Terapia d'urto sull'economia mondiale
- di Michael Roberts -
"Shock Therapy", è il termine che viene usato per descrivere ciò che, nell'Unione Sovietica del 1990, è stato il drastico passaggio da un'economia pianificata di proprietà pubblica a un modo di produzione capitalistico a tutti gli effetti. Per un decennio, per gli standard di vita fu un vero e proprio disastro. La "dottrina dello shock" è stato il termine che Naomi Klein ha usato per descrivere la distruzione dei servizi pubblici e del Welfare da parte dei governi degli anni Ottanta. Ora, al giorno d'oggi, le principali banche centrali stanno mettendo in atto la loro «terapia d'urto» nei confronti dell'economia globale, puntando a far salire i tassi d'interesse in modo da riuscire così a controllare l'inflazione, nonostante ci sia la crescente consapevolezza che nel prossimo anno questo porterà a una recessione globale. Ecco che cosa dicono.
Il membro del consiglio di amministrazione della Federal Reserve, Chris Waller, ha dichiarato: «Io, non sto prendendo in considerazione la possibilità di rallentare o interrompere gli aumenti dei tassi a causa di preoccupazioni relative alla stabilità finanziaria». Pertanto, anche se in tal modo l'aumento dei tassi d'interesse dovesse iniziare a far crollare le istituzioni finanziarie e i loro asset speculativi, la cosa non avrebbe importanza. Ugualmente, anche Nagel, il capo della Bundesbank, appare risoluto, nonostante che l'Eurozona, e la Germania in particolare siano già scivolate in un periodo di recessione: «I tassi di interesse devono continuare a salire, e devono farlo in maniera significativa». Nagel non si accontenta solo di tassi di interesse più alti; ma vuole anche che la BCE tagli il proprio bilancio, vale a dire che non solo smetta di acquistare titoli di Stato per mantenere bassi i rendimenti obbligazionari, ma che quei titoli di Stato li venda effettivamente, determinando un conseguente aumento dei rendimenti.
Nagel aggiunge: «siamo in presenza di uno shock dei prezzi dell'energia, i cui effetti la banca centrale non potrà modificare molto nel breve termine. Tuttavia, la politica monetaria può impedire che questo si propaghi e si espanda. Pertanto, di conseguenza, stiamo contrastando la dinamica dell'inflazione e stiamo avvicinando l'andamento dei prezzi al nostro obiettivo di medio termine. Abbiamo gli strumenti per farlo, soprattutto pe quel che riguarda i rialzi dei tassi d'interesse».
Tutti questi discorsi dei banchieri centrali, da veri e propri duri, nascondono la realtà. Aumentare i tassi d'interesse non servirà a far scendere i tassi d'inflazione verso i livelli prefissati, senza che ci sia un vero e proprio crollo. E questo perché gli attuali tassi di inflazione, che durano da 40 anni, sono stati principalmente provocati, non da una «domanda eccessiva», vale a dire, dalla spesa delle famiglie e dei governi, bensì da un'«offerta insufficiente», soprattutto per quel che riguarda la produzione di cibo e di energia; ma anche di prodotti manifatturieri e tecnologici in senso lato. Nelle principali economie, la crescita dell'offerta è stata limitata dalla bassa crescita della produttività , dai blocchi della catena di approvvigionamento nella produzione e nei trasporti emersi durante e dopo il crollo del COVID, e poi è stata accelerata dall'invasione russa dell'Ucraina e dalle sanzioni economiche imposte dagli Stati occidentali. Infatti, gli studi empirici hanno confermato che la spirale inflazionistica è stata indotta dall'offerta. In un nuovo rapporto, la BCE ha rilevato come anche l'aumento dell'inflazione di fondo - la quale prescinde dai fattori di approvvigionamento di cibo ed energia - sia stato guidato principalmente dai vincoli dell'offerta. «I persistenti colli di bottiglia dell'offerta di beni industriali, e le carenze di fattori produttivi, ivi compresa la carenza di manodopera dovuta in parte agli effetti della pandemia di coronavirus (COVID-19), hanno determinato un forte aumento dell'inflazione... Le componenti del paniere IPCA che aneddoticamente risentono fortemente delle interruzioni e delle strozzature delle forniture, insieme alle componenti che risentono fortemente degli effetti della riapertura dopo la pandemia, hanno contribuito a circa la metà (2,4 punti percentuali) dell'inflazione IPCAX nell'area dell'euro, nell'agosto 2022».
Nel suo ultimo rapporto sul commercio e lo sviluppo, l'UNCTAD [Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo] arriva a una conclusione simile. L'UNCTAD ha calcolato che nei prossimi tre anni ogni punto percentuale di aumento del tasso d'interesse di riferimento della Fed, ridurrebbe la produzione economica dei Paesi ricchi dello 0,5%, e dello 0,8% quella dei Paesi poveri; aumenti più drastici di 2 e 3 punti percentuali deprimerebbero ulteriormente la «ripresa economica già in fase di stallo» delle economie emergenti. Nel presentare il rapporto, Richard Kozul-Wright, il capo del team dell'UNCTAD che lo ha redatto, ha dichiarato: «Cerchi di risolvere un problema dal lato dell'offerta a partire da una soluzione dal lato della domanda? Pensiamo che sia un approccio molto pericoloso». Esattamente.
Ovviamente, le banche centrali non conoscono le cause dell'aumento dell'inflazione. Come ha detto il presidente della Fed Jay Powell: «Ora capiamo meglio quanto poco si capisce dell'inflazione». Ma abbiamo anche a che fare con un approccio ideologico da parte dei banchieri centrali. Tutti i loro discorsi si basano sulla paura di una spirale salari-prezzi. Perciò la loro tesi è che, quando i lavoratori cercheranno di compensare l'aumento dei prezzi negoziando salari più alti, ciò provocherà un ulteriore aumento dei prezzi, e farà crescere la prospettiva di un'inflazione. Questa teoria dell'inflazione è stata riassunta da Martin Wolf, il guru keynesiano del Financial Times: «Quello che [i banchieri centrali] devono fare è scongiurare una spirale salari-prezzi, che destabilizzerebbe la previsione di un'inflazione. La politica monetaria deve essere sufficientemente rigida da raggiungere questo obiettivo. In altre parole, deve creare/permettere un certo rilassamento nel mercato del lavoro». Quindi, impedire che i salari aumentino e lasciare che cresca la disoccupazione. Il capo della Fed Jay Powell, ritiene che il compito della Fed sia «in linea di principio ..., moderando la domanda, potremmo ... tenere bassi i salari, e così abbassare l'inflazione senza però dover rallentare l'economia, e quindi avere una recessione e un aumento sostanziale della disoccupazione. Insomma, c'è una strada da percorrere».
Come ha dichiarato il governatore della Banca d'Inghilterra, Andrew Bailey: «Non sto dicendo che nessuno avrà un aumento di stipendio, non fraintendetemi. Ma quello che voglio dire è che abbiamo bisogno di moderare la contrattazione salariale, altrimenti andrà fuori controllo». Oppure prendiamo questa affermazione del principale macroeconomista mainstream Jason Fulman: «Quando i salari aumentano, i prezzi aumentano. Se il carburante delle compagnie aeree, o gli ingredienti alimentari aumentano di prezzo, le compagnie aeree e i ristoranti aumentano i loro prezzi. Allo stesso modo, se i salari degli assistenti di volo o dei dipendenti dei ristoranti aumentano, allora aumentano anche i prezzi. È questo il semplice buon senso comune».
Ma entrambi, sia il «semplice» sia il «buon senso comune», sono falsi. La teoria e la base empirica che vede l'inflazione in quanto spinta dai costi salariali, così come la teoria delle aspettative inflazionistiche, sono tutte sbagliate. Marx aveva già risposto all'affermazione secondo cui l'aumento dei salari porta automaticamente all'aumento dei prezzi, circa 160 anni fa in un dibattito con il sindacalista Thomas Weston, il quale sosteneva che gli aumenti salariali erano autolesionisti, dal momento che i datori di lavoro avrebbero semplicemente aumentato i prezzi e i lavoratori sarebbero perciò tornati al punto di partenza. Marx sosteneva (in "Valore, prezzo e profitto") che «una lotta per l’aumento dei salari si verifica soltanto come conseguenza di mutamenti precedenti ed è il risultato necessario di precedenti variazioni della quantità della produzione, delle forze produttive del lavoro, del valore del lavoro, del valore del denaro, della estensione o dell’intensità del lavoro estorto, delle oscillazioni dei prezzi di mercato, dipendenti dalle oscillazioni della domanda e dell’offerta e corrispondenti alle diverse fasi del ciclo industriale». Abbassare i salari è la risposta delle banche centrali. Ma i salari non stanno aumentando in quanto quota di produzione; ma al contrario, a essere aumentata durante e dopo la pandemia ,è stata la quota di profitto.
Eppure, secondo il rapporto dell'UNCTAD, tra il 2020 e il 2022 « si stima che il 54% dell'aumento medio dei prezzi nel settore non finanziario statunitense sia attribuibile a margini di profitto più elevati, rispetto al solo 11% dei 40 anni precedenti». A guidare l'aumento dell'inflazione sono stati il costo delle materie prime (cibo ed energia, in particolare) e l'aumento dei profitti, non dei salari. Tuttavia, le banche centrali non parlano di una spirale prezzi-profitti. In effetti, questo era un altro aspetto che era stato affrontato da Marx nel dibattito con Weston: «Un aumento generale dei salari provocherebbe dunque una caduta del saggio generale del profitto, ma non eserciterebbe nessuna influenza sul valore [e quindi sui prezzi delle merci]». È questo che preoccupa davvero i banchieri centrali: una caduta della redditività. Così le banche centrali continuano ad aumentare i tassi di interesse e a passare dal quantitative easing (QE) al quantitative tightening (QT). E lo fanno simultaneamente in tutti i continenti. Questa «terapia d'urto», utilizzata la prima volta alla fine degli anni '70 dall'allora presidente della Fed statunitense Paul Volcker, alla fine, nel 1980-2 ha portato a un grave collasso globale. Il modo in cui le banche centrali stanno combattendo l'inflazione, aumentando simultaneamente i tassi di interesse, sta inoltre mettendo a dura prova il sistema finanziario globale, con azioni nelle economie avanzate che poi si ripercuotono sui paesi a basso reddito.
L'impatto dell'aumento dei tassi d'interesse sull'economia mondiale, è determinato dalla forza del dollaro USA, il quale è aumentato di circa l'11% dall'inizio dell'anno e che, per la prima volta in due decenni, ha raggiunto la parità con l'euro. Il dollaro è forte, in quanto rifugio sicuro dall'inflazione, per i contanti, oltre che dal rialzo dei tassi d'interesse USA e dall'impatto delle sanzioni legate alla guerra in Europa.
Molte delle principali valute si sono svalutate rispetto al dollaro. Per molti paesi poveri del mondo, questo è disastroso. Molti paesi - soprattutto i più poveri - non possono contrarre prestiti nella propria valuta, né per l'importo né per le scadenze desiderate. I prestatori non sono disposti ad assumersi il rischio di venire ripagati nella volatile valuta di questi paesi. Infatti, questi Paesi prendono solitamente dei prestiti in dollari, promettendo di rimborsare i loro debiti in dollari, indipendentemente dal tasso di cambio. Pertanto, man mano che il dollaro si rafforza rispetto alle altre valute, questi rimborsi diventano molto più costosi in termini di valuta nazionale.
L'Institute of International Finance ha recentemente riferito che «gli investitori stranieri hanno ritirato i fondi dai mercati emergenti per cinque mesi consecutivi, registrando così la più lunga serie di ritiri mai registrata». Si tratta di un capitale d'investimento cruciale che ora sta volando via dai Paesi emergenti andando verso la «sicurezza».
Inoltre, con il rafforzamento del dollaro, le importazioni diventano più costose (in termini di valuta nazionale), costringendo così le imprese a ridurre gli investimenti, o a spendere di più per le importazioni cruciali. La minaccia di un default del debito sta aumentando.
Tutto questo a causa del tentativo delle banche centrali di attuare una «terapia d'urto» nei confronti dell'aumento dell'inflazione globale. La realtà è che le banche centrali non possono controllare i tassi d'inflazione attraverso la politica monetaria, soprattutto quando questa viene guidata dall'offerta. L'aumento dei prezzi non è stato determinato da una «domanda eccessiva» di beni e servizi da parte dei consumatori, o dalle imprese che investono massicciamente, e nemmeno dalla spesa pubblica incontrollata. Non è la domanda a essere «eccessiva», ma avviene che piuttosto all'altro lato dell'equazione dei prezzi, l'offerta, è troppo debole. E qui le banche centrali non hanno presa. Possono alzare i tassi d'interesse quanto vogliono, ma non questo non avrà alcun effetto sulla compressione dell'offerta, se non quello di peggiorarla. Questa compressione dell'offerta non è dovuta solo al blocco della produzione e dei trasporti, o alla guerra in Ucraina, ma anche e soprattutto a un declino di fondo, di lungo periodo, nella crescita della produttività delle principali economie; e sta dietro a questa crescita degli investimenti e della redditività.
Ironia della sorte, l'aumento dei tassi di interesse schiaccerà i profitti. Già negli ultimi tre mesi, i forecaster hanno già ridotto di 34 miliardi di dollari le aspettative sugli utili del terzo trimestre delle grandi aziende statunitensi, e gli analisti prevedono ora quello che sarà l'aumento più debole dei profitti, dai tempi della crisi del Covid. Secondo i dati di FactSet, le società quotate nell'indice S&P 500 dovrebbero registrare una crescita degli utili per azione del 2,6% nel trimestre luglio-settembre, rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Questa cifra è scesa a partire dal 9,8% dell'inizio di luglio e, se è corretta, rappresenterebbe il trimestre più debole dal periodo luglio-settembre del 2020, quando allora l'economia si stava ancora riprendendo dal blocco del coronavirus.
È una terapia d'urto per l'economia globale, ma non lo è per l'inflazione. Una volta che le principali economie scivolano dentro un baratro, l'inflazione a sua volta crollerà di conseguenza.
- Michael Roberts - Pubblicato il 10/10/2022 su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist
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