martedì 17 novembre 2020

Strettoie

«Chi si allontana dal gruppo è preda del falco» recita un proverbio del popolo ashanti: il mondo è crudele e i forti hanno sempre oppresso i deboli con la violenza. In assenza di un’autorità centrale l’unica protezione è rifugiarsi in una gabbia – spesso opprimente – di norme, tradizioni e alleanze tra clan. Viceversa, uno Stato forte può proteggere gli individui, ma rischia di mutarsi in un mostro, in una dittatura oppressiva.  Per gran parte della storia umana, in ogni luogo e tempo, la libertà non è stata qualcosa di scontato e naturale, ma una conquista sofferta ottenuta solo imboccando una vera e propria strettoia. Questo corridoio virtuoso esiste quando i poteri dello Stato e della società sono in equilibrio: quando le istituzioni sono forti, in grado di fornire servizi e far rispettare le leggi; e quando, al tempo stesso, i cittadini hanno la capacità di tenere sotto controllo e chiamare in causa le autorità. La strettoia analizza il modo in cui le nazioni sono riuscite a bilanciare queste due forze in equilibrio precario. Ripercorre la via attraverso cui alcune sono entrate nel corridoio della libertà e altre ne sono rimaste fuori o ne sono dolorosamente uscite. Esplora la storia della democrazia in Grecia, della nascita degli Stati Uniti e di quella delle nazioni create da Maometto e Shaka a partire da terre e popoli divisi. Traccia le origini di un’Europa dai molteplici centri di potere e di una Cina dominata da un’autorità centrale, con i loro percorsi drammaticamente diversi. Indaga le radici del fallimento di molte rivoluzioni nel Medio Oriente e delle speranze per il futuro dell’Africa. Dopo il best seller Perché le nazioni falliscono, Acemoglu e Robinson aggiungono un nuovo tassello fondamentale al loro grande mosaico che ritrae la storia delle società umane. E ci ricordano, oggi più che mai, che la libertà non è dovuta, ma è una vittoria che dipende da un fragile equilibrio di forze, in bilico tra il caos e l’oppressione.

(dal risvolto di copertina di: Daron Acemoglu - James Robinson, "La strettoia. Come le nazioni possono essere libere". Il Saggiatore)

Alla conquista della libertà
- di Alberto Orioli -

C'è una pedagogia civile, cui siamo avvezzi, secondo cui lo Stato esercita un controllo sulla società, con regole e disciplinari che diventano istituzioni e si fanno via via cultura. Acme - e al tempo stesso fondamento di questa costruzione - è l'uso legittimo ed esclusivo della forza come ultima istanza garantita allo Stato per evitare forma di devianza e sopruso. A Daron Agemoclu e James A. Robinson questa primazia statuale non piace. E rovesciano il paradigma con le 800 pagine de "La strettoia" per dimostrare proprio il contrario: che è la pressione della società, nella continua ricerca di nuove articolazioni del potere, a dare legittimazione e vitalità all'idea di Stato, in una perenne situazione di competizione. E più è forte la dialettica, più è forte lo Stato. Più forte diventa la consapevolezza del valore dei comportamenti collettivi, più si evita la supremazia delle élite, alle quali i due autori non attribuiscono un ruolo guida utile. Tema contemporaneo se si guarda, ad esempio, al peso crescente del movimento "Black lives matter" e all'influenza che ha avuto nella corsa alla presidenza americana. Ma anche tema del '900, secolo della mistica della contrapposizione tra movimenti e Stato culminato con il '68.
La pedagogia civile continua con «lo Stato siamo noi». Ma è anche vero che «la società siamo noi». È qui la strettoia, in questa doppia identità. Qui si pratica l'esercizio della libertà, vero oggetto dell'analisi del volume che risponde ad una domanda cruciale: perché la libertà è così rara nella storia dell'umanità? Una domanda epocale, così come é stata epocale a cui Acemoglu e Robinson hanno risposto con il loro precedente best seller "Perché le nazioni falliscono".
Lo Stato forte è bastione contro la violenza, motore per l'azione del controllo e del rispetto delle leggi, agenzia per la fornitura dei servizi essenziali per la propria comunità. La società forte è quella che esercita un continuo presidio di verifica e di stimolo verso il potere. Solo così il sistema dei controlli e dei contrappesi rende proficuo l'esercizio della libertà ed evita che «le costituzioni e le garanzie non valgono molto di più della pergamena su cui sono scritte».
L'idea della pergamena ci porta nel cuore della modalità narrativa di Acemoglu e Robinson che rimanda ai miti e alla cultura delle leggende, antiche e contemporanee, con una tavolozza straordinariamente globale, dalla Grecia di Solone arconte all'India delle caste dell'Arthashastra, il trattato sull'arte del governo del 324 avanti Cristo, dagli Usa di Tocqueville a quelli di Trump. E con arditi gemellaggi come quello tra Shevardnadze e Maometto «chiamati entrambi da fuori» per risolvere conflitti interni e citati quali esempi della volontà di potenza positiva e insopprimibile.
È questo il mondo caleidoscopico dei due autori. Si parte dal «problema di Gilgamesh», vale a dire l'esigenza di porre sotto controllo l'autorità e il potere di uno Stato in modo da averne solo gli aspetti positivi e non quelli negativi. Cosa che si realizza con un Doppelganger, vale a dire grazie a un "doppio", in sostanza un sistema di controlli e contrappesi che fin dall'epopea di Gilgamesh, il primo re di Uruk, la prima città sumera e forse la prima vera città conosciuta risalente a 4.200 anni fa, era il cuore di quel poema. La soluzione fu trovata in un brillante escamotage: affiancare a Gilgamesh, disinvolto e arrogante, un alter ego, Endiku, destinato a contrastarlo (salvo poi venire a patti in una cospirazione congiunta, ma questa diventa un'altra storia). È in nuce il primo tentativo di creare un sistema di check and balance la cui radice resterà, secondo i due autori, anche nella costruzione del modello di governance americano, quello che farà dire a James Madison, uno dei padri degli Stati Uniti d'America, che «all'ambizione bisogna opporre l'ambizione». Anche se non aveva immaginato la difficoltà del confronto quando l'ambizione diventa egolatria.
Questa carrellata sugli intrecci tra politica e libertà ha un ispiratore: Thomas Hobbes. Più spettro che padre nobile. Viene evocato soprattutto per la suggestione del suo Leviatano, il mostro marino della Bibbia, la rappresentazione dello Stato per antonomasia. Lo Stato immanente che controlla la comunità tramite esercito, burocrazia e potere di fare le leggi. Acemoglu e Robinson non usano l'intuizione hobbesiana per declinarla con alcune specifiche. quella del Leviatano assente dove regna l'anarchia, fenomeno che ha accompagnato a lungo la storia dell'umanità o quella dove le regole sono di clan o di etnia (come nel caso dei tiv della Nigeria precoloniale); l'altra del Leviatano dispotico dove lo Stato prevarica i diritti dei cittadini, nega le comunità e soffoca la società ( e quindi i due autori spaziano da Lagos, alla Siria, dalla storia della Cina a quella del Reich) e, infine, la terza opzione del Leviatano incatenato. È la soluzione auspicata come ottimale ed è quella della «strettoia», luogo d'elezione per l'esercizio della libertà tramite la partecipazione della società alla politica. Ridurre in catene il Leviatano è così l'unico modo per togliere i ceppi ai nostri diritti.
Nonostante lo sguardo dei due autori abbia come orizzonte il mondo, l'esempio di massima virtuosità politica, vale a dire di migliore Leviatano incatenato, è sotto i nostri occhi. È il frutto del connubio positivo tra le istituzioni e le normative partecipative create dal basso dalla cultura germanica con le tradizioni burocratiche e giuridiche centralizzate proprie dell'Impero Romano, sfociate in un equilibrio unico e ottimale. Era il tempo in cui le tribù dei barbari invadevano ciò che restava dell'Impero d'Occidente. E quell'incontro, più spesso scontro, ha creato la strettoia ideale della libertà. Ed ecco la rilettura della storia fatta dai due autori: non il mito della Magna Charta e dei parlamenti del XIII secolo, ma quella contaminazione avvenuta 4 secoli prima.
Vien da pensare che oggi la nuova strettoia sia il braccio di mare che chiamiamo Mediterraneo, quello dove Fernand Braudel faceva unire il «tempo geografico» e il «tempo sociale» per descrivere che siamo oggi. Gli storici di domani ci diranno se gli incontri e gli scontri contemporanei avranno portato una nuova definizione di libertà. E se quella strettoia fisica sarà diventata anche strettoia politica.

- Alberto Orioli - Pubblicato sul Sole dell'8/11/2020 -

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