I demoni si risvegliano [***]
- di Robert Kurz -
*** Nota: il testo che segue - "I demoni si risvegliano" ["Die Dämonen erwachen"] - è una traduzione dell'ultimo capitolo del libro Schwarzbuch Kapitalismus: Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft (“Il libro nero del capitalismo: un canto del cigno per l'economia di mercato”). Come indicato dal sottotitolo, il libro è una storia critica del capitalismo proprio nel momento in cui il sistema sta affrontando il suo collasso storico].
Il capitalismo è arrivato alla fine del suo volo cieco attraverso la storia; ora può solo distruggersi. Ma quanto più appare innegabile che l'umanità non può continuare a riprodursi secondo le modalità della "bella macchina" e di quel suo unico movimento tautologico fine a sé stesso, tanto più si indurisce quella che è la forma della coscienza capitalista. La crisi mondiale della Terza rivoluzione industriale, ormai non riesce più a trovare alcun progetto emancipatorio da mobilitare come alternativa sociale. In genere, la critica radicale del capitalismo viene considerata come se fosse solo uno strano anacronismo, e ciò perché nella coscienza sociale - sia dell'«uomo della strada» che nella letteratura delle scienze sociali – essa viene identificata solo con il paradigma museale, irrimediabilmente obsoleto, del movimento operaio, il quale in realtà è sempre rimasto immanente al sistema. In tal modo, la riflessione teorica scompare completamente dalla sfera pubblica capitalista, sostituita in maniera superficiale da una cultura fatta di interessi mediatici autoreferenziali, che si preoccupa solo di attrarre l'attenzione: la "teoria" si presenta così come un'impresa commerciale come tutte le altre. Ma il ludico culturalismo postmoderno, che continua a ridefinire la povertà quasi come un travestimento, e l'umiliazione sociale come un gioco, è solo un evento superficiale sotto il quale si agita già qualcosa di molto diverso. Sebbene l'«economia del come se» abbia portato a una «cultura del come se» - che apparentemente non prende più nulla sul serio e allo stesso tempo diffonde democraticamente lo spirito conservatore piccolo-borghese a grande velocità - non può più nascondere la verità che la crisi irrisolta del capitalismo è molto grave, e con il passare del tempo può essere contenuta sempre meno. Ormai non è più un segreto che l'ostinata coscienza sociale, la quale vuole aggrapparsi a tutti i costi alle forme sociali del capitalismo, si è posta silenziosamente e inesorabilmente alla ricerca di un nuovo paradigma, che è poi quello più antico dell'ideologia borghese. I demoni si sono risvegliati e stanno tornando a passi da gigante al pensiero e all'azione delle monadi postmoderne della concorrenza. Si sta facendo strada una nuova, radicale biologizzazione della società, e quello che era il regno animale umano del XIX secolo sta ora tornando in una veste che è modernizzata solo superficialmente. Al di là del terreno di gioco culturalista dei supplementi culturali postmoderni, il trionfo neoliberale ha reso accettabile la nuova naturalizzazione della democrazia sociale innanzitutto nell'ideologia economica. La generalmente invocata fede nell'economia di mercato - vista come "ordine economico naturale" - insieme alla "disoccupazione naturale" di Friedman, e ai vari premi Nobel conferiti alla ripetizione semplicistica dell'idea settecentesca di una "natura umana" economicamente egoista, hanno dato alimento a un darwinismo sociale palese o nascosto, che per lungo tempo ha potuto sbizzarrirsi senza obiezioni intellettuali, passando dalle considerazioni circa un'«economia medica» fino alla giustificazione pseudo-naturalistica della selezione sociale. Se oggi la dottrina malthusiana può essere nuovamente discussa positivamente e con compostezza nelle riviste della sinistra liberale, ciò avviene perché questo indica il grado che ha già raggiunto una nuova "darwinizzazione" della coscienza sociale. Nelle nebbie di questa ri-darwinizzazione neoliberista dell'economia e del sociale, si è verificata da tempo una regressione di pensiero ancora più profonda. Insieme alla teoria sociale ispirata a Marx e al pensiero riflessivo della critica sociale, tutte le correnti teoriche, le scuole e gli approcci - sia in ambito accademico che giornalistico - che pretendono di comprendere la specie umana come se fosse un essere sociale e psicologico, e quindi di comprendere la società sulla base della sua stessa costituzione storica, si trovano ora in ritirata, o sono già scomparse. La culturalizzazione postmoderna del sociale è stata solo una parentesi sulla strada della sua rinnovata biologizzazione. Dopo il discorso autoreferenziale e insignificante della riduzione culturale, la cui funzione era solo quella di tenere a bada la critica radicale dell'economia, viene ora divulgata la scienza naturale, o più precisamente: la pseudo-naturalizzazione della società e della coscienza.
Le vecchie star intellettuali dell’ex-sinistra scoprono le presunte "costanti antropologiche" di fronte alle quali la storia svanisce. La psicosomatica è superata, e la psicoanalisi viene considerata confutata. Secondo il nuovo materialismo scientifico volgare, non è l'inconscio a guidarci, bensì la biochimica e i processi neurali del nostro corpo. In generale, l'essere umano appare sempre meno come un essere sociale, mentre la società tende sempre più ad apparire come un "corpo" biologico. Inoltre, gli individui si prendono cura soprattutto della propria pelle e scoprono la propria corporeità muscolare; il culto postmoderno dell'abito si rivolge ora al fisico nudo, e gli agenti di borsa del capitalismo da casinò cercano di riprodurre nelle palestre l'aspetto di figure come Arno Breker. Una sorta di estetica nazista modificata del biologico è in aumento, e l'esoterismo popolare, in quanto filone della cultura di massa postmoderna, vi si inserisce e vi si adatta alla stregua delle apparizioni, del misticismo dell'Estremo Oriente e del culto indo-germanico prima del 1933: ogni genere di fantascienza della cospirazione globale diventa un bestseller e diventa la lettura preferita dei conducenti di autobus, dei disoccupati e delle assistenti del dentista. La genetica, avanguardia di una nuova scienza della riproduzione e della selezione dotata di un vero e proprio potere pervasivo, comincia già a ideologizzarsi nel turbine sociale del neoliberismo. L'assunto secondo cui ogni fenomeno sociale e individuale sarebbe già preformato "geneticamente" o neuro-biologicamente sta diventando sempre più radicato, a partire da contesti apparentemente remoti. Il neurologo americano Steven Pinker sostiene che il linguaggio, «negli esseri umani è altrettanto innato di quanto lo sia la proboscide nell'elefante» e che deve esistere un «gene della grammatica». Per il premio Nobel Francis Crick, di San Diego, anche il libero arbitrio consiste solo in «nient'altro che neuroni». Gli scienziati dell'Istituto Robert Koch di Berlino sostengono di aver trovato un virus che si presume scateni la malinconia, e viene trasmesso dai gatti domestici. Recentemente, il biologo molecolare statunitense Dean Hammer ha attribuito l'omosessualità al gene Xq28, il quale si trova in una sezione terminale del cromosoma sessuale X.
Le prove incerte, un misto di ipotesi, risultati e interpretazioni sperimentali, sembrano non preoccupare più nessuno, a partire dal fatto che le scienze naturali sono ovviamente coinvolte in un processo di demarcazione dei confini del capitalismo e nei programmi di trattamento della crisi. Le loro problematiche, che dovrebbero essere "puramente oggettive", sono facilmente influenzate da quella corrente intellettuale piena di paura e di odio che fa parte della società mondiale del capitalismo in crisi. Le scienze naturali - come in tutta la loro storia che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo - non hanno mai voluto, né potuto, riflettere criticamente sulla propria posizione sociale, nemmeno dopo la seconda guerra mondiale, se non occasionalmente attraverso considerazioni morali secondarie e superficiali; e poiché nulla è cambiato in questo senso, i loro stessi demoni ora ritornano anche nella nuova crisi mondiale. La "genetizzazione" del degrado sociale si sta diffondendo profondamente nelle scienze sociali e umane. Già per mezzo della pubblicazione del loro "The Bell Curve", gli scienziati sociali americani Richard Herrnstein e Charles Murray hanno stabilito un legame tra «razza, geni e quoziente intellettivo» che definisce pseudo-biologicamente i neri americani ponendoli al di fuori della "élite cognitiva". La costruzione di un "Quoziente di Intelligenza" costituisce il legame tra il vecchio e il nuovo discorso della darwinizzazione. In un dibattito "genetico" altamente ideologico, possiamo vedere come, di fronte al ripetersi dell'ascesa delle "classi pericolose" dei poveri "disoccupati" del capitalismo globale in crisi, gli eugenisti e i topografi cranici del XIX e dell'inizio del XX secolo ritornino alla fine del secolo - sotto la veste di una "scienza genetica della selezione" - a ridefinire i "criminali nati", i "subumani" e la "vita indegna di essere vissuta". È prevedibile che nel prossimo futuro ci venga presentato un "gene della criminalità" o un "gene della povertà". E così si arriva all'invenzione di un destino sociale geneticamente ancorato, ovviamente, al momento giusto, per una politica neoliberista di tagli alla spesa sociale. Non è la forma capitalistica a essere messa in discussione e sottoposta a critica, ma gli esseri umani "in eccedenza", i quali vengono sempre più visti ancora una volta come delle «esistenze che sono un peso». Quello che è quasi un consenso clandestino all'interno della società, viene già applicato apertamente dalle bande neonaziste ai senzatetto e ai disabili. Nella stessa misura in cui la biologizzazione e la naturalizzazione della società cominciano a rientrare nella coscienza della crisi del capitalismo e ad affiancare la selezione sociale neoliberista, questa tendenza omicida sta tornando ad essere una pseudo-critica di destra e fascista del liberalismo e dell'«economizzazione del mondo» capitalista. In una compulsione patologica a ripetere, la nazione "etnica" [völkische] e la "razza" [Rasse] vengono proposte come contro-immagini fantasmatiche di una critica radicale dell'economia che il marxismo del movimento operaio non è mai riuscito a realizzare. In tal senso, non meno "tedesca" è l'ultima novità della "nuova destra" francese, il cui mentore Alain de Benoist s'é messo in viaggio verso il nazismo dalla fine degli anni Settanta; ammantato di una presunta innocenza che immagina libera da Auschwitz. De Benoist non tralascia niente; celebra il fantasma dell'«indo-germanesimo», e per lui la "razza" è un fattore positivo, "contrassegnato" dalla «frequenza media di alcuni geni (!) che stabiliscono per una determinata popolazione caratteristiche o predisposizioni fisiche, patologiche e psicologiche» (de Benoist 1983, 53). Seguendo il biologo americano Robert Ardrey, egli afferma che gli esseri umani sono dei «carnivori con un grande cervello» (op. cit., 362), nel cui organismo sono biologicamente inscritti dei criteri di competenza: «Il nostro più antico antenato era un predatore. La sua natura predatoria è la cosa più sicura che abbiamo ereditato. L'essere umano non è il discendente di un angelo caduto, ma di un antropoide (altamente) evoluto. È un predatore» (de Benoist, op. cit., 362).
Quella che si presenta come una critica del liberalismo non fa altro che ripetere i suoi presupposti assiomatici da Hobbes in poi, ma in una forma ancora più accentuata, visto che dal XIX secolo essa è stata ideologicamente sovrapposta alla competitività economica, ed è stata propagandata sotto forma di una darwiniana «continuazione della competizione con altri mezzi» tra "razze", "popoli" e "nazioni". E così accade che De Benoist non viene «buttato fuori dall’uscio» per aver fatto rivivere questo liberalismo razzista mitizzato, ma viene preso sul serio e visto come un radicale di destra accettabile dalla borghesia e, con un gesto di tolleranza, viene invitato pertanto ai congressi scientifici. Il risorto Adolf Hitler, qui parla in francese. Ma, naturalmente, da tempo è anche tornato al tedesco. Nella patria della pseudo-critica irrazionale-romantica e razziale-biologica della modernità, questo demone dell'«ideologia tedesca» - grazie al quale l'invenzione borghese-liberale della "nazione" è stata nobilitata da Herder e Fichte, e portata al rango di essere sanguigno sovra-storico, e quindi contrapposta alla sdegnosa democrazia occidentale di Mammona - si alza ora di notte dal suo letto con sorprendente coerenza, per reagire alla crisi capitalistica dopo la «fine del marxismo». Ora viene pagato amaramente il fatto che la sinistra, nonostante Auschwitz, non ha mai compreso veramente questo derivato demoniaco del liberalismo, e non lo ha mai criticato fino in fondo. Per di più, il contenuto antisemita degli utopisti, e il contributo dato dallo stesso socialismo alla darwinizzazione del sociale e all'ideologia del sangue in generale sono rimasti celati, così come, in quanto tale, non mai è stata evidenziata criticamente quella che è la radice liberale del marxismo del movimento operaio. Anche sotto questo aspetto, la "nuova" sinistra del 1968 non ha mai superato la vecchia sinistra del movimento operaio. Dopo aver tematizzato per breve tempo il feticismo moderno del sistema di produzione delle merci, il carattere distruttivo e irrazionale del "lavoro" astratto e della razionalità dell'economia aziendale, l'integrazione funzionalista della scienza, ecc. Ma senza aver mai attraversato questo Rubicone, la sua prigionia nella «gabbia di ferro» delle categorie capitalistiche è rimasta sigillata, e non solo a livello di forme economiche. Dato che la critica della sinistra al capitalismo era troppo miope, e non raggiungeva i suoi fondamenti categoriali, la "nazione" rimaneva esente dalla critica, proprio come lo rimaneva il lavoro astratto; non era un problema per la sinistra che il crimine contro l'umanità si annidasse in una simile categoria in quanto tale, e che dopo Auschwitz non solo la «nazione tedesca», ma proprio la "nazione" in generale doveva essere rifiutata dal basso come forma capitalistica di società. Invece, la "nazione" è stata introdotta di nascosto nel dibattito di sinistra attraverso la mitizzazione dei «movimenti di liberazione nazionale» nella periferia capitalista, di modo che così poteva essere utilizzata insieme alla "democratizzazione" come se si trattasse di un concetto positivo. Il vecchio nazionalismo socialista, che era stato adattato in questo modo a partire dal 1848, poteva così essere caricato positivamente ai fini della propria nazione borghese, nel senso della costruzione della DDR in quanto «nazione tedesca socialista». Dopo il 1989, l'unica cosa che ne è rimasta è la «nazione tedesca»; così come, per inciso, l'unica cosa che è rimasta del socialismo di Stato in tutta l'Europa orientale è stato il nazionalismo come forma di decadenza. Se la «disputa tra gli storici» degli anni Ottanta, quando Ernst Nolte - parallelamente alla crisi incipiente della Terza rivoluzione industriale - propose la sua perfida riabilitazione del nazionalsocialismo in nome di una legittimazione democratica anticomunista, sembrò che si trattasse ancora di un'avanzata del pensiero conservatore di destra - combattuto come sempre dalla sinistra -, da allora l'«ideologia tedesca» ha fatto irruzione nei processi di decomposizione della sinistra in un modo che probabilmente non si pensava possibile fino a pochi anni prima. Ciò è tanto più significativo in quanto questa transizione è avvenuta in un clima sociale che difficilmente può essere frainteso. Il crollo della DDR e l'annessione del suo territorio alla RFT, celebrata come «unificazione tedesca», era già un momento della (negata) crisi mondiale del sistema di produzione di merci; e così «unificazione tedesca», crisi socio-economica e forme di reazione razzista si fusero in un complesso globale di «disordini di massa»: in nome della comunità di sangue, ora, nella Germania della fine del XX secolo le persone venivano nuovamente perseguitate, bruciate e picchiate a morte. Questi "eccessi" delle bande di estrema destra, come è stato sufficientemente sottolineato in commenti anche solo blandamente critici, trovano un'approvazione silenziosa e misconosciuta nella "maggioranza silenziosa" del "centro" della società. E, soprattutto nella Germania dell'Est, è emersa come un triste residuo della DDR una cultura pop e di massa francamente neonazista. Quanto più la crisi globale della Terza rivoluzione industriale viene minimizzata, negata e distorta ideologicamente, tanto più la sindrome antisemita, che non è mai completamente scomparsa, ritorna e rientra massicciamente nella coscienza sociale. Questo antisemitismo, che tra tutti i demoni della modernità è il peggiore, porta all'estremo quella che è la spiegazione irrazionale del mondo e della crisi, e si diffonde nel contesto del capitalismo casinò assai prima del dovuto crollo finanziario globale. Così, per la quarta volta nella storia dello sviluppo capitalistico, dopo le rivolte dell'hep-hep [*1] dell'inizio del XIX secolo, abbiamo di nuovo le esplosioni di odio antisemita e i pogrom che hanno accompagnato la crisi e il decollo del capitale finanziario. Parallelamente alla struttura del capitale monetario transnazionale, oggi l'antisemitismo si sta globalizzando come mai prima d'ora: dall'Atlantico agli Urali, e persino in Giappone, fioriscono le agitazioni contro le comunità ebraiche; e persino Louis Farrakhan, il leader degli influenti "musulmani neri" negli Stati Uniti, predica diatribe di odio antisemita. Anche in Germania è evidente quanto poche considerazioni siano state tratte da Auschwitz, nonostante tutto il falso melodramma che se n'è ricavato. Sebbene i "segni dei tempi" possano essere compresi abbastanza chiaramente, la sinistra socialmente disarmata si appropria in maniera fantasmagorica degli spettri ideologici della crisi capitalistica. Da un lato, il discorso sulla "democratizzazione" ha prodotto in maniera conseguente quella sinistra alla Armani che oggi cogestisce responsabilmente la crisi capitalistica e la repressione sociale. Mentre taglia in ogni maniera la vita dei beneficiari del welfare e dei disoccupati, questa ex sinistra statalista scaglia nel circo politico mediatico parole di plastica che dimostrano solo quanto irreale stia cominciando a diventare la politica: la "comunità democratica delle nazioni", in armonia con una "Europa democratica e un'economia di mercato" e un "patriottismo costituzionale" tedesco habermasiano, dovrebbe scacciare i demoni che nascono all'interno di questa stessa democrazia e rivelarne la falsità. Ma in questo "patriottismo costituzionale", la stessa "nazione" continua a essere ancora presente come categoria positiva e rimane il termine di riferimento centrale per tutte le dichiarazioni di crisi irrazionale e le campagne di esclusione razzista. In questo modo, la sinistra democratica di Armani contribuisce alla darwinizzazione della coscienza sociale, proprio come fa con la sua naturalizzazione neoliberale dell'economia capitalista. In Germania, questo non è mai stato così evidente come nel dibattito sulla riforma della legge sulla cittadinanza. Il tiepido progetto del governo di sinistra "rosso-verde", che non voleva in ogni caso abolire la comunità di sangue e di discendenza tedesca legalmente codificata, ma solo modificarla, si è concluso, dopo una massiccia e riuscita campagna di mobilitazione dei conservatori per il diritto di sangue, con un compromesso marcio che non toccava in alcun modo decisivo quello che rimane il fondamento etnico della democrazia tedesca.
D'altro canto, una parte della sinistra sessantottina, con il suo riferimento positivo alla "nazione", è diventata il promotore diretto di un nuovo discorso di dominazione ed esclusione nazionale. La "nazione tedesca" è stata scoperta come fosse un oggetto del cuore da far valere contro la globalizzazione capitalista. Bernd Rabehl, l'ex portavoce della rivolta studentesca, oggi si mette in evidenza come profeta etno-nazionale, allo stesso modo in cui fece Horst Mahler, ex avvocato e mentore della "Frazione dell'Armata Rossa" (RAF). In una "rivoluzione culturale di destra", la nuova destra e la vecchia sinistra appaiono come strettamente unite.
Mentre in questo clima la sinistra "costituzionalmente patriottica" di Armani e del "nuovo centro" applica le leggi feticistiche del denaro, la sinistra etnica diventata nazionalista, insieme ai neonazisti, e rilancia la falsa critica razzista e antisemita del denaro che porta sempre all'omicidio. Sempre più scrittori di spicco nella RFT aderiscono all'irrazionalismo nazional-razzista. Dopo che il letterato Botho Strauss aveva già dichiarato il suo sostegno ai motivi e ai miti reazionari di una "critica del capitalismo" nazionalista attraverso una polemica intitolata "Canzone della capra troppo cresciuta", il romanziere tedesco Martin Walser gli ha dato il suo appoggio in occasione dell'assegnazione alla sua persona del "Premio per la pace del Commercio del Libro tedesco":
«Tutti conoscono il nostro fardello storico, l'eterna vergogna, non c'è giorno in cui non ci venga presentata [...] Nessuna persona seria nega Auschwitz; nessuna persona ancora capace di ragionare non prende sul serio l'orrore di Auschwitz; ma quando questo passato ci viene presentato ogni giorno dai media, mi accorgo che qualcosa in me resiste a questa presentazione permanente della nostra vergogna. Invece di essere grato per l'incessante rappresentazione della nostra (!) vergogna, inizio a distogliere lo sguardo (!). Vorrei capire perché in questo decennio il passato viene riproposto come mai prima. Quando mi rendo conto che qualcosa dentro di me si oppone a questo, cerco di ascoltare le ragioni della rappresentazione della nostra vergogna, e quasi mi rallegro quando penso che posso scoprire che il più delle volte la ragione non è più il ricordo, l'incapacità di dimenticare, ma la strumentalizzazione della nostra vergogna per scopi attuali [...] A qualcuno non piace che vogliamo superare le conseguenze della divisione tedesca e dice che stiamo rendendo possibile una nuova Auschwitz. Anche la stessa divisione, finché è durata, è stata giustificata da autorevoli intellettuali con il riferimento ad Auschwitz [...] Nel 1977 dovevo tenere un discorso non lontano da qui, a Bergen-Enkheim, e colsi l'occasione per fare la seguente confessione: "Trovo intollerabile che la storia tedesca - per quanto brutta sia stata alla fine - si concluda con un progetto catastrofico. ...] Questo è rilevante perché ora tremo di nuovo di audacia quando dico: Auschwitz non è adatto a diventare una routine minacciosa, un mezzo di intimidazione che può essere usato in qualsiasi momento, o una clava morale, o anche un semplice esercizio obbligatorio [...]"» (Walser 1998, 17 ss.).
Con questo discorso, involontariamente, Walser spiega in che modo l'attuale "identità nazionale" tedesca possa solo portare a «essere stanchi di venire costantemente ricordati per Auschwitz». È lo stereotipo dell'antisemita camuffato: «Auschwitz è stato un crimine, però...», quel «ma» che nasconde un abisso, costituisce metà della scusa preventiva dei recidivi, e la loro confessione che esiste qualcosa di decisamente più importante di Auschwitz, ossia la "nazione tedesca". Walser ritiene di «tremare di audacia» nel dire cose che per molto tempo hanno costituito il consenso della "maggioranza silenziosa", e che ora si fanno strada, uscendo dalla penombra delle chiacchiere fatte intorno a una birra al tavolo di un pub, e arrivano a essere un'aperta accusa di crisi sociale. Assorto nella sua personale scoperta letteraria del sentimentalismo nazionale, Walser non si rende conto (o non vuole farlo) dei cambiamenti nella coscienza sociale - mediati dalla crisi della Terza Rivoluzione Industriale - che in tal modo certifica, e di come la sua polemica confluisca nella valanga scatenata dalla polemica di Nolte. Julius Schoeps, direttore del Centro Moses Mendelssohn per gli studi ebraici europei, ha riassunto seccamente l'impatto che hanno avuto le parole di Walser e la polemica che ne è seguita: «In Germania esistono il 15% di antisemiti dichiarati. Inoltre, un altro 30% sono antisemiti latenti. Si preoccupano solo quando succede qualcosa del genere. La conseguenza è stata che abbiamo 17 profanazioni di tombe alla settimana. La norma in Germania è una a settimana» (Die Zeit 51/1998). Questa valutazione è tutt'altro che esagerata. La risonanza sociale mi è arrivata nel Natale del 1998, sotto l'albero di Natale della famiglia allargata, dove nessuno si sarebbe considerato un nazista. Ma all'ultimo minuto la frase: «In una democrazia si può dire qualcosa contro tutto tranne che contro gli ebrei». Grazie a Nolte, a Walser e ad altri, il mostro è tornato a sedersi al tavolo, con i piedi per terra, in profondità negli strati della classe media, dei sindacalisti e, non da ultimo, dei dipendenti pubblici, soprattutto nell'apparato del potere statale. Qualche anno prima, un discorso come quello di Walser, nell'autunno del 1998, sarebbe stato del tutto impossibile nel contesto della "cultura Suhrkamp". Dopo l'abbandono della critica dell'economia, che comunque non era mai stata particolarmente forte in questa scena letteraria, il discorso democratico di sinistra ora si intreccia involontariamente con il discorso neo-nazionale e neo-etnico, e lo fa al "livello più alto" del linguaggio letterario e della filosofia. E tuttavia c'è sempre qualcuno che si unisce a questa tendenza. La star democratica e filosofo alla moda Peter Sloterdijk - che anch'egli si trova nel periodo di transizione dalla riflessione socio-critica alla rinaturalizzazione del sociale - alla fine dell'estate del 1999, ha divagato circa le Regole del Parco Umano, viste come preludio a un discorso neo-biologico sulle "antropotecniche" genetiche; e lo ha fatto in maniera apparentemente innocente. Come molti intellettuali, Sloterdijk ha fatto pace con il sistema di produzione delle merci, con i suoi mercati del lavoro e con le sue contraddizioni socioeconomiche autodistruttive già prima del 1989 (se mai ha avuto problemi con tutto ciò); nella "Wirtschaftswoche"[*2] si è persino proposto come consulente filosofico del management transnazionale. Di conseguenza, il filosofo dei media non percepisce più i problemi del mondo nel loro contesto storico e attraverso il confronto con l'ordine dominante; lascia che il capitalismo sia il capitalismo, e trasferisce la consapevolezza del problema collocandola nell'a-storico e nell'antropologico. È proprio a questo che sono servite le deviazioni postmoderne attraverso Nietzsche e Heidegger. Quindi per Sloterdijk non si tratta di una crisi globale della forma capitalistica della società, bensì di una crisi che nasce periodicamente dalla «natura dell'essere umano»; ancora una volta, si ripete l'idea fondamentale di tutto il pensiero borghese, da Hobbes in poi, che considera lo "stato di natura umano" come una "guerra di tutti contro tutti". Così, quando Sloterdijk parla di "addomesticamento" dell'essere umano, non si tratta di una metafora della degradazione sociale e dell'interiorizzazione della disciplina capitalistica, ma la cosa viene intesa in un senso biologico terribilmente letterale; è - come afferma esplicitamente il testo pubblicato - una questione di "allevamento" (Sloterdijk 1999). Il risultato di un simile pensiero non può essere la questione dell'emancipazione sociale dalle relazioni sociali feticistiche, né il programma di sovversione del disciplinamento capitalistico, ma, al contrario, «la questione della conservazione e della formazione dell'essere umano» (loc. cit.). La storia appare così, se non come una «disputa tra diversi allevatori e diversi programmi di riproduzione», come l'espressione di una «deriva bio-culturale senza soggetto (!)» (loc. cit.). Il fatto che la "riproduzione umana" venga intesa piuttosto positivamente, diventa chiaro al più tardi quando Sloterdijk interpreta l'ondata di violenza nelle scuole del mondo occidentale, non come una forma di ferocia della competizione capitalistica, ma come un'inquietante "disinibizione", a partire dalla quale si potrebbe forse sperare in un «successo dell'addomesticamento», nella prospettiva di una «riforma genetica delle caratteristiche della specie (!)» (loc. cit.) fatta attraverso una «pianificazione esplicita dei tratti» (loc. cit.). Per più di cento anni, in ogni crisi, è sempre stata questa l'ultima parola del mondo conservatore piccolo-borghese degli amministratori statali e umani ad alto reddito: la biologizzazione dei problemi sociali diventa anche, allo stesso tempo, la loro soluzione. Secondo Sloterdijk, non si tratta dell'emancipazione sociale dalla "bella macchina" del feticcio del capitale, ma di una «lotta titanica... tra gli allevatori» (op. cit.), la quale richiama immediatamente lo stesso vocabolario usato da Spengler a proposito della sua «razza di persone dure come l'acciaio». E non si ferma qui: il «sostentamento degli esseri umani.... viene invocato come un compito zoo-politico», l'«arte di mantenere gli umani» (loc. cit.), fondata sulla «conoscenza dell'allevamento reale» di una "regia esperta" volta alla «pianificazione delle caratteristiche di un'élite che deve essere allevata appositamente per il bene dell'insieme» (op. cit.). Queste mezze frasi non hanno bisogno di un contesto per essere comprese, per quanto Sloterdijk finga di riferirsi solo a Nietzsche e a Platone (e in ogni caso in modo acritico); qui si sente un tono inequivocabile a partire dal quale non c'è da aspettare a lungo perché l'eco clamorosa arrivi al "centro" della società della crisi capitalistica. Il fatto che Sloterdijk ponga anche queste mostruosità sotto il segno del "libero arbitrio", rende evidente la parentela che tali «discorsi sulla tutela e l'educazione degli esseri umani» intrattengono con le idee liberaldemocratiche originarie di un Bentham, per il cui panopticon avrebbe rappresentato un arricchimento. L''«autocontrollo», anziché la liberazione, funzionerebbe in maniera più infallibile grazie a un radicamento biologico, genetico - anziché meramente pedagogico e punitivo - nelle «tracce comportamentali». Quanto più Sloterdijk si esalta, tanto più diventa chiaro, come lui stesso ammette, che questo «notturno filosofico» [*3] gli sia scaturito, come per osmosi, a partire dal discorso catastrofico interno alla Terza rivoluzione industriale. L'inequivocabile vicinanza con la "eugenetica" e la '"igiene razziale" - che l'autore elude solo di striscio e in modo poco plausibile, perché comunque egli argomenta in modo a-storico - indica in modo ancora più evidente il contesto della costellazione di crisi dell'epoca della guerra mondiale, che oggi si ripete con un'intensità molto maggiore e con un livello di potenza di accesso biotecnologico incomparabilmente più alto. Sloterdijk, che non vuole più formulare l'emancipazione sociale, e che promette di diventare il fratello intellettuale di un de Benoist, è finito di conseguenza nella "biopolitica" del "superuomo"; così facendo dimostra solo che chi non vuole pensare secondo Marx, deve continuare a pensare secondo Bentham, Sade, Malthus, Darwin e Nietzsche (con la loro divisione dell'umanità in "élite dominanti", masse "materiali" e "superflue"). E tuttavia, proprio perché questo pensiero manca di una concezione del limite economico interno dello sviluppo capitalistico, non arriva nemmeno a capire che la manipolazione genetica "biopolitica", prevista al posto di una politica sociale emancipatrice, anche se non finisce - com'è prevedibile - in una catastrofe, in termini di tecnologia del dominio, non può risolversi altro che un nulla di fatto. La Terza Rivoluzione Industriale, infatti, dissolve sempre più la "sostanza del lavoro", e si riduce così a una valorizzazione ad absurdum, indipendentemente dal fatto che le persone vogliano continuare a esistere sotto questa forma di servitù volontaria, o anche attraverso ancoraggi "biopolitici e/o genotecnologici". In quest'ultimo caso, il risultato non sarebbe un funzionamento regolare, ma gli esseri umani "allevati" finirebbero per trovarsi nella stessa situazione delle mucche nei villaggi abbandonati delle regioni in guerra civile, le quali muoiono miseramente perché non vengono più munte. Anche se considerata in modo immanente, la sgradevole idea della "riproduzione umana" non ha alcun senso: l'autocontraddizione socio-economica del modo di produzione capitalistico non può essere "descritta" biologicamente, né dalla parte del servo della gleba né da quella del padrone. E che razza di "superuomo" [Übermensch] sarebbe quello che potrebbe essere riprodotto attraverso la tecnologia genetica? In ogni caso, la capacità di riflessione critica, e di auto-riflessione, non è una funzione biologica, ma è il risultato dell'elaborazione discorsiva dei processi sociali. Al massimo, attraverso la manipolazione genetica, si potrebbero saltare cinque metri più in alto, oppure calcolare più velocemente di qualsiasi essere umano reale (ma mai quanto un computer), o diventare resistenti ai rifiuti tossici dell'economia di mercato, come avviene con certe popolazioni di topi; d'altra parte, voler fare qualcosa del genere su sé stessi presuppone già una stupidità incomprensibile in termini riflessivi. Che élite "sovrumana"! Con la sua retorica "biopolitica", Sloterdijk dimostra di aver già dato l'addio all'intellettualità riflessiva e di essere passato armi e bagagli alla bestialità sociale della scienza naturale che agisce socialmente. Si tratta di cartucce che vengono sparate per la disumanizzazione della competizione della crisi sociale, ma non di un percorso verso alcun futuro.
Di fronte a questi progetti da "Zarathustra" biologista, l'intellettualità democratica di Habermas suona il campanello d'allarme; senza che però questo riesca a portarci da nessuna parte: da dove proviene tutta questa bestialità, se non dalle viscere stesse della sua amata "economia di mercato e democrazia"? È necessaria una critica radicale ed emancipatrice della democrazia, la quale non è altro che una modalità auto-repressiva della cieca macchina del denaro capitalista. Anche l'intelligenza democratica di Habermas non ha mai preso una posizione fondamentale contro la vergogna e il disonore dell'esistenza dei "mercati del lavoro"; non capisce nemmeno perché mai in essi dovrebbero esserci vergogna e disonore. Di certo, non intende ammettere l'autodistruzione logicamente programmata, e irreversibilmente aggravata, dell'«economia di mercato e della democrazia», nella quale diventa visibile l'impossibilità di continuare la riproduzione sociale attraverso i "mercati del lavoro".
In queste condizioni, che valore può avere l'allarme lanciato contro il nuovo biologicismo e il darwinismo sociale da un'intellettualità democraticamente "addomesticata"? Nessuno. Perché non è altro che l'eco della propria storia che risuona nelle orecchie dell'intellettualità borghese repubblicana. La triste celebrazione della democrazia della Paulskirche del 1848 ha sempre negato che proprio da lì sia partita la pista che porta al nazismo. Le «idee del 1848» hanno precorso le «idee del 1914»; il democraticismo è andato di pari passo con il nazionalismo fin dall'inizio. Così, agli intellettuali della sinistra democratica viene oggi nuovamente rimproverato di non aver mai varcato il Rubicone della critica categorica al moderno sistema di produzione di merci. Non dovrebbe far riflettere il fatto che nella «cultura Suhrkamp» [*4], ora le loro opere si trovino accanto a quelle dei nuovi nazionalisti, etnici e biologi tedeschi?
Contro le bombe della demolizione sociale dei neoliberisti (incluse quelle provenienti dai Partiti della sinistra "rosso-verde" e dai loro eroi delle «esigenze di razionalità») e contro il nuovo nazionalismo etnico e il biologismo, Habermas non può fare altro che limitarsi a difendere il manuale di studi sociali democratici dei tempi del miracolo economico, nel mentre che, allo stesso tempo, lui e i suoi simili vogliono far passare le azioni di pacificazione della polizia mondiale dei «leviatani democratici uniti» come se si trattasse di una nuova «politica interna globale» dei "diritti umani" (attuata tra l'altro con bombardamenti localizzati). Tutto ciò ci ricorda terribilmente le raccomandazioni da parte delle autorità di difesa civile durante la Guerra Fredda che consigliavano, dopo un'esplosione nucleare, di mettersi una valigetta ventiquattrore sulla testa. Si tratta della stessa "politica democratica", con la sua frenesia di fare qualcosa senza senso rispetto a ciò che per Adorno era ancora «disastro» e «illusione», e che, nella fase finale della schiavitù del mercato del lavoro, si trasforma nei fantasmi antiumani della «biopolitica» e della «politica della specie». Sloterdijk può sentenziare che: «La teoria critica è morta» (Die Zeit 37/1999). Contro i discorsi disumanizzanti di Nolte, Strauss, Walser e Sloterdijk - che nascono dalle palesi contraddizioni interne della modernità in decomposizione e che, in ogni caso, hanno dalla loro parte un pubblico democratico - le scritture runiche dell'ipocrisia storica e sociale che sostengono lo Stato non possono certo essere un antidoto.
Naturalmente, non si tratta di una costellazione esclusivamente tedesca, sebbene abbia le sue radici storiche in Germania. In tutto il mondo - e in maniera più evidente nelle regioni economicamente collassate - l'impossibilità di sopravvivere nel capitalismo, che viene negata dalla fraseologia democratica, si traduce nelle forme di sterminio della competizione nazionale, "etnica" e pseudo-biologica. Come rovescio della medaglia dell'economia aziendale transnazionale, il pensare secondo le categorie della follia etnica fiorisce ovunque sulla terra. Tuttavia, anche così, la storia non si ripete come se fosse un'immagine nello specchio. Il deficit democratico lo si riconosce anche a partire dal fatto che il carattere della barbarie minacciosa viene giudicato male. Il totalitarismo politico della prima metà del XX secolo, che non è stato considerato come il prototipo del totalitarismo economico delle democrazie del dopoguerra, appare, proprio per questo, come un pericolo che si ripete immediatamente. In realtà, ci troviamo di fronte al processo opposto: il totalitarismo economico delle democrazie si sta disgregando dando luogo a frammenti e schegge pseudo-politiche.
Proprio nel momento del suo tramonto, la particolarizzazione della società capitalista diventa inarrestabile. Il risorgere del darwinismo sociale passa anche per il rivitalizzato paradigma microeconomico. Se la prima naturalizzazione borghese, e la biologizzazione del sociale avvenuta alla fine del XVIII e all'inizio del XIX secolo sono avvenute sotto l'impatto dell'individualismo liberale, e il periodo di massimo splendore del darwinismo sociale e delle idee di «igiene razziale», un secolo più tardi, ha coinciso con l'ascesa dello Stato regolatore imperiale e con la modernizzazione delle dittature, oggi, alle soglie del XXI secolo, la biologizzazione, l'etnicizzazione e le altre radicalizzazioni postmoderne della competizione si rivelano come la continuazione dell'economia imprenditoriale con altri mezzi. Quindi, non si tratta più della produzione dittatoriale o democratica di un'unità sociale, di un'universalità produttrice di merci. Invece, paradossalmente, anche il nazionalismo etnico si rivela come una sorta di setta nella società transnazionale della crisi. La dittatura non è più una struttura orwelliana universale, ma essa si presenta in una forma particolare, perché ora può solo eseguire il processo di dissoluzione sociale, anziché costituire il busto obbligatorio da imporre a una formazione sociale. Il «discorso apocalittico» derivante da questa dissoluzione ha prodotto le sue conclusioni che vediamo ora essersi irradiate in Europa, soprattutto in Francia. Mentre in Germania il dibattito è caratterizzato dal conformismo dello Stato democratico e dal discorso della fantasia etno-biologica, in Francia la nuova qualità viene percepita nella forma più forte della decadenza quasi corporativa della politica. Il politologo francese Jean-Marie Guéhenno, sostenitore della fantasiosa idea di un nuovo "impero" che funzioni secondo principi "asiatici", e che dovrebbe emergere dalla disintegrazione degli Stati nazionali borghesi, parla logicamente di «Fine della democrazia». Fedele alla teoria dei sistemi e al modello cibernetico, la nuova struttura imperiale dovrebbe essere «senza centro», mantenendo le forme di strutture atomizzate delle relazioni sociali capitaliste:
« I singoli dipendenti di un'azienda moderna sono troppo isolati perché tra di loro possano nascere legami di solidarietà, sono troppo privi di radici per trovare nella nozione di classe sociale una risposta al loro desiderio di appartenenza [...] Il calore confortante di un gruppo omogeneo e semplicistico diviene allora una sorta di tentazione naturale. Per coloro i quali ritengono sempre più astratta l'idea di nazione, per coloro che sono esclusi dall'integrazione in azienda, per coloro per i quali l'azienda li isola anziché condurli nella comunità, ecco che allora il gruppo può apparire come se fosse la cornice naturale in cui tutti trovano la propria identità. L'essere umano moderno - staccato da un territorio, "nomade", eppure intrappolato in una funzione, privo di un luogo che possa dare senso al suo lavoro, un groviglio intrecciato, riprodotto all'infinito dalla società eppure sempre solitario - è pertanto condannato a trovare la sua particolarità nella ricerca delle sue origini. Ne ha bisogno per poter condividere con altri, anch'essi "speciali", il sentimento di un'appartenenza comune» (Guéhenno 1994, 70 ss.).
Anche se l'«idea di nazione» sembra astratta in quanto tale, la possiamo trovare collegata a "gruppi", o piuttosto a bande che non hanno bisogno di altro che di un'immagine del nemico. Il vecchio discorso borghese dell'annientamento, allorché esso contempla le masse delle «classi pericolose» in quanto potenzialmente o manifestamente "superflue" dal punto di vista delle élite funzionali transnazionali, appare anche in queste stesse masse come la dilagante definizione "micro-sociale" di un "noi" irrazionale contro gli "altri" da annientare. Nelle condizioni di un'economia corporativa globalizzata, tali definizioni non hanno più alcuna capacità di generalizzazione sociale; al massimo, "politici mediatici" demagogici, del tipo di un Reagan negli Stati Uniti, di un Haider in Austria, di un Berlusconi in Italia o, al contrario, di un Blair in Gran Bretagna e di uno Schröder in Germania possono in tal modo catturare voti grazie a tali masse. Queste figure un po' virtuali non sono più dei "leader" di un vero movimento di massa. Piuttosto, sotto il firmamento dei media, si formano, attraverso il processo di crisi, dei gruppi o delle bande con tanti piccoli «signori della guerra» ["Führer"] che non hanno più alcun progetto sociale, alcun "impero", nessuna pretesa imperiale.
L'esclusione e lo sterminio degli "altri" avviene a livello "molecolare", parallelamente alla differenziazione e diffusione dell'economia aziendale transnazionale. Questa forma molecolare di darwinizzazione, può assumere diversi aspetti. Le immagini del nemico e gli oggetti dello sterminio recano i soliti nomi, o addirittura nuovi: ebrei, stranieri, disabili, persone di colore, "antisociali", non umani, subumani... Ma chi è che rientri nel loro ambito, viene determinato dalla singola banda. Può trattarsi anche di persone della regione vicina o dei vicini che fanno parte dell'altro condominio, o di membri di altre bande rivali. E anche il concetto di queste bande deve essere definito in modo ampio. Possono essere bande giovanili e di strada, bande di ladri comuni, sodalizi mafiosi, milizie "etniche" e società segrete di ogni tipo, ma anche clan familiari (soprattutto nelle regioni del mondo in cui questa struttura arcaica è sopravvissuta al di sotto della società ufficiale, come è avvenuto in Medio Oriente, Asia, Africa e in alcune parti dell'America Latina) e infine, ma non ultime, sette religiose. I discorsi biologici ed etnici si mescolano a idee religiose eclettiche e a un esoterismo caotico. Dal punto di vista ideologico non è più una novità; basti pensare alla strana mescolanza nella mente del "Cromwell tedesco", Erich Ludendorff. La novità è che nelle condizioni del capitalismo di crisi globalizzato, questi sincretismi selvaggi non possono più essere sintetizzati socialmente. I nuovi Hitler non sono altro che capibanda, milizie o addirittura sètte, ed esercitano il loro regno del terrore su scala molecolare. Mentre in alcuni distretti o regioni le bande o le milizie etniche perseguitano gli «altri etnici», questi programmi di esclusione e di omicidio sono spesso paralleli, o si sovrappongono alle lotte religiose tra le sette (ad esempio in Kosovo, nel Caucaso, ecc.).
Questi fenomeni di «guerra civile molecolare» (Hans Magnus Enzensberger), si sono diffusi da tempo nei Paesi industriali centrali. Sia che nella Germania dell'Est le bande etniche creino depositi di armi, sia che a Londra le società segrete razziste compiano attentati dinamitardi contro la gente di colore, sia che negli Stati Uniti, in Svizzera e altrove le sette suicide e apocalittiche creino scompiglio, sia che i giovani maghi neri e gli adoratori di Hitler compiano «massacri nelle scuole», ecc. Le famigerate sette suicide rappresentano, per così dire, la versione gang dell'Amok individuale [*5], con la variante ancora più aggressiva delle sette apocalittiche, le quali, con attacchi terroristici del tutto privi di scopo, si spingono anche oltre l'azione etnico-razzista (che, tuttavia, si trova spesso in secondo piano anche tra di loro). Tali punte di diamante della follia sociale provengono dal "centro" della società. È questo ciò che si dice della setta giapponese Aum Shinrikyo, divenuta famosa per l'attacco con gas velenoso nella metropolitana di Tokyo:
«Il culto comprende alcuni dei giovani più promettenti e intelligenti del Giappone [...] Una curiosità particolare è che Fumihiro Joyu, il 32enne portavoce del culto, è ora adorato dagli adolescenti di tutto il Giappone ed è diventato da un giorno all'altro la star mediatica numero uno. Le ragazze e le donne di tutto il Giappone sono innamorate di questo laureato in ingegneria, ben presentato e di bella presenza, proveniente da una delle università d'élite del Paese, la Waseda University [...] Il leader della setta Shoko Asahara, 40 anni, è stato arrestato in relazione agli attentati con gas sotterranei insieme a più di cento altri membri di alto livello della setta. Asahara [...] è il sesto di sette figli di un povero fabbricante di tatami. I suoi giovanissimi assistenti si sono laureati nelle più famose università giapponesi (come Tokyo, Keio e Waseda). E fu uno shock e un imbarazzo per il governo, quando si seppe che 30 soldati dell'esercito giapponese erano membri della setta [...]» (Naisbitt l995, 69 ss.).
Le varie bande demoniache [Dämonen-Banden] non reclutano unilateralmente tra coloro che in un modo o nell'altro hanno già fallito, e non sono nemmeno un mero fenomeno derivante dal discorso di sterminio degli insider contro gli outsider. Si tratta piuttosto di una miscela di gruppi sociali, personaggi e motivazioni che sono diventati altamente instabili. Laddove lo Stato democratico si ritira in quanto «riserva di finanziamento», lì emergono «territori grigi» del terrore che completano il terrore dello Stato democratico e lo proseguono in forme "molecolari". Il dirigente e pubblicista francese Alain Mine in queste forme decadenti di civiltà capitalistica vede emergere un «nuovo Medioevo»:
«Fin dai tempi di Hegel, abbiamo creduto che lo Stato fosse l'obiettivo finale naturale di ogni organizzazione sociale. Sbagliato! Accade che gli Stati si ritirino, controcorrente come la marea, e rivelino realtà alquanto strane [...] C'è una strada più breve per tornare al Medioevo rispetto a quella del crescente numero di zone che si trovano al di fuori di ogni autorità giuridica? [...] Le aree normate stanno tornando allo stato di natura; in mezzo alle democrazie più avanzate, si sta diffondendo nuovamente l'anarchia; la mafia non appare più come un fenomeno arcaico destinato a scomparire presto, bensì come una forma sociale sempre più diffusa; i quartieri urbani non sono più soggetti all'autorità dello Stato e stanno andando verso una preoccupante situazione extra-statale [...] Nuove bande armate, nuovi saccheggiatori, nuova "terra incognita": gli ingredienti per un nuovo Medioevo non mancano [...] Ma le nostre istituzioni non sono ancora consapevoli di questo sconvolgimento: non si rendono conto di occupare una posizione minoritaria nel mondo e che, anche in Occidente, stanno perdendo una parte crescente della società [...]» (Miniero 1994, 71 e segg. ).
Questi riflessi scivolano su una superficie opaca. Naturalmente, il "Medioevo" è solo una metafora, probabilmente inappropriata. Quello che chiamiamo "Medioevo", usando un termine epocale vuoto, era una civiltà agraria i cui difetti non vengono discussi qui. Quello che Mine e altri descrivono, invece, è un processo di de-civilizzazione che il capitalismo necessariamente innesca alla fine del suo frenetico "sviluppo". La "tolleranza zero", come ci si potrebbe aspettare, non placa la società, ma diventa un fattore di accelerazione della sua dissoluzione. Gli "apparati di sicurezza" iniziano a decadere e a marcire dall'interno; si distinguono sempre meno dalle bande. Oltre agli apparati statali miseramente pagati, vittime della corruzione e inseriti in strutture mafiose, le imprese transnazionali formano le proprie culture del terrore. Nelle aree di transito e nelle "isole galleggianti" dell'economia aziendale transnazionale, emergono Stati "deterritorializzati" all'interno dello Stato, così come nelle "zone grigie" delle regioni abbandonate che collassano. Nel quadro di una generale darwinizzazione del pensiero e di un inselvaggimento dei rapporti sociali, «economia di mercato e democrazia» si scompongono in strutture particolari di lotta «per l'esistenza». Che si tratti di corporazioni transnazionali con i loro eserciti privati e servizi segreti, di gruppi mercenari aziendali e squadroni della morte, di milizie "etniche", di sette apocalittiche o di bande neonaziste: la mappa della de-civilizzazione sta prendendo forma, mentre il circo mediatico continua in modo inquietante, e il discorso democratico di plastica diventa sempre più ignorante e vuoto. Così come la democrazia è sempre stata preceduta dal «quarto potere» della macchina capitalista, ora, a seguito delle irreparabili disfunzioni di quella macchina a causa della Terza Rivoluzione Industriale, le succede ora il "quinto potere" delle bande. Non c'è alcuna rivolta emancipatrice, ma tutti cominciano ad armarsi. L'ultima ratio dello sterminio e dell'autospegnimento costituisce la prima e ultima parola del capitalismo. Tutto ciò potrebbe essere considerato "apocalittico" solo a certe condizioni. Infatti, in passato le idee religiose e mitiche del crollo del mondo contenevano sempre la promessa dell'emergere di un altro mondo ringiovanito. Tuttavia, i sacerdoti del sistema di terrore economico dell'«economia di mercato e della democrazia» non sono più nemmeno apocalittici - nel senso originario del termine - nonostante l'incontrollabile crisi globale di questo modo di produzione e di vita. Lo Zeitgeist "biopolitico" della competizione dell'odio ottuso appare come se fosse uno Spengler rinato; e il Ragnarök mediato dal neoliberismo potrebbe avere successo in quanto distruzione endemica "molecolare" della società umana in generale. Il credo del capitalismo - la più grande setta apocalittica di tutti i tempi oggettivata in un sistema mondiale totale - recita: «dopo questo mondo, non ne verranno altri».
- Robert Kurz - da "Il Libro nero del Capitalismo" - 1999
NOTE:
[*1] - Le rivolte di Hep-Hep dell'agosto-ottobre 1819 furono i pogrom contro gli ebrei ashkenaziti, iniziati nel Regno di Baviera, durante il periodo di emancipazione ebraica nella Confederazione tedesca.
[*2] - "Wirtschaftswoche" è una rivista economica fondata nel 1926 con il nome di Deutscher Volkswirt [Economista Tedesco].
[*3] - Riferimento alla serie dei Notturni di Chopin.
[*4] - Suhrkamp-Verlag è un'importante casa editrice che ha plasmato i dibattiti intellettuali in Germania dopo la seconda guerra mondiale.
[*5] - A proposito di amok, Anselm Jappe osserva quanto segue:« Il crimine è diventato irrazionale e autoreferenziale come la logica economica - l'accumulazione tautologica di lavoro, valore e denaro - e come la psiche narcisistica degli individui. L'amok, nelle sue varie forme, è l'esempio supremo di un crimine che non obbedisce più alla realizzazione di un interesse, accettandone i rischi, ma diventa piuttosto, in questo caso, la distruzione e l'autodistruzione fini a sé stesse. Qui si manifesta l'odio normalmente latente del soggetto merceologico per il mondo, e per sé stesso, ed è per questo che colpisce così duramente l'opinione pubblica. Il fatto che poi si aggiunga una pseudo-razionalizzazione politica o religiosa è spesso secondario: nel crimine gratuito appare evidente il vuoto fondamentale dell'individuo contemporaneo, in quanto dominato da un'economia impazzita»(da: Anselm Jappe, "Nessun problema attuale richiede una soluzione tecnica. Si tratta sempre di problemi sociali").
fonte: Nec plus ultra Crítica despiadada de todo lo existente
Nessun commento:
Posta un commento