondiale riguardo alla sua riproduzione. Del resto, è per questo che è così necessaria una lotta democratica che mantenga il più a lungo possibile le libertà democratiche borghesi residue, in modo da poter influenzare il processo di trasformazione mantenendo le forme di un conflitto non militare. Inoltre, la necessità di passare da una lotta democratica a degli scontri militari militanti, è difficile da valutare; dipende dal grado di fascistizzazione e dalle tendenze alla disintegrazione che avrà lo Stato in oggetto, e la sua società. Tuttavia, una simile lotta armata, che nel corso della crisi si potrebbe imporre alle forze emancipatrici, rappresenta comunque una sconfitta. La struttura aperta del dialogo, l'inizio dell'autogestione, che potrebbe costituire le forme germinali delle future società, minaccia di cedere il passo alle ragioni dell'organizzazione militare. Ecco che allora le prescrizioni della prassi leninista diventano di fatto inevitabili; ed esiste pertanto la minaccia di una «sovietizzazione» autoritaria delle alternative post-capitaliste.

«Il movimento reale che supera lo stato di cose presente»
In ultima analisi, è necessario comprendere le varie lotte e i movimenti sociali come dei momenti parziali di un'unica lotta trasformativa che si sta svolgendo a livello globale. Pertanto, il mondo si trova da tempo coinvolto in una trasformazione del sistema, solo che la sinistra, cieca alla crisi, non la percepisce in quanto tale. Come è già stato spiegato più volte: questo processo di trasformazione, che sta avvenendo ciecamente, in linea di principio è aperto, non è predeterminato, ed è per questo che anche l'esito di questa trasformazione del sistema (qualora si concludesse senza un olocausto nucleare) è assolutamente aperto. Per di più, visto che il sistema è in convulsione, poiché il tessuto sociale precedentemente solido ora si trova in movimento, dato che le strutture sociali un tempo solide ora stanno in un certo senso diventando fluide, le azioni collettive hanno ora un'influenza assai maggiore nel plasmare il futuro, rispetto ai periodi in cui il capitalismo sembrava stabile. Tuttavia, queste maggiori possibilità di intervento, offerte alle forze emancipatrici nell'attuale crisi sistemica, hanno delle finestre temporali ristrette che possono chiudersi anche in maniera irreversibile. Ciò diventa ovvio nel caso del cambiamento climatico, con i suoi punti di svolta, ma anche lo sviluppo della crisi sociale non è affatto lineare, e non ha uno sviluppo graduale. All'interno del processo di trasformazione, ci sono dei momenti di svolta decisivi, o situazioni in cui si determina il corso della crisi. Una volta superato tale punto culminante nello sviluppo interno delle contraddizioni, senza che ciò comporti conseguenze catastrofiche (guerra nucleare, collasso ecologico di intere regioni, ecc.), ecco che allora il processo di crisi comincia a procedere lungo la linea determinatasi in quel momento decisivo; rielabora la decisione precedente per mezzo di nuovi interventi, appare quindi difficilmente praticabile.
«Non lo sanno, ma lo fanno». Questa famosa citazione di Karl Marx, che riassume il processo feticistico della riproduzione sociale globale sotto il capitalismo, caratterizza in modo appropriato anche il processo di dissoluzione del sistema globale capitalistico, ora in pieno svolgimento. Il sistema mondiale si trova di già in una fase di convulsioni caotiche, dove non è possibile prevedere la direzione e l'esito di questo processo, semplicemente perché esso viene plasmato (inconsapevolmente, per ora) dalle azioni dei soggetti in lotta per la trasformazione. Dal momento che non esiste un «soggetto rivoluzionario», ecco che allora il fattore decisivo diventa proprio quello di sapere se il carattere della crisi si rifletta nella popolazione con un'ampiezza sufficiente a riuscire a superare anche qui le svolte corrispondenti. L'emancipazione e la barbarie appaiono quindi contemporaneamente nel bel mezzo della lotta globale per la trasformazione: Da un lato, vediamo la brutale concorrenza di crisi tardo-capitalista che si confonde con una lotta per la trasformazione post-capitalista, si sovrappone parzialmente ad essa, ed entrambi i due momenti di crisi talvolta perfino interagiscono, e in questo l'ideologia della crisi tardo-capitalista, soggetta a continue metamorfosi, cerca di razionalizzare questo processo di dissoluzione. Allo stesso tempo, le rivolte di massa e le proteste contro la mancanza di prospettiva del tardo capitalismo stanno scoppiando sempre più frequentemente, a volte in modo del tutto inaspettato, si forma un movimento globale per l'ambiente e il clima, scoppiano rivolte spontanee in Paesi come l'Iran, ecc. Quando vengono superati i punti critici sociali, le rivolte possono scoppiare come se provenissero dal nulla. Con l'aumentare dell'intensità della crisi, queste contraddizioni e questi conflitti si intensificheranno, le innumerevoli lotte si trasformeranno in un confronto globale il quale potrebbe sfociare in una guerra nucleare. Questo si applica sia all'imperialismo di crisi dei mostri statali tardo-capitalisti in via di erosione [*23], sia ai molteplici conflitti nelle società in crisi; che stanno aumentando di intensità. Tuttavia, è importante evitare una «gerarchizzazione» delle lotte, secondo che si tratti di contraddizioni principali della lotta di classe oppure di altre contraddizioni secondarie. I conflitti di lotta di classe, nel contesto delle lotte salariali o in quello delle proteste sociali, si trovano su un piano di parità con le altre lotte sociali (antifascismo, lotta per il clima, antimilitarismo, femminismo, difesa della democrazia, autodeterminazione sessuale, ecc.) e possono servire a un movimento trasformativo, e superare così la loro falsa immediatezza nel corso dei conflitti, in modo da trasformare le lotte sociali, le proteste o le lotte per la redistribuzione in momenti di lotta trasformativa, determinando così una coscienza di crisi radicale.
Nel momento in cui i diversi movimenti vengono intesi come se fossero momenti parziali di un'unica lotta per una trasformazione emancipatoria del sistema, si potrebbe anche ridurre al minimo l'emergente e distruttiva «concorrenza tra i movimenti» - ad esempio quella tra il movimento per il clima e il movimento sociale - che viene promossa in particolare dalle parti reazionarie del Partito della Sinistra [*24]. Tra l'altro, con la sua «campagna sociale», il Partito della Sinistra cerca proprio di ottenere il contrario di ciò che potrebbe essere un movimento di trasformazione emancipatoria: con la sua demagogia sociale, mira a dirottare i movimenti sociali in modo da impedire, con una gestione repressiva del movimento e della crisi, l'emergere, nel movimento, di una coscienza radicale di crisi [*25]. Questa opportunista demagogia sociale, aperta alla destra - che si crogiola in un'ovvietà da fumetto, e in una falsa immediatezza nonostante l'acuirsi della crisi sistemica - va contrastata a partire dalla necessità di sopravvivenza collettiva che può essere ottenuta solo con una trasformazione emancipatrice del sistema.

Le cose non continueranno ad essere così come sono.
Questa consapevolezza, tratta dalla Lode della Dialettica di Brecht [*26], potrebbe diventare la linea d'azione di un movimento di trasformazione emancipatorio, che per prima cosa  deve innanzitutto imparare a influenzare il processo di trasformazione. Ci si chiede sempre quali strutture politiche, quali configurazioni sociali di potere debbano prevalere durante la prossima ondata di crisi. In effetti, il processo di crisi che si dispiega alle spalle dei soggetti può presentarsi, in società tardo-capitalistiche strutturate in forme molto diverse tra loro.  Possono essere oligarchiche, prefasciste o borghesi-democratiche, più o meno egualitarie o corporative, nazionaliste o cosmopolite, laiche o religioso-fasciste. Si tratta quindi, in ultima analisi, di pensare per processi, per sviluppi, e di percepire le strutture sociali esistenti come se fossero in uno stato di decadenza, si tratta di individuare le contraddizioni decisive e, anticipando gli enormi shock che ci attendono, di creare le migliori condizioni sociali, la posizione di partenza ideale per la trasformazione emancipatrice, che però può avvenire solo in collaborazione con delle forze sociali significative. La difficoltà di una politica di alleanza di questo tipo, ora consiste nell'individuare le forze corrispondenti che guidino il processo di trasformazione in una direzione emancipatoria, nonché nel diffondere in questi movimenti la radicale coscienza di crisi descritta sopra. In realtà, è solo il movimento feticistico e cieco del soggetto automatico della valorizzazione illimitata del capitale che, quando supera il suo limite interno, si trasforma nella minaccia dell'autodistruzione ecologica e dell'inasprimento delle lotte sociali; visto in prospettiva, una guerra civile nucleare e mondiale. La socializzazione attuata attraverso il valore del tardo capitalismo si disintegra, ma il feticismo sociale - vale a dire, la resa impotente dei soggetti alle dinamiche sociali che essi stessi producono inconsapevolmente - continuerà a rimanere in voga. Gli attori, soprattutto quelli della sinistra tedesca, si stanno arrovellando senza nemmeno avere un concetto dell'imminente guerra civile mondiale, come punto di fuga dagli incipienti conflitti trasformativi. Esiste, dunque, il «movimento reale che supera lo stato di cose presente», quello che il giovane Marx annota insieme a Engels nella sua opera giovanile "L'ideologia tedesca" [*27] e che immagina come se fosse un movimento progressista, ma non sarà certo un automatismo della civiltà quello che porterà l'umanità al comunismo. Marx - attraverso la cui intera opera si dipana tutta la spaccatura esistente tra la superata fede nel progresso e l'importante critica categoriale - ha parlato in quel libro del feticismo del capitale, cedendo al contempo alla fede nell'eterno progresso, allo spirito del mondo hegeliano. Il vero movimento che sta scuotendo le fondamenta del tardo capitalismo è quello del processo di valorizzazione del capitale che attraversa ciecamente tutta la società, e che per sua natura sta morendo, di per sé. È quel feticismo di cui Marx sospettava già da allora, all'epoca. Di conseguenza, nonostante tutte le prove, è necessario continuare a lottare per dare una forma a questo ineluttabile movimento di trasformazione, il quale certamente abolirà lo stato attuale delle cose - che è ancora aperto tanto nel suo decorso quanto nel suo esito - in un movimento di azione cosciente, in una lotta per la trasformazione. La trasformazione del sistema è inevitabile, e nella lotta contro le forze della barbarie che il capitale sta nuovamente emanando nella sua crisi, è importante orientarla in una direzione progressiva ed emancipatrice. Se nell'attuale fase di crisi, esiste un campo di lotta che deve avere la priorità, questo campo è un antifascismo che lotti in modo da costruire le più ampie alleanze possibili, dato che il fascismo, in quanto forma di crisi apertamente terroristica del dominio capitalista, sta già emergendo chiaramente. Quel fronte trasversale che da tempo si è diffuso nella sinistra tedesca [*28], la nuova destra, la quale è profondamente intrecciata con l'apparato statale tedesco [*29], insieme al prefascismo, che è in ascesa [*30], stanno già scalpitando con impazienza per rispondere alla crisi del capitale con un nuovo tuffo nella barbarie.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 12/10/2022 su https://www.konicz.info/ -

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NOTE:

1 http://www.mlwerke.de/me/me03/me03_009.htm
2 https://konkret-magazin.shop/texte/konkret-texte-shop/66/tomasz-konicz-kapitalkollaps
3 https://www.xn--untergrund-blttle-2qb.ch/wirtschaft/theorie/stagflation-inflationsrate-6794.html
4 https://www.akweb.de/ausgaben/642/kapitalismus-und-klimakatastrophe-zu-effizient-fuer-diese-welt/
5 https://www.mandelbaum.at/buecher/tomasz-konicz/klimakiller-kapital/
6 https://www.akweb.de/bewegung/die-klimabewegung-braucht-antikapitalistische-leitplanken-fuer-ihre-kommenden-aktionen/
7 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/autunni-caldi.html
8 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/autunni-caldi.html
9 https://www.konicz.info/2022/10/02/die-subjektlose-herrschaft-des-kapitals-2/
10 https://www.konicz.info/2022/06/25/schuldenberge-im-klimawandel/
11 https://www.konicz.info/2022/07/22/schuldenberge-in-bewegung/
12 https://francosenia.blogspot.com/2022/09/sta-per-scoppiare-la-bolla-di-ogni-cosa.html
13 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/autunni-caldi.html
14 https://www.konicz.info/2021/09/20/telepolis-eine-rotbraune-inside-story/
15 https://www.konicz.info/2019/04/27/die-subjektlose-herrschaft-des-kapitals/
16 https://www.konicz.info/2019/08/30/der-alte-todesdrang-der-neuen-rechten/
17 https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=38&posnr=25&backtext1=text1.php
18 https://www.rnd.de/politik/eritrea-das-nordkorea-afrikas-diktator-mischt-in-tigray-konflikt-mit-UFEFDYU3TZHRJNBTV776QRFO3I.html
19 https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=37&posnr=449&backtext1=text1.php
20 https://www.deutschlandfunk.de/ulrike-herrmann-sieht-kapitalismus-am-ende-100.html
21 https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=20&posnr=554&backtext1=text1.php
22 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/autunni-caldi.html
23 https://www.konicz.info/2022/06/23/was-ist-krisenimperialismus/
24 https://www.facebook.com/photo/?fbid=5047254132045984&set=a.1916895028415259
25 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/autunni-caldi.html
26 https://www.operaicontro.it/2016/04/29/brecht-lode-della-dialettica/
27 http://www.mlwerke.de/me/me03/me03_009.htm
28 https://www.konicz.info/category/querfront/
29 https://www.konicz.info/2019/04/01/braun-von-ksk-bis-usk/
30 https://www.tagesschau.de/inland/niedersachsen-afd-101.html

venerdì 28 ottobre 2022

Morti & Ammazzati

Come al solito, Sciascia concentra la sua attenzione su quei momenti in cui gli estremi quasi si toccano, momenti in cui il tradimento quasi arriva a sfiorare l'eroismo, e durante i quali la mancanza di considerazione per la propria vita quasi riesce a toccare il sacrificio disinteressato per l'altro.

Ne "I pugnalatori", c'è un passaggio nel quale Sciascia parla di «mutamenti di regime» e di come i «"confidenti"» della polizia, in simili situazioni si moltiplichino: ragion per cui, la polizia rischia di « non capire più nulla », perché ci sono « i vecchi che vogliono farsi meriti nuovi, i nuovi che vogliono soppiantare i vecchi, senza dire dei dilettanti, cui si può anche riconoscere una certa fede nell’”ordine nuovo” »(p. 24). « Le apparenze ingannano » è, frequentemente, la formula che condensa il procedimento di Sciascia: un qualcosa che egli costruisce a partire da elementi poliedrici e sfaccettati, come la «lettera rubata» di Poe, come le «cronache italiane» di Stendhal e come i «giochi di specchi» di Pirandello (ad esempio, in Enrico IV, il finto pazzo che decide di fingere per sempre la follia).

Questo lo vediamo anche nel modo in cui Sciascia legge i testi: così ne "I pugnalatori", commentando uno scritto del procuratore Giacosa, Sciascia sottolinea l'uso che viene fatto di un avverbio, l'avverbio «inspiegabilmente»; «avverbio che di solito si usa quando una chiarissima spiegazione c’è» (la sua relazione sparisce, e di essa non c'era nessuna copia, ed è per l'esattezza proprio questa sparizione a essere «inspiegabile» (p. 64)). Del resto, l'evento che fornisce lo spunto per "I pugnalatori", inoltre, ha l'effetto di moltiplicare proprio quell'elemento che spesso troviamo al centro di quelle che sono le preoccupazioni di Sciascia: il crimine, la morte.

A differenza dei suoi libri su Raymond Roussel e Aldo Moro - per esempio – i quali si basano su un solo cadavere, al centro della storia dei "pugnalatori" si trovano potenzialmente ben 13 vittime, le quali raddoppiano allorché i colpevoli vengono giustiziati (tolto l'informatore del gruppo, il quale viene condannato all'ergastolo). In Sciascia, spesso la morte si coniuga e si accompagna alla messa in scena del tribunale: in "1912+1", Maria Tiepolo uccide Quintilio Polimanti, e Sciascia analizza la stampa e il processo; in "Porte aperte", un uomo uccide tre persone, e il regime fascista vuole la pena di morte, mentre il giudice incaricato del caso, invece, si oppone.

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 27 ottobre 2022

Intrappolati !! (o credevate che fosse finita ?!??)

Rob Wallace e le radici sociali della pandemia di Covid-19
- di Nuno Miguel Cardoso Machado -

Centinaia di milioni di persone contagiate, 6,3 milioni di morti e una gravissima crisi economica, rendono la pandemia di Covid-19 il fenomeno più eclatante della crisi del primo quarto del 21° secolo. In un mondo che è stato quasi colto del tutto a sorpresa, Rob Wallace - noto biologo evoluzionista e filogeografo [*1] che ha lavorato con l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) e con il Centro statunitensi per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) degli Stati Uniti - è tra i pochi scienziati che da anni, lucidamente, ci stanno mettendo in guardia circa l'inevitabilità di una pandemia. La tesi centrale di "Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Influenza, Agribusiness, and the Nature of Science" (© Monthly Review Press, 2016) [*2], e di "Dead Epidemiologists: on the origins of Covid-19" (Monthly Review Press, 2020) sostiene che i virus non sono solo fatti biologici, ma anche eminentemente sociali. La loro diffusione è il risultato di «combinazioni [...] tra circostanze agro-ecologiche [...] e relazioni economiche» (WALLACE, 2020b, p. 432). In altri termini, i «meccanismi» della «diffusione delle malattie» virali trovano «la loro mediazione sociale» (WALLACE, 2020b, p. 429) nel funzionamento di «sistemi di produzione che hanno luogo nel tempo e nello spazio» (WALLACE, 2020a, p. 26). Secondo Wallace, questo contesto storico-sociale «non è semplicemente un campo sul quale le relazioni causali si svolgono. [...] Il contesto È la causalità» (WALLACE, 2020b, p. 357, enfatizzazione nell'originale). Nella modernità, la riproduzione della società e degli individui obbedisce in maniera predominante ai dettami del capitale in quanto forma sociale. Pertanto, il metabolismo tra gli esseri umani e la natura viene subordinato alla "dinamica" distruttiva del "capitalismo" (WALLACE, 2020b, p. 200). In un'economia capitalistica, la forma quasi-universale dei prodotti del lavoro è la merce; ora, le imprese «producono merci» non perché tali merci abbiano un «valore d'uso», ma perché esse contengono un "valore" monetario (WALLACE, 2020b, p. 97). La produzione pertanto assegna la sua priorità al «profitto [...], un'astrazione che impatta sulle fondamenta del mondo reale» (WALLACE, 2020a, p. 103). Ad esempio, le modifiche che vengono promosse nel valore d'uso delle merci al fine di massimizzare il valore economico creato «può avere delle conseguenze[...] pericolose» (WALLACE, 2020b, p. 97). Ciò appare evidente nel settore agro-industriale, dove  degli  «organismi viventi e respiranti» vengono alterati per aumentare la «produzione di valore» (WALLACE, 2020b, p. 97). La situazione appare essere particolarmente grave nel settore dell'allevamento: «Sono stati imposti dei cambiamenti fondamentali in quello che è il modo in cui vengono creati gli animali destinati al consumo (e, ivi incluso, CIÒ di cui essi sono fatti). La zootecnia e l'allevamento industriale di pollame incarnano sempre più l'economia capitalista. La genetica, la procreazione, la nascita, la messa all'ingrasso, l'alimentazione, il loro confinamento artificiale, la gestione dei rifiuti, il trasporto, la macellazione, la lavorazione, il confezionamento e la spedizione vanno organizzati innanzitutto in base ai tassi di profitto» (WALLACE, 2020a, p. 110, enfatizzazione nell'originale). In sostanza, l'«agro-business» sta cercando di «trasformare, a qualsiasi costo, la biologia [...] l'animale [...] in denaro». (WALLACE, 2020b, p. 176).

Wallace afferma che le malattie virali hanno perciò «origini sociali» che sono state spesso nascoste: la diffusione di un numero crescente di virus tra gli esseri umani può, in parte, essere compresa come la conseguenza involontaria di tutti gli «sforzi volti a dare all'ontogenesi e all'ecologia animale una direzione verso la redditività» (WALLACE, 2020b, p. 87). Nell'ottica dell'autore, «la stessa biologia» dei virus ormai si trova «intrappolata nell'economia politica del business alimentare» (WALLACE, 2020b, p. 80). In un simile ambito, «biologia» ed «economia» si trovano oramai fuse in quelle che sono delle «complesse reti di azione umana, animale e patogena» (WALLACE, 2020b, p. 445).Pertanto, in quelli che sono dei contesti agro-ecologici sempre più «capitalizzati», dove gli «organismi viventi» vengono mercificati, abbiamo «intere catene di produzione» che diventano «vettori di malattie» (WALLACE, 2020a, p. 87). Come concretizzerò nei prossimi paragrafi, il movente del profitto si riflette nella forma (storicamente) specifica di organizzazione dell'agro-business, le cui caratteristiche generali sono altrettante condizioni che facilitano le malattie infettive. In particolare, la monocoltura industriale e intensiva di animali in dei «mega-allevamenti» - che, «a partire dagli anni '70, [...] si è diffusa in tutto il pianeta da le sue origini negli Stati Uniti sud-orientali» (WALLACE, 2020b, p. 66) - contribuisce allo sviluppo di una «vasta gamma» di agenti patogeni, in particolare la «epizoozie, che sono peculiari della nostra epoca» (WALLACE, 2020a, p. 113). Per prima cosa, «milioni di maiali e di uccelli ammassati l'uno accanto all'altro» generano «un'ecologia che è quasi quasi perfetta perché si evolvano vari ceppi virulenti» (WALLACE, 2020b, p. 66), e questo proprio a causa del contatto permanente e «prolungato» (WALLACE, 2020b, p. 195) [*3]. Secondo Wallace, «una maggior dimensione e una maggior densità popolazionale, facilitano tassi di trasmissione più elevati» dei virus (WALLACE, 2020b, pag. 91). Questo soprattutto in una situazione di «confinamento», la quale deprime la «risposta immunitaria». (WALLACE, 2020b, p. 91) [*4]. Inoltre, i livelli di produttività estremamente elevati nel ramo dell'industria zootecnica sono responsabili «di un'offerta continuamente rinnovata di potenziali ospiti, i quali sono il carburante per l'evoluzione della virulenza»(WALLACE, 2020a, p. 34). E come se tutto ciò non bastasse, gli animali creati industrialmente sono sovralimentati, in modo da crescere rapidamente (WALLACE, 2020a, p. 111) e così possano raggiungere il peso commercialmente «appropriato» nel più breve tempo possibile (WALLACE, 2020b, pag. 91-92). Nel caso del pollame, le loro tiroidi vengono manipolate geneticamente «in modo che non si rendono conto quando il loro stomaco è pieno» (WALLACE, 2020a, p. 111). Ora, «abbassare l'età della macellazione [...] contribuisce a selezionare gli agenti patogeni che sono in grado di sopravvivere» anche ai «sistemi immunitari più robusti» (WALLACE, 2020a, pagg. 51-52). In altri termini, quella che aumenta è «la pressione esercitata sui virus affinché essi raggiungano la loro soglia di trasmissione - insieme a quella del carico di virulenza - a un ritmo assai più accelerato», e questo prima che l'ospite venga abbattuto (WALLACE, 2020b, p. 92). Un altro aspetto problematico riguarda l'«omogeneizzazione genetica» degli animali consapevolmente promossa dagli allevamenti intensivi (WALLACE, 2020b, p. 380). Di fatto, «l'agro-business produce in laboratorio quelli che sono i suoi pochi lignaggi [...] a partire da degli stock genetici» (WALLACE, 2020b, p. 317). Questa creazione di «animali [...] destinati al consumo, avendo dei genomi virtualmente identici» (WALLACE, 2020a, p. 51) impedisce che si attui la «selezione naturale, in quanto servizio ecologico gratuito e in tempo reale» (WALLACE, 2020b, p. 364), e inoltre «rimuovono quei ritardanti immuni che nelle popolazioni più diversificate rallentano la diffusione» (WALLACE, 2020a, p. 51). Va anche notato che «l'incapacità a costruire una resistenza naturale agli agenti patogeni circolanti viene integrato nel modello industriale, prima che insorga un singolo focolaio» (WALLACE, 2020b, p. 317). Un ulteriore fattore addizionale che facilita la diffusione virale è l'enorme «portata geografica» delle catene di produzione (WALLACE, 2020b, p. 343). Si può infatti parlare di quella che è una vera e propria «rete globalizzata di produzione e commercio [...] di animali confinati», dove questi animali vengono trasportati «da regione a regione» e persino esportati in Paesi terzi (WALLACE, 2020b, p. 123). Nelle parole di Wallace, «le merci alimentari sono il mezzo attraverso il quale anche la contea isolata può avere collegamenti con le epidemie globali» (WALLACE, 2020a, p. 66). In secondo luogo, bisogna sottolineare come «coltivazioni» e «pascoli» capitalista «su larga scala [...] stanno sostituendo rapidamente la foresta, la savana le praterie e la macchia» (WALLACE, 2020a, p. 106). La deforestazione accelerata contribuisce a eliminare «i servizi auto-integranti che la natura generalmente fornisce» (WALLACE, 2020b, p. 422), in primis la «biodiversità» (WALLACE, 2020b, p. 429) e la «complessità», le quali sono tipicamente in grado di contenere i  «patogeni "selvaggi"» (WALLACE, 2020a, p. 83), oltre a prevenire una «trasmissione continua» (WALLACE, 2020b, p. 482). Questa distruzione della «resilienza agro-ecologica» (WALLACE, 2020a, p. 126) offre, da un lato, le condizioni perfette per l'evoluzione degli agenti patogeni, in particolare quella dei «fenotipi più virulenti e infettivi» (WALLACE, 2020a, p. 34), mentre, dall'altro lato, consente che quei virus «precedentemente incubati» si diffondano «nel bestiame locale e nelle comunità umane» (WALLACE, 2020a, p. 33). Pertanto, nella prospettiva di Wallace, le «relazioni di produzione» di mercato «amplificano la diffusione delle malattie» verso gli esseri umani (WALLACE, 2020a, p. 90). Tutto questo ci porta, finalmente, alla spiegazione del Covid-19: «La genetica del virus SARS-CoV-2 mostra come esso sia un riarrangiamento di un coronavirus dei pipistrelli, con un ceppo proveniente dal pangolino, che in seguito si è sintonizzato con il sistema immunitario umano, durante o poco prima del focolaio dell'epidemia di Wuhan». (WALLACE, 2020b, pag. 544)

Wallace sostiene l'opinione condivisa secondo cui il Covid-19, causato dal SARS-CoV-2, è dovuto proprio a un fenomeno di "overflow". Grazie alla loro «virtuosità immunitaria», i pipistrelli ospitano un'«impressionante diversità di virus» (WALLACE, 2020a, p. 162). La distruzione del loro habitat naturale, causato dalla deforestazione, spinge, sia direttamente che indirettamente, a un aumento dell'interazione «tra gli esseri umani e i pipistrelli della frutta» (WALLACE, 2020b, p. 476). Questo aumenta le probabilità di infezione. Da un lato, ciò avviene attraverso morsi, graffi e all'esposizione alle secrezioni dei pipistrelli (WALLACE, 2020b, p. 477). E da un'altra parte, attraverso il contatto con altre specie selvatiche precedentemente infette, soprattutto «nei mercati di prodotti freschi» e nelle macellerie «di carni di animali selvatici» (WALLACE, 2020b, p. 346). Nel caso della Cina, tanto il consumo di «alimenti selvaggi che vengono sempre più capitalizzati» (WALLACE, 2020a, p. 24) quanto i «circoli periurbani con la loro estensione e con l'aumento della densità demografica in continua crescita» sono fattori di rischio infettivo, dal momento che aumentano «l'interfaccia (e l'overflow) tra fauna selvatica e popolazioni umane dalle aree rurali recentemente urbanizzate» (WALLACE, 2020b, p. 545). Tuttavia, Wallace ritiene che concentrare esclusivamente l'«attenzione sulle zone dei focolai iniziali, offuschi quelle che sono le relazioni sociali, economiche e agro-ecologiche comuni agli attori economici globali» (WALLACE, 2020a, p. 49). È in questo che risiede l'originalità della sua teoria esplicativa: la responsabilità del SARS-CoV-2 non può essere imputata (solo) alla Cina e la sua origine non è dovuta solo a fattori di natura biologica. Si tratta di una «pandemia che nasce dal modo di produzione capitalistico» applicato al settore agricolo animale (WALLACE, 2020a, p. 53). Pertanto, «la causa della Covid-19 [...] non si trova solo [...] in una qualche agente infettivo o nel suo decorso clinico, ma anche nell'ambito delle relazioni ecosistemiche che il capitale [...] ha instaurato a proprio vantaggio» (WALLACE, 2020a, p. 55), vale a dire che si verifica una «convergenza di meccanismi patogeni e socioculturali» (WALLACE, 2020b, p. 131). La prova di ciò è l'infezione di esseri umani da parte di una considerevole quantità di nuovi virus negli ultimi decenni, le cui origini e la cui diffusione possono essere attribuite inequivocabilmente al modo di (ri)produzione di mercato: «La SARS-CoV-2, [...] che ha causato la pandemia Covid-19 [...], rappresenta solo uno dei nuovi ceppi di agenti patogeni che sono improvvisamente emersi come minacce per l'uomo in questo secolo. Tra questi vi sono il virus della peste suina africana, [...] l'ebola di Makona e Reston, [...] l'afta epizootica, l'epatite E, la listeria, il virus Nipah [...], la salmonella [...] e alcune nuove varianti dell'influenza A [come l'influenza aviaria e l'influenza suina] [...]. Questi focolai [...] sono collegati direttamente o indirettamente a cambiamenti della produzione o dell'uso del suolo associati all'agricoltura intensiva. Monocoltura ad alta intensità di capitale - sia per l'allevamento che per la produzione di bestiame. e l'agricoltura - spinge la deforestazione e le imprese che incrementano la tasso e gamma tassonomica di diffusione di agenti patogeni [...] da animali selvatici a quelli del bestiame e da questi ai lavoratori del settore» (WALLACE, 2020b, p. 527).

Alla luce di questa diagnosi, la domanda è: che fare?
In primo luogo, è necessario smettere di trattare il capitalismo e, in particolare, la sua incarnazione neoliberista come se fosse un modo di vita sociale ontologico, quasi naturale (WALLACE, 2020b, p. 437), e invece esaminare criticamente i suoi "presupposti" (WALLACE, 2020b, p. 200). Wallace auspica una «scienza alternativa» che sia in grado di comprendere «tutti i processi fondamentali soggiacenti alle ecologie del benessere, come la partecipazione e la produzione, le reminiscenze storiche di lungo periodo e l'infrastruttura culturale che sta dietro al cambiamento nel paesaggio e che producono le minacce per la salute» (WALLACE, 2020b, p. 440). In secondo luogo, fermare (temporaneamente) i focolai virali «per mezzo di una vaccinazione non fa scomparire il contesto sociale che ne determina la loro circolazione stessa» (WALLACE, 2020b, p. 484). Vale a dire, se il «nocciolo della questione», come dimostrato da Wallace, «risiede nel modello di produzione» agroalimentare (WALLACE, 2020b, pag. 513), allora è necessario trasformarlo radicalmente. In caso contrario, ci saranno «molteplici agenti patogeni» che continueranno, uno dopo l'altro, ad acquisire un «improvviso status di celebrità globale» (WALLACE, 2020a, p. 33). È necessario, pertanto, contrapporsi alla mercificazione della natura, delle specie vegetali e animali destinate al consumo umano e alla loro trasformazione in alimenti, privilegiando il valore d'uso a scapito del valore di scambio (WALLACE, 2020b, pag. 284, 300, 355). In altre parole, diventa urgente «combattere l'agro-business in quanto paradigma» (WALLACE, 2020b, p. 171). Al suo posto va costruito «un eco-socialismo che superi la frattura metabolica tra ecologia ed economia, insieme a quella tra urbanità, ruralità e ambiente selvaggio, impedendo fin da subito che emergano i peggiori tra questi agenti patogeni» (WALLACE, 2020a, p. 28). Si tratta di stabilire un'«agricoltura ecologica» che sia in grado di soddisfare i «bisogni delle persone» (WALLACE, 2020b, p. 176), integrando «produzione alimentare» ed ecosistemi (WALLACE, 2020b, p. 350).

In conclusione, si può affermare che Rob Wallace svolge un'eccellente attività di analisi dei fattori storici, sociali ed ecologici associati all'emergere e al manifestarsi del fenomeno dell'inquinamento e alla diffusione di agenti patogeni mortali. L'autore mette il capitalismo neoliberale sul banco degli imputati, evidenziando come il suo modello di produzione agricola e zootecnica - l'agro-business - comporti tutta una serie di minacce sistemiche all'ambiente e agli esseri umani. In particolare, si tratta di un settore di attività che favorisce e promuove malattie infettive, ivi inclusa la più recente pandemia di Covid-19. Nonostante i loro indubbi meriti, entrambe le opere recensite soffrono di alcune carenze. Da una parte, Wallace non mette in relazione il fenomeno virale con la crisi economica che ha colpito la riproduzione del capitale globale nel suo complesso; come è stato invece sottolineato da Anselm Jappe e altri (2020). Del resto, l'autore non analizza gli effetti politico-giuridici, in termini di sicurezza (stato di eccezione/emergenza, lockdown obbligatorio di enormi popolazioni), legati alle misure di lotta alla pandemia messe in atto praticamente da quasi  tutti i governi, come fa ad esempio Slavoj Zizek (2020). Tuttavia, Tuttavia, queste carenze non pregiudicano il fatto che si sta parlando di quelli che sono tra i migliori studi critici circa le origini sociali del Covid-19, scritti finora.

- Nuno Miguel Cardoso Machado - Pubblicato su Physis: Revista de Saúde Coletiva, Rio de Janeiro, 2022 -

NOTE:

[*1] - Come chiarisce l'autore, in qualità di «filogeografo [...] utilizzo le sequenze genetiche di virus e batteri [...] per fare scoperte sulla diffusione geografica e sull'evoluzione degli agenti patogeni» (WALLACE, 2020b, p. 605).
[*2] - Opera pubblicata originariamente in inglese nel 2015. L'edizione portoghese comprende due saggi aggiuntivi specificamente sul nuovo coronavirus.
[*3] - Wallace definisce la virulenza come «la quantità di danni che un patogeno causa all'ospite»(WALLACE, 2020b, p. 264).
[*4] - Si noti che a essere incapsulati e iperconcentrati, non sono solo gli animali. Nel caso di Covid-19, la "mortalità" è stata massimizzata dalla «concentrazione di persone anziane» - quelle con un sistema immunitario indebolito - «nelle case di cura» (JAPPE et al., 2021).

RIFERIMENTI:

JAPPE Anselm, Gabriel Zacarias, Clément Homs, Sandrine Aumercier - Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale, Ombre Corte, 2021.
WALLACE, R. - Dead Epidemiologists: on the origins of Covid-19. Nova Iorque: Monthly Review Press, 2020a.
WALLACE, Rob - Pandemia e Agronegócio: doenças infeciosas, capitalismo e ciência. São Paulo: Editora Elefante, 2020b.
ZIZEK, S. - Virus.Catastrofe e Solidarietà. Ponte alle Grazie, 2020.