lunedì 30 novembre 2020

Bivi

Conosciamo l’antica Grecia e i sumeri, ma che cosa sappiamo di altre grandi civiltà ritenute secondarie? Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall’oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L’autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell’Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell’uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell’Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell’umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l’aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale.

(dal risvolto di copertina di: Harald Haarmann, "Culture dimenticate. Venticinque sentieri smarriti dell’umanità". Bollati Boringhieri)

Le civiltà
- di Patrizia Garibaldi -

Harald Haarmann, autore del libro Culture dimenticate (Bollati Boringhieri) ritiene che alcune civiltà del passato siano state trascurate soprattutto perché non presentavano connessioni evidenti con gli sviluppi all’origine dell’Europa moderna. Altre culture, ritenute più significative in una prospettiva eurocentrica, hanno avuto maggiore fortuna: l’Egitto e la Mesopotamia, dove comparvero Stato e scrittura; Israele, in cui trova le sue radici il monoteismo; la Grecia, culla della democrazia, della filosofia e del teatro; l’Impero romano, che ci ha lasciato la lingua, la tecnologia e i fondamenti del diritto. A questo modello, radicato nelle nostre menti e nei manuali di storia, lo studioso tedesco contrappone 25 culture: cenerentole «dimenticate perché i vincitori o le civiltà successive le hanno rimosse, tacendone, cancellandone o vietandone la memoria». Dal Paleolitico europeo all’ultimo millennio, Haarmann ricostruisce gli aspetti cruciali di queste culture, facendo ricorso alle più recenti acquisizioni delle scienze linguistiche e culturali, dell’archeologia, della storia delle religioni, degli studi genetici, dell’analisi di immagini satellitari. Emergono tracce, interrelazioni e conquiste che hanno influenzato il nostro passato, anche se talvolta sono state attribuite ad altre società, più conformi a una prospettiva eurocentrica.
Per esempio l’indagine sul mondo concettuale di Homo heidelbergensis prende avvio dalla scoperta delle più antiche armi da caccia del mondo, otto lance fabbricate fra 337 mila e 300 mila anni fa, rinvenute in Germania presso Schöningen. Le caratteristiche delle lance e i resti delle prede abbattute dimostrano che i cacciatori erano in grado di fabbricare e utilizzare armi estremamente efficaci e sofisticate e di pianificare cacce collettive molto fruttuose, attività che richiedono forme di pensiero concettuale indispensabili anche per lo sviluppo di elaborazioni religiose. I cacciatori collocarono le lance accanto ai crani dei cavalli abbattuti, sistemando intenzionalmente questi elementi in un insieme che richiama manifestazioni rituali.
L’ipotesi che Homo heidelbergensis, estinto da circa 100 mila anni, conoscesse rituali legati alla magia della caccia, possedesse una concezione animistica sull’interrelazione di tutte le forme di vita e avesse elaborato credenze in fenomeni soprannaturali collocherebbe la comparsa di manifestazioni religiose in una fase molto antica nella storia dell’evoluzione umana.
In un periodo più recente, i manufatti di «arte dell’era glaciale» scoperti in Siberia presso il lago Bajkal e databili 35 mila anni fa svelano aspetti sorprendenti dell’immaginario della nostra specie Homo sapiens durante quello che Haarmann definisce il momento iniziale delle tradizioni eurasiatiche nel campo dell’arte e della mitologia. La statuina di un orso nella località di Tolbaga, intagliata su un osso di rinoceronte lanoso 33 mila anni fa, sarebbe la più antica raffigurazione animale finora nota. Numerose statuine femminili sono state associate, in base alla tipologia, all’idea della fertilità o alla concezione animista dei numi tutelari insiti in tutti gli esseri viventi in natura. Nelle comunità dei cacciatori euroasiatici dell’era glaciale, organizzate in clan o tribù, la donna aveva una funzione centrale e di connessione della rete sociale. Motivi sacrali, totemismo, concezione animistica e ruolo degli sciamani come intermediari tra il mondo terreno — visibile — e quello degli antenati — invisibile — sono fra gli elementi della mitologia euroasiatica sopravvissuti attraverso le vicende e i trasferimenti di donne e uomini che durante l’era glaciale avevano vissuto al confine con i ghiacci. I motivi e le forme dell’arte figurativa, la tradizione orale dei miti, l’immaginario e il repertorio dei rituali sciamanici sembrano avere mantenuto continuità di significato all’interno dell’eredità culturale dei discendenti dei cacciatori del lago Bajkal e nello sciamanesimo della Siberia. Sopravvissuto nella società siberiana di oggi, infatti, lo sciamanesimo rappresenta l’istituzione di famiglia e di clan più arcaica, più antica e più duratura dell'emisfero settentrionale.
Passiamo nel Nuovo Mondo. Il primato nell'attraversamento dell'Oceano Atlantico prima del viaggio di Cristoforo Colombo è da tempo questione controversa. Recentemente è stata avanzata l'ipotesi che cacciatori paleolitici solutreani (detti così dal sito archeologico di Solutré, in Francia) abbiano raggiunto la costa occidentale americana dall'Europa nel corso dell'ultima era glaciale. L'ipotesi poggia su elementi e informazioni emerse in differenti ambiti di ricerca. Sono ststi riconosciuti, infatti, collegamenti tra le lingue algonchine dei nativa americani e il basco, le cui origini sono fatte risalire all'era glaciale, e corrispondenze tra gli strumenti in pietra della cultura americana di Clovis e l'industria scheggiata dei gruppi solutreani. Inoltre, è stato individuato in alcune aree dell'America un insieme di caratteristiche genetiche presente nelle popolazioni dell'Occidente europeo, ma non tra i gruppi umani che arrivarono nell'attuale Alaska dall'Asia.
Sarebbero stati, dunque, gruppi di cacciatori specializzati nella caccia alle diverse specie di foche che frequentavano il bordo dei ghiacci nell'Atlantico settentrionale ad attraversare per primi quest'oceano. Avanzarono gradualmente verso ovest sul bordo esterno della calotta polare alla ricerca di nuove aree di caccia, adattando tecniche e stile di vita all'ambiente marino e alla banchisa. In questo modo, accampandosi sul ghiaccio e senza dover affrontare il mare aperto, alcuni raggiunsero la costa orientale del continente americano di allora e crearono insediamenti i cui resti oggi si troverebbero sott'acqua, a decine di metri di profondità. Dai contatti e dalle mescolanze tra i discendenti di questi cacciatori e quelli dei gruppi arrivati dalla Siberia hanno avuto origine le culture amerinde.
Le evidenze raccolte da Haarmann sulle «culture dimenticate» indicano come molte cose di esse non fossero caratterizzate da strutture sociali gerarchiche, ma piuttosto da forme di suddivisione equilibrata del lavoro e di uguaglianza tra donne e uomini. È il caso delle civiltà dell'Indo, in cui mancano prove di controllo statale o di amministrazione centralizzata. In vari casi le figure femminili sembrano avere rivestito un ruolo particolare, ad esempio nell'immaginario degli abitanti di Catalhoyuk (nell'attuale Turchia) o nella prima civiltà avanzata della storia umana, quella sviluppata dagli agricoltori del Danubio seimila anni prima della nostra era. Essa compredeva comunità unite da relazioni pacifiche ed essenzialmente egualitarie, sparse su un vastissimo territorio corrispondente alla superficie degli attuali Paesi balcanici, più l'Ungheria e l'Ucraina. I collegamenti all'interno di quella cultura erano facilitati dal Danubio e dalla rete dei suoi affluenti; un insieme di scambi e contatti allargati connetteva la civiltà danubiana all'Europa occidentale, all'Anatolia e all'Africa settentrionale.
L'analisi di strutture organizzative tanto sorprendentemente efficaci da rendere possibile la convivenza e coesione di questa cultura europea durante tre millenni potrebbe schiudere prospettive importanti. Ad esempio renderci più consapevoli dell'utilità cruciale di forme organizzative che potremmo ricondurre a termini quali unione, responsabilità, equilibrio, partecipazione e bene comune che, evidentemente, sono parte del patrimonio della nostra specie.

- Patrizia Garibaldi - Pubblicato sulla Lettura del 22/11/2020 -

domenica 29 novembre 2020

nell'universo sordomuto ...

Anna Achmatova, la vostra voce sono io!
- di Alessandro Barbero -

Anna Achmatova ha attraversato le tragedie del Novecento nel Paese che le ha vissute nel modo più spaventoso, la Russia. È sempre stata orgogliosa di non essersene andata, lei che prima della Grande Guerra aveva viaggiato in Francia e in Italia, conosceva Parigi e Venezia, e avrebbe avuto tante occasioni per andarsene: «No, non sotto un cielo straniero / e non sotto la protezione di ali straniere: / io allora ero con il mio popolo, / là dove il mio popolo, per disgrazia, era», è l’epigrafe aggiunta nel 1961 al suo capolavoro, Requiem, che descrive le sofferenze provocate fra la gente comune dalle repressioni staliniane.
È rimasta e non ha mai smesso di scrivere, convinta che la sua poesia non apparteneva a lei, ma era la voce di tutto un popolo. L’altro grande poeta russo del Novecento, suo allievo e suo erede spirituale, il premio Nobel Iosif Brodskij, in una delle poesie che le ha dedicato scrive che l’intero Paese la ringrazia «per aver avuto il dono della parola / nell’universo sordomuto». Ma la sua stessa sopravvivenza, mentre intorno a lei venivano arrestati, mandati in lager, fucilati, o si suicidavano i suoi familiari e i poeti della sua generazione, è una pagina fra le più contraddittorie, e inspiegabili, della storia russa novecentesca.
Anna era una poetessa famosa già prima della Grande Guerra, fin dall’uscita del suo primo libro nel 1912, quando aveva 23 anni. I suoi versi erano quelli di una ragazzina ricca e viziata, appartenente all’aristocrazia pietroburghese, e lei stessa in età avanzata affettava di stupirsi del loro successo: «Per qualche motivo queste poesie infantili scritte da una ragazzina frivola vennero ristampate tredici volte, e tradotte in diverse lingue. La ragazzina, lei, per quanto mi ricordo, non lo aveva previsto, e nascondeva sotto i cuscini del sofà le riviste su cui venivano pubblicate».
Ma la cosa più stupefacente è che quei versi continuarono ad affascinare i russi e a fare di lei un personaggio pubblico conosciutissimo anche dopo la rivoluzione, nell’Unione Sovietica degli Anni 20. Il mondo che lei aveva amato, il mondo dei salotti eleganti, dei caffè, delle discussioni letterarie e degli amori romantici, era stato spazzato via dalla guerra mondiale, dalla rivoluzione, dalla guerra civile; il suo primo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, era stato fucilato dalla Cekà; ma le case editrici sovietiche continuavano a pubblicare i suoi libri, sulla Pravda uscivano articoli che la dichiaravano il più grande poeta russo vivente, e le fabbriche di Stato producevano in serie una statuetta di porcellana che la raffigurava, creata dalla scultrice Natalia Danko, che è in produzione anche oggi – la leggenda dice che in ogni casa russa ce n’è una, mentre l’originale è all’Ermitage. Ma non poteva durare. La critica proletaria più militante comincia ad attaccare Anna, accusandola di essere una reazionaria, un relitto del passato. La rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj, che è stata ministro nel governo di Lenin e adesso è ambasciatore dell’Urss in Norvegia – ed è la prima donna nella storia a essere stata ministro e ambasciatore – la difende, cercando di accreditare un’interpretazione femminista della sua poesia, ma è un’impresa disperata.
L’ultimo libro di Anna ad essere pubblicato è del 1924, poi per 16 anni non uscirà più niente di suo; un’edizione in due volumi dei suoi versi è già in bozze, ma viene fermata. Anna si rende conto che, quando un poeta è celebre come lei, la sua poesia non può più riflettere soltanto la sua sfera privata. Già nel 1922 aveva scritto Io sono la vostra voce, in cui si rivolge a un interlocutore collettivo – la critica letteraria, il popolo russo? – chiedendo perché la amano tanto, perché la riempiono di lodi, e perché nessuno le ha mai più chiesto nulla di suo marito fucilato, e conclude che adesso l’unica cosa che vuole è essere dimenticata.
E intanto l’Urss scivola verso la tragedia dello stalinismo. Anna scrive sempre meno, mentre la sua vita è attraversata da altri amori infelici e matrimoni falliti. Il suo unico figlio, Lev, è arrestato nel 1935, rilasciato, poi di nuovo arrestato nel 1938. Anna passa 17 mesi senza rivederlo, in fila ogni giorno davanti alle carceri di Leningrado, nel gelo dell’inverno e nell’afa dell’estate, sperando che accettino il pacco che gli ha portato, e di avere così la prova che è ancora vivo. Da questa esperienza nasce Requiem, in cui si convince definitivamente che la sua voce è quella di tutto un popolo, perché solo lei fra i milioni di persone che vivono quella tragedia ha le parole per descriverla. Nell’epilogo del ciclo dice: se mi tapperanno la bocca, ricordatevi di me; e se invece mi faranno un monumento, fatemelo qui, davanti alla prigione dove sono stata in piedi per tante ore in mezzo alle altre. La cosa più strana è che la bocca non gliel’hanno mai tappata, nemmeno nell’ora più buia: al momento dell’invasione nazista Stalin in persona darà ordine di evacuarla da Leningrado assediata, dove mezzo milione di persone stava morendo di fame.
Oggi a Leningrado, ridiventata Pietroburgo, ci sono quattro monumenti ad Anna Achmatova: il più visitato sorge davanti alla Prigione delle Croci, come aveva profetizzato lei.

- Alessandro Barbero - Pubblicato sulla Stampa del 18/11/2020 -

sabato 28 novembre 2020

Traditori


« Avevo vent'anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita ».
Così Paul Nizan cominciava il suo Aden - Arabia, un libro che, come ebbe a scrivere Jean Paul Sartre nella sua introduzione, parlava della giovinezza ai giovani, che in quanto i giovani avrebbero riconosciuto, nella voce di Nizan, la propria voce: « egli può dir loro tutto perché è un bel giovane mostro, come loro ».
Il libro è il diario disperato di chi non sopporta il mondo che lo circonda, e decide così di partire alla ricerca di un'umanità meno falsa. Inutilmente. Tornerà, da uomo in rivolta, a cercare di finire di imparare la propria parte nel mondo. Lo farà a caro prezzo. Comunista, davanti alla sottoscrizione del patto Molotov-Ribbentrop straccerà pubblicamente la sua tessera di partito, finendo così per essere - parola di Thorez (leader dei comunisti francesi)!!!  - un traditore e un provocatore al soldo della polizia. Commenterà l'ennesima infamia, dicendo che «I filosofi del giorno d'oggi si vergognano ancora di confessare che hanno tradito gli uomini, per la borghesia. Se noi tradiamo la borghesia per gli uomini, non ci vergogniamo di confessare che noi siamo dei traditori!» Morirà a trentacinque anni, nel 1940, combattendo contro i nazisti, nella battaglia di Dunkerque.  Una pallottola lo lascerà giovane, per sempre, come il suo libro!

(già pubblicato sul blog il 17 luglio 2008)

venerdì 27 novembre 2020

Falsificare le prove …

Nel leggere le testimonianze di questi contadini friulani, uomini e donne, vissuti tra ’500 e ’600, si è afferrati, come lo furono gli inquisitori, dallo stupore che si prova di fronte a qualcosa di assolutamente inaspettato. «Di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno» racconta il benandante Paolo Gasparutto «mi apparse un angelo tutto tutto d’oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori ... Egli mi chiamò per nome dicendo: “Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade” ... Io gli resposi: “Io andarò et son obediente”». Spinti dal destino perché nati con la camicia – cioè involti nel cencio amniotico – i benandanti combattevano in spirito, tre o quattro volte all’anno, armati di mazze di finocchio, contro gli stregoni armati di canne di sorgo, per assicurare l’abbondanza dei raccolti. Gli inquisitori si convinsero che dietro questi racconti si nascondeva il sabba diabolico: i benandanti non erano nemici di streghe e stregoni, come affermavano, bensì streghe e stregoni essi stessi. Dalle voci di Anna la Rossa, di Olivo Caldo, di Michele Soppe e di tanti altri, pur filtrate dai notai dell’Inquisizione, emerge uno strato profondo di credenze contadine, altrove cancellate. Oggi i benandanti, per tanto tempo dimenticati, viaggiano in spirito per il mondo: dall’Europa, alle Americhe, alla Cina.

(dal risvolto  di copertina di: Carlo Ginzburg, "I benandanti". Adelphi)

Il mugnaio spiega Dante
- La storia è anche degli umili -

di Massimo Rospocher

Carlo Ginzburg racconta come avviò per caso la ricerca da cui nacque il suo primo lavoro, «I benandanti», tornato da poco in libreria. «Non trovi niente di interessante se vuoi solo avere una conferma della tua ipotesi. È molto più fecondo farsi cogliere di sorpresa, guidati da fattori inconsci, anche se ogni acquisizione esige poi una verifica razionale. Non basta conoscere cifre, Big Data e statistiche: studiare Menocchio aiuta a capire l’autore della Commedia»

«La lettura si configura sempre come una serie di scatole cinesi», scrive Carlo Ginzburg nella postfazione alla nuova edizione del suo famoso saggio I benandanti (Adelphi), dedicato ai membri di un culto sciamanico diffuso in Friuli che si proclamavano difensori della fertilità dei campi dai malefici della stregoneria. Leggendo un libro di Ginzburg se ne leggono contemporaneamente molti altri, riecheggiati, ricordati o riferiti. Anche per questa ragione, I benandanti (pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1966) apparve un’opera rivoluzionaria che affascinò non solo gli storici, ma anche letterati come Giorgio Manganelli. Segnò l’inizio fulminante della carriera dello storico italiano attualmente più noto a livello internazionale, le cui opere sono tradotte in 29 lingue.

Massimo Rospocher: Il suo incontro con Menichino, il bovaro benandante di Latisana, in Friuli, avvenne tuttavia per caso all’inizio degli anni Sessanta.

Carlo Ginzburg: «Sì, avvenne per caso: ma un caso che era frutto di una scelta deliberata. Mi ero messo a studiare i processi di stregoneria partendo dall’ipotesi (un ingenuo miscuglio di Antonio Gramsci e Jules Michelet) che in essi si nascondesse una forma rudimentale di lotta di classe. Poco dopo trovai, nel fondo Inquisizione conservato nell’archivio di Stato di Modena, un documento che mi parve confermare la mia ipotesi: un processo celebrato nel 1519 contro una contadina del modenese, Chiara Signorini, accusata di aver gettato una malìa contro la padrona che l’aveva cacciata dal fondo. Ricordo ancora la mia delusione: una conferma così rapida dimostrava, pensai, che l’ipotesi da cui ero partito era poco interessante. A questo punto (era il 1962, mi ero laureato da poco) decisi di girare l’Italia alla ricerca di fondi archivistici in cui erano conservati processi di stregoneria. Cominciai da Venezia. Del grande fondo
di processi inquisitoriali conservato in quell’archivio esiste un inventario manoscritto, che elenca i processi distinguendo quelli per eresia da quelli per magia, stregoneria, superstizioni. Partendo da questa classificazione rudimentale cominciai a chiedere buste a caso, usando quella che chiamai retrospettivamente “roulette veneziana”. E così incontrai Menichino, il benandante: una parola a me ignota, come lo era all’inquisitore che lo interrogava. Riflettendo su quell’incontro, a distanza di decenni, capii che l’uso sistematico del caso ci permette di essere colti di sorpresa, di trovare qualcosa di inaspettato
».

M.R.: L’imprevisto come scintilla che accende la ricerca?

C.G.: «L’ho detto molte volte ai miei studenti: trovare quello che si cerca, non basta. Ora, internet ha moltiplicato le possibilità di questa produzione sistematica del caso. Il “rumore”, che i tecnici di internet cercano di evitare, può diventare uno strumento di ricerca. Naturalmente il caso non agisce meccanicamente: mi sono chiesto più volte in che modo altri studiosi avrebbero reagito imbattendosi nella testimonianza di Menichino. Le sue descrizioni delle battaglie combattute dai benandanti contro le streghe, in spirito, per la fertilità dei campi, costituivano senza dubbio un’anomalia. Perché, di fronte quest’anomalia, mi parve di avere fatto una vera scoperta? Cercando di rispondere, retrospettivamente, a questa domanda, ho scoperto a poco a poco l’importanza che la cripto-memoria — la memoria nascosta, inconscia — ha nella ricerca».

M.R: Il suo primo libro ha innescato un esercizio di autoanalisi, che continua tuttora, sull’elemento inconscio ed emotivo del suo modo di intendere il mestiere di storico.

C.G.: «Sottolineare l’elemento emotivo e passionale nella ricerca non è una novità: l’aveva già fatto, per citare un precedente illustre, Benedetto Croce. Mi pare invece che l’importanza dell’elemento inconscio non sia stata analizzata da vicino. Ma la consapevolezza del peso che hanno i pregiudizi, consci e inconsci, nella ricerca, deve accompagnarsi alla consapevolezza dell’importanza di provare, nei limiti del possibile, i risultati raggiunti. Nata da impulsi (anche) irrazionali, la ricerca storica deve essere sottoposta a una verifica razionale. L’importanza che le prove hanno nel mestiere dello storico risale all’antiquaria, come dimostrò Arnaldo Momigliano in un saggio famoso. Si tratta di prove falsificabili, certo».

M.R.: Ma come funziona la falsificazione di un’affermazione storica?

C.G.: «Una domanda del genere , in un mondo invaso dalle fake news, è più che mai attuale. Anche la negazione del Covid-19 è una fake news, nata dal pregiudizio ideologico e dal disprezzo nei confronti delle prove di fatto. Analizzare attraverso casi specifici l’intreccio di elementi irrazionali e razionali, di pregiudizi e di prove, che costituisce la trama della ricerca, approfittando della coincidenza anagrafica tra quello che siamo oggi e quello che eravamo una volta, mi pare, oggi più che mai, un esercizio indispensabile».

M.R.: In un mondo globalizzato, cosa può insegnarci la microstoria dei bovari friulani di molti secoli fa?

C.G.: «L’idea che la storia sia “maestra di vita”, come sostenevano gli antichi, rinvia a una concezione monumentale della storiografia che non ha resistito alla critica di Friedrich Nietzsche. Ma una ricerca come quella sui benandanti può insegnare ad afferrare le voci dei colonizzati nell’enorme quantità di documenti prodotti dal colonialismo europeo in Africa, in Asia, nelle Americhe. È questo solo un esempio del contributo che la microstoria, intesa come storia basata su casi analizzati in una prospettiva sperimentale, può dare alla storia globale. Di fronte a una storia puramente quantitativa, basata sui Big Data, è importante sottolineare il valore cognitivo delle anomalie. Ma le anomalie rinviano alle norme: la microstoria, nel senso che si è detto, è lontanissima dal gusto estetizzante per il frammento».

M.R.: Protagonisti dei suoi studi sono personaggi agli estremi opposti della società: il mugnaio Menocchio e Piero della Francesca, il distillatore-buffone Costantino Saccardino e Niccolò Machiavelli, la contadina Chiara Signorini e Thomas Hobbes... Esiste una continuità di temi nella sua opera.

C.G.: «Continuità di temi, non direi proprio. La varietà che lei sottolinea è frutto di un impulso irresistibile a inoltrarmi in territori che non conosco, ripartendo continuamente da zero. Mi trovo a mio agio nella parte dell’estraneo (rispetto a una disciplina, rispetto a una tradizione di studi). Le riflessioni che ho fatto sulla fecondità conoscitiva dello straniamento, a partire dal famoso saggio di Viktor Shklovsky, partono di lì. Sui risultati di questa scelta ripetuta lascio la parola a chi mi legge».

M.R.: Ma questa discontinuità potrebbe nascondere un filo rosso, una continuità sotterranea?

C.G.: «Non lo escludo. Voltandomi indietro penso alla mia traiettoria di ricerca come a una partita a scacchi (un gioco che mi affascina, anche se non lo pratico quasi mai). I pezzi sono diversi e si muovono secondo regole diverse, ma ogni mossa condiziona, in maniera difficile da descrivere, la successiva. E da ogni mossa s’impara: per analogia, ma non solo, perché i pezzi sono diversi. Il modo in cui Menocchio leggeva i libri mi ha insegnato (anche) a capire come li leggeva Dante».

M.R.: «Lo storico è come l’orco della fiaba: là dove fiuta odore di carne umana, là sa che è la sua preda», scriveva il grande storico francese Marc Bloch. Che cosa significa per lei questa affermazione?

C.G.: «In questa metafora leggerei un invito a trascurare gli steccati disciplinari. Nei documenti (di qualunque genere) si nascondono uomini e donne in carne e ossa: dobbiamo scoprirli. Nella stessa direzione, usando una metafora molto più debole, mi è capitato di dire che la storia non è una fortezza ma un aeroporto. Di fronte a un problema dobbiamo essere disposti a partire in tutte le direzioni, esplorando i risultati prodotti all’interno di varie discipline, e analizzando i metodi che li hanno prodotti. Supporre che tra i problemi in cui ci imbattiamo (magari in maniera imprevista) e le discipline accademiche consolidate esista un’armonia prestabilita è senza dubbio ingenuo: ma si tratta di un’ingenuità molto diffusa».

M.R.: Quali sono stati gli incontri reali o gli interlocutori mentali che giudica maggiormente influenti nella sua formazione?

C.G.: «Senza dubbio è stato l’incontro con gli scritti di Bloch a spingermi verso il mestiere dello storico. Ma poi ho imparato moltissimo da storici in carne e ossa: grandi studiosi come Delio Cantimori, Arnaldo Momigliano, Arsenio Frugoni, Augusto Campana. E poi da persone che non erano storici di professione — penso a Felice Balbo, a Vittorio Foa, a Cesare Garboli, a Sebastiano Timpanaro, a Francesco Orlando. Persone a me carissime, che non ci sono più. Da ognuna di loro, nella loro straordinaria diversità, ho imparato qualcosa di insostituibile. Sono stato molto fortunato. Ma la statura intellettuale e morale delle persone che ho citato non deve trarre in inganno: ho l’impressione di imparare qualcosa continuamente, nella vita di ogni giorno. Le moi est haïssable, l’io è odioso, disse Pascal; ma io aggiungerei anche ennuyeux, noioso. È il rapporto con gli altri — persone vere o immaginarie, persone reali oppure incontrate sui libri, sullo schermo del computer eccetera — che ci consente di sottrarci al provincialismo ossessivo del nostro io. Ma per fortuna, come mi venne fatto di dire una volta, l’io è poroso».

M.R.: Carlo Ginzburg è un intellettuale globale. A consolidare questa dimensione internazionale ha contribuito la scelta di andare a insegnare negli Stati Uniti. Come fu l’impatto con quell’universo culturale?

C.G.: «Il primo incontro con il mondo accademico statunitense si verificò nel 1973, quando fui invitato al Davis Center di Princeton, allora diretto da Lawrence Stone. Mi trovai di fronte a uno stile di discussione al quale non ero abituato: estremamente analitico, talvolta aspro, anche se privo di aggressività personale. Credetti ingenuamente che quello fosse lo stile dominante nelle università nordamericane: in realtà era di origine inglese (il pugilato come noble art). Lì presentai la prima versione, in francese (dato che il mio inglese era molto carente) de Il formaggio e i vermi».

M.R.: Stone sosteneva la necessità di un «ritorno al racconto», nacque allora la sua attenzione alla dimensione narrativa della storia?

C.G.: «La passione per la narrazione era già evidente ne I benandanti. È una passione che associo a mia madre, Natalia Ginzburg, e, per quanto riguarda la narrazione storica, alla traduzione di Guerra e pace rivista da mio padre negli anni del confino e uscita nel 1942 (la sua prefazione, trattandosi di un ebreo, era siglata da un asterisco). La rivelazione della libertà offerta dal saggio come genere letterario, che scoprii scrivendo il saggio Spie (1979), ha un’origine diversa: il cinema, gli stacchi bruschi resi possibili dal montaggio (lessi Tecnica del cinema di Sergey Eisenstein quando avevo undici anni, prima di vedere i suoi film, capendo pochissimo: un’esperienza indimenticabile). Tra le virtù del saggio come forma c’è la traducibilità, e la possibilità di comprimere la comunicazione in un tempo molto breve. Ce ne accorgiamo oggi, in tempo di Covid-19 e di lezioni a distanza».

M.R.: Come ha vissuto il periodo del lockdown?

C.G.: «Molte letture, molte interviste e lezioni online qua e là. Una situazione di privilegio, circondato da una tragedia mondiale che continua».

- Massimo Rospocher  -  Pubblicato sul Corriere del 18 ottbre 2020 -

giovedì 26 novembre 2020

Il vaccino del popolo

Vaccini per il Covid: chi prende l'iniziativa.
- di Michael Roberts -

Prima che la pandemia di Covid-19 travolgesse il mondo, le grande aziende farmaceutiche avevano investito ben poco sui vaccini per la malattie e i virus a livello globale. Semplicemente, la cosa non era redditizia. Di quelle che erano le 18 maggiori aziende farmaceutiche, 15 di loro avevano abbandonato completamente il settore. I leader nel profitto, erano i farmaci per il cuore, i tranquillanti che creano dipendenza e i trattamenti per l'impotenza maschile, e non le difese contro le infezioni ospedaliere o i farmaci per le malattie emergenti e i tradizionali tropical killers. Per decenni, un vaccino universale per l'influenza - vale a dire, quello che sarebbe un vaccino che prende di mira le parti immutabili delle proteine di superficie del virus - è stato una possibilità, senza che venisse mai ritenuto abbastanza redditizio da indurre a farlo diventare una priorità. Pertanto, ogni anno otteniamo dei vaccini che sono efficienti solo al 50%.
Ma la pandemia di Covid-19 ha cambiato l'atteggiamento da parte di Big Pharma. Ora si possono fare miliardi vendendo vaccini efficaci ai governi e ai sistemi sanitari. E in pochissimo tempo, è venuta fuori una partita di vaccini apparentemente efficaci, con la concreta possibilità di renderli disponibili per le persone nel giro dei prossimi 3-6 mesi; un risultato record.
L'autorizzazione per l'Europa ed il Regno Unito, per il vaccini Pfizer-BioNTech e Moderna dovrebbe esserci entro la fine dell'anno, con una produzione iniziale che metterebbe fin da subito a disposizione per la fine dell'anno, 10-20 milioni di dosi di ciascun vaccino (5-10 milioni di trattamenti). Una vaccinazione diffusa e generalizzata contro il Covid-19 - al di là di quelli che sono i gruppi ad alto rischio - verrà attuata probabilmente entro la prossima primavera, ed avremo entro la fine dell'estate una quota di popolazione europea vaccinata sufficientemente ampia. Il vaccino Pfizer-BioNTech contro il Covid-19, è stato dichiarato efficace per oltre il 90%. Moderna ha dichiarato che il suo vaccino riduce il rischio di infezione da Covid-19 di oltre il 94,5%. Tra quelli che sono gli altri principali sviluppatori di vaccini, AstraZeneca dovrebbe rilasciare i risultati delle prove da qui a Natale, mentre molti altri si trovano già in fase avanzata per quanto riguarda i test. Entro la fine dell'anno, l'Unione Europea e il Regno Unito dovrebbero avere ciascuno dosi a sufficienza per circa 5 milioni di persone (con un unico trattamento che prevede due dosi). E ce ne sono altri: Gamaleya, Novavax, Johnson & Johnson, Sanofi-GSK; oltre allo Sputnik, il vaccino russo e quello cinese.
Come è stato possibile tutto questo così rapidamente? Beh, di certo non è stato grazie alle grandi aziende farmaceutiche che ci sono arrivate a partire dalla ricerca scientifica. È dovuto piuttosto grazie ad alcuni  scienziati specializzati che lavorano nelle università e negli organismi governativi alla ricerca di una formula per il vaccino. E tutto questo è stato reso possibile dal fatto che il governo cinese ha fornito rapidamente le sequenze di DNA necessarie all'analisi del virus. Insomma, sono stati i soldi statali e i fondi pubblici a fornire la soluzione medica.
La ricerca di base per i vaccini statunitensi è stata fatta dai National Institutes of Health (NIH), dal Defense Department, e dai laboratori accademici finanziati a livello federale. I vaccini realizzati da Pfizer e da Moderna si basano fondamentalmente su due scoperte emerse grazie alla ricerca finanziata a livello federale: la proteina virale sviluppata dal NIH; ed il concetto di modifica del RNA, sviluppato per la prima volta all'Università della Pennsylvania. Infatti, i fondatori di Moderna, nel 2010 hanno dato il nome all'azienda proprio a partire da questo concetto: "Modified" + "RNA" = MODERNA.
Pertanto, il vaccino di Moderna non è sbucato dal nulla. Moderna ha lavorato per anni sui vaccini mRNA insieme al National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) [Istituto Nazionale delle Allergie e delle Malattie Infettive], che è una parte del NIH. L'accordo per la collaborazione consisteva in un certo livello di finanziamento al NIH da parte di Moderna, insieme ad una tabella di marcia per far sì che i ricercatori del NIAID e di Moderna collaborassero alla ricerca di base sui vaccini mRNA, ed eventualmente sviluppassero un tale vaccino. Il governo degli Stati Uniti ha versato altri 10,5 miliardi di dollari che sono andati nella casse di diverse aziende produttrici di vaccini, da quando la pandemia ha cominciato ad accelerare ed aumentare la domanda di un tale prodotto. Il vaccino Moderna è nato direttamente da una cooperazione tra Moderna e il laboratorio del NIH. Il governo degli Stati Uniti - e quelle che sono due agenzie in particolare, il NIH e la Biomedical Advanced Research and Development Authority (BARDA) -  ha parecchio investito nello sviluppo del vaccino. BARDA è un ramo del  Department of Health and Human Services [Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani] - formatosi nel 2006 come risposta al fatto che ci si aspettava l’epidemia di SARS-Covid-1 (insieme ad altre minacce per la salute) – il quale fornisce direttamente alle imprese investimenti in tecnologia, ma che si impegna anche in cooperazioni pubblico-privato (PPP) e coordina le agenzie. Una parte specifica della missione di BARDA è quella di fare attraversare alle tecnologie la cosiddetta «valle della morte» [quella zona esistente tra la creazione e la commercializzazione].
Il governo tedesco ha stanziato fondi per 375 milioni di € a favore di BioNTech, ed altri 252 milioni sono stati stanziati per sostenere lo sviluppo di un vaccino da parte di Curevac. La Germania ha inoltre aumentato di 140 milioni di € quello che è il suo contributo alla Epidemic Preparedness Innovations (CEPI) e ha previsto altri 90 milioni per il prossimo anno. La CEPI era stata creata a Davos, in Svizzera, nel 2017 come una cooperazione globale e innovativa tra pubblico e privato, oltre che tra filantropico e organizzazioni della società civile al fine di sviluppare vaccini per contrastare le epidemie, e la Germania si era impegnata a sostenere l'iniziativa con 10 milioni di € l'anno per un periodo di quattro anni. CureVac è uno di quelli che sono nove tra istituti  e compagnie incaricate da CEPI di condurre ricerche su un vaccino per il Covid-19. Uno dei suoi azionisti è la banca statale Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW).
Ma a sviluppare il vaccino a partire dal lavoro scientifico degli istituti pubblici è Big Pharma. Sono loro a decidere di prendere l'iniziativa. Le aziende farmaceutiche fanno i test clinici globali, e poi producono e commercializzano il risultato. Quindi vendono i vaccini ai governi, facendo enormi profitti. È questo il modo in cui si faceva prima che ci fosse la pandemia; e si fa così anche ora che c'è. Negli Stati Uniti, nel decennio tra il 1988 ed il 1997, la spesa pubblica per l'acquisto di vaccini è raddoppiata da 100 a 200 $ per ogni bambino fino a 6 anni di età. Il costo cumulativo del settore pubblico, in meno di 5 anni, tra il 1997 ed il 2001 è nuovamente raddoppiato, da 200$ a quasi 400 per ogni bambino.
Si sa ancora assai poco circa i termini dei contratti per il vaccino Covid che l'Unione Europea ha firmato con i gruppi farmaceutici, inclusi AstraZeneca, Pfizer-BioNTech, Sanofi-GlaxoSmithKline e CureVac. Ma una volta che sarà svelato il segreto, quella che vedremo sarà una massiccia privatizzazione dei miliardi di dollari dei fondi governativi. Si calcola che AstraZeneca abbia venduto ai governi il suo vaccino a circa 3 o 4 & a dose, mentre il richiamo Johnson & Johnson ed il vaccino che sono stati sviluppati unitamente da Sanofi e GSK verranno venduti a circa 10€ a dose. AstraZeneca ha promesso che non trarrà alcun profitto dalla sua cura durante la pandemia, ma ha dichiarato anche che ciò verrà applicato solo fino al mese di luglio del 2021. Dopo di allora, potranno procedere all’incasso. La statunitense Moderna farà pagare 37$ a dose, oppure tra i 50 e i 60$ per tutto il trattamento a due colpi.
Probabilmente, i vaccini per il coronavirus per l'industria farmaceutica varranno miliardi, se si dimostreranno sicuri ed efficaci. Saranno necessari ben 14 miliardi di vaccini per immunizzare tutti quanti nel mondo contro il coronavirus. Se, come è stato previsto da molti scienziati, l'immunità data dal vaccino dovesse diminuire, negli anni a venire potrebbero essere vendute altre 22 miliardi di dosi in più, come richiamo. E la tecnologia e i laboratori di produzione che sono stati impiantati grazie alla generosità dei governi potrebbero dare origine ad altri vaccini e ad altri redditizi farmaci.
Così, mentre gran parte del lavoro pioneristico sui vaccini mRNA è già stato fatto con i soldi governativi, i produttori privati di farmaci ne potranno trarre enormi profitti, mentre i governi pagheranno per avere quei vaccini che essi hanno aiutato a trovare contribuendo in primo luogo a finanziarne lo sviluppo!
La lezione data dalla risposta del vaccino per il coronavirus, è che qualche miliardo di dollari all'anno spesi in addizionali ricerche di base potrebbero prevenire mille volte quelle che sono state le perdite in morti, malattie e distruzione economica. Nel corso di una conferenza stampa, Anthony Fauci, consulente sanitario statunitense, ha sottolineato il lavoro di picco svolto dalla proteina. «Non dovremmo sottovalutare il valore della ricerca biologica di base», ha detto Fauci. Esattamente. Ma come hanno dimostrato molti esperti, come Mariana Mazzucato, i finanziamenti statali e la ricerca sono stati vitali ai fini dello sviluppo di tali prodotti.
Quale migliore lezione possiamo imparare dall'esperienza del vaccino per il Covid se non che le compagnie multinazionali farmaceutiche dovrebbero essere di proprietà pubblica, in modo che la ricerca e lo sviluppo possano essere dirette a soddisfare le esigenze sanitarie e mediche delle persone, e non il profitto di queste aziende. E inoltre, i vaccini necessari potrebbero arrivare ai miliardi che vivono nei paesi più poveri, anziché solo a quei paesi e a quelle persone che possono permettersi di pagare i prezzi stabiliti da queste aziende.
«Questo è il vaccino del popolo», ha detto il critico aziendale Peter Maybarduk, direttore del programma di Public Citizen’s Access to Medicines . «Gli scienziati federali hanno contribuito ad inventarlo e i contribuenti ne stanno finanziando lo sviluppo... Dovrebbe appartenere all'umanità».

- Michael Roberts - Pubblicato il  25/11/2020 su Michael Roberts blog - Blogging from a Marxist economist -

fonte: Michael Roberts Blog

mercoledì 25 novembre 2020

Il «secondo violino» dell'amico geniale

Il «generale» femminista
- Intuito e limiti di Engels -

di Marcello Musto

Friedrich Engels comprese la centralità della critica dell'economia politica prima di Marx. Quando i due si conobbero, egli aveva pubblicato molti più articoli di quelli dati alle stampe dall'amico destinato a diventare celebre in questa disciplina. Nato in Germania 200 anni fa, il 28 novembre 1820, a Barmen (oggi sobborgo di Wuppertal), era un giovane promettente, al quale il padre, industriale tessile, aveva negato la possibilità di studiare all'università per indirizzarlo alla sua stessa professione. Si era formato da solo, grazie a una vorace fame di sapere e, per evitare conflitti con una famiglia conservatrice e molto religiosa, firmava con uno pseudonimo. Divenne ateo e i due anni trascorsi in Inghilterra, quando ventiduenne fu mandato a lavorare a Manchester nel cotonificio Ermen & Engels, furono decisivi per la maturazione delle sue convinzioni politiche. Fu allora che osservò di persona gli effetti delle privatizzazioni, dello sfruttamento capitalistico sul proletariato e delle concorrenza tra gli individui. Entrò in contatto con il movimento democratico cartista e s'innamorò di un'operaia irlandese, Mary Burns, determinante per la sua formazione. Brillante giornalista, pubblicò in Germania resoconti delle lotte operaie inglesi e scrisse sulla stampa anglofona dei progressi sociali nel continente.
Nel 1845 pubblicò il suo primo libro, "La situazione della classe operaia in Inghilterra". Nel sottotitolo tenne a sottolineare che era stato basato su «osservazioni dirette e fonti autentiche» e che aveva avuto come intento «una necessità imprescindibile per dare solide fondamenta alle teorie socialiste»: la reale conoscenza delle condizioni lavorative e di vita dei proletari. Fu un precursore delle inchieste operaie. Nelle pagine introduttive del suo scritto affermò che la sua realizzazione l'aveva aiutato a «comprendere la realtà della vita» ed espresse il suo riconoscimento verso i lavoratori inglesi che non  l'avevano «mai trattato come uno straniero» né mai discriminato, poiché su di loro non ricadeva la «terribile maledizione dei pregiudizi nazionali». In quello stesso anno, dopo la pubblicazione della "Sacra famiglia", la prima opera scritta assieme a Marx, Engels si recò in Inghilterra con l'amico, al quale ebbe modo di mostrare quanto aveva visto e compreso prima di lui. Marx abbandonò la critica della filosofia post-hegeliana per intraprendere il lungo viaggio che, nel 1867, si sarebbe compiuto con la pubblicazione del Capitale. Poi i due amici scrissero il "Manifesto del partito comunista" (1848) e parteciparono ai moti del biennio 1848-1849 in Germania, terminati con il successo della reazione.
Nel 1849, Engels ritornò in Inghilterra e, come Marx, vi rimase fino alla morte. Divenne il «secondo violino», come lui stesso si definì, e per sostenersi e poter soccorrere l'amico, frequentemente senza lavoro, accettò di dirigere la fabbrica del padre, a Manchester, fino al 1870. Anche durante questo ventennio, però, non smise mai di scrivere. Nel 1850 pubblicò "La guerra dei contadini in Germania", storia delle ribellioni avvenute nel biennio 1524-1525, per mostrare quanto il comportamento della classe media del tempo, fosse stato simile a quello della piccola borghesia durante la rivoluzione del 1848-49 e responsabile delle sconfitte. Redasse, inoltre, quasi la metà dei 500 articoli firmati da Marx per il «New-York Tribune» tra il 1851 e il 1862, raccontando al pubblico americano le guerre in Europa di quel decennio. Non di rado seppe anticiparne alcuni sviluppi e prevedere le strategie militari usate dai fronti in lotta. Ciò gli valse il soprannome con cui era noto a tutti i compagni di partito: «il generale». La sua attività di pubblicista continuò a lungo e le sue "Note sulla guerra franco-prussiana del 1870-71", una cronaca analitica in 60 articoli degli eventi militari che precedettero la Comune di Parigi, uscita sul quotidiano inglese «Pall Mall Gasette», gli procurarono numerosi apprezzamenti e testimoniano la sua perspicacia.
Nel quindicennio che seguì, Engels realizzò i suoi principali contributi teorici, esponendo le sue idee anche attraverso scritti occasionali, per contrastare le tesi di avversari politici all'interno del movimento operaio o fornire delucidazioni in merito a controversie insorte nel dibattito teorico. L'Anti-Dühring, apparso nel 1878, da lui definito l'«esposizione più o meno unitaria del metodo dialettico e della visione comunista del mondo», divenne un riferimento cruciale per la formazione della dottrina marxista. Seppure occorra distinguere tra la polarizzazione compiuta da Engels, in aperta polemica con le scorciatoie semplicistiche in voga allora, e la volgarizzazione operata dalla successiva generazione della socialdemocrazia tedesca, il suo ricorso alle scienze naturali aprì la strada a una concezione evoluzionista dei fenomeni sociali che sminuì la più poliedrica analisi di Marx. "L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza", rielaborazione a fini divulgativa di tre capitoli dell'Anti-Dühring, ebbe ancora maggiore fortuna del testo originario. Nonostante i pregi di questo scritto, che circolò quasi quanto il "Manifesto del partito comunista", le definizioni di «scienza» e «socialismo scientifico» proposte da Engels possono essere considerate come un esempio di autoritarismo epistemologico e furono poi utilizzate dalla vulgata marxista-leninista per precludere ogni discussione critica delle tesi dei «fondatori del comunismo».
La "Dialettica della natura", un progetto rimasto in frammenti al quale Engels lavorò, con numerose interruzioni, dal 1873 al 1883, fu oggetto di una grande diatriba. Per alcuni si trattò della pietra angolare del marxismo, per altri dello scritto reo della nascita del dogmatismo sovietico. Oggi va riletto nella sua incompiutezza, mostrando i limiti di Engels ma anche le potenzialità contenute nella sua critica ecologica. Se il metodo dialettico da lui utilizzato ha certamente semplificato e ridotto la complessità teorica e metodologica di Marx, non è corretto, però, come è stato superficialmente e ingenerosamente osservato in passato, ritenerlo responsabile di tutto quello che non piaceva degli scritti dell'amico e scaricare soltanto sulle sue spalle le cause degli errori teorici e delle sconfitte pratiche.
Nel 1884 Engels pubblicò "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato", un'analisi degli studi antropologici condotti dall'americano Lewis Morgan. Questi aveva scoperto come i rapporti matriarcali fossero anteriori a quelli patriarcali. Per Engels questa rivelazione era importante per la storia delle origini dell'umanità tanto quanto lo erano state la «teoria dell'evoluzione di Darwin per la biologia e la teoria del plusvalore di Marx per l'economia politica». Nella famiglia erano già contenuti gli antagonismi che si sarebbero sviluppati in seguito nella società e nello Stato. Secondo Engels, la prima oppressione di classe comparsa nella storia «coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile». In materia di eguaglianza di genere, così come rispetto alle lotte anticoloniali, non esitò mai a prendere parte e sposò, convintamente, la causa dell'emancipazione.
Nel corso dei 12 anni che sopravvisse a Marx, si dedicò alla pubblicazione del suo lascito e alla direzione del movimento operaio internazionale. Nono solo riuscì a dare alle stampe i manoscritti dei libri Secondo e Terzo del Capitale, ma ristampò diverse riedizioni di opere già note di Marx. Nella nuova introduzione a una di queste, "Le lotte di classe in Francia", composta pochi mesi prima di morire, Engels elaborò una teoria della rivoluzione che si adattava al nuovo scenario europeo. Il proletariato era divenuto maggioranza e la presa del potere per via elettorale, grazie al suffragio universale, avrebbe consentito di difendere, al contempo, la rivoluzione e la legalità. Questo non voleva dire - come suggerito dai socialdemocratici tedeschi, che manipolarono il testo in senso legalitario e riformistico - che la «lotta di strada» non aveva più alcuna funzione. Significava che la rivoluzione non poteva essere pensata senza la partecipazione attiva delle masse e che ciò richiedeva «un lavoro lungo e paziente». Leggendo Engels e osservando lo stato in cui versa oggi il capitalismo, nasce la voglia di ricominciarlo [un simile lavoro].

- Marcello Musto - Pubblicato sulLa Lettura del 22/11/2020 -

martedì 24 novembre 2020

Percorsi

1 - Nel suo libro “Origin of Negative Dialectics”, Susan Buck-Morss  parla del 1931, come di un anno decisivo in cui Horkheimer diventa direttore dell'Istituto di Ricerca Sociale e rende ufficiale la sua lettura hegeliana di Marx (influenzata direttamente dal Lukács di "Storia e Coscienza di Classe") attraversata da Freud. Adorno, da parte sua, invece - continua la Buck-Morss - sebbene rimanga assai vicino ad Horkheimer, va da un'altra parte: anziché sulla « Teoria Sociale », Adorno concentra la sua attenzione sui « Problemi di Filosofia ed Estetica », « in questo l'influenza di Walter Benjamin è stata decisiva ».

2 - A partire dal 1928, Adorno comincia a frequentare regolarmente Benjamin, a Francoforte: una « serie di discussioni teoriche », che per Adorno furono « un punto di svolta », scrive Buck-Morss, la quale sostiene inoltre che a partire dal 1928 la terminologia di Adorno si modifica, assorbendo concetti di Benjamin ( in una lettera ad Adorno del 31 maggio 1935, è lo stesso Benjamin a commentare queste riunioni a Francoforte ). «Per uno come Adorno», continua Buck-Morss, che, « sulla scia di Kraus », vedeva « il linguaggio come una rappresentazione della verità », « una mutazione nel proprio vocabolario assumeva un'importanza teorica di prima grandezza » ( l'unico esempio che viene citato dalla Buck-Morss è quello di un saggio di Adorno del 1928, pubblicato sulla rivista "Moments Musicaux", dal titolo "Schubert").

3 - Inoltre, Buck-Morss cita anche un saggio di Adorno dedicato a Kraus (per l'esattezza, al suo libro del 1902 "Sittlichkeit und Kriminalität") ed incluso nel suo "Note per la letteratura". Secondo Buck-Morss, le tesi di Kraus circa la necessità di indipendenza totale dell'individuo rispetto alla società e allo Stato ( il libro di Kraus tratta in particolare la relazione tra la moralità sessuale e la criminalizzazione giudiziaria ) sono state decisive, e non solo per Adorno ma per la "Scuola di Francoforte" nel suo complesso, con la sua critica globale ed articolata delle tecniche di addomesticamento e controllo degli affetti, dei gesti e dei comportamenti (in altri termini, attraverso Adorno si dà quello che è il collegamento tra Kraus e la Scuola di Francoforte; qualcosa che poi si estende anche a tutto il periodo del dopoguerra, considerando soprattutto il carattere "krausiano" di un libro di Adorno quale "Minima moralia"!

Susan Buck-Morss, Origin of Negative Dialectics, The Free Press, 1979, p. 21, 198.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 23 novembre 2020

L’ultimo soldo


Da un ragazzo in lacrime il signor Keuner volle sapere il motivo della sua pena.

« Avevo messo insieme due soldi per andare al cinema », disse il fanciullo, « poi è arrivato un ragazzo e me ne ha strappato uno di mano ». E indico un ragazzo che si scorgeva a qualche distanza.

« E non hai chiesto aiuto? » chiese il signor Keuner.

« Certo », disse il ragazzo singhiozzando un po' più forte.

« E non ti ha sentito nessuno? » gli chiese quindi il signor Keuner accarezzandolo amorevolmente.

« No », singhiozzò il ragazzo.

« Non riesci a strillare più forte? » domandò il signor Keuner.

« No », disse il ragazzo guardandolo con rinata speranza. Perché il signor Keuner sorrideva.

« Allora dammi anche quest'altro », disse, togliendogli di mano l'ultimo soldo e continuando tranquillamente per la sua strada.

-  Bertolt Brecht -

già pubblicato sul blog il 15/5/2008

domenica 22 novembre 2020

Rassicuratori e complottisti…

Avvertenza: Questo testo è stato scritto collettivamente da alcuni firmatari che si richiamano a delle idee del movimento operaio rivoluzionario al fine di fornire degli argomenti per contrastare l'ondata di complottismo che sale sempre più in molti ambiti, e che purtroppo riguarda anche il nostro. Quanto scritto, compie un'ampia gamma di temi, per poter così fornire una visione d'insieme ed una logica in grado di opporsi ai complottisti e ai loro ragionamenti, e perciò non può entrare nel dettaglio riguardo a tutte le cose cui si riferisce.

Come uno Tsunami, la crisi sanitaria del Covid-19 ha mandato in frantumi tutti gli argini e tutte le dighe umaniste e razionaliste che ritenevamo di avere ricostruito dopo la seconda guerra mondiale. Nel mentre che la pagina "Hydroxychloroquine-Raoult" non è stata ancora chiusa, ecco che a partire dall'11 novembre , un film «inchiesta» realizza un vera e propria «rapina» di ogni pensiero critico... Chi si stupisce del suo successo, in questi ultimi anni ha senza dubbio disertato i social forum. Sono più di vent'anni, tra no-global e 11 settembre che vediamo salire questa marea crescente di complottismo. Noi attaccavamo i Meyssan e gli altri Soral - nemici ideologici chiaramente identificati, ma purtroppo questa deriva non ha risparmiato alcuni militanti del movimento operaio anticapitalista. E a partire dall'inizio dell'anno, ci siamo trovati  a doverci confrontare con dei collegamenti tra questo ambiente complottista e i nostri stessi ranghi. Contro il complottismo, la risposta a breve termine (secondo il modo demistificare/confutare) non è sufficiente. Richiede tempo, è fonte di stanchezza se non si appoggia su un contesto collettivo, e rischia di scontrarsi con un muro di rifiuto di cognitivo, dal momento che le ragioni della fede sono impermeabili alla realtà dei fatti. Ragion per cui, la risposta a lungo termine può essere articolata su due aree:
* un asse educativo che fa riferimento ad un tipo di persona che si sa informare, che è consapevole della complessità delle cose e riconosce il valore del metodo scientifico
* un asse militante che sarà l'oggetto di questo testo.

In sostanza, considereremo gli eventi mediatici Raoult e Hold-Up come due degli esempi attuali del movimento complottista che, da più di 2 secoli, si coniuga con il pensiero reazionario. Il nostro obiettivo è quello di rendere chiari i termini del confronto e, nel nostro piccolo, di fornire alcuni elementi per contribuire ad armare, o a riarmare, coloro i quali si richiamano al movimento operaio rivoluzionario.

Due sintomi importanti di una situazione deteriorata
Didier Raoult e il populismo scientifico
L'inizio dell'epidemia ha visto la comparsa di una figura pubblica che fino a prima era poco conosciuta, se non dai lettori di  Le Point, dove essenzialmente si limitava a pubblicare qualche intervento pubblico su una rubrica sulla salute: Didier Raoult. Non è questo il luogo per entrare nei dettagli dell'analisi critica fattuale dell'episodio medico della Clorochina: le demistificazioni di questo genere sono assai numerose e facilmente accessibili. Chiunque nutra ancora dubbi circa il carattere fraudolento di ciò che ha fatto Didier Raoult e il suo team dell'IHU di Marsiglia può andare vedere qui, o qui. Ma per rendersi conto di quale sia l'ampiezza del fenomeno, forse la cosa migliore è quella di cominciare da questo video qui che, in maniera del tutto semplice mette in fila le dichiarazioni di Didier Raoult a partire dallo scorso mese di febbraio, dove le predizioni errate fanno a gara con le dichiarazioni contraddittorie. Per aver diffuso delle informazioni false, promuovendo come se fossero un rimedio miracoloso quello che era solamente un trattamento senza alcun serio test valido da parte degli esperti, e per aver in questo modo rallentato la ricerca sui possibili trattamenti; Didier Raoult, sul piano strettamente sanitario, ha rappresentato un elemento di molestia, se non un pericolo. Sostanzialmente, la sua battaglia per far credere nelle virtù curative di un trattamento che non ne aveva affatto, lo ha portato a rimettere in discussione i metodi fondamentali della ricerca medica stessa, e a promuovere una forma di empirismo senza principi e senza metodo che domandava alla gente di fidarsi del suo intuito e del potere magico del suo camice bianco e delle sue migliaia di pubblicazioni. Per questo, non riuscendo a convincere la comunità medica, ha organizzato una campagna di opinione attraverso il canale Youtube del suo istituto e per mezzo della sua presenza su dei canali compiacenti. Così facendo ha contribuito ad alimentare delle relazioni malsane tra scienza, media e politica, e a fare emergere, attraverso la rete dei suoi fanatici sostenitori, una forma di populismo scientifico e medico che forse non si era mai visto prima.
Christian Lehmann ha così potuto parlare di lui come del Général Boulanger della medicina, e questo paragone con un movimento composito e prefascista è pertinente. Non  sorprende quindi aver visto Didier Raoult partecipare al lancio della rivista Front Populaire di Michel Onfray, che riunisce non solo i sovranisti, ma anche i complottisti delle due sponde, quelli di sinistra e quelli di destra. La devozione di quelli che hanno creduto ciecamente in Didier Raoult e al suo trattamento tuttavia inefficace, è tipico del populismo, che consiste nel cercare un salvatore supremo, anziché organizzare i lavoratori. E molto spesso, questo salvatore supremo dietro cui si domanda di schierarsi in quanto leader «anti-sistema», è un'emanazione delle élite che dovrebbe combattere. Ed è proprio il caso che riguarda Didier Raoult, un mandarino che incarna le peggiori pratiche padronali della medicina ospedaliera, con il suo IHU che accumula finanziamenti privati e pubblici grazie alle migliaia di pubblicazioni alle quali il capo appone il suo nome, mentre invece non le ha nemmeno lette, e delle quali si vanta facilmente. Il suo successo si basa sulle solide amicizie che coltiva tra il personale politico della sua regione, soprattutto tra coloro che si pongono sul lato destro della scacchiera. Infine, il discorso «rassicurante» di Raoult -  che è consistito nel negare sia la reale pericolosità del virus fin dalla sua comparsa, sia la possibilità del verificarsi di una seconda ondata che comunque ha cominciato a verificarsi in gran parte a partire da Marsiglia - è stato una manna dal cielo per i padroni i quali sono sempre pronti a mettere a rischio i dipendenti facendoli lavorare in delle condizioni di sicurezza inadeguate. «Affollatevi pure sui mezzi pubblici e tornate al lavoro senza preoccupazioni», Didier Raoult ha detto che non ci sarebbe stata una seconda ondata... In ogni caso, se l'epidemia dovesse riprendere, Didier Raoult sa da dove dev'essere distolto lo sguardo e dove invece dev'essere puntato il dito, indicando come principali responsabili del naufragio sanitario nella sua città... gli ebrei e i rom.

Il film Hold-Up
Qui, non torneremo sulla tesi centrale del film, che Raphaël Grably [nel Tweet riprodotto qui sopra] ha riassunto assai bene. Non si cercherà nemmeno di smontarla: è una cosa noiosa farlo, e ci sono delle persone coraggiose che hanno già svolto un tale lavoro. In quanto blockbuster del momento è indubbiamente un successo, evidentemente non certo sulla base dei contenuti, ma nella forma. Gli autori sono stati assai efficaci: un trailer suggestivo, un campagna di affissioni, l'utilizzo di due siti che invitano a fare donazioni, le quali ad oggi sono arrivate a più di 300.000€, da parte di 12.872 persone. Ci sono stati persino alcuni che hanno partecipato alla progettazione del manifesto, chiedendo che logo di Cnews, più conciliante con i «rassicuratori», venisse sostituito da quello di LCI. Naturalmente, in maniera assai mediatica, la maggior parte di questi «rassicuratori» interviene nel film, dove troviamo un cast di individui che sono uno più solforoso dell'altro. Evitiamo di soffermarci su questo, dal momento che altri hanno già esposto  il pedigree di questi personaggi (per esempio qui, e qui). Vista la portata del successo, i principali media sono stati indotti a diffondere degli articoli che smantellassero l'insieme dei punti di vista sostenuti dal film. In realtà, se ne parla dovunque: France culture, Le Parisien, Le Monde, Libération, Huffpost... Ci sono stati anche numerosi collettivi che ne hanno intrapreso uno sputtanamento ed una confutazione punto per punto. Il film è diventato virale, in accordo con quelle che erano le aspettative degli autori. Questi ultimi, evidentemente sono stati aiutati dalle incoerenti reazioni governative riguardo la gestione della crisi sanitaria, per esempio le menzogne sull'utilizzo delle mascherine, la situazione catastrofica negli ospedali, o da una esecrabile comunicazione che ha suscitato equivoci e sfiducia.
«Se tutti i media "mainstream" sono unanimi nel criticare questo film, è di certo segno che è vero», rivendicherebbero a tal proposito i sostenitori... E invece è certo che non lo è: in questa fiction, tutti gli ingredienti sono stati aggiunti per far credere ad un complotto mondiale e ad una gigantesca manipolazione. Ciò che ha permesso a questo film di avere una simile eco, sono stati soprattutto i social network. Il manifesto e il trailer sono stati messi in circolazione ben prima della sua uscita, per mezzo di slogan eclatanti come «siamo 7 miliardi ad essere stati presi in ostaggio», «Ci misuriamo con la responsabilità di aver realizzato un film inattaccabile e il cui obiettivo è quello di raggiungere il maggior numero possibile di persone», oppure evocando delle minacce di censura (valutate l'acquisto del DV, non si sa mai). Questa allettante comunicazione ha inondato i social network, diffondendo queste idee cospiratorie fino a quello che è il nostro campo, vale a dire, quello dei lavoratori. Il casting del film è eloquente per quanto attiene al suo senso politico. Significativamente, i suoi due ideatori, Nicolas Réoutsky e Pierre Barnérias, avevano già realizzato in precedenza dei film sulle esperienze di vita dopo la morte, o sulle apparizioni della Vergine Maria; un po' allo stesso modo in cui Marie-Monique Robin aveva filmato con compiacenza il paranormale, prima di realizzare dei documentari cospirazionisti sulla Monsanto. Qui, secondo Le Poing ritroviamo «dei cattolici tradizionali di estrema destra, tendenza Civitas, creazionisti anti-aborto (Alexandra Henrion-Caude e Valérie Bugault, collaboratrice di TV Libertés, un media di estrema destra), Silvano Trotta, uno Youtubeur pro-Trump che ci spiega come la luna sia artificiale... o l'avvocato sovranista Régis de Castelnau». Altrettanto significativamente, il regista di Hold-Up, Pierre Barnérias, ha partecipato nel 2017, come relatore, ad un incontro pubblico di cattolici integralisti. In quell'occasione celebravano le apparizioni della Vergine, predicendo «la vittoria sul Male del suo Cuore Immacolato» che sarebbe avvenuta dopo una «grande prova» ed una battaglia finale contro «l'ateismo marxista e la Massoneria». Quello che il successo di un simile film - o come quello di un personaggio come Raoult - dimostra, al di là dei soliti ambiti complottisti, è evidentemente la sfiducia nei confronti delle «autorità», ma anche l'angoscia e il sentimento di impotenza di molti degli sfruttati. In mancanza di prospettive politiche e di fiducia nella capacità dei lavoratori di prendere in mano l'organizzazione della società, c'è la tentazione di rivolgersi a teorie che sono assai spesso un vettore di rassegnazione, se non addirittura un crogiolo dell'estrema destra.

Il complottismo, un genere di teoria sempre reazionaria
I meccanismi del pensiero cospirativo, anche se si manifestano sempre più su un «mercato dell'informazione deregolamentato », su cui si può avere un maggior impatto sulla popolazione, non sono affatto nuovi nella storia. Se ci si riferisce all'Occidente medievale cristiano, possiamo vedere come la figura dell'ebreo o della strega pagana potevano essere denunciati in quanto operavano in gruppo a danno degli altri. Nell'Europa del 19° secolo sovvertita dal capitalismo, era ancora agli ebrei che venivano attribuite le malevoli intenzioni, ed un'organizzazione immaginaria, cosa che ha valso loro di essere perseguitati e vittime di ricorrenti violenze, a volte statali, sovente popolari. Per la maggior parte delle volte, si è trattato di figure di emarginati minoritari che sono stati oggetto di narrazioni complottiste che dovevano servire a deviare la collera sociale verso delle vittime espiatorie, in posizione di debolezza nel loro ambiente sociale. Con la Rivoluzione francese, il discorso complottista ha potuto attuare una svolta politica per quel che riguardava il ruolo svolto dalle èlite. La Grande Paura dell'estate 1789 - che vide i contadini spaventati da una diceria che parlava di una repressione nobiliare che sarebbe passata preventivamente all'attacco dei castelli - è stato, nella storia, uno dei rarissimi esempi  in cui voci e dicerie hanno potuto accelerare il corso rivoluzionario delle cose. Questo a causa del fatto che, da allora, la narrazione complottista è stata sempre piuttosto contrassegnata dal lato della Controrivoluzione, a partire dal libro dell'Abbé Barruel, il quale, nel 1797 aveva analizzato la rivoluzione in quanto prodotto di un complotto dei Lumi, dei massoni e, ovviamente, degli Illuminati.
È stato senza dubbio con le tesi complottiste intorno agli attentati dell'11 settembre 2001 che un tale modo di pensare ha conosciuto una rinascita più marcata anche negli ambienti di sinistra. La ricerca di una verità alternativa sull'11 settembre , potrebbe essere ventura fuori come un antimperialismo adulterato; e così abbiamo visto dei gruppi di persone spendere una considerevole energia per spiegare che l'amministrazione Bush aveva essa stessa teleguidato i terroristi che avevano dirottato gli aerei, e che essa stessa aveva anche, per sicurezza, minato le torri del World Trade Center affinché crollassero nel caso che l'incendio consecutivo allo schianto del Boeing non fosse bastato. Pur rendendosi ridicoli agli occhi degli individui razionali, questa energia non è stata spesa, ad esempio, per combattere l'intervento militare in Afghanistan, per il quale questo complotto sarebbe stato il pretesto. Anche lo stalinismo ha contribuito a banalizzare e a rendere ridicoli quei pensieri complottisti che ancora oggi continuano a fare danni: la repressione in Unione Sovietica è stata presentata come se fosse stata un'invenzione degli imperialisti occidentali, i trotzkisti sarebbero stati in combutta con i fascisti, e i movimenti di contestazione negli ex paesi del blocco dell'Est sarebbero sempre stati teleguidati dalla CIA, ecc.
Naturalmente, nella storia recente ci sono stati dei veri e propri complotti, o menzogne fabbricate al fine di giustificare interventi militari o politiche repressive. Si pensi alla strategia della tensione perseguita in Italia negli anni '70 dall'estrema destra, con il supporto di settori del potere statale o dei servizi segreti. Si pensi anche alle menzogne propagandate dal governo degli Stati Uniti per giustificare alcuni interventi, come il caso delle incubatrici in Kuwait nel 1991, o quello delle famose armi di distruzione di massa delle quali Colin Powell sosteneva di aver fornito le prove all'ONU, prima dell'invasione del 2003. Sì, i governi, soprattutto quegli imperialisti, mentono. Ma non hanno certo bisogno di menzogne per agire, e la più parte dei loro attacchi contro i lavoratori e gli oppressi di tutto il mondo vengono fatti alla luce del sole, vengono votati dai parlamenti, giustificati sulla stampa. Non obbediscono ad alcun piano, se non a quello di perpetuare ed aggravare lo sfruttamento. Le teorie cosiddette complottiste sono assai diverse e designano dei responsabili decisamente variabili. Tuttavia, hanno un una cosa in comune: non puntano mai il dito contro il sistema capitalista, e le persone e le istituzioni che lo servono. Ad un'estremità dello spettro, i nemici appaiono essere tanto segreti quanto sfuggenti: sono gli Illuminati, i Rettiliani, in breve, degli esseri la cui vera natura è sconosciuta e che agiscono nell'ombra, come quelli di cui una volta, in passato, si pensava popolassere il mondo: spiriti, demoni, o essere soprannaturali dotati di poteri inaccessibili agli esseri umani, dei quali essi si prendono gioco. All'altra estremità del ventaglio, il complottismo vuole essere più politico e pretende perfino di essere anticapitalistica. Denuncia le multinazionali e, in questo caso, «Big Pharma», che avrebbe fatto scomparire dal mercato un farmaco economico (quello del buon dottor Raoult) per promuovere così i futuri trattamenti costosi, inefficaci se non addirittura pericolosi, che vanno dal Remdisivir ai vaccini. Denuncia anche i governi che sono al loro soldo, a cominciare da quello di Macron, le cui assurde decisioni si basano unicamente sul servire gli interessi dei capitalisti. Che le decisioni del governo Macron, così come quelle di tutti i suoi omologhi, siano dettate dagli interessi dei potenti è ovvio, e sarebbe altrettanto ovviamente assurdo (o illusorio) pretendere il contrario. Di fronte a quella che è la crisi economica più violenta mai attraversata dal sistema capitalistico, tutti i governi del pianeta cercano di far pagare il prezzo alle classi popolari, e a salvaguardare il più possibile i profitti e le fortune borghesi. Ma è proprio qui, su questo punto, che il complottismo non si preoccupa della logica: perché mai dei governi così dediti agli interessi dei ricchi avrebbero volontariamente provocato, o prolungherebbero, una recessione che sta facendo fallire la grande maggioranza delle imprese? Perché avrebbero sacrificato, tra gli altri, i capitalisti del turismo e del trasporto aereo, a vantaggio soltanto dei laboratori farmaceutici? E per parlare di questi ultimi, perché Sanofi, che è il principale venditore di idrossiclorochina in Francia, avrebbe rinunciato a degli enormi profitti al solo scopo di impegnarsi un una gara al vaccino, nella quale ci sono 300 concorrenti che rischiano di fregarlo?
È qui che l'anticapitalismo della cospirazione dimostra che in realtà è solo una facciata. Ben lungi dal mettere sotto accusa tutta la classe borghese e, soprattutto, l'organizzazione sociale che essa dirige, ne persegue solo una frazione di essa, più o meno personalizzata e più o meno occulta, a seconda dei casi. Ragion per cui, il piano machiavellico sarà, a scelta, quello dei laboratori farmaceutici di Bill Gates, di Georges Soros, di Jacques Attali o del Bilderbeg Club. Questi ultimi accusati non si trovano affatto lì per caso: sono esattamente quegli stessi meccanismi che, per più di un secolo, hanno alimentato l'antisemitismo, questo «anticapitalismo degli imbecilli», per parafrasare August Bebel. E ovviamente non è un caso che il movimento complottista sia in gran parte permeabile alle tematiche antisemite.
A prescindere dalla differenze, quelli che si battono per l'emancipazione umana e per i quali questa prospettiva composta il rovesciamento del capitalismo attraverso l'azione cosciente degli sfruttati di tutto il mondo non possono che opporsi a simili deviazioni. Certo, trovandosi di fronte ad un interlocutore individuale, si può scegliere di non insultarlo, e di tentare di convincerlo, piuttosto che aggredirlo. Ma essenzialmente bisogna opporre un'intransigenza assoluta a quelle che sono le tesi complottiste. Persino quando si travestono indossando i colori della protesta, abbiamo a che fare, nella migliore delle ipotesi, con chi vuole rendere innocua tale protesta, e nella peggiore delle ipotesi con chi vuole deviarla verso dei capri espiatori che potrebbero diventare dei bersagli già pronti per dei veri e propri movimenti fascisti. C'è per caso bisogno di ricordare che il partito di Hitler, persino a partire dal suo nome, si richiamava al «socialismo»,  e che nella demagogia dell'estrema destra ritroviamo sciolta in essa anche una forma di anticapitalismo? E perfino oggi, come non accorgersi che negli Stati Uniti gli ambienti influenzati da QAnon e dai suoi deliri sullo «Stato profondo» (quello stesso delirio che qui in Francia viene ripreso da Onfray e dalla sua rivista) sono i più radicali sostenitori di Trump, oltre ad essere i promotori di un'estrema destra che fa uso di metodi muscolari?
Pertanto, le teorie del complotto sono sempre reazionarie ma con degli effetti talvolta contraddittori. La loro caratteristica più comune è quella della smobilitazione. Infatti, che cosa si può fare contro un complotto se non accontentarsi di denunciarlo? In realtà, la teoria del complotto offre a colui che rinuncia alla lotta collettiva, alla lotta di classe, il falso piacere di sentirsi forte di quella che sarebbe la sua penetrante comprensione dei meccanismi nascosti, da solo davanti al suo computer mentre guarda un video su Youtube che poi eventualmente condividerà, in modo da poter così far parte del gruppo dei «sapienti». Le teorie del complotto svolgono perciò un ruolo assai simile a quello che continuano a giocare le religioni: offrono una consolazione (cognitiva) a coloro che hanno rinunciato ad agire su un reale che non comprendono più e che vedono dominato da delle entità superiori. Offrono un'elevazione simbolica, rendendo così gli iniziati in grado di orientarsi in mezzo a queste spiegazioni esoteriche del mondo. E questo è anche il motivo per cui, come la religione, le teorie del complotto sono un vero e proprio "oppio dei popoli", che noi combattiamo. La rivolta che esse propongono, in quanto priva di effetti concreti, fornisce solo una pericolosa consolazione. Nel momento in cui, ora più che mai, «il pensiero umano si trova impantanato nei propri escrementi», bisogna ricordare instancabilmente che «solo la verità è rivoluzionaria»; e che al contrario, per gli sfruttati, non esiste una buona menzogna, e nemmeno una menzogna innocua. Qualsiasi fantasia, sia che attribuisca le cause degli eventi a delle entità cosmiche o a quelle che vivono in questo mondo,  distoglie il proletariato dalla «scienza della sua sventura»,  quando non arriva addirittura a farlo partecipare alla costituzione di forze politiche che sono i suoi nemici più mortali.

I germi dell'attuale situazione nei nostri ambiti
L'emblematica deriva di un sociologo
La presenza di  Monique Pinçon-Charlot (MPC) e i commenti che esprime nel film Hold-Up sono tutt'altro che aneddotici ed evidenziano una visione «anticapitalista» del mondo che non è la nostra:
«In questa guerra di classe, come hanno fatto i nazisti tedeschi durante la seconda, è in atto un olocausto che di certo eliminerà la parte più povera dell'umanità, vale a dire 3 miliardi e 500 milioni di esseri umani dei quali i ricchi non hanno più bisogno per sopravvivere» (alle 2h:33).
In un suo tweet del 13 novembre, MPC si scusa per avere usato la parola «olocausto» (che fra l'altro aveva già usato in più occasioni) senza però mettere in discussione la sostanza della sua riflessione, il cui aspetto problematico non si limita alla presenza di quel termine. Il paragone con il regime nazista non è solo oltraggioso, ma ci parla anche di complottismo e di negazionismo. Equiparare lo sterminio teorizzato e industrializzato degli ebrei e degli zingari al riscaldamento climatico e/o alle morti (dirette e indirette) del Covid-19, significa affermare che i governanti capitalisti avrebbero teorizzato, e volontariamente sviluppato, un sistema industriale che mira allo sterminio di più di 3 miliardi di persone. E dal momento che si tratta, evidentemente, di pura menzogna (ragion per cui, lei non fornisce nei suoi vari scritti alcuna prova in proposito), il paragone equivale quindi a negare la specificità e la portata dei veri genocidi della storia: dei milioni di uomini, donne e bambini perseguitati e sterminati per quello che erano. Questo genere di parallelismo sono purtroppo assai frequenti in seno all'estrema sinistra, in vari ambienti. Si può pensare, in particolare, alle numerose dichiarazioni secondo cui Israele avrebbe fatto ai palestinesi quello che i nazisti fecero agli ebrei durante la seconda guerra mondiale, oppure che le violenze poliziesche (ovviamente gravi) equivalgono al fascismo. I paragoni dubbi e la dissimulazione dei fatti non aiutano certo a comprendere la realtà e ad agire, e qualsiasi riferimento sistematico al fascismo ed al nazismo impedisce, al contrario, di avere presente cosa siano veramente il fascismo e il nazismo. Questo intervento di MPC rivela anche l'evoluzione del lavoro da lei fatto insieme a Michel Pinçon per anni. Secondo le loro parole, il mondo sarebbe diretto da degli «ultra-ricchi» identificati come una «casta» amorale, oppure, ancora, come un'«oligarchia globalizzata», slegata dall'umanità, come se i dominanti «fossero di un'altra razza» e in tutto questo ci fosse «qualcosa di vizioso, di perverso». La vicinanza semantica e storica con quelli che erano gli attributi utilizzati ieri dagli antisemiti per riferirsi all'«ebraismo mondiale cosmopolita», e oggi per designare il «nuovo ordine mondiale», è già in sé problematica. La critica radicale del sistema capitalistica nella sua totalità viene sostituita da una personificazione del capitalismo. Significa ignorare la realtà dei rapporti di alienazione e di dominio intrinseci al capitalismo ed al lavoro salariato. Torniamo infine ad uno degli ultimi aspetti di MPC, che riecheggiano altri discorsi che abbiamo già sentito: grazie ai progressi tecnici e tecnologici, gli «ultra-ricchi» non avrebbero più bisogno di tutti i poveri che ci sono e potrebbero fare a meno di 3 miliardi e mezzo di individui, o secondo MPC addirittura «sterminarli» volontariamente. Questa è un'assurdità e comporta un'ignoranza dei meccanismi capitalistici. La massa dei lavoratori disoccupati, questi «superflui» del sistema capitalistico giocano un ruolo economico di primo piano, come è stato dimostrato da Karl Marx. La «sovrapposizione relativa» in regime capitalistico consente ai proprietari dei mezzi di produzione di imporre ancora più precarietà, di condizionare i salari, esercitando un pressione al rialzo del tasso di sfruttamento, e di aumentare perciò il tasso di profitto. Il capitalismo non cerca di sterminare i poveri: ne ha ha bisogno. Molto più di quanto i poveri abbiano bisogno di esso.

Scienza e Lobby
Negli anni '50, sulla scia della vicenda Lyssenko, gli stalinisti avevano inventato una teoria delle due scienze, che consisteva nell'opporre la «scienza borghese» e la «scienza proletaria». Oggi, a volte si ha come l'impressione che ci sia una rinascita di questa visione del mondo, grazie ad una sorta di opposizione tra «scienza delle multinazionali» e «scienza dei cittadini». Tutto ciò non ha alcun senso. I risultati scientifici non sono più o meno veri a seconda di chi li abbia ottenuti, o addirittura finanziati. Se si vuole davvero opporre due scienze, bisognerebbe allora opporre la «buona scienza», quella che risponde ai migliori criteri metodologici, e la «cattiva scienza», quella dei Raoult, Perronne, Séralini e compagnia bella, quelli che producono degli studi di scarsa qualità che non dimostrano assolutamente niente. Al di là della posta ideologica in gioco, la cattiva scienza si alimenta anche dal predominio della concorrenza generalizzata anche nel mondo scientifico, esemplificato dalla corsa alla pubblicazione, soprattutto in quelle pseudo-riviste dove basta pagare per venire pubblicati, e dalla scelta di alcuni, di imbrogliare a scopo finanziario o di notorietà. Ma, come ha dimostrato l'esempio dell'articolo sull'idrossiclorichina, ritirato dalla rivista The Lancet a causa dei dati fraudolenti forniti dalla società Surgisphére, gli imbrogli vengono spesso smascherati assai velocemente grazie al fuoco della critica nell'ambito della comunità degli esperti.
Naturalmente, le lobby possono anche agire nell'ombra, o perfino alla luce del sole, per influenzare il processo di produzione, o la diffusione delle conoscenze scientifiche. Per esempio, sulla questione del glisofato, si può vedere come, da un lato, la Monsanto abbia tentato di influenzare sottobanco le agenzie specializzate di competenza (il cosiddetto Affaire Monsanto Papers); ma, sull'altro versante, la commissione del CIRC che ha classificato questo prodotto come «probabile agente cancerogeno» contava tra i suoi componenti un «esperto» pagato da uno studio legale che voleva avviare un procedimento legale collettivo (e remunerativo) contro la Monsanto (il cosiddetto Affaire Portier Papers). Tutto questo, per il profano, è ovviamente assai difficile da decifrare. Ma, alla fine, per il cittadino non esiste metodo migliore se vuole chiarirsi le idee, o per il militante rivoluzionario che vuole comprendere e agire, e fidarsi del clima che sta gradualmente emergendo in seno alla comunità scientifica. Le manovre dell'industria del tabacco per nascondere la verità circa il veleno che vende, ha soltanto ritardato l'ineluttabile dimostrazione della nocività della loro attività. Analogamente, malgrado la sua notevole influenza, l'industria del petrolio non ha potuto fare niente per impedire la sempre più crescente presa di coscienza della realtà del riscaldamento climatico e del ruolo di primo piano svolto dalle attività umane. Nessuna lobby riuscirà mai a «nascondere la verità» su un dato argomento, «comprando» tutte le agenzie specializzate del pianeta, mettendo a tacere tutti i suoi oppositori. Di conseguenza, sarà sempre più sensato far riferimento a ciò che dice la comunità di esperti scientifici sull'argomento, piuttosto che riporre la propria fiducia in alcuni indipendenti che cercano, attraverso i titoli delle riviste o i video su Youtube, quella notorietà che difficilmente riuscirebbero ad ottenere nei luoghi dove il sapere scientifico viene prodotto collettivamente e tra gli esperti del sapere scientifico.
Se non lo si fa, finiamo per sviluppare quei modi di pensare che possono essere serviti a costituire il sostrato del complottismo negli ambienti sensibili all'anticapitalismo, ma che si sbagliano nella loro lotta o nel modo di ragionare. Pertanto, abbiamo potuto vedere che il movimento anti-OGM e anti-Monsanto ha finito per riprendere un discorso a volta in diretta opposizione allo stato delle conoscenze scientifiche e, più semplicemente, alla realtà. Ad esempio, si può arrivare perfino a pensare che i supposti suicidi di massa dei contadini indiani siano a causa degli OGM. La figura di Vandana Shiva incarna perfettamente questo genere di deriva che purtroppo riesce a far passare molte delle sue idee reazionarie come anticapitalismo, o come femminismo. Tuttavia, nel momento in cui Vandana Shiva sviluppa delle tesi complottiste sulla pandemia, spiegando che il virus si sarebbe sviluppato a causa dell'alimentazione OGM, a partire dal mangime dato agli animali d'allevamento, e che tutto ciò serve ad «attuare l'agenda sanitaria di Bill Gates», e quando lei sostiene di passaggio l'idea del tutto idiota ed anti-marxiana secondo cui i ricchi non si renderebbero conto che la ricchezza viene prodotta da coloro che essi sfruttano, non è che a quel punto stia andando improvvisamente fuori strada. Al contrario, è del tutto fedele a sé stessa.
Cosa più grave ancora, la diffidenza nei confronti dell'industria farmaceutica, basata su alcuni veri e propri scandali sanitari reali come quello di Mèdiator o quello delle protesi mammarie PIP, ha alimentato  negli ultimi anni il crescente successo di quello che è stato il più immediatamente pericolo e più anti-collettivo di tutti «movimenti di cittadini», quello del rifiuto della vaccinazione. E, oltre a questo, l'attrazione per le medicine cosiddette alternative, la sfiducia sistematica per la medicina scientifica e i suoi «prodotti chimici», hanno alimentato posizioni oscurantiste che si pongono al di fuori di un'opposizione alla logica del profitto dei laboratori farmaceutici.
Ma, a partire da quest'ottica, tutto quanto diventa falso; anziché denunciare la carenza di farmaci causata dall'anarchia capitalistica e dal criterio della redditività finanziaria, questi ambienti denunciano i farmaci in sé stessi. Anziché denunciare le carenze del governo nel garantire una buona copertura vaccinale, puntando ad esempio il dito contro l'insufficiente pianificazione della produzione di vaccini antinfluenzali per quest'inverno, questo movimento invece sta attaccando il principio stesso della vaccinazione, che è comunque una delle forme di medicina tra le più sicure e le più di ausilio. I  movimenti anti-vaccini, che hanno scarso successo anche negli ambienti di estrema destra e tra i sostenitori di Trump, sono la più emblematica incarnazione sia della confusione generale che dell'individualismo oggi dominante. Sono uno dei maggiori pericoli per la società, e soprattutto per i più fragili, e devono essere combattuti ferocemente.
Ciò perché, per difendere per costruire un altro mondo, gli sfruttati hanno bisogno di conoscenza e di razionalità, e non già di ignoranza o di misticismo. La scienza, a cui il marxismo si richiama, è un metodo materialistico. Richiede delle prove e non si accontenta delle argomentazioni fatte d'autorità. Perciò, la validità di un enunciato non dipende da chi lo enuncia o dal suo status sociale: in ciò la scienza è fondamentalmente democratica ed anti-autoritaria. Essa è emancipatrice per l'umanità dal momento che le fornisce i mezzi per poter controllare il suo destino, ed è esattamente questo l'obiettivo del comunismo di fronte alla crisi del capitalismo. Infine, la scienza moderna è diventata una realtà eminentemente collettiva, internazionale e cooperativa, e ciò malgrado gli ostacoli e i freni frapposti dalla concorrenza capitalistica. Nella scienza, da tempo non esiste più il genio solitario, così come non c'è, nella politica, un salvatore supremo.

La critica dei media
La critica semplicistica dei media, costituisce anche uno di quei ponti che collega l'estrema sinistra al complottismo. Non è raro vedere qualcuno ribattere, se lo si contraddice citando un articolo su Le Monde, che siamo degli ingenui a credere alla «stampa dei miliardari» ecc. Tutto ciò ci costringe ad essere ancora più chiari quando parliamo di «media borghesi», «media dominanti», ecc. È un dato di fatto che i media mainstream sono, nella loro grande totalità, proprietà dei grandi gruppi capitalisti. Ma questo che conseguenze ha? Ad essere realmente ingenuo, è immaginare che gli amministratori delegati e gli azionisti controllino meticolosamente ogni articolo pubblicato da migliaia di giornalisti, in modo da poter dare forma al«la verità». Certo, succede che a volte la direzione faccia pressione affinché un articolo che offuschi l'immagine di un azionista non venga pubblicato, oppure che dei giornalisti si auto-censurino per non danneggiare la propria carriera. Ma ci sono molti altri meccanismi per poter limitare questo rischio per l'informazione: il giornalista censurato farà in modo di far trapelare le informazioni che sono state censurate, sul Canard (un media rivale che sarà felice di riprenderle) . Il tentativo di censura amplifica la diffusione (effetto Streisand). Questo non significa che ogni cosa vada per il meglio nel migliore dei mondi possibili, ma che il problema con la stampa borghese, essenzialmente, non proviene dalle informazioni false, Ma piuttosto dal trattamento ideologico dell'informazione: il fatto di evidenziare questa o quell'altra informazione, di interpretarla in un certo modo, di strumentalizzarla al fine di trasmettere un certo messaggio. Le Figaro non costruirà la sua prima pagina allo stesso modo in cui lo fa Libération, mentre Valeurs Actuelles si butterà su un attentato in modo da poter distillare così il suo razzismo, ecc. Quello che ci fa parlare di «stampa borghese», è il fatto che, al di là di quelle che sono le loro differenze, questi media accettano quei presupposti che giustificano il capitalismo: i miti della meritocrazia o del «Trickle-down», l'idea secondo cui non ci sia alternativa alla corsa alla competitività e alle politiche a favore delle imprese, la divisione del pianeta in Stati nazionali... Questo terreno ideologico comune non è frutto di un conclave segreto dei capitalisti che si sono messi d'accordo sulla loro propaganda. bensì il frutto della vita sociale dei dominanti. I grandi giornalisti (i presentatori televisivi, gli «editocrati») frequentano tutti lo stesso ambiente dei politici e dei padroni, condividono le medesime idee, quelle comode idee che li rendono «l'élite illuminata», e che secondo loro meritano la loro posizione sociale. E bisogna capire  che tutto questo può funzionare solo perché c'è un numero sufficiente di persone negli strati sociali intermedi, ma anche nella classe operaia, che sono convinte della validità di quelle affermazioni, o non vedono alternative. Per sviluppare tali alternative, abbiamo bisogno della stampa militante. Una stampa che metta in evidenza le lotte della nostra classe, ne mostri il loro potenziale, utilizzi i dati sociologici ed economici che sottolineano il problema di questo sistema, e tratteggino un'alternativa rivoluzionaria. Una prospettiva che per convincere non ha alcun bisogno di inventare dei «fatti alternativi».
I media sono, in un certo senso, delle imprese capitalistiche «come le altre», che operano su un mercato e che devono conquistare delle quote, soprattutto per poter attrarre la manna pubblicitaria. Questa ricerca di un pubblico o di un'udienza di lettori al prezzo più basso, in vista del massimo beneficio, pesa negativamente sulla qualità dell'informazione e del dibattito intellettuale, che sempre più spesso si presenta sotto forma di finti «scontri» inscenati o di pseudo «faccia a faccia», che mettono in competizione delle persone che generalmente sono di fatto d'accordo sull'essenziale (il carattere insuperabile del capitalismo). Durante la pandemia, questa pratica di informazione-spettacolo è riuscita ad alimentare il complottismo, presentando i dibattiti sotto l'angolatura di essere «per o contro la clorochina?», mentre la vera domanda posta dalla situazione era piuttosto: «possiamo permetterci di non rispettare né il metodo scientifico, né l'etica medica, per riuscire a far credere, senza prove, all'esistenza di una soluzione immediata?». La crisi sanitaria ha anche permesso di misurare il grave deficit all'interno della redazione dei giornalisti specializzati in scienze, cosa che fa luce su quale sia la prassi abituale dei media, la quale consiste nel dare una tribuna ed una legittimità smisurata a degli intervenuti marginali o screditati nel mondo della scienza: Claude Allègre sul clima, Gilles-Eric Séralini sugli OGM, Générations Futures sui pesticidi, ecc. Ci si può sempre lamentare della credulità «delle persone», ma come ci si può meravigliare del fatto che una parte crescente del pubblico abbia potuto credere che il 5G fosse responsabile della diffusione del virus o di qualche altra calamità legata alla pandemia, quando associazioni come Robin des Toits, o un personaggio come Michéle Rivasi hanno potuto apparire a lungo su delle televisioni o su dei giornali come degli interlocutori credibili per quel che riguarda le onde elettro-magnetiche, a volte perfino al posto di autentici esperti dell'argomento? E durante la pandemia, i media hanno dato con compiacenza ed abbondanza la parola a dei «rassicuratori» come Didier Raoult, Jean Dominique Michel, Laurent Toubiana o Jean-François Toussaint, anche se non rappresentano affatto il consesso scientifico che si stava formando, e nonostante il fatto che le loro previsioni venivano, una dopo l'altra, contraddette dalla realtà.

A mo' di conclusione
Il successo di Hold-Up è legato alle nostre carenze: assenza di critica scientifica del funzionamento del capitalismo e delle sue crisi (in particolare quella sanitaria), e mancanza di una risposta politica a questa crisi. Peggio ancora, una parte della sinistra ha talvolta alimentato queste logiche complottiste, sia direttamente (OGM, pesticidi, vaccini), sia indirettamente (per esempio diffondendo un'ideologia populista-protezionista venata di antisemitismo del tipo «il buon popolo francese ingannato dalle élite globalizzate»). Analogamente, il successo di un libro come quello di Juan Branco, che ci spiega tutto attraverso le manovre di alcuni dei personaggi più potenti, crea un terreno favorevole ad una comprensione delle decisioni politiche in termini unicamente di complotto delle élite. Il primo passo per combattere contro questo male che si è troppo diffuso nella nostra classe - e che consiste nella tendenza ad una comprensione complottista del mondo (se non addirittura l'esplicita adesione alle teorie cospirative) - è quello di una comprensione materialistica della società capitalista, e la promozione di un programma di lotte mobilitanti.
Per quanto riguarda la crisi del Covid, la mancanza di comprensione dei fenomeni di concorrenza nel capitalismo spinge la popolazione alla diffidenza, ad esempio circa i vaccini. È vero che non è stato fatto niente per ripristinare la fiducia, né la concorrenza tra i laboratori, né il colpo di stato da parte del CEO della Pfizer che ha venduto 5,6 milioni di azioni della sua impresa nel giorno in cui ha annunciato i buoni risultati delle prove del suo vaccino contro il coronavirus. Nel capitalismo, una disgrazia è sempre un beneficio per qualcun altro, ed esistono si i profittatori di epidemie che i profittatori di guerra , cosa che rende per tutti assai difficile che cosa fare per conto proprio.
Eppure è chiaro che il successo del complottismo non dipende unicamente dalla responsabilità della sinistra. Innanzitutto, perché la «fake news» è una strategia consapevole dell'estrema destra (quanto veleno sull'immigrazione o sull'insegnamento dell'omosessualità nelle scuole diffuse dai loro militanti?), e anche nel caso che la sinistra fosse irreprensibile dal punto di vista ideologico, ciò non ridurrebbe la necessità di combattere la diffusione del veleno. Questa strategia consapevole e paziente dell'estrema destra andrò necessariamente incontro a dei successi, ma dei successi che verranno limitati dalle nostre risposte.
In secondo luogo, perché il governo ha un'immensa responsabilità per quel che riguarda il successo di un film come Hold-Up: la sua offensiva anti-sociale (pensioni, abolizione dell'Imposta di Solidarietà sui Patrimoni, emergenza salariale...) esprime tutta la sua ostilità viscerale nei confronti dei lavoratori. E questo è vero soprattutto quando, allo stesso tempo, tenta di mettere a tacere ogni critica (legge sulla sicurezza globale, omicidi commessi da agenti di polizia completamente coperti, lotta contro le fake news a partire dalla tentazione di controllare l'informazione...), il che crea una situazione dove è complicato per tutti districarsi tra il vero ed il falso, e dove diventa fin troppo allettante pensare che «ci nascondono tutto, non ci dicono nulla». Una vera critica anticapitalistica del governo è l'esatto contrario di quella messa in atto dai complottisti: il problema non è che il governo fa troppo contro l'epidemia, il problema è piuttosto che non fa abbastanza, che si trova sopraffatto dagli eventi, non potendo o non volendo prendere in mano il funzionamento dell'economia in tempi di crisi. Il problema non è che controlla tutto e tutti, ma piuttosto che non controlla niente, non prevede niente, non pianifica niente. Per poter respingere il complottismo, abbiamo bisogno di una società in cui la salute venga automaticamente prima del profitto, una società in cui il necessario rallentamento della macchina economica non si traduca meccanicamente nell'aumento della disoccupazione, in un peggioramento delle condizioni lavorative, nel rafforzamento dell'austerità e nel fallimento dei piccoli commercianti. Una società di responsabilità collettiva, in cui la crisi non giovi a nessuno: Abbiamo urgentemente bisogno di una società socialista, egualitaria, libera dallo sfruttamento. Su questa strada dove «l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi», questi avranno bisogno della scienza, di quella della natura così come di quella della società, e non di salvatori supremi o di illuminati portatori di pseudo rivelazioni. Ecco perché i complottisti e la loro propaganda sono i nostri avversari e noi li combattiamo.

Ludo Arberet, syndicaliste en milieu rural
Christophe Darmangeat, blog La Hutte des Classes
Greg, Dubamix
Olivier Grosos, syndicaliste en milieu éducatif
Yann Kindo, blog La Faucille et le Labo

fonte: La Hutte des Classes