mercoledì 30 novembre 2022

Numeri & Gioventù !!

Nel romanzo "Lessons", la voce narrante, che poi è quella di Ian McEwan, inserisce - a intermittenza - tutta una serie di commenti sulle opere letterarie: così dopo aver saputo che Roland, il protagonista, «He had loved “Youth” when he was fourteen, a time when he rarely wanted to read anything». Insomma, di "Gioventù", di Joseph Conrad, se n'era innamorato quando aveva solamente quattordici anni, un'età, quella, in cui raramente si vuol leggere qualcosa... E così, dichiarando pertanto che il racconto di Conrad è riuscito a superare quella che era stata la precedente barriera delle "abitudini di lettura" (o della loro mancanza) del ragazzo; vediamo perciò che così facendo, in tal senso, anche McEwan si inserisce nella lunga lista dei lettori di Conrad, i quali a loro volta lo hanno incorporato nella propria narrativa: Sebald ne "Gli anelli di Saturno"; Piglia ne "La via di Ida"; Borges in "Manuscrito hallado en un libro de Joseph Conrad"). In “Lessons”, tutto comincia a partire da una scena di lettura: «Il libro tenuto con entrambe le mani, come se fosse un breviario, aperto alla prima pagina, si accomodò sulla sedia più vicina e non si mosse per un'ora» (p. 133).

Il tempo passa, e nella lettura ci si dimentica di tutto: per un’ora intera non si è mosso. Il modo in cui il libro viene maneggiato evoca la preghiera, lo stordimento e la riverenza; come avviene per Hegel e per la sua «preghiera mattutina» che si svolge con la lettura del giornale. «È Marlow, l'alter ego di Conrad, colui che racconta la storia, e questa è la sua prima apparizione. Diventato poi famoso, gli racconterà anche "Cuore di tenebra", la prossima storia nel volume». La "giovinezza" di cui Conrad parla per mezzo di Marlow viene così ripresa da McEwan attraverso Roland: «È il demonio, la giovinezza, che lo sostiene. Curiosa, ostinata, feroce nella sua fame di esperienza. "Ah! Giovinezza!" è il ritornello della storia» (p. 134).

E nella scena della lettura di McEwan c'è anche il richiamo a una scena di lettura che si trova in Conrad: Marlow che legge Byron: «La nave imbarca acqua, l'equipaggio la pompa per ore, ma è costretto a tornare a Falmouth. (...) Il giovane Marlow ottiene una licenza, va a Londra, torna con le opere complete di Byron». Byron è nato nel 1788; Conrad nel 1857; McEwan nel 1948. "Gioventù" venne pubblicato per la prima volta nel 1898; Marlow dice che la storia è ambientata 22 anni prima, quando lui aveva 20 anni. Falmouth dista 475 chilometri da Londra.

- Ian McEwan, Lessons. Alfred A. Kopf. New York 2022 - Non ancora tradotto e pubblicato in Italia -

fonte: Um túnel no fim da luz

martedì 29 novembre 2022

Da soli …

Sembra che nessuno voglia sapere che la storia contemporanea ha creato una nuova specie di esseri umani - quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici. Viene pubblicato qui, in una nuova edizione italiana che ne restituisce tutto il suo carattere dirompente, il celebre saggio Noi rifugiati. Hannah Arendt lo scrisse di getto nel 1943, a due anni dal suo arrivo a New York. Testimonianza esistenziale di un’apolide d’eccezione, ma anche primo manifesto politico sulla migrazione, è una lettura indispensabile per orientarsi nello scenario politico attuale, dove è andata aumentando la massa di coloro che, presi tra le frontiere nazionali, vengono considerati corpi estranei, rifiuti ingombranti. Che ne è dell’accoglienza? E della partecipazione al mondo comune? Ricostruisce la lezione di Arendt, e riflette sui diritti umani dei rifugiati, il saggio conclusivo di Donatella Di Cesare. Gli Stati nazionali continuano a discriminare e respingere, mentre si moltiplicano i campi di internamento e le zone di transito a cui, nelle periferie dell’ordine mondiale, sono consegnati gli esseri umani ritenuti «superflui».

(dal risvolto di copertina di: HANNAH ARENDT, Noi rifugiati. A cura di Donatella Di Cesare EINAUDI, Pagine 100, €12)

La filosofia dei rifugiati
- di Carlo Bordoni -

Che cosa pensano i rifugiati? C'è un documento di straordinario valore umano che apre uno spiraglio di comprensione. L'ha scritto ottant'anni fa una donna, un’ebrea, scampata alla Shoah e riparata negli Stati Uniti. Hannah Arendt (1906-1975), una tra le filosofe più importanti del Novecento, autrice, tra l’altro, di testi come Le origini del totalitarismo (1951), Vita activa (1958) e La banalità del male (1963). Il documento s’intitola Noi rifugiati (Einaudi) ed è curato da Donatella Di Cesare, un’altra donna, anche lei ebrea e filosofa, che accompagna le parole della Arendt con un appassionato testo di approfondimento, Hannah Arendt e i diritti dei rifugiati, a completare il volume. L’esperienza della migrazione è devastante; lo è ancora di più se avvenuta durante il nazismo. Hannah Arendt è fuggita dalla Germania nel 1933, al momento della salita al potere di Hitler, ha riparato in Francia, dove è stata considerata «straniero indesiderabile» e, al momento dell’invasione nazista, internata nel campo di Gurs, nei Pirenei. Fuggita attraverso la Svizzera, l’Italia e la Spagna, ha riparato a Lisbona, per poi raggiungere gli Stati Uniti nel 1941. Privata della cittadinanza tedesca, ha vissuto a New York come apolide fino al 1951, quando ha ottenuto finalmente la cittadinanza americana. Senza patria, perché la vita dei rifugiati è segnata da incertezze, pericoli, difficoltà. La devastazione fisica e psicologica prodotta dallo sradicamento forzato (che in alcuni ha spinto al suicidio) è registrata qui, in Noi rifugiati, lucida denuncia politica che ha la coralità di una testimonianza collettiva, in nome di tutti i perseguitati. Pubblicato nel 1943 sul «Menorah Journal», appena due anni dopo il suo arrivo a New York, fu accolto — come sottolinea Di Cesare — da un assordante silenzio, benché fosse rivolto esplicitamente agli ebrei americani. L’assenza di partecipazione aggrava il clima che circonda i nuovi arrivati, con una presa di distanza che li fa sentire di nuovo intrusi.

«Non vogliamo essere rifugiati — scrive Arendt, non senza ironia — perché non vogliamo essere ebrei». Esserlo significa sentirsi diversi, un corpo estraneo nella società, e per cercare l’accettazione è necessario rinunciare alla propria identità, diventare persone comuni mescolate tra la folla. La perdita volontaria dell’identità si unisce alla perdita della cultura di origine, dei legami sociali, della lingua, dei colori e dei sapori della quotidianità. Sempre con il timore di essere additati, sospettati, denunciati. Il sociologo Gianfranco Bettin Lattes segnalava come i suoi correligionari spesso mantenessero un atteggiamento curvo e defilato, quasi affetti da un senso di colpa mai risolto. Perché il bisogno interiore dei rifugiati si traduce in una brutta parola: assimilazione. Qualcosa che esprime la necessità di una perdita, di una rinuncia, di una sottomissione per poter continuare a esistere. È la stessa sensazione espressa da un altro grande pensatore, Zygmunt Bauman, migrante con un percorso speculare rispetto ad Hannah Arendt, fuggito dall’antisemitismo sovietico, attraverso Israele, per approdare a Leeds, in Inghilterra. «Essere in esilio — scrive Bauman in un testo del 1996, Assimilation into Exilesignifica essere fuori luogo. L’esilio è un confino obbligato ma anche un posto irreale, esso stesso fuori luogo rispetto all’ordine delle cose. Dove può capitare di tutto ma non si può fare nulla. Ciò che rende l’esilio un luogo irreale è lo sforzo quotidiano di renderlo reale, cioè ripulirlo di tutte quelle cose che lo rendono irreale. In esilio si vuole smettere di essere in esilio. Si vuole essere come chiunque altro».

Donatella Di Cesare estende la denuncia oltre i limiti temporali della Shoah. Ne fa un manifesto a difesa degli indesiderati a cui viene negato il diritto di abitare il mondo. Questo perché il fenomeno delle migrazioni è in aumento: interessa ormai decine di milioni di persone, quasi un continente che si sposta da una parte all’altra della Terra, con un movimento incessante e silenzioso. Forse siamo all’alba di una nuova grande mutazione delle abitudini sociali, che recupera l’antica vocazione umana al nomadismo, dopo secoli di stanzialità. Non solo a causa di persecuzioni, ma per i motivi più disparati, che vanno dalla fame alla necessità di trovare lavoro. Ma con una grande differenza rispetto al passato, quando a muoversi erano gruppi consistenti, intere comunità, spinte da motivazioni climatiche, economiche o politiche. Lo facevano in massa, veri esodi, trasferendo altrove la loro cultura, cercando di ricreare nei nuovi spazi le stesse attività tradizionali e la continuità quotidiana. Erano spostamenti «protetti», perché accompagnati dal calore della comunità. Adesso le migrazioni sono perlopiù in solitaria, in coppia o in piccoli gruppi, talvolta assieme a sconosciuti, con l’ansia di dovere affrontare luoghi e persone ostili senza alcuna protezione. Abbiamo assistito impotenti al disgregarsi del diritto all’ospitalità, una conquista di civiltà che aveva impiegato tempo per affermarsi ed è sancita dalla Convenzione di Ginevra con il principio del non-refoulement, del non-respingimento di chi arriva da un altro Paese. Abituati come siamo a osservare il problema dall’altra parte, non ci rendiamo conto di che cosa significhi lasciare per sempre la propria casa e ricominciare da capo. I motivi — inutile dirlo — sono legati alla modernità, alla separazione dei territori da abitare, alle divisioni territoriali, al tracciamento dei confini tra uno Stato e l’altro, tra una nazione e l’altra. Un’idea essenzialmente moderna, stabilita dalla pace di Vestfalia del 1648, che ha messo fine alle estenuanti guerre di religione. Le grandi nazioni si sono chiuse dentro i loro confini, appellandosi al principio del «sangue e del suolo» (Blut und Boden), che è alla base di ogni odiosa discriminazione e che sancisce il diritto di nascita.

- Carlo Bordoni - Pubblicato su La Lettura del 2/10/2022 -

lunedì 28 novembre 2022

Per i rifugiati? Zone di Deportazione !!

L’escalation imperialista di Erdogan
- I retroscena degli ultimi attacchi dello Stato turco alla regione autonoma curda del Rojava -
di Tomasz Konicz

Sembra che il momento per porre in atto una nuova guerra di aggressione da parte della Turchia, membro della NATO, sia propizio. Approfittando del poco chiaro attentato sventato a Istanbul [*1], da giorni l'aviazione turca sta attaccando le regioni autonome curde del Rojava, nel nord della Siria, dove decine di persone sono rimaste vittime di attacchi aerei [*2]. Nel frattempo, il governo turco minaccia apertamente di lanciare una nuova offensiva contro il Rojava: dopo l'invasione di Afrin, avvenuta nel 2018, e l'accaparramento di terre nell'ottobre 2019, ora si tratterebbe della terza guerra di aggressione dello Stato turco contro la regione autonoma. A tal proposito, la Turchia - con la tolleranza, se non addirittura il sostegno dell'Occidente e di Berlino [*3] - sta portando avanti una politica di pulizia etnica [*4] , a seguito della quale centinaia di migliaia di curdi vengono deportati al fine di colonizzare questa regione cuscinetto per mezzo di milizie islamiste siriane. In aggiunta, Ankara ha anche ripetutamente sottolineato che i rifugiati siriani, i quali attualmente vivono in Turchia, dovrebbero essere deportati in queste aree conquistate e controllate dagli islamisti. La Turchia vuole pertanto annientare completamente il Rojava, conquistare il nord della Siria e usare la pulizia etnica al fine di gestire questa regione come «zona di deportazione» per i rifugiati. Gli ultimi attacchi al Rojava costituiscono solo l'attuale fase di escalation della lunga guerra della Turchia contro il movimento di liberazione curdo; guerra che viene ostinatamente ignorata dall'opinione pubblica occidentale, soprattutto dalla Germania, partner stretto della Turchia. Le forze armate turche si sono spinte in profondità nel nord dell'Iraq, dove stanno contrastando le zone in cui è incorso la ritirata della guerriglia curda del PKK. Sembra che l'esercito turco stia usando armi di distruzione di massa, soprattutto gas velenosi, per attaccare i sopravvissuti al genocidio dello "Stato Islamico" e gli yazidi nei loro campi profughi e villaggi (maggiori dettagli nel prossimo Konkret, 12/2022).

L'attentato di Istanbul: molte domande senza risposta.
La bomba scoppiata a Istanbul, che a metà novembre ha ucciso sei persone, solleva molti interrogativi. Il PKK, e i curdi in Siria hanno preso chiaramente le distanze da questo attacco terroristico. Secondo le ultime notizie, la presunta assassina esibita davanti al pubblico è la sorella di un alto comandante della milizia siriana SNA, la quale gode dell'ampio sostegno della Turchia [*5]. Questa milizia esercita de facto il suo controllo sul territorio nelle regioni occupate dalla Turchia nel nord della Siria. Di fronte a queste evidenti contraddizioni, il partito di opposizione turco HDP ha parlato di «decine di domande senza risposta, e di incongruenze» [*6]. Secondo i portavoce dell'HDP, l'impressione è quella di un attacco terroristico che serva a legittimare gli «attacchi e la politica di guerra» della Turchia contro il Rojava.

La politica di navetta geopolitica svolta da Erdogan
L'attuale costellazione geopolitica è favorevole a che Erdogan possa dare inizio a un nuovo ciclo di pulizia etnica. La Turchia rappresenta un fattore importante nella guerra per l'Ucraina, dove Erdogan, nel suo costituire un elemento di bilanciamento geopolitico, sta cooperando sia con Mosca che con l'Occidente, cercando di trarre profitto da entrambi i lati del fronte [*7]. La Turchia, che fornisce droni a Kiev, vuole cooperare con la Russia sulla politica energetica per poter così diventare un centro energetico regionale. Ankara è anche il garante dell'accordo sul grano in Ucraina. Poco prima dell'attuale escalation, la Turchia ha persino normalizzato le sue relazioni con Israele. L'Occidente e Mosca hanno semplicemente "bisogno" di Erdogan riguardo la guerra in Oriente, mentre Berlino, in quanto tradizionale alleato del regime turco, difficilmente eserciterà pressioni su Erdogan. Pertanto, Erdogan utilizza le leve geopolitiche del potere che gli sono state date, per promuovere la sua politica imperialista. Gli attacchi aerei della Turchia contro il Rojava non sarebbero possibili senza il consenso della Russia, della NATO e degli Stati Uniti.

Cooperazione anti-curda tra Teheran e Ankara?
Quella che è attualmente in atto, de facto, è una cooperazione assassina - non ufficiale? - tra i regimi di Ankara e di Teheran, diretta contro le minoranza curde presenti nella regione [*8]. Mentre le forze aeree turche bombardano il Rojava e l'esercito di Erdogan conduce la sua guerra sporca nel nord dell'Iraq, le truppe iraniane attaccano i loro obiettivi nella regione curda dell'Iraq nord-orientale [*9] al fine di indebolire il movimento curdo in Iran. I Curdi dell'Iran costituiscono la spina dorsale delle proteste di massa che hanno creato un clima rivoluzionario nella "Repubblica islamica". Inoltre, sui social media [*10] si stanno diffondendo notizie secondo cui le Guardie rivoluzionarie iraniane stanno compiendo massacri nelle aree curde dell'Iran [*11] in modo da spezzare così la schiena al movimento di insurrezione nello Stato dei Mullah. Anche dall'Iran giungono notizie a proposito dell'utilizzo di gas contro i manifestanti [*12]. A causa della crescente instabilità politica interna, entrambi i regimi autoritari si trovano attualmente uniti nei loro sforzi per schiacciare il movimento di liberazione curdo, dal momento che la sua prospettiva post-statale, volta all'emancipazione e alla liberazione delle donne, esercita un impatto anche sulle popolazioni di questi Stati. Lo slogan «Donne, vita, libertà», con cui si batte l'insurrezione iraniana, è stato coniato proprio dalle femministe curde. Inoltre, il governo turco di Erdogan e del suo AKP islamista è tutt'altro che stabile, a fronte di una grave crisi economica e di un'inflazione superiore all'80% [*13]. L'espansione esterna serve perciò ad Ankara come una valvola di sfogo per le tensioni interne.

Gli Stati Uniti in Siria
Un nuovo ciclo di pulizia etnica, in cui come al solito i partner occidentali si girerebbero dall'altra parte, è esattamente ciò di cui a livello interno Erdogan ha bisogno. La situazione precaria dei curdi in Siria, viene resa evidente dal fatto che sono proprio gli Stati Uniti a ostacolare una nuova guerra di aggressione da parte di Erdogan. Washington ha ancora truppe di stanza nel nord-est della Siria, che insieme alle forze curde hanno sconfitto lo "Stato Islamico", a volte apertamente sostenuto dalla Turchia. La Siria settentrionale di fatto si trova divisa tra una zona di occupazione turca a Idlib e ad Afrin, una sfera di influenza russa a ovest e intorno ad Aleppo, e le restanti aree autonome curde a est, dove sono presenti le truppe statunitensi. Senza la tolleranza di Washington, tuttavia, Erdogan non può sperare di condurre una nuova campagna di conquista in Rojava. Allo stesso tempo, Ankara e Teheran sono unite nell'obiettivo geopolitico di espellere il vacillante potere egemonico statunitense dalla regione, in modo da dare così libero sfogo alle proprie ambizioni imperiali.

Il terzo tradimento? Alcuni retroscena:
Questa divisione della Siria settentrionale in sfere di influenza, è stata stabilita all'indomani della guerra civile siriana, allorché il regime di Assad rimase al potere solo grazie all'intervento militare russo. I resti di quello che è stato movimento di insurrezione contro Assad - sempre più dominato dalle forze islamiste, nel corso della guerra civile - si trovano nelle aree occupate dalla Turchia. La prima conquista, attuata in Siria da parte dei soldati di Erdogan contro il cantone di Afrin, è avvenuta nel 2018 con l'approvazione di Putin, a partire dal fatto che questa regione autonoma della Siria settentrionale rientrava nella sfera di influenza della Russia in Siria [*14]. In cambio, Mosca ha ricevuto promesse di accordi su degli oleodotti, sulla costruzione di reattori nucleari russi e acquisto di armi. Il prezzo di questo sporco accordo imperialista ha dovuto essere pagato dai curdi, i quali sono stati espulsi da Afrin, tra l'altro grazie all'approvazione della Merkel [*15]. Il secondo tradimento nei confronti dei curdi siriani è stato commesso dal presidente statunitense Donald Trump, populista di destra, che nell'ottobre 2019 ha dato il via libera a Erdogan per un'altra invasione del Rojava [*16]. Per inciso, l'abbandono al loro destino dei curdi siriani da parte di Washington è avvenuto solo poche settimane dopo che questi avevano sofferto pesanti perdite a causa della conquista della città siriana di Rakka, ultimo bastione e capitale del "califfato" dello "Stato Islamico" in Siria. Ciò solleva la questione se il governo autonomo del Rojava debba ora affrontare un terzo tradimento, questa volta da parte dell'amministrazione Biden, che si sta concentrando principalmente sulla guerra in Ucraina, e sta convogliando su di essa gran parte delle sue risorse. Si vedono ex generali statunitensi lamentarsi apertamente della crescente carenza di sistemi d'armamento e, soprattutto, di munizioni [*17]. Pertanto, anche da questo punto di vista, Erdogan sembra aver scelto un momento ideale per la sua aggressione imperialista.

Annalena? Sparita!
A proposito: le femministe curde farebbero bene a non fare troppo affidamento sul ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, la quale in ogni caso ha affermato di star guidando una «politica estera femminista» [*18]. La Germania può vantare - già a partire dal genocidio degli armeni compiuto nel corso della Prima Guerra Mondiale - una lunga e sanguinosa tradizione di cooperazione con lo Stato turco. Dall'inizio dell'attuale campagna di terrore turca contro Rovaja, il Ministro degli Esteri, che ama sfoggiare gli slogan del movimento per la libertà dei curdi [*20], in questo conflitto è semplicemente assente.

- di Tomasz Konicz - 22/11/2022 - Pubblicato su: Tomasz Konicz. Nachrichten und Analysen: Wertkritik, Krise, Antifa [***]

*** NOTA: Il lavoro giornalistico di Tomasz Konicz è finanziato in gran parte grazie a donazioni. Se vi piacciono i suoi testi, siete invitati a contribuire - sia tramite Patreon che con un bonifico bancario diretto, dopo una richiesta via e-mail:  https://www.patreon.com/user?u=57464083


NOTE:

1 https://www.bbc.com/news/world-europe-63615076

2 https://twitter.com/YPJ_Info/status/1594707983870660609

3 https://www.thetimes.co.uk/article/syria-un-refuses-to-investigate-claims-of-white-phosphorus-use-in-turkish-offensive-3bv7qdmxz

4 https://www.konicz.info/2022/06/30/toter-winkel/

5 https://www.gerceknews.com/turkey/suspected-bomber-of-istanbul-attack-says-she-is-the-sister-of-a-sna-commander-217624h

6 https://www.gerceknews.com/turkey/hdp-taksim-bombing-a-scheme-for-endorsing-governments-new-offensive-concept-217630h

7 https://www.jpost.com/middle-east/article-722988

8 https://www.jpost.com/middle-east/article-722970

9 https://twitter.com/sotiridi/status/1594461604246355969

10 https://twitter.com/ArioMirzaie/status/1594664787593543682

11 https://twitter.com/FazelHawramy/status/1594695514725154817

12 https://twitter.com/factnameh/status/1594720071523278848

13 https://www.reuters.com/markets/asia/turkeys-inflation-hits-24-year-high-855-after-rate-cuts-2022-11-03/

14 https://www.konicz.info/2018/01/21/afrin-erdogans-werk-und-putins-beitrag/

15 https://www.konicz.info/2020/01/25/tuerkei-merkels-zivilisatorischer-tabubruch/

16 https://de.wikipedia.org/wiki/T%C3%BCrkische_Milit%C3%A4roffensive_in_Nordsyrien_2019

17 https://www.youtube.com/watch?v=0nvyZ88d_V0

18 https://twitter.com/Ezgi_Guyildar/status/1594313715704291331

19 https://www.bpb.de/themen/zeit-kulturgeschichte/genozid-an-den-armeniern/218106/die-deutschen-und-der-voelkermord/

20 https://de.wikipedia.org/wiki/Frau,_Leben,_Freiheit#Deutschland/

domenica 27 novembre 2022

DOPPELTE ENTWERTUNG !!

La duplice svalorizzazione
- di Robert Kurz -

Qual è la causa più profonda delle crisi economiche? Di solito si dice che il valore prodotto non può più essere realizzato a causa della mancanza di potere d'acquisto. Ma perché c'è così poco potere d'acquisto? Perché, nella realtà, si produce troppo poco valore e per tanto quelli che sono i salari e i profitti normali cominciano a ridursi troppo. E perché si produce così poco valore? Perché la concorrenza sul mercato mondiale, con lo sviluppo tecnologico e con i programmi di riduzione dei costi dell'economia aziendale, ha finito per rendere superflua troppa forza lavoro. Ma a produrre nuovo valore, è proprio la forza lavoro, in quanto parte integrante del capitale. E così, in questa misura, il licenziamento della forza lavoro non costituisce solo un problema che affligge e riguarda le persone colpite, ma lo è anche per il sistema capitalistico.
Perciò, in questo modo, la crisi inizia con la svalorizzazione del lavoro. Ma ad essere prodotte con sempre meno forza lavoro, sono sempre più merci, in modo che così anche il valore di queste merci diminuisce. E dal momento che a causa della concorrenza il valore da distribuire è minore, si viene a verificare un eccesso di capacità produttiva. Ciò significa che, di conseguenza, anche le materie prime si svalutano. Sempre più aziende falliscono, o sono costrette a chiudere le fabbriche, il cui capitale reale (i mezzi di produzione) subisce anch'esso la svalorizzazione. Non essendoci dei nuovi prodotti in grado di mobilitare nuovamente le masse di forza lavoro, la crisi si aggrava sempre più in una spirale di svalorizzazione.

In pratica, oggi ci stiamo confrontando, in tutto il mondo, con un tale processo di svalorizzazione. Ma la crisi ha subito un processo di accumulazione: le bolle dell'indebitamento e dei finanziamenti sembravano essere in grado di continuare a produrre nuovo valore, all'infinito, anche senza fare uso di forza lavoro. Non appena il capitale monetario, in gran parte «senza occupazione», ha cominciato a deprezzarsi nel corso dei successivi collassi finanziari e con le crisi del debito, abbiamo visto che le banche centrali sono intervenute per tappare la falla. In tutto il mondo hanno iniettato nel sistema bancario del denaro creato dal nulla, e per periodi di tempo che sono diventati sempre più lunghi. La BCE ha allungato la durata dei prestiti, rima da un massimo di tre mesi fino a un anno, e poi a tre anni, e con questa proroga, in un trimestre ha distribuito alle banche più di mille miliardi di euro in due tranche. La maggior parte di questo denaro è servito a nascondere la svalorizzazione della massa dei crediti inesigibili, mantenendo in tal modo a galla i bilanci delle banche e delle grandi aziende in difficoltà, e facendo così salire i prezzi delle azioni. Ciò ha creato un enorme potenziale di inflazione, che per il futuro è rimasta integrata nella sovrastruttura finanziaria. Per contro, il livello di contenimento della svalutazione dei debiti e dei titoli, da solo, non è sufficiente a posticipare ulteriormente il deprezzamento della componente reale del capitale. Nell'Unione Europea, la disoccupazione ha raggiunto il livello più alto del dopoguerra. Le economie degli Stati indebitati stanno collassando, e minacciano di trascinare con sé l'economia globale. I fallimenti su larga scala, come quello della catena di farmacie Schlecker, annunciano una nuova impennata del deprezzamento del capitale reale. L'industria automobilistica francese si trova tutta quanta sul filo del rasoio, mentre in Germania, Opel ha già di nuovo il fiato corto.

Ma non appena l'inondazione di denaro proveniente dalle banche centrali, al di là del salvataggio dei bilanci, si trasformerà in domanda reale, a quel punto, il potenziale inflazionistico si risveglierà. E dato che la crisi si sta sviluppando da così tanto tempo, potrebbe anche verificarsi, per la prima volta nella storia del capitalismo, una svalutazione simultanea, sia dello strumento monetario in sé che di gran parte del capitale (merci, mezzi di produzione, forza lavoro). Questa duplice svalutazione significherebbe la condanna alla bancarotta e al fallimento storico del «modo di produzione basato sul valore» (Marx) nel suo complesso, visto che esso non potrebbe più servire da supporto per nessuna e per qualsiasi riproduzione sociale.

- Robert Kurz - Pubblicato in Neues Deutschland, il 05.03.2012 -

sabato 26 novembre 2022

Manca ancora una teoria rivoluzionaria come teoria rivoluzionaria del tardo capitalismo !!

La miseria della teoria critica di un teorico critico
- Una nota storica -
Frank Grohmann presenta un testo di Hans Jürgen Krahl

L'opera di Hans Jürgen Krahl (1943-1970), rimasta in forma di bozza o addirittura frammentaria, deve molto al suo contrapporsi con l'opera di Jürgen Habermas - come dimostra in particolare il progetto del 1968 [*1], anch'esso incompiuto, qui di seguito riprodotto. Un anno dopo la sua relazione "Sull'essenza della logica dell'analisi marxiana della merce" [*2] (1966/67) - svolta nel corso di un seminario di Adorno e che ancora oggi colloca il pensiero di Krahl accanto a "Sulla dialettica della forma-valore" (1970) [*3] di Hans-Georg Backhaus e a "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx" (1972) [*4] di Helmut Reichelt - il progetto di Krahl non solo critica Jürgen Habermas, ma allo stesso tempo suggerisce dov'è che Krahl vede i limiti della teoria critica dei suoi maestri Max Horkheimer e Theodor W. Adorno: ossia, come si dirà più avanti, egli vede tali limiti nel pericolo di «razionalizzare la necessità dell'astrazione filosofica, in ragione dell'autonomizzazione speculativa». In altre parole, «la critica, da parte di Adorno, della società tardo-capitalista rimaneva astratta e negava l'esigenza di definire una negazione risoluta» - per l'appunto – «di quella categoria dialettica, quindi, a cui sapeva di essere legato dalla tradizione di Hegel e Marx» [*5].
Il testo che qui sotto presentiamo, non va letto tanto come se fosse un documento storico, quanto piuttosto come un esortazione a svolgere una lettura critica della posizione dell'agitatore e teorico Hans-Jürgen Krahl, organizzatore dell'SDS [*6]. Questo testo è il seguito alla sua "Risposta a Jürgen Habermas" [*7], nella quale Krahl esprimeva già in maniera chiara la sua contrapposizione. Nel «momento storico» [*8] (Robert Kurz) del movimento globale dei giovani e degli studenti, che insorgeva contro il sistema dominante, colui che era l'allora membro del Consiglio Direttivo Federale dell'SDS qui precisa in maniera inequivocabile quale sia il proprio punto di partenza: di fronte alla propria «crisi di collasso», il capitale «si salva per mezzo della costruzione politica dello Stato autoritario, attraverso le regolamentazioni economiche statali e con lo smantellamento della sicurezza giuridica borghese a favore della sicurezza in quanto strumento di oppressione». Questo Stato autoritario tedesco, che allo stesso tempo, «con l'adozione delle leggi di emergenza, ha dato espressione giuridica al suo carattere socialmente coercitivo» [*9], è - secondo Krahl - «tanto un'espressione della crisi del capitale quanto una dimostrazione del suo temporaneo successo nel dominarlo a proprio vantaggio». Sebbene vada sottolineato che Krahl - come Backhaus prima, e Reichelt un po' più tardi - raggiunge il livello categoriale della logica essenziale della relazione feticista capitalista [*10], possiamo qui vedere anche in che modo il suo approccio differisca da quello degli altri due. Certamente Backhaus e Reichelt sottolineano anche il «carattere puramente "logico" dell'analisi marxiana della forma-valore» [*11], ma in loro «manca completamente qualsiasi mediazione con la teoria della crisi» [*12], e il loro lavoro si distingue per la «rinuncia pressoché totale a qualsiasi analisi concreta dei processi sociali e a ogni localizzazione della propria situazione storica» [*13].
Per Krahl è del tutto diverso, e lo è nella misura in cui, per lui, la «frammentazione delle masse» e «l'isolamento degli individui, gli uni dagli altri», tipici del capitalismo, sono stati «spinti ad andare ben oltre le "sole" condizioni economiche, grazie al perfezionamento degli strumenti di governo e di manipolazione, nell'epoca del tardo capitalismo, legando i vincoli economici all'intervento politico dello Stato». Eppure Hans-Jürgen Krahl avrebbe potuto ancora sperare in qualcosa, grazie alla «crisi del crollo del capitale»,  e questo proprio nella misura in cui il «successo» avuto dal capitale nel «dominare la crisi a suo vantaggio» gli poteva ancora apparire come «temporaneo». Cinquant'anni più tardi, le «conseguenze strategicamente sicure», che Krahl oppone ad Habermas, appartengono a un'epoca lontana, e sembrano oggi solo un pio desiderio: vale a dire, la «funzione di minaccia del sistema», svolta dall'«attività autonoma della popolazione, che oggi le istituzioni del dominio sociale non tollerano in linea di principio»; la conseguente «resistenza dell'opposizione extraparlamentare»; e l'«unità internazionale della protesta anticapitalista» in quanto «nuova costellazione storico-mondale».
Ciò che viene qui espressa, è la convinzione ancora intatta che in questo contesto ci sia la possibilità di un «processo di educazione collettiva» - un processo che, per Krahl, porta alla «realizzazione dell'individualità» - «così come viene descritto metafisicamente nella "fenomenologia dello spirito" di Hegel, materialisticamente nel "Capitale" di Marx e formulata psicoanaliticamente nella teoria di Freud» - prosegue Krahl, «descrivendo questa società come un sistema di sfruttamento totale nella quale l'attività vitale produttiva della natura umana si inaridisce» [*14].
Ed è su un tale sfondo che la frase seguente ci porta al bivio dove il percorso di Hans-Jürgen Krahl si separa da quello dei suoi predecessori, dei suoi successori e di molti suoi contemporanei: «Stiamo attraversando dei processi formativi che, per prima cosa, ristabiliscono l'individualità e ricostruiscono ciò che l'individualità è in senso emancipatorio, accomunandoci nella lotta pratica contro questo sistema» [*15]. Tenendo a mente la «determinazione della negazione risoluta» (a differenza di Adorno), Krahl non si limita a «collocare la propria situazione storica» nell'«analisi concreta dei processi sociali» (a differenza di Backhaus e Reichelt), ma va dritto e diretto all'ineludibile «lotta pratica» (a differenza di Habermas). Nel 1968, secondo Krahl, «il concetto di teoria rivoluzionaria [...] era ancora di là da venire», per il tardo capitalismo, e la lotta pratica contro questo sistema era anch'essa ancora di là da venire! Alla luce di questi due compiti necessari - visti come i le due facce evidenti della relazione tra teoria e pratica - la dichiarazione di guerra contro la posizione di Jürgen Habermas era per lui inevitabile. Nella loro introduzione agli scritti, ai discorsi e ai progetti degli anni 1966-1970, i curatori dei testi antologizzati di Hans-Jürgen Krahl considerano lo stato incompiuto della maggior parte dell'opera di Krahl vedendola come «l'espressione di una situazione politica nella quale le teorie tradizionali del movimento operaio venivano problematizzate in maniera pratica, senza tuttavia poter essere sostituite da una teoria formulata dai movimenti rivoluzionari nelle metropoli del tardo capitalismo» [*16].  Da questo punto di vista, la «difficile situazione del movimento studentesco» rifletteva la problematicità del rapporto tra teoria e pratica: i suoi obiettivi non potevano essere orientati, né verso una pratica politica della lotta di classe né verso i nuclei organizzativi esistenti del movimento operaio [*17]; e, allo stesso tempo, non si poteva trattare semplicemente di una questione di problemi tecnici organizzativi per l'attuazione più efficace di una teoria riconosciuta e accettata come vera [*18]. A partire da questo, non solo diventa comprensibile come la «ricostruzione critico filosofica della teoria rivoluzionaria» [*19] di Krahl tenti di mostrare una via d'uscita dal dilemma teoria-prassi, ma diventa anche chiaro perché, per lui, il rapporto tra teoria e pratica abbia raggiunto il suo punto più acuto nella questione dell'organizzazione [*20].
Secondo l'analisi svolta da Robert Kurz, il movimento del 1968, nel senso dell'emancipazione sociale, ha fallito completamente «perché non ha perseguito fino in fondo la linea di critica del "lavoro astratto, del feticismo della merce e della razionalità economica", e non è arrivato a una concezione negativa e abolizionista dell'auto-relazione capitalista. Invece, si è trovato sul versante sbagliato della "politica" ed è ben presto caduto vittima della medesima illusione democratica del vecchio movimento operaio» [*21]. C'è ogni ragione di credere che in tale contesto il movimento si sia anche scontrato su un problema teoria-pratica [*22], a cui Hans-Jürgen Krahl non solo fu estremamente sensibile, ma riuscì anche in parte a elaborare e a presentare ai suoi compagni. Se il movimento della gioventù e degli studenti non solo non ha riconosciuto quale fosse «l'identità interna della democrazia e del capitalismo» [*23], ma non ha nemmeno «ridefinito il rapporto tra la riflessione teorica e la cosiddetta dimensione dell'azione», vale a dire, non è riuscito a produrre un'altra «determinazione teorica» che «si allontanasse deliberatamente dalla comprensione tradizionale del "rapporto tra teoria e pratica" che» - a priori - «era stato tagliato secondo il profilo di esigenza dell'azione all'interno dell'involucro formale capitalista» [*24] - resta allora da chiarire in che misura il fallimento di questo movimento di rivolta sia avvenuto con o contro Hans-Jürgen Krahl. La risposta a questa domanda dipende essenzialmente dall'importanza che attribuiamo alla cosiddetta «questione dell'organizzazione», cioè alla questione di trasformare la «spontaneità diffusa delle masse» in delle forme più «intransigenti» di azione di protesta, in «azione diretta», «resistenza violenta», o in qualche altra «strategia» [*25].  Krahl non solo era consapevole che dietro questa domanda c'era sempre una domanda più grande: che fare? Egli ha riconosciuto anche il pericolo che la «questione organizzativa» - se non interpretata - avrebbe potuto essere soffocata dalla «pratica dell'organizzazione» [*26]. Da qui la necessità di un confronto critico con la sua opera: perché una critica radicale di tale questione è ancora oggi - seppure sotto diversi auspici storici - un approccio fecondo, che non può che modificare il problema teoria-pratica.
Per quanto riguarda Jürgen Habermas, la sua teoria contribuisce ancora meno ai «problemi teorici e pratici aperti» in questo contesto, secondo l'Hans-Jürgen Krahl del 1968, poiché essa aderisce fin dall'inizio a uno «schema accademico della pratica» - secondo lo slogan «prima l'illuminismo, poi l'azione». Il giudizio del più giovane dei due allievi di Adorno - che doveva diventare, come lui stesso ha detto, «l'avversario politico del suo maestro di filosofia» [*27] - su colui che ha quattordici anni in più, Habermas, e che è stato anch'egli alla scuola di Adorno (e anche insieme), è a dir poco schiacciante: non solo quest'ultimo non raggiunge sul piano teorico la radicalità teorica che la teoria critica promette, ma con i suoi «approcci insignificanti alla pratica» - come aveva già detto Krahl all'epoca - Jürgen Habermas «rimane indietro rispetto al vero movimento di resistenza, come una nottola di Minerva dalle ali tarpate» [*28].

- Frank Grohmann, settembre 2022 - Pubblicato su GRUNDRISSE Psychanalyse et capitalisme -

[1] Inteso come contributo all'opera collettiva curata da Oskar Negt "Die Linke antwortet Jürgen Habermas", Francoforte 1968. Apparso in Hans-Jürgen Krahl, "Costituzione e Lotta di classe", Jaca Book, 1973 p. 269-278.

[2] In Hans-Jürgen Krahl, Costituzione e Lotta di classe, op. cit. p. 39-96.

[3] Hans-Georg Backhaus, "Zur Dialektik der Wertform", Dialektik der Wertform. Untersuchungen zur marxschen Ökonomiekritik, ça ira, Freiburg, Vienna, 2018.

[4] Helmut Reichelt Zur logischen Struktur des Kapitalbegriff bei Karl Marx, ça ira, Freiburg, Vienna, 2006.

[5] Hans-Jürgen Krahl, "La contraddizione politica della Teoria Critica di Adorno" ; articolo pubblicato nella Frankfurter Rundschau del 13.8.1969 in occasione della morte di Adorno. In Hans-Jürgen Krahl, Costituzione e Lotta di classe, op. cit, p. 313.

[6] Il Sozialistischer Deutsche Studentenbund (SDS) era un'associazione studentesca politica della Germania Ovest e di Berlino Ovest, esistita dal 1946 al 1970.

[7] In un teach-in alla presenza di Habermas e lo stesso giorno in cui il suo articolo "Die Scheinrevolution und ihre Kinder" è apparso sulla Frankfurter Rundschau. In Hans-Jürgen Krahl, Costituzione e Lotta di classe, op. cit. pp. 265-269.

[8] Robert Kurz, Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft, Eichborn, Frankfurt, 1999, p. 596.

[9] Gli emendamenti alla Legge fondamentale approvati dal Bundestag tedesco il 30 maggio 1968 e adottati dal Bundesrat il 14 giugno sono chiamati "Notstandsgesetze". Permettevano al governo tedesco di limitare temporaneamente o sospendere completamente i diritti fondamentali dei cittadini. Si veda la "Römerbergrede" di Krahl a Francoforte il 27 maggio 1968, che inizia con le parole: «La democrazia in Germania è in punto di morte; le leggi di emergenza attendono l'approvazione definitiva». Hans-Jürgen Krahl, "Römerbergrede", in Costituzione e Lotta di classe, op. cit, pp. 171-177.

[10] Si veda Robert Kurz, Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria. Il problema della prassi come critica eternamente tronca del capitalismo e della storia delle sinistre, Crise & Critique, Albi, 2022, pag. 140.

[11] Robert Kurz, Geld ohne Wert, Horlemann, Berlino, 2010, p. 38. «La "logica" qui è [...] meno determinata, in sé, come logica effettiva del capitale, che semplicemente come rappresentazione teorica di Marx [...]». Ivi.

[12] Robert Kurz, "Krise und Kritik", Exit! - Krise und Kritik der Warengesellschaft, 10/2012, pag. 43.

[13] Robert Kurz, Geld ohne Wert, op. cit, p. 22.

[14] Hans-Jürgen Krahl, "Dati personali", Costituzione e Lotta di classe, op. cit. p. 27.

[15] Ivi.

[16] "Introduzione", Costituzione e Lotta di classe, op. cit. p. 7. Enfasi aggiunta.

[17] Ivi.

[18] Ivi, p. 9.

[19] Ivi, p. 10, come una «dottrina i cui enunciati descrivono la società in termini di capacità di cambiamento». Cfr. Hans-Jürgen Krahl, "La miseria delle teoria critica di un critico teorico", Costituzione e Lotta di classe, op. cit. p. 269.

[20] "Introduzione", Costituzione e Lotta di classe, op. cit. p. 7 e p. 15. Si veda anche Hans-Jürgen Krahl, "La miseria delle teoria critica di un critico teorico", op. cit. p. 269: «La miseria della teoria critica è la sua incapacità di porre la questione dell'organizzazione».

[21] Robert Kurz, Schwarzbuch Kapitalismus, op. cit. p. 596.

[22] Si veda anche Robert Kurz, Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria, op. cit.

[23] Robert Kurz, Schwarzbuch Kapitalismus, op. cit. p. 596.

[24] Robert Kurz, Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria, op. cit. p. 18.

[25] Si veda Hans-Jürgen Krahl, ""La miseria delle teoria critica di un critico teorico"", op. cit.

[26] "Introduzione", Costituzione e Lotta di classe, op. cit. p. 7.

[27] Hans-Jürgen Krahl, "La contraddizione politica della Teoria Critica di Adorno", op. cit, p. 313.

[28] Hans-Jürgen Krahl, "Una risposta a Jürgen Habermas", Costituzione e Lotta di classe, op. cit.

La miseria della teoria critica di un teorico critico
- Una risposta a Jürgen Habermas -
di Hans Jürgen Krahl

Habermas celebra oggi, come fantasiosa invenzione di nuove tecniche di manifestazione, quel che un anno fa, al congresso di Hannover, lo indusse all'accusa di fascismo di sinistra, ricca di fatali conseguenze pratiche e di una drastricità teorica che assomiglia piuttosto a un corto circuito: la forma di azione che consiste nella protesta provocatoria [*1]. Habermas non ha lasciato alcun dubbio sul senso terminologico di quest'accusa voracemente assorbita dalla pubblicistica liberale: provocare la sublime violenza istituzionalizzata a manifestarsi con evidenza terroristica, sarebbe un atto fascista perché sfida il fascismo [*2]. L'accusa si muove entro alternative soltanto apparenti, e astrae dalla comprensione teorica della dinamica del capitale monopolistico cui il fascismo - secondo le analisi del giovane Horkheimer - inerisce come una potenzialità sempre attualizzabile, presente come stalinismo. Habermas invece suppone che sia un prodotto della soggettività rivoluzionaria in situazioni non ritenute oggettivamente rivoluzionarie, e si schiera così nel coro univoco dei pubblicisti liberali che, da K.H. Flach attraverso Augstein fino a Kai Hermann, con citazioni di fatto formalizzate e destoricizzate, fanno scendere in campo i rivoluzionari del passato, da Marx a Lenin, per sbarazzarsi di eredi attuali che sarebbero soltanto dei romantici pseudorivoluzionari.
Questa critica della malattie infantili utopistiche, anarchiche ed estremiste di sinistra, che si rese necessaria a un livello storicamente anteriore del socialismo rivoluzionario, era legata a una precisa fase di sviluppo organizzativo del movimento operaio: allora si doveva, e ancora si poteva, strutturare un processo oggettivamente rivoluzionario di educazione della classe all'autoliberazione, nel medium di un partito centralistico che fungesse come indicatore pratico e interprete teorico delle esperienze della lotta di classe e che rischiarasse con la propaganda e l'agitazione la vaga spontaneità delle masse. L'incapace liberismo del presente rovescia le vecchie accuse, staccate dal contesto storico, su un movimento storicamente nuovo, per razionalizzare il suo disagio affettivo nei confronti di un movimento di protesta plebiscitario-egualitario che si sottrae a tutte le tradizionali istituzionalizzazioni, ufficialmente riconosciute, della rappresentanza politica degli interessi, che si sottrae cioè alle consolidate idee di partiti e di alleanze d'interessi. Lo sguardo liberale, che muove da una coscienza lacerata, si appunta così, con fissità maniacale, sulla semplice forma fenomenica della protesta. Una tale fissazione irrazionale permette di associare alla forma fenomenica sensibilmente evidente delle manifestazioni studentesche, alle masse unificate in una collettività e alla rottura immediata delle congelate regole del gioco che stabilizzano il dominio, attraverso l'azione diretta, l'immagine del terrore compiuto da un fascismo di sinistra. Con una procedura simile si potrebbero senz'altro inserire in una fenomenologia dell'azione pura i simboli visibili della protesta, il grido di Ho Chi Minh e la bandiera rossa, segni della protesta emancipativa e dell'indignazione di una politica rivoluzionaria: in tal modo si ridurrebbero all'indifferenza i contenuti politici del movimento di protesta e diverrebbe possibile la tranquillante identificazione delle «estreme». Infatti, la prigione della tradizionale politica del compromesso, ancorata alle istituzioni, e che il dominio ha svuotato delle sue libertà repubblicane e della sua sostanza democratica, impedisce al critico liberale di sperimentare riflessivamente, in un modo teoricamente adeguato, le categorie politiche di un movimento di protesta nuovo nella storia, e deforma lo sguardo, nascondendo i contenuti emancipativi di forme in azioni che rifiutano il compromesso. Fin dai tempi della fallita rivoluzione tedesca di novembre, ma più profondamente dalla vittoria del fascismo, la legittimità di una prassi rivoluzionaria e di una resistenza anche violenta è stata cancellata dalla coscienza storica dei tedeschi; e l'annullamento fu troppo brutale perché una coscienza reificata, che dipende da alternative interne allo status quo, possa cogliere subito i concetti storici che articolano una prassi diretta alla trasformazione rivoluzionaria del mondo.
Può darsi che Habermas sia stato indotto a correggere la sua accusa di «fascismo di sinistra» dal rispecchiamento irriflesso della coscienza radicalmente destoricizzata nelle relazioni pubblicistiche dei liberali e dall'esperienza della resistenza militante dei neri negli USA. Ma il fatto che Habermas ricada sempre di nuovo nell'ambito categoriale della tradizionale politica del compromesso, risale a quella teoria critica a cui sa di dovere la sua filosofia della storia. L'incapacità specifica di questa teoria - già nella sua versione horkheimeriana e anche marcusiana - a tematizzare, cioè teoricamente, una dimensione pratica determinata dal socialismo rivoluzionario, spinge Horkheimer e Marcuse verso conseguenze anarchiche, mentre induce Habermas a conclusioni liberali. Se il tipo di illuminismo, cui mira Horhkeimer, e mutatis mutandis anche Marcuse, contiene implicazioni anarchico-volontaristiche, in Habermas conduce, invece, a una strategia di reazione liberale che scredita l'azione. Il vizio, che nel giovane Horkheimer e nel tardo Marcuse è piuttosto accidentale, in Habermas diventa una inevitabile fonte di errori teorici. È vero che egli riconosce alle tecniche dimostrative del movimento di protesta degli studenti la capacità di produrre le condizioni di una strategia socialista per «rovesciare strutture sociali profondamente radicate» e per instaurare un modo di produzione socializzato in cui si attui l'emancipazione. Eppure, anche questo movimento cadrebbe in balia della coercizione astorica di un'ortodossia tradizionale e cadrebbe perciò in un offuscamento illusorio della coscienza di tipo pseudorivoluzionario. La correzione della sua posizione antecedente è meramente formale; la sostanza non è affatto cambiata. L'illusoria auto-interpretazione del movimento degli studenti, e soprattutto dell'SDS, provocherebbe la controrivoluzione: «La tattica della falsa rivoluzione finisce per esprimersi in un atteggiamento che cerca a tutti i costi una polarizzazione delle forze» [*3]. La vecchia accusa di fascismo di sinistra, rinunciando alla terminologia politicamente discriminatoria, si presente in una nuova veste. La critica di Habermas all'SDS si concentra in due argomenti [*4].Egli attribuisce all'SDS un'ortodossia teorica irriflessa e un dogmatismo praticamente irrealistico nei confronti della teoria marxiana del valore, delle crisi, delle classi e dell'imperialismo [*5]. L'SDS imporrebbe ai fatti sociali storicamente nuovi le vecchie lezioni della dottrina marxiana. Ne conseguirebbe una strategia fatale che finirebbe per isolare gli studenti [*6] e che produrrebbe un errato comportamento politico. Ciò potrebbe essere descritto ormai solo con le categorie cliniche di una patologia infantile. La confusione patologica fra azioni simboliche di protesta e lotta fattuale per il potere disgregherebbe il principio politico di realtà in senso falsamente rivoluzionario [*7]. L'accusa habermasiana di dogmatismo, che ignora in blocco le discussioni teoriche dell'SDS degli ultimi anni, non riflette sul livello storico della teoria.

Per quanto riguarda l'SDS, nel seguente schizzo lemmatico si cercherà di compiere una tale riflessione.  Vi sono due esperienze storiche - nel cui contesto si costituisce il nuovo movimento di protesta, in un primo momento studentesco -  che nelle discussioni dell'SDS hanno riattualizzato i problemi di una ricostruzione della teoria rivoluzionaria e della sua trasformazione in una prassi sovversiva: si tratta, da un lato, della fine del periodo di ricostruzione del capitalismo nella Germania Occidentale e della sempre più reale statalizzazione autoritaria della società complessiva (lotta contro le leggi di emergenza e la manipolazione) e, dall'altro lato, della attualità storico-mondiale della liberazione rivoluzionaria (protesta contro la guerra nel Vietnam) alla periferia della Zivilisation tardo-capitalistica nei paesi del terzo mondo [*8]. Il prospero periodo di ricostruzione del capitalismo dell'Europa occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, sembrava aver eliminato per sempre l'attualità  di una prassi sovversiva e aver rinviato alle calende greche la rivoluzione.  In questa situazione, l'SDS ricorre al marxismo critico, riflesso nella teoria della conoscenza, quale era stato formulato, all'indomani della prima guerra imperialistica, anzitutto da Lukàcs e Korsch. Essi erano sotto l'influenza, determinata dall'esperienza della rivoluzione russa d'ottobre e tedesca di novembre, che impresse il suo segno al pensiero di Lenin e di Rosa Luxemburg, alla fase di costituzione del Comintern e all'ultrasinistra scuola olandese. Lukàcs e Korsch tentarono di ricostruire, nel medium pratico di un rapporto genuinamente negativo fra marxismo e filosofia, la posizione della soggettività rivoluzionaria, il ruolo della coscienza e della volontà del processo storico.  Questo ricorso riuscì di certo a liberare la ricezione della teoria di Marx, Engels e Lenin, da un lato, dalla reificazione stalinistica e, dall'altro, dalla neutralizzazione antropologica da parte dell'industria scientifica tardocapitalistica, ma non era capace di dare una risposta alla mutata costituzione del sistema complessivo della società tardocapitalistica né di problematizzare sul serio quelle che Habermas chiama "pezzi di dottrina". Sullo sfondo di queste domande, teoricamente aperte e praticamente irrisolte, paiono presentarsi - senza alcuna pretesa di compiutezza sistematica - quattro modi tipici di recensione della teoria rivoluzionaria, ricchi di conseguenze pratiche per l'SDS:

    1. L'ortodossia dogmatica tratta la teoria in modo astorico, come se non fosse suscettibile di una continuazione. Si ispira nella prassi ai paesi rappresentati dall'Unione Sovietica e ai partiti comunisti dell'Europa occidentale, nei quali la Realpolitik della coesistenza pacifica ha praticamente estinto il bisogno di un cambiamento rivoluzionario dello status quo. Essa inserisce descrizioni empiriche della realtà sociale in un sistema categoriale reificato e aprioristico, nel materialismo storico, riducendo così la teoria rivoluzionaria del proletariato a una collezione di brani classici e a scienza della legittimazione. Essa è ancor sempre affetta da quella tendenza stalinistica a ontologizzare la teoria, che Sartre ha acutamente definito come un comportamento aprioristico [*9].
    2. L'«economicismo» segretamente dogmatico tratta la critica marxista dell'economia politica con la pretesa critica di aver di fronte una positiva teoria della scienza. Il modo di produzione capitalistico viene isolato dalle istituzionalizzate forme di relazione della società borghese. Le analisi economiche empirico-critiche sono inquadrate in una costituzione sistematica della società che di fatto si considera immutata. Si escludono trasformazioni strutturali dell'antagonismo di classe e della soggettività rivoluzionaria [*10].
   3. L'appropriazione storicistica (historische) della tradizione teorica tenta di soddisfare le esigenze di una storiografia materialistica e di attuare il programma critico di Karl Korsch di applicare il materialismo storico a sé stesso. Questo tentativo di ricostruzione della teoria rivoluzionaria intende evitare il dogmatismo nella prassi, in particolare, attraverso una recezione teoricamente spregiudicata dell'opposizione di sinistra nel movimento operaio rivoluzionario, dell'anarchismo della I Internazionale e della scuola olandese  nella III Internazionale. Eppure questo tentativo non può fare a meno di regredire a una storiografia borghese finché si preclude una problematizzazione dei fondamenti teorici e, invece di risolvere i problemi per via teorica, si limita a indicarne storicisticamente le condizioni genetiche. Con premesse tali, l'attenzione che si rivolge alla storia materiale produce un ambiguo concretismo che suggerisce illusoriamente la vicinanza alla prassi da parte della teoria, perché risparmia problemi fondamentalmente irrisolti e ricompensa il loro trattamento con l'accusa di astrazione speculativa.
   4. La ricostruzione della teoria rivoluzionaria attraverso una critica della filosofia sta in un immediato rapporto con i tentativi di Lukàcs e Korsch e trae la sua determinazione principale da quella concezione sistematica, di critica della conoscenza e di filosofia  della storia, che è la Teoria Critica di Horkheimer e Adorno, di Marcuse e Habermas. Essa è consapevole delle fratture fra teoria e prassi, ma si espone al pericolo di razionalizzare il vizio dell'astrazione filosofeggiante a virtù dell'autonomia speculativa. Mi pare comunque che per due motivi questo tipo sia il più vicino alla problematica di una ricostruzione storica della teoria rivoluzionaria, di una dottrina cioè che descrive la società sotto l'aspetto della sua trasformabilità [*11]. Le problematizzazioni dei fondamenti teorici richiedono un'esplicita autocomprensione della teoria rivoluzionaria, attuata come critica della conoscenza, che inerisce tacitamente alla teoria marxiana. Tutti i tentativi di Lukàcs, attraverso Horkheimer fino alla sartriana «Critica della ragion dialettica», non sono finora riusciti a risolvere il dilemma di formulare una teoria materialistica della conoscenza, evitando il realismo  speculare ingenuamente ontologico e senza regredire dalla critica hegeliana della conoscenza a Kant, che indica come l'analisi del «puro» processo conoscitivo, il quale precede in senso trascendentale i contenuti, non fa altro che spostare la verità oggettuale: una critica che Marx rivolgeva materialisticamente contro le necessarie premesse idealistiche dell'astrazione filosofeggiante [*12]. Fino a oggi, tutti i tentativi di un'esplicita teoria materialistica della conoscenza sono rimasti impigliati nel dilemma del trascendentalismo. Tale problema non può essere risolto neppure dal tentativo habermasiano di mediare, nella filosofia della storia, la ragion teorica e pratica kantiana con sé stessa, materializzando il soggetto trascendentale nel senso di una storia del genere, secondo il punto di vista antropologico del concetto marxiano di lavoro [*13].

La problematica della critica della conoscenza svela la sua pregnanza solo sullo sfondo dell'impostazione in chiave di filosofia della storia, propria della Teoria Critica. Manca ancora una teoria rivoluzionaria come teoria rivoluzionaria del tardo capitalismo. E rimane ancora da chiarire se essa sia da intendersi come critica dell'economia politica, oppure già - com'è implicitamente supposto da Marcuse e sistematicamente ripreso da Habermas - come critica della tecnologia politica [*14]. La Teoria Critica cerca di tematizzare la costituzione sistematica della società borghese nella sua modificazione tardocapitalistica, i mutamenti qualitativi nel rapporto fra lavoro oggettivato e lavoro vivo, fra valore d'uso e valore di scambio, fra produzione e circolazione, fra base e sovrastruttura. I tentativi di ricostruzione critica del sistema da parte di questo tipo di teoria muovono di regola da quei punti estremi dello sviluppo capitalistico, stabiliti da Marx ed Engels stessi, in cui tale sviluppo rinvia al modo di produzione associato: muovono dalla teoria della forma imprenditoriale delle società per azioni e dal processo tecnologico che incorpora la scienza al sistema di macchine ormai automatiche, che consta di capitale fisso [*15]. Rilevano una peculiare dialettica del punto storico di inversione: di fronte alla possibilità pratica della sua abolizione, il rapporto di capitale pare protrarre la propria fine. Horkheimer traccia la crescente statalizzazione autoritaria della società, che è parallela a una sempre più evidente socializzazione delle forze produttive tutt'interna al capitale, come dinamica immanente del tardo capitalismo. Marcuse descrive in che modo la traduzione tecnologica delle scienze in forza produttiva ormai automatica riduca, totalitariamente, a un unica dimensione gli antagonismi sociali. Allacciandosi a loro, Habermas tenta di determinare in senso analitico quel processo di legittimazione del dominio che rende ideologica la razionalità tecnico-scientifica e che caratterizza il capitalismo regolato dallo stato [*16]. Secondo la sua interpretazione di Marcuse, si assisterebbe a una trasformazione totalitaria della scienza e della tecnica in ideologia, in legittimazione del dominio. Questa è la base teorica della sua polemica contro le analisi della situazione che egli attribuisce all'SDS. Anche Habermas muove da simili tendenze di sviluppo; egli le descrive come «una crescita dell'attività interventista dello stato che deve assicurare la stabilità del sistema, da un lato, e una crescente interdipendenza della ricerca e della tecnica che ha fatto delle scienze la prima forza produttiva, dall'altro. Entrambe le tendenze distruggono quella costellazione di cornice istituzionale e di sotto-sistemi dell'agire teleologico che ha caratterizzato il capitalismo liberale. Scompaiono così rivelanti condizioni di applicazione dell'economia politica che Marx aveva giustamente attribuite al capitalismo liberale» [*17].
 
Secondo Habermas, la tendenza a una regolamentazione statale dell'economia e a un'incorporazione tecnologica della scienza alla produzione sopprime la dialettica di rapporti di produzione e forze produttive, di «base» e «sovrastruttura». In sua vece, Habermas pone la dialettica, storicamente più ampia e perciò meno concreta, di «lavoro» e «interazione». La spoliticizzazione della massima parte della popolazione è la conseguenza della decomposizione dell'ideologia tipica di una struttura liberale, del «giusto scambio» di equivalenti che nel capitalismo concorrenziale rappresentano la legittimazione economica del dominio.  Dominio e base economica non stanno più in una rapporto di fondazione analizzabile attraverso categorie marxiane; tale comprensione si rispecchia nella differenziazione habermasiana fra il lavoro come agire teleologico e l'interazione come agire comunicativo, la cui mediazione e il cui rapporto con il processo di produzione non è ulteriormente determinato [*18]. L'isolamento reciproco degli individui, che viene mantenuto attraverso una politica autoritaria e una manipolazione tecnologica, mentre disgrega le relazioni sociali, ha potenziato la situazione di "classe in sé" dei salariati, la loro "naturale" disciplina. Mai più di oggi, la classe dei salariati è stata una classe in sé. Dato il mutamento strutturale del rapporto fra politica ed economia, rimane ancora da chiarire, nei suoi dettagli, il modo in cui la costituzione della classe in sé si rappresenta nel quadro della riproduzione del nesso sociale complessivo di astrazione dai bisogni e dai valori d'uso qualitativamente particolari. Alla conservazione dell'antagonismo di classe non provvede più la base della sfera della circolazione, dove il lavoro astratto si realizza, né il libero mercato o il giusto scambio, ma vi provvede, «dall'alto», lo stato autoritario e la tecnologia politica. Ma volerne trarre la conclusione che la lotta di classe rivoluzionaria, cacciata nella latenza sociale, non sia più attuabile sarebbe altrettanto prematuro quanto lo è l'ipotesi che la lotta di classe proseguire nelle sue vecchie forme.
Habermas tenta di affrontare il problema dialettico e marxista di una mediazione della prassi, teoricamente riflessa nelle mutate condizioni storiche in cui le singole scienze sono altamente differenziate dalla divisione del lavoro, e in cui le loro cognizioni specialistiche sono traducibili nel linguaggio della tecnica, e possono essere valorizzate nella produzione industriale; e in cui la prassi sociale, e in particolare il processo di automazione della produzione che la tecnologia è in grado di pianificare, diventano sempre più scientifici [*19].

Ma la riduzione della società a una razionalità soltanto tecnica, è soltanto parvenza: Habermas arriva così a revocare il concetto di prassi, specie laddove lo intende all'interno di una sistematica dei segni in senso proprio, come un orientamento dell'agire che può essere dispiegato, per via ermeneutica, nella rete delle comunicazioni quotidiane: ma questo è solo un calcolo "idealistico" della prassi materialistica. Habermas grava la teoria di troppi compiti: essa non è in grado di riferirsi alla realtà complessiva, tranne che attraverso i suoi momenti; un tale riferimento è un problema della prassi rivoluzionaria che Habermas risparmia. La Teoria Critica si volatilizza nel processo di riflessione dell'autocomprensione da parte dei soggetti della ricerca e dell'insegnamento, ossia degli scienziati, sulla prassi sociale rispetto a loro prioritaria, ossia - ed è caratteristico - sulle premesse e non sulle conseguenze di tipo politico e sociale. Pare che Habermas, nella sua discussione del rapporto tra fatti e modelli, si ritragga in una problematica della costituzione, propria di una filosofia trascendentale; alla revoca, tutta teorica, della prassi rivoluzionaria corrisponde un trattamento solo teorico della costituzione, che in realtà riguarda piuttosto la prassi. Il concetto di prassi di Habermas si riduce all'idealismo di una libera comunicazione degli spiriti di un'utopia parlamentare, una società complessiva accademica (unità di teoria della scienza e di rappresentazioni di mete scientifiche). Di una corrispondente accademicità, è il modello che ne deriva: prima il rischiaramento, poi l'azione. La prassi qui si rivela come comunicazione oggettivata, mediata dai simboli concordati fra i soggetti, come agire linguistico di collettivi che si intendono reciprocamente. La miseria della Teoria Critica sta nella sua incapacità di porre la questione organizzativa. Pare che questa incapacità si sia definitivamente oggettivata in Habermas, sfociando nell'ingenua proclamazione dell'unità di teoria e prassi  nella strategia di un'alleanza liberale [*20].

- Hans Jürgen Krahl - 1968 –Fonte: Costituzione e Lotta di Classe, Jaca Book 1973 – (traduzione di Sabina de Waal)

NOTE:

[*1] - Per l''accusa di fascismo di sinistra, si veda l'agitata risposta di Habermas a Rudi Dutschke al congresso di Hannover del 1967 in "Der Kongress in Hannover", Berlin 1967, p.101. Per la posizione riveduta di Haberman, si veda "Die Scheinrevolution un ihre Kinder", in "Die Linke antwortet Jürgen Habermas", Francoforte 1968, a cura di O.Negt.
[*2] - Sul concetto habermasiano di provocazione, quale lo difese nei confronti dei suoi critici francofortesi, si veda "Der Kongress in Hannover", Berlin 1967, p.75.
[*3] - Cfr. Die Linke... op. cit.  p.13
[*4] - Ivi, tesi 4, p.9 e segg. tesi 5, p.12 e segg.
[*5] - Ivi, p.10
[*6] . Ivi, p.13
[*7] - Ivi, tesi 2 p.12 e segg.
[*8] - Entrambe le esperienze offrono uno spunto sistematico per rappresentare il movimento di protesta degli studenti secondo categorie politiche oggettive, e per evitare una riduzione social-psicologica qual viene compiuta da Habermas. Tale tentativo di esposizione sistematica è stato compiuto da Oskar Negt in "Politik und Protest", Frankfurt 1968.
[*9] - Sartre descrive le conseguenze teoretiche della burocratizzazione stalinistica in "Marxismus und Existensialismus", Reinbeck, 1965, p.22: «...l'economia pianificata - attuata da una burocrazia che era cieca nei confronti dei propri errori - diventava un arbitrio che violentava la realtà. La futura produzione nazionale veniva stabilita a tavolino, spesso al di fuori di ogni norma di competenza; questa violenza veniva affiancata  da un idealismo assoluto: uomini e cose erano sottomessi a priori alle idee, e se l'esperienza contraddiceva le previsioni, era chiaro che essa aveva torto. Rakosi già si immaginava la metropolitana di Budapest; se la natura del terreno non permetteva di costruirla, allora il terreno era controrivoluzionario».
[*10] - Cfr. le analisi di critica dell'economia di un Mandel o di un Altvater.
[*11] - Come Habermas, cos' anche molti membri dell'SDS ignorano l'inevitabile contingenza cui la prassi è soggetta in questo momento. Le inconfessate frustrazioni dell'esperienza ci insegnano che la nostra prassi resta a un livello di astrazione relativamente  alto e povero finché non si concretizza in una teoria delle classi. E così si inveisce contro l'«astratta teoria» che non ha la forza di concretizzarsi.
[*12] - Cfr. Max Horkheimer, "Traditionelle und kritische Theorie" in Kritische Theorie, Frankfurt, 1968, e Karl Heinz Haag, "Philosophischer Idealismus", Frankurt 1967; cfr anche l’introduzione di Hegel alla "Fenomenologia dello Spirito" e l'introduzione di Marx ai "Lineamenti fondametali della critica dell'economia politica".
[*13] - Cfr. Habermas, "Erkenntnis und Interesse", Frankfurt, Suhrkamp, 1968.
[*14] - Cfr. Habermas, "Technik und Wissenschaft als « Ideologie »", Frankfurt, Suhrkamp, 1968, p. 48 et segg.
[*15] - «Secondo Marx ed Engels, il movimento del capitale monopolistico verso lo stato autoritario deriva dal fatto che il carattere sociale delle forze produttive si manifesta in tal misura da assumere un potere esplosivo per il sistema. Vengono lacerati i veli del rapporto di sfruttamento che fondano il dominio. La concorrenza sui prezzi fra monopoli e oligopoli non ha niente in comune con la libera concorrenza di individui reciprocamente ostili e con lo scambio di equivalenti di possessori di merci reciprocamente indifferenti ed equivalenti. La forza di legittimazione della società, che è propria della sfera della circolazione, che fonda lo stato di diritto liberale e democratico e le esigenze politiche e morali a esso collegate, si dissolve in misura crescente. La sfera della circolazione, un tempo, era l'espressione del regno dell'eticità borghese, la cui dialettica trasformava la pacifica reciprocità dei singoli egoismi concorrenti nell'interesse sociale generale della classe di proprietari privati. La spersonalizzazione monopolistica del mercato e la distruzione istituzionalizzata di quella maschera di carattere, che è l'eticità dei possessori individuali di merci, svela il rapporto di sfruttamento: il profitto imprenditoriale non può essere reificato e mascherato come salario. La crescente concentrazione distrugge l'ambivalente libertà del libero lavoratore e, con ciò, il diritto contrattuale che nasconde il rapporto di lavoro. Per salvaguardare il rapporto di sfruttamento, è ormai indispensabile un'ideologia politica che lo stato stesso introduce nella sfera della produzione. Gli strumenti principali di tale operazione sono la riforma sociale autoritaria, la politica dei redditi e un diritto del lavoro vincolato alla singola fabbrica» (cfr. Karl Korsch, "Arbeitsrecht für Betriebsräte", Frankfurt, 1968).
    Alla dialettica di riforma sociale e rivoluzione corrisponde l'incoscienza e l'apatia delle masse che è un frutto dell'intervento statale. La trasformazione dello stato di diritto liberale nello stato sociale autoritario rende tendenzialmente possibile un passaggio allo stato di emergenza, senza alcuna frattura nella legittimazione giuridica e politica. E se la presa di potere delle istituzioni statali avviene in maniera strisciante, non si può certo contare su una generale "indignazione pubblica che possa trasformarsi in un'azione solidale  e politicamente consapevole della masse oppresse.
[*16] - Cfr.  Habermas, "Technik und Wissenschaft als « Ideologie »", op. cit., p. 48 et segg. Il quadro di riferimento delle categorie fondamentali proposte da Habermas, a partire dalle quali egli intende comprendere in una totalitò la formazione sociale tardocapitalistica, criticando il concetto di razionalità di Max Weber attraverso una meta-critica della teoria della tecnologia di Marcuse, qui non viene discusso.
[*17] - Ivi - p.74
[*18] - Completato dall'editore secondo indicazioni frammentarie.
[*19] - Cfr. la tesi di Serge Mailet (La nouvelle classe ouvrière, Paris, Éditions du Seuil,1963): nel tardocapitalismo, l'automazione può essere introdotta solo gradualmente, e questo poiché la diminuzione del capitale vivo crea il problema della disoccupazione tecnologica e frena lo smercio dei prodotti che invece aumentano a partire dallo sviluppo dei bisogni. Il meccanismo della concorrenza, d'altra parte, esige una costante razionalizzazione della produzione immediata.
[*20] - Qui il manoscritto si interrompe.

Arte di Stato ?!??

Se le comunicazioni che si sovrappongono e si intersecano in una struttura di relazioni sempre più complessa rappresentano il nodo simbolico e funzionale intorno al quale ruota buona parte delle trasformazioni della città europea alle soglie della modernità, le strutture postali costruite dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra costituiscono una testimonianza fra le più significative della fase di transizione verso la metropoli contemporanea. Dietro grandi facciate di misurata monumentalità i palazzi postali nascondono il dinamismo della città moderna. Il grande edificio postale moderno si colloca anche come polo di una trama di relazioni e percorsi dei nuovi tessuti urbani spesso a cerniera fra nuove espansioni e città consolidata o quale elemento determinante nelle ristrutturazioni dei centri antichi riproponendo ai progettisti, in forme inedite, l’antico problema del rapporto fra innovazione del tipo edilizio e permanenza del tessuto storico. Il libro, ristampa del volume del 1996, presenta i più bei palazzi delle poste mediante un ricco repertorio di immagini e schede dedicate a ciascun edificio e traccia un itinerario tra architettura e arte. Raccontando la storia di un’infrastruttura divenuta ormai punto di riferimento nelle nostre città racconta anche una parte della storia e della storia dell’arte italiane.

(dal risvolto di copertina di: Le belle Poste. Palazzi storici di Poste Italiane. Testi di Maria Bianca Farina, Giuseppe Strappa, Giorgio Di Giorgio, Manuela Del Bufalo, Maria Grazia Flaccomio, Bruno Principe, Antonella Riccardi; fotografie di Luciano Romano, Giovanni Ricci-Novara e Massimo Listri Franco Maria Ricci, pagg. 192, € 120)

I palazzi delle Poste, castelli per le Parole
- Gli edifici postali sorsero dopo l’Unità assieme alle stazioni ferroviarie. Erano imponenti e belli per esprimere il genio italico al servizio del popolo. L’età d’oro fu il Ventennio: oggi appaiono superflui -
di Fulvio Irace 

Nel 1862, appena un anno dopo l’Unità d’Italia, nacquero le Regie Poste con il compito di mettere in comunicazione l’intero Paese e rendere visibile il messaggio di una Nazione nuova.
Con la sua rilevanza istituzionale, questo nuovo servizio doveva anche documentare l’ingresso dell’Italia nella modernità, lasciandosi alle spalle un passato di carrozze, corrieri, strade battute e stazioni di posta: quella rete di contatti capillari che stava per essere sostituita dalla più robusta ossatura delle strade ferrate. Il servizio postale così come lo intendiamo oggi era nato infatti in Europa insieme alle ferrovie, espressione diretta della globalizzazione avviata dalla rivoluzione industriale che, cancellando i limiti dei confini nazionali e grazie agli spostamenti più veloci, faceva improvvisamente sembrare il mondo molto più piccolo.
La nuova rete doveva essere resa evidente e percepibile a tutti, e perciò andava monumentalizzata. Così le Stazioni ferroviarie divennero le porte civiche di città prive ormai di mura e nodi di raccolta di quelle lineari geometrie di ferro che sostenevano l’impalcatura del territorio. Gli edifici postali - che spesso a esse si ispirarono con i grandi saloni di raccolta per il pubblico - seguirono a ruota. Con una differenza importante però: se le Stazioni sorsero ai margini delle città antiche, le Poste invece si incistarono nel corpo stesso delle città, definendosi come nuovi hub dello scambio e vere e proprie borse merci dell’informazione. E dalle Borse e dalle Banche, non a caso, trassero partito nella fase più matura della loro progettazione, adattando i grandiosi acquari di vetro dei loro atrii e dei saloni centrali agli usi della sportelleria e della corrispondenza.
Naturalmente il processo di messa a punto del format non fu immediato e, nel loro insieme, gli innumerevoli palazzi delle Poste Italiane, nelle loro più diverse declinazioni artistiche e strutturali, testimoniano fedelmente le trasformazioni tecniche, politiche e sociali che il Paese visse nel passaggio tra XIX e XX secolo, come bene documenta la pubblicazione del volume Le belle Poste. Palazzi storici di Poste Italiane, che raccoglie e commenta oltre trenta casi studio realizzati tra il 1894 (le Poste di Trieste) e la stagione del Ventennio.

La grandeur degli inizi si affidò a un amalgama eclettico di stili che aspiravano allo status di uno “stile nazionale”, contaminandosi però con le tradizioni regionalistiche dell’Italia pre-unitaria. Se a Trieste l’architetto viennese Friedrich Setz tradiva le ascendenze culturali dell’Impero austro-ungarico, a Pesaro il bolognese Collemarini dovette addirittura confrontarsi con le reliquie dell’antichissima chiesa di San Domenico, così come a Venezia ci si limitò a ristrutturare il Fontego de’ Tedeschi. Avviato il XX secolo, l’eredità delle influenze storiche locali venne assoggettata alla flessibilità dello stile “nuovo”, il Liberty, che Francesco La Grassa utilizzò a piene mani nelle Poste di Trapani: la seduzione delle decorazioni floreali dei soffitti e i delicati disegni a tempera includono la suggestione di influenze moresche nell’adozione di archi acuti che incastonano le finestre e negli arabeschi dei trafori della balaustra di coronamento. Attenzione, non si trattava solo di generici espedienti per abbellire gli ambienti, ma di oculati tentativi di fondere in maniera appropriata i contributi del genio italiano, in modo da conferire agli edifici postali la dignità di veri e propri palazzi per il popolo. Bisognava coniugare funzionalità e monumentalità, attribuendo alle facciate quel ruolo di “magnificenza civile” che l’ultima stagione del neoclassicismo aveva impostato come tema per la grandezza delle città, ma coniugandola secondo i mutati canoni della sensibilità estetica dei tempi moderni nello Stato unitario. Il vero colpo d’ala avvenne però nel Ventennio fascista, quando l’architettura rivendicata come “arte di Stato” fu chiamata a cimentarsi con una propria “maniera” e trovò nell’ingegnere-architetto Angiolo Mazzoni il suo “Virgilio”. Vero deus ex machina dell’apparato progettuale delle Poste e Comunicazioni e autore prolifico di sedi in tutto lo Stivale, Mazzoni diede avvio al periodo d’oro delle Poste Italiane. La ripresa dell’ideale della sintesi delle arti - sostenuta sia dal muralismo monumentale di Mario Sironi che dalla Scapigliatura del secondo futurismo di Prampolini, Fillia e Benedetta Marinetti - fu determinante nell’apparecchiatura di fabbriche audaci e imponenti, che oggi ci sorprendono come musei popolari dell’arte italiana, incunaboli delle trasformazioni della cultura visiva e delle arti, oltre che, ovviamente, dell’architettura. Se Sironi a Bergamo cantava l’epopea dell’Italia agricola, a Palermo e a Trento gli aereofuturisti idolatravano le acrobazie del volo, l’elettricità dei trasmettitori, il turbinio delle acque agitate dalle eliche e dai motori dei transatlantici. Oggi larga parte di questo patrimonio è entrato - come le Banche, le Borse, le Fabbriche - nella categoria degli edifici dismessi: vittime della rivoluzione digitale, hanno confermato la nota diagnosi di Marx: «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». La profezia che Victor Hugo attribuì all’arcidiacono di Notre Dame - «questa [la stampa] ucciderà quella ['architettura di pietra delle cattedrali]» - alla fine del ciclo industriale si è rivelata una sindrome letale: se il libro di carta minava nel XIX secolo le fondamenta dei libri di pietra, oggi il click delle email è bastato per distruggere questi ultimi castelli di lettere e di parole, confermando la convinzione di molti che internet non si addice all’architettura.

- Fulvio Irace - Pubblicato su Domenica del 25/9/2022 -

giovedì 24 novembre 2022

Il Paradigma dei Karamazov !!

Se la nascita del sacro viene fatta spesso coincidere con quella della religiosità, la sua esclusiva collocazione nell’ambito delle religioni appare semplicistica. L’ambiguità del termine stesso si riflette in parte in quella del concetto di spiritualità che può prescindere da quello di divino, che si tende invece a considerare come sua parte imprescindibile. Che la crisi odierna del sacro sia coincisa con la nascita di nuovi “culti” può far pensare a uno stretto legame tra i due fenomeni, ma il confine tra sacro e profano è da sempre indefinito. L’avvento della scienza e delle nuove tecnologie ha sicuramente partecipato al processo di desacralizzazione proprio dei nostri giorni. Le neuroscienze hanno inciso profondamente sulla nostra visione della vita, ma più che avere concorso a determinare questo processo hanno obbligato a ridefinire il concetto di sacro. Su questo tema attuale e affascinante si confrontano in questo libro filosofi, teologi, antropologi e neuroscienziati.

(Dal risvolto di copertina di: Quel che resta del sacro, di Autori vari. Mimesis, pagg. 366, € 26)

Credere Ma con psicologia
- Una raccolta di saggi sui rapporti fra contemporaneità e dimensione religiosa tocca temi propri della ricerca scientifica -
di Gianfranco Ravasi

Nell’attuale società secolarizzata tante volte si declama l’eclisse del sacro, altrettante volte si proclama il suo ritorno e sempre si conclama che si tratta di una categoria ambigua, mentre si reclama la sua necessità.
Una pattuglia di una quindicina di studiosi di differenti estrazioni e competenze si dedica ora a «quel che resta del sacro», raccogliendo filamenti ben robusti che si innervano nell’esperienza religiosa, nell’arte e persino nelle neuroscienze. È nata, così, una silloge che - come accade spesso in questo genere letterario - è da comparare a un arcipelago le cui isole sono autonome e con diversa vegetazione, pur appartenendo a un sistema geografico che trova unità solo nella mappa d’insieme. Indispensabile è, allora, partire proprio da quest’ultima che, fuor di metafora, è la sintesi iniziale, dal titolo dialettico («utilità e danno della nozione di sacro»), elaborata da un raffinato studioso del fenomeno, Andrea Aguti dell’Università di Urbino. Il taglio adottato è quello della filosofia e antropologia della religione per cui si parte obbligatoriamente dal classico Il sacro di R. Otto (1917) secondo il quale siamo davanti a un sinonimo del divino. Concetto che sarà paradossalmente «desacralizzato» da E. Durkheim e R. Caillois che invece rubricheranno come sacri i valori intangibili del vincolo sociale, mentre M. Eliade mediava identificando nella «realtà satura d’essere» la ierofania. Si potrebbero elencare a lungo le oscillazioni semantiche di questa categoria, strattonata anche a esorcizzare la violenza sociale con R. Girard, fermo restando che biblisti e teologi espungono l’accezione sinonimica di due termini, «sacro» e «santo», perché il primo sarebbe oggettivo, rituale, spaziale, mentre il secondo è morale, personale, esistenziale (in questo brilla il messaggio dei profeti, ripreso ed elaborato da E. Lévinas). Con la premessa di Aguti sullo sfondo, si può procedere nell’arcipelago le cui isole, però, rivelano molto altro. Ovviamente è impossibile, in una recensione dai limiti così circoscritti come la nostra, attraccare a ognuna della dozzina di isole tematiche, governate da autori diversi. Se volessimo stare ai nostri interessi immediati, punteremmo subito allo studio biblico sul binomio «puro-impuro» che è un modo per tracciare la linea di confine tra sacro e profano, frontiera - riferendoci a un altro saggio - molto più sottile e mobile di quanto si pensi a livello comune. Oppure ricorreremmo al territorio del dialogo interreligioso e interculturale ove si erge il memoriale di un nostro amico e grande artefice di confronti come è stato monsignor P. Rossano.
Oppure, per rimanere nell’ambito delle amicizie personali, sosteremmo davanti al ritratto filosofico di J. Kristeva col suo «sacro affettivo» (aggiungerei ai testi citati anche il suo «amore» per Teresa d’Avila): a lei sono accostate altre figure esemplari come M. Zambrano e A. Damasio e la sua lettura «bio-semiotica». Attrae anche l’imponente percorso tra «miti, musica e numeri», per non parlare poi del ricorso al «paradigma di Dostoevskij», autore che riappare quando ci si interroga sul «sacro, il diabolico e la fiction», ove si trova in compagna di Sartre e persino di Stephen King (ma si risale anche a san Paolo), in un esercizio di estetica analitica e fenomenologica del sacro.

Curiosa è la coppia Darwin e Lombroso con l’influsso del primo che, letto nella versione francese dal secondo, lo spinse a trasformare la «selezione» naturale darwiniana in «elezione» naturale. Suggestiva è l’area dedicata alla «psicologia e fenomenologia del sacro», ove il concetto si fluidifica, si inoltra sui viali dell’infosfera, si immanentizza nel self-fullfillment, con certe cadute dal messaggio al massaggio e dallo yoga allo yogurt della dieta. C’è, però, in molti saggi proposti il serpeggiare di un fiume talora sotterraneo, altre volte in emersione. Esso reca il nome, un po’ magico (o mantra) di «neuroscienza», una disciplina per altro di alta complessità, messa in dialogo con la teologia nell’articolo sulle «tentazioni del sacro», tra le quali spicca quella gnostica della disincarnazione e disumanizzazione del sacro stesso. Un saggio specifico, però, reca nel titolo promettente un riferimento esplicito al «cervello religioso» e, se si vuole, alla «neuroteologia» (Aldous Huxley). Nella riflessione ramificata proposta dall’autore, che è docente proprio di neurologia, gli spunti che possono interessare il teologo sono vari, a partire dai fenomeni di percezione religiosa che, a livello cerebrale, si connettono con le facoltà del linguaggio e della socialità, subendone anche le relative degenerazioni o deviazioni. Tuttavia, si segnala - contro ogni riduzionismo «scientista» - che tale percezione non si esaurisce nella pura e semplice componente neuronale o nei meri meccanismi biologici, nella consapevolezza della necessità del ricorso a un’interpretazione più lata di indole umanistica. La nostra semplificazione sintetica vuole solo evocare quanto sia delicata e complessa la questione. Nella stessa scia ci accontentiamo di segnalare che i citati studi su Lombroso e Dostoevskij presenti nel volume si inerpicano lungo sentieri analoghi, in particolare con lo scrittore russo e il suo capolavoro I fratelli Karamazov, adottato come «paradigma» per la distinzione tra mente e cervello attraverso il «dispiacersi per Dio», una categoria spirituale dostoevskiana di non semplice ermeneutica .

- Gianfranco Ravasi - Pubblicato su Domenica del 25/9/2022 -