«La storia del mondo è la storia della violenza». Partendo da questo assunto di base, Vollmann si è posto l'obiettivo di «elaborare un sistema di calcolo morale [...] che chiarisse quando è accettabile uccidere, quante persone si possono uccidere e così via». Elaborato nel corso di vent'anni, Come un'onda che sale e che scende si basa da un lato su un colossale lavoro sulle fonti (filosofia, teologia, biografie di tiranni, signori della guerra, criminali, attivisti e pacifisti), dall'altro su una serie di esperienze dirette, spesso estreme, che hanno portato l'autore nel cuore dei conflitti di fine Novecento e nelle zone più degradate delle grandi metropoli. Scorrono nelle pagine figure storiche - Platone, Monte-zuma, Cicerone, Robespierre, Lenin, Leonida, Hitler, san Tommaso, Gandhi, Giulio Cesare - e persone comuni che della violenza hanno fatto un metodo, di difesa o di offesa: i grandi della storia e gli individui più anonimi abbracciati con la stessa equanimità, priva di ogni morale preconfezionata ma sorretta da un'etica profonda e partecipe. Torna in una nuova edizione il capolavoro di Vollmann, trasformatosi negli anni in oggetto di culto e di ricerca per collezionisti: un saggio-mondo nel quale erudizione, indagine storica ed esperienza personale convergono creando una riflessione senza precedenti sulla natura umana e sulla sua perenne sospensione tra bene e male, sopraffazione e autodifesa, guerra e pace.
(dal risvolto di copertina di: WILLIAM T. VOLLMANN, "Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza". MINIMUM FAX. Pagine 992, €25)
Williamo T. Vollmann: alle origini della violenza (compresa quella necessaria)
- di Marco Bruna -
La più grande nevrosi di David Foster Wallace si chiamava William T.Vollmann. Difficile non essere d'accordo. Vollman (1959) è uno tra i pochi scrittori viventi ad avere vinto la battaglia con la critica e uno tra i pochissimi ad avere trovato il Sacro Graal della letteratura dopo essersi immerso negli abissi del mondo. La prostituzione, la violenza, le guerre, la povertà, la colonizzazione del continente nordamericano trasformata in un monumentale ciclo di romanzi, i Sette Sogni, sono alcune sue ossessioni. Vollmann è lo scrittore capace di farti venire una nevrosi perché è inclassificabile. Ha saputo usare con coraggio il tono da reporter, quello del saggista, quello del narratore epico e del diarista. È anche grazie a lui se la California — Vollmann è nato a Santa Monica, a due passi da Los Angeles — s’è presa la rivincita su Manhattan: l’isola splendente delle lettere fa i conti ormai da decenni con l’altissimo livello degli autori della costa Ovest, la cui produzione è stata ingiustamente bollata per buona parte del ’900 come minore dagli influenti critici dell’Est.
Nel 1979 Vollmann era poco più di un ragazzo quando decise di unirsi ai guerriglieri mujaheddin nella lotta contro l’invasore sovietico. Da quell’esperienza, segnata anche dal fastidio della dissenteria, nacque il tragicomico memoir Afghanistan Picture Show (1992), nel quale ripercorre, ormai uomo maturo, il suo idealismo ingenuo, frutto dell’eterno desiderio di rendersi utile a qualche causa — nel 2011 volò a Fukushima per narrare il disastro nucleare. «Dicevo sempre di sperare che scovassero e uccidessero tutti gli organizzatori dell’11 settembre. Ora mi vergogno di averlo pensato. Osama bin Laden andava processato, non ucciso. Da quel poco che ho letto, era ferito e indifeso e hanno continuato a sparargli piombo addosso. Mi sarebbe piaciuto sentirgli spiegare perché ha fatto ciò che ha fatto».
Se questa considerazione tratta dalla prefazione alla nuova edizione di Afghanistan Picture Show (2020) risulta provocatoria, l’universo di Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza — altra opera monumentale del 2003, giù uscita per Mondadori nel 2007, che minimum fax ha appena riportato in libreria (l’editore sta meritoriamente ripubblicando il catalogo di Vollmann in Italia) — richiede un atto di fedeltà da parte del lettore, un impegno a entrare in contatto senza pregiudizi con l’indagine critica. L’opera — nella quale sono analizzate figure storiche come Platone, Robespierre, Lenin... — parte dal presupposto che la violenza abbia una spiegazione razionale. Come un’onda che sale e che scende ha richiesto a Vollmann vent’anni di lavoro. Il risultato è un saggio-mondo diviso in sette volumi — l’edizione nel nostro Paese è condensata in un tomo di mille pagine — che propone una raccolta di studi sulle giustificazioni e sulle conseguenze della violenza. È un’analisi critica delle attività terroristiche e di autodifesa, «a cui si aggiungono riflessioni sui casi in cui il ricorso alla violenza è giustificabile».
«La Lettura» ha raggiunto al telefono Vollmann, di solito restio a farsi intervistare, a Sacramento, in California, dove vive. Lo scrittore sarà in Italia a settembre per partecipare a festival e incontri.
Dunque, è moralmente accettabile uccidere?
«Abbiamo il diritto di difendere noi stessi e gli altri ricorrendo alla violenza, nel caso di un’aggressione imminente. Se invece qualcuno crede nella resistenza passiva, come Gandhi, e rifiuta di difendersi, allora è un’altra storia. La violenza in quel caso non ha senso. In generale la violenza è giustificata. Anche se vorrei che non lo fosse. In Come un’onda che sale e che scende provo ad avanzare l’ipotesi di un calcolo morale che certifichi quando la violenza è accettabile. Se partiamo da un’ipotesi come quella per cui l’essere umano ha il diritto di difendersi, possiamo arrivare a un assunto generale che spieghi e giustifichi le ragioni della violenza? Il dialogo è sempre il mezzo migliore per arrivare a una definizione comprensiva di ogni punto di vista. Una femminista americana pensa che la circoncisione femminile sia un crimine contro le donne, mentre in alcune parti dell’Africa viene considerata una pratica tradizionale, una questione identitaria. La cosa migliore che possiamo fare in questi casi è impostare un dialogo tra punti di vista che sembrano inconciliabili e che si basano su postulati morali agli antipodi».
Se esiste un calcolo morale applicabile a ogni forma di violenza, si può usare lo stesso metodo per spiegare, o addirittura giustificare, quella di Putin contro gli ucraini?
«Senza dubbio. Se il nostro approccio è etico dobbiamo cercare un terreno comune con i nostri avversari. Comprendere, come dicevo, i rispettivi punti di vista. Condanno l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin e sostengo che Zelensky abbia il diritto sacrosanto di difendersi, e nonostante tutto mi sono fermato a riflettere sulle ragioni che hanno spinto Putin a muovere il suo esercito. Gli Stati Uniti avevano un accordo di massima con la Russia, affinché i Paesi dell’Europa orientale non entrassero nella Nato. Putin, osservando che sempre più nazioni un tempo appartenenti all’Unione Sovietica si stavano unendo all’alleanza atlantica, potrebbe essersi sentito in pericolo. È una motivazione da non sottovalutare se si vuole fare un discorso serio sulla guerra in corso in Ucraina. Quando sento gli americani dire che Putin è un macellaio mi viene in mente la guerra in Iraq, fondata sulla bugia delle armi di distruzione di massa: in Medio Oriente gli americani hanno ucciso molte più persone di quante ne abbia massacrate Putin in Ucraina, almeno 200 mila in più. Secondo il calcolo morale, quella in Iraq è stata una guerra ingiustificata, perché basata su una motivazione invalida. Se fossi un diplomatico proverei la via del dialogo con Putin, per trovare un terreno comune sul quale stipulare un accordo».
Di recente Amnesty International ha criticato la strategia militare di Zelensky, che avrebbe messo in pericolo i civili ucraini. Secondo il calcolo morale, l’unico modo che aveva Zelensky per difendersi era ricorrere alla violenza.
«Zelensky sta esercitando un diritto, quello della difesa dei propri confini contro un’invasione militare. Mi ha impressionato la sua capacità di controbattere a un’offensiva su larga scala come quella russa. Ovviamente l’aiuto dell’Occidente lo sta tenendo a galla. Ma arriverà anche il momento in cui gli americani e gli europei si stancheranno di questa guerra: a quel punto, probabilmente, Putin otterrà il riconoscimento di alcuni territori ucraini sotto la sfera russa. Spesso gli americani hanno invaso altri Paesi non per vincere una guerra, ma per trarne un vantaggio, per esercitare un’influenza».
Il recente viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan ha scatenato la violenta reazione delle autorità cinesi, che hanno risposto con esercitazioni militari a ridosso dell’isola. La speaker della Camera americana è stata criticata da alcuni per la poca diplomazia. È d’accordo?
«Viene il dubbio che Pelosi sia andata a Taiwan per rispettare un impegno nei confronti della popolazione, una sorta di garanzia di protezione territoriale che ha fatto infuriare la Cina. Dal punto di vista cinese bisogna chiedersi se siano giustificate le loro pretese territoriali, ovvero se Taiwan debba fare parte della Repubblica popolare. Un anno ero in viaggio in Italia, a Trieste, e mi ricordo molte persone che dicevano di non sentirsi italiane ma di appartenere alla cultura austriaca o slava. È una delicata questione di identità, ci vogliono molta pazienza e sensibilità prima di giudicare. Applicare un calcolo morale in questi casi è difficilissimo».
Scrive che la morte è banale.
«Non ha senso sprecare tempo a cercare una spiegazione alla morte. Morire è qualcosa a cui non possiamo sfuggire, possiamo accettarlo o no. Un altro conto è la morte dovuta a un atto malvagio, come l’omicidio. In quel caso è difficile, se non impossibile, trovare una giustificazione. Da poco ho dovuto affrontare la morte di mia figlia. Aveva 23 anni, era un’alcolista. Si è ubriacata fino a morire. È stato terribile, ma le dico una cosa: sarebbe stato molto peggio se fosse stata assassinata. Sarebbe certamente stato meglio se fosse vissuta fino alla vecchiaia e morta di cause naturali. Ho cominciato a scrivere Come un’onda che sale e che scende come risposta alla morte della mia sorellina: annegò in un lago a sei anni. Io ne avevo nove ed ero incaricato di tenerla d’occhio. Ci ho messo anni a superare quel senso di colpa. Nonostante tutto, bisogna continuare a vivere».
Nel romanzo apocalittico «Europe Central» (2005) ha narrato la guerra tra il totalitarismo nazista e quello comunista. Quale dittatura contemporanea le fa più paura?
«Non posso saperlo, forse non abbiamo neanche le prove che ne esista una come quelle del Novecento. La ragione per cui ho potuto scrivere del nazismo e del comunismo è perché avevo fonti storiche attendibili, persino materiale video. Il totalitarismo è come il cambiamento climatico: nessuno è salvo, può colpire ovunque da un momento all’altro».
Quindi non esiste una società al riparo dalla violenza?
«Direi di no. La violenza trova tutti i modi per venire a galla. I nativi del Canada, per esempio gli irochesi, vivevano in una società coesa ma esportavano comunque violenza, rapendo e torturando a morte membri di altre nazioni. Ci sono tempi meno crudeli di altri, ma la violenza non si esaurisce mai del tutto».
Non crede che ci siano mezzi efficaci per contrastarla?
«La cultura. Un modo per riformare una società è insistere sulla cultura. Gramsci diceva che la natura umana di per sé non esiste, che siamo tutti il prodotto di rapporti sociali. Se Gramsci ha ragione allora Vollmann ha torto: la violenza non è una parte imprescindibile, organica, delle nostre società. Se la natura umana può essere cambiata, è teoricamente possibile estirpare la violenza. Ma sono molto scettico: ovunque sia stato, dall’Afghanistan alle altre regioni asiatiche, dall’Europa al Sud America, ho sentito qualcuno giustificare un atto di violenza, trovare eccezioni alle regole».
Gli Stati Uniti, fondati sul massacro dei nativi e sulla schiavitù degli africani, sono più inclini a ricorrere e a giustificare la violenza?
«Non credo, anche se la nostra storia è cominciata con la violenza ed è continuata con la violenza. Nel 1999, l’anno della strage di Columbine, in Colorado, quando due studenti, Eric Harris e Dylan Klebold, entrarono nella loro scuola superiore armati e uccisero 12 studenti e un insegnante — nel giorno del compleanno di Hitler, il 20 aprile — mi trovavo in Colombia per lavoro. Era nella zona rurale del Paese, ad Antioquia. Si misero a ridere quando gli raccontai di Columbine. Mi dissero: “Dai Bill, quello è il numero di persone che troviamo uccise qui ogni settimana, di solito decapitate e appese ai ponti. Perché ti lamenti così tanto?”».
A fronte dell’impressionante numero di sparatorie di massa negli Stati Uniti, da ultima quella di Uvalde, in Texas, nella quale sono stati uccisi 19 bambini e due insegnanti, considera ancora necessario oggi in America il Secondo emendamento, che garantisce il diritto di possedere armi da fuoco?
«Sì, molti non sono d’accordo con me, ma credo sia un diritto possedere un’arma. Poco tempo fa ho dovuto consegnare una mia pistola perché non rispettava i nuovi standard californiani. L’ho fatto senza protestare. Il mio ufficio è in una parte della città molto pericolosa, l’indice di omicidi è alto. Due anni fa l’unico modo che ho avuto per difendermi da un gruppo di uomini che voleva sfondare la porta e uccidermi è stato avere con me un’arma. Ho chiamato la polizia alle 8 di sera e sono arrivati alle 4 del mattino. Sono rimasto seduto nel mio ufficio con la pistola carica, non riuscivo più a reggere la tensione. Nessuno mi ha aiutato. In California non puoi aprire il fuoco a meno che qualcuno non metta almeno una gamba o un braccio dentro la tua proprietà. Quella pistola è stata l’unica cosa che mi ha rassicurato, che mi ha permesso di non perdere la testa. Un mio amico crede che se tutti gli ebrei fossero stati armati, l’Olocausto non avrebbe avuto quelle proporzioni. In Alaska, i ragazzi Inuit hanno una pistola per difendersi dai grizzly quando vanno a raccogliere le more».
Non pensa che cercando di giustificare la violenza si arrivi a uno stato di nichilismo, di indifferenza, nel quale si accetta un sopruso senza chiedersi se sia giusto o sbagliato?
«Come cittadini del mondo dobbiamo prendere posizione, dare giudizi morali, anche definitivi. Come un’onda che sale e che scende cerca di fare proprio questo, non c’è alcun tipo di relativismo morale nelle mie proposte. Io chiedo lo sforzo di capire che cosa ci sia dietro a ogni azione, anche alle più terribili, come quelle di Hitler. Non significa condividere, ma capire da dove viene la violenza».
Come ha vissuto la transizione dalla presidenza Trump a quella Biden?
«Disprezzo Trump. L’unica cosa che ci ha salvati è la sua stupidità. Altrimenti avrebbe fatto più danni. Nutro sentimenti molto più negativi verso George W. Bush, per i massacri in Iraq e Afghanistan e per le torture a Guantánamo e Abu Ghraib. Sono contento di quel poco che Biden è riuscito a fare, ma non credo che il futuro di questo Paese sia positivo».
David Foster Wallace diceva che William Vollmann era la sua più grande nevrosi. Un bellissimo complimento di un collega.
«Povero Dave, era un ragazzo gentile, era piacevole la sua compagnia. Leggevamo insieme, andavamo fuori a pranzo, parlavamo ogni tanto al telefono. Era più in confidenza con l’amico che avevamo in comune, Jonathan Franzen. Mi dispiace per lui, la sua esistenza è stata dolorosa, sembrava odiare sé stesso».
Lei dedica un’analisi anche all’utilità del suicidio. Per David Foster Wallace l’unica risposta era uccidersi?
«Mi dispiace molto per sua moglie, Karen, che lo ha trovato impiccato. Se fossi stato nella sua situazione, se la vita fosse diventata un peso per me, mi sarei sentito giustificato a togliermi la vita».
- Intervista di Marco Bruna - Pubblicata su La Lettura del 21/8/2022 -
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