martedì 28 febbraio 2023

Ricevo e pubblico !!

Nestor Machno (1889-1934)

Gianfranco Sanguinetti

Bilancio del primo anno di guerra in Ucraina

(24 febbraio 2023)


C'è un'antica storiella russa, che mia madre, Teresa Mattei, raccontava: un mugik incontrò nella Taiga innevata un uccellino che cinguettava disperatamente per il freddo. Non sapendo come salvarlo dal gelo della notte, poiché portandolo nella sua Izba i suoi figli affamati lo avrebbero divorato, lo ricoprì coi suoi caldi bisogni, affinché superasse la notte. L'uccellino, ringalluzzito dal calduccio, cinguettò ancora di più. Un lupo lo sentì, e se lo mangiò.

Qui finisce la storia, ma ci sono tre morali da trarre: 1) non tutti quelli che ti mettono nella merda lo fanno per il tuo male; 2) non tutti quelli che ti tolgono dalla merda lo fanno per il tuo bene, e 3) quando sei nella merda fin qui, ti conviene startene zitto. L'uccellino, in questo caso, è Zelensky.

Il bilancio del primo anno di guerra in Ucraina è abbastanza chiaro: i Russi sanno che l'Ucraina, oltre ai danni da loro inflitti negli ultimi dodici mesi, si dovrà preparare a essere dilaniata, e certamente anche smembrata, da tutti gli “amici” occidentali che l'hanno “aiutata”, coi quali si è indebitata -- o c'è ancora qualcuno che crede che gli “aiuti” fossero a fondo perduto? E gratis? Quando mai si è visto?

Il debito che l'Ucraina ha contratto con l'Occidente sarà pagato per lungo tempo dalle generazioni future, e presto con lo smembramento di pezzi del Paese, che i lupi affamati, come la Polonia, vogliono mangiarsi, ma anche in altro modo: BlackRock e JP Morgan hanno già firmato i protocolli d’intesa con Zelensky.

La Russia non ha fretta: sa che potrà lasciare completare la sua opera di demolizione dell’Ucraina agli occidentali, ai lupi affamati, perché sa bene che il credito può essere più distruttivo della guerra. Al punto in cui sono giunte le cose, l’esercito Russo potrebbe anche serenamente rinunciare ad ulteriori offensive, e godersi lo spettacolo della distruzione e spartizione di ciò che resta dell'Ucraina e delle sue ricchezze da parte dei suoi famelici “amici” occidentali, coadiuvati efficacemente dalla corruzione locale, tutti “alleati oggettivi” della Russia nella demolizione dell’Ucraina.

L'incognita vera è l'uso che faranno delle montagne di armi i reduci sopravvissuti di ritorno dal fronte: quelli che hanno visto, e pagato in prima persona, le stragi e le atrocità perpetrate dagli ufficiali nazisti ucraini con le decimazioni delle truppe, la violenza inaudita della coscrizione e le menzogne di tutta la narrazione della propaganda. Questi reduci potrebbero anche, come in Italia dal 1943, iniziare una vera Resistenza contro il nemico interno e contro i falsi amici stranieri. E così anche la denazificazione completa del paese sarebbe cosa fatta. In ogni caso la denazificazione dell’Ucraina deve essere opera degli Ucraini stessi. Nessuno, in quel Paese crede alla leggenda occidentale di uno Stato democratico. Se c’è una bandiera sotto la quale combattere, questa è la gloriosa bandiera nera dell’eroico Nestor Machno, che si batté, al tempo della Rivoluzione, contro gli Austro-Tedeschi, i Russi bianchi e i bolscevichi. Un eroe ucraino scomodo, che perciò oggi viene sistematicamente ignorato. Morire per morire, tanto vale morire con onore.

Per quanto riguarda l’ignominiosa e bellicosa Europa ufficiale, somma della verbosa impotenza dei suoi Stati membri – i cui dirigenti si sono completamente allineati, per pavida stupidità e per corruzione indecente, alla mafia al potere in Ucraina, e agli ordini d’oltreoceano –, essa indica alle sue popolazioni chi sono e dove sono i loro veri nemici. Dopo un anno di questa guerra, due di lockdown, di repressione del dissenso e di caccia aperta ai cosidetti no-vax, c’è forse qualcuno in Europa che sia pronto a morire per una cosca che non nasconde legami con gruppi criminali e che si riconosce in Ursula von der Leyen?

Questo breve bilancio del primo anno di guerra nella zona di attrito, la crush zone*, dove si toccano i due dispotismi, l’Orientale e l’Occidentale, non perde di vista il più vasto conflitto mondiale che si è appena iniziato nel cuore dell’Europa. Sarà lungo: esso configura già e darà forma dappertutto al XXI secolo, e forse anche ai seguenti. Il mondo è troppo piccolo per le ambizioni e gli appetiti degli opposti dispotismi **.

5.7.2022. Lugano. Ukraine Recovery Conference 2022 : il primo ministro ucraino Denys Shmyhal ha presentato una mappa della divisione del territorio da ricostruire tra i vari Paesi occidentali. La promessa pubblica ha tuttavia un difetto : buona parte dei territori assegnati sono attualmente in mano dei russi che non sembrano avere intenzione di restituirli.

* Questa è l’espressione usata nel 1917 da James Fairgrieve per descrivere l’Europa centrale e orientale
in Geography and World Power (1917).
** Cfr. Gianfranco Sanguinetti, Il Dispotismo Occidentale, aprile 2020.

Note:

  1. Nestor Ivanovic Machno, anarchico rivoluzionario ucraino nacque nel 1889 e morì di tubercolosi, in esilio a Parigi. Dopo la pace di Brest Litovsk, nel 1917, guidò la resistenza ucraina contro le truppe austriache che l’avevano invasa. Il movimento anarchico (la c.d. Machnovcina) fra il 1917 e il 1921, diede vita al primo esperimento di autogestione contadina, attuando, per la prima volta nella storia e su larga scala, i principi dell’autogoverno, senza stato, scontrandosi prima con le truppe reazionarie dei controrivoluzionari bianchi poi con il nuovo governo bolscevico. Finì con una sconfitta e Machno fu costretto all’esilio in Francia, sempre attivo nel movimento anarchico fino alla morte.

  2. Denis Shmyhal (Leopoli, 1975) è il primo ministro dell’Ucraina dal 4 marzo 2020. In precedenza era stato un manager di alto livello nella società Burshtyn Tes, nel settore di produzione dell’energia elettrica a carbone, gruppo di Rinat Akhmetov, il capitalista più ricco dell’Ucraina. Akhmetov ha accumulato ricchezza in modo assai chiacchierato; lo si accusa di essere stato un criminale mafioso (la mafia tatara del Donetsk), legato a Akhat Bragin (criminale accertato e morto in un attentato anni addietro). Il 10 ottobre 2022 due missili russi hanno colpito la centrale elettrica Bursctyn Tes.

MARXISMO TRADIZIONALE E METAFISICA DEL SOGGETTO RIVOLUZIONARIO A PRIORI

I marxisti hanno potuto identificare il movimento comunista con l'emancipazione dei lavoratori, e consacrare come soggetto rivoluzionario l'amata classe operaia, solo perché l'avevano trasfigurata in un'entità che era stata posta al di là della realtà borghese. Nell'interpretazione marxista corrente, il proletariato rappresenta l'eterno metabolismo tra l'uomo e la natura, e costituisce il lato del valore d'uso della produzione collettivizzata. Sembrava perciò - nel suo nucleo sostanziale - libero da tutti i mali della produzione privata orientata al profitto. Nei teoremi del vecchio movimento operaio, la classe operaia diventa inevitabilmente un'entità che fin dal principio è già sempre trascendente al sistema, e solo esternamente soggetta alla forma borghese. I teorici marxisti hanno ipostatizzato il proletariato come opposizione ontologica al capitalismo. Pertanto, negli schemi marxisti tradizionali, la classe operaia e il capitale appaiono, non come due poli di una stessa e identica relazione, bensì come incarnazioni di principi diversi. Qui capitale e lavoro non sono costituiti dalla stessa realtà, ma da realtà diverse e reciprocamente esclusive. Naturalmente, questa costellazione determina in maniera durevole le visioni sbagliate che il marxismo ha sulla fine del rapporto capitalista. La prospettiva rivoluzionaria vive e muore con l'innocenza proletaria. In questa prospettiva, la vocazione rivoluzionaria del proletariato non è dovuta alla sua esistenza come elemento della società borghese; piuttosto, questo onore sembrava provenire dal fatto che, nel profondo, la sua anima rimaneva fuori dal "legame cieco" borghese, nel regno della pura autenticità. Di conseguenza, in questa interpretazione il capitale non è esso stesso la sua rovina, ma il suo destino viene dall'esterno. Lo trova nell'azione proletaria, sia come principio a priori che come principio ostile. Secondo questa concezione semplicistica e stereotipata, il capitale è vittima di una soggettività aliena del lavoratore. Proprio la classe operaia, la cui essenza è considerata molto diversa dal capitale, è l'unico garante e condizione sine qua non per la soppressione della società borghese.

In questa aporia, tutte le idee sulla dissoluzione del modo di produzione capitalista sviluppate dal marxismo tradizionale nel corso della sua storia si sono inesorabilmente intrecciate. In tutto il pensiero marxista, la speranza che il ruolo del capitalismo nella storia umana fosse solo transitorio dipendeva dal fatto che questa "teoria dei due mondi" fosse sempre presupposta. Questo modello di base è sopravvissuto fino ad oggi. Esso spiega anche la svolta pessimista che si è diffusa all'interno della sinistra negli ultimi decenni. Finché l'idea di rivoluzione rimane legata all'esistenza di un soggetto rivoluzionario a priori, ma ogni progresso nella socializzazione basata sul valore rivela progressivamente come tutte le categorie sociali sono invece emanazioni della forma-valore onnicomprensiva, l'abolizione della forma borghese allora può solo sembrare sempre più impossibile. In questa logica, il processo di sussunzione reale del lavoro sotto il capitale stabilisce il carattere eterno del capitale. La rivoluzione può essere stata possibile una volta nel XIX secolo o nel terzo mondo, ma non è più possibile. Non solo la classe operaia, ma anche i soggetti rivoluzionari surrogati (minoranze sociali, donne, ecc.) hanno disatteso le speranze rivoluzionarie riposte in loro, e pertanto ogni nuova edizione dell'apriorismo si rivela superata e sempre meno credibile.

L'inevitabile beatificazione dei produttori immediati determinava naturalmente anche la prospettiva dalla quale il marxismo percepiva il processo di produzione in quanto tale. In questo contesto, non è affatto una coincidenza che il marxismo tradizionale abbia costantemente ceduto all'impulso di considerare il capitale come un mero "fenomeno di circolazione", e, senza soffermarsi sul problema del lavoro astratto, di considerare il processo di produzione come razionale in sé, e di dichiarare le mere necessità tecniche conseguenti al metabolismo con la natura fondamentalmente non colpevole di tutti gli orrori della relazione capitale. Una tale posizione esplicitamente limitata alla circolazione può essere trovata in Rudolph Hilferding, per esempio, ma anche all'altra estremità della teoria marxista, nel lavoro di Alfred Sohn-Rethel. I loro critici prendevano solo verbalmente le distanze da questa "ristrettezza circolatoria", riferendosi solo alla forma degli scritti di Marx e parlando raramente della sostanza.

La classe operaia diventa il soggetto della rivoluzione proprio in quanto incarnazione del "totalmente altro", che si presume esistenzialmente e totalmente opposto al capitale e alla sua logica intrinseca. Ovunque il pensiero marxista sia costretto a riconoscere la classe operaia come parte della società borghese, deve disperare della rivoluzione. Pertanto, la separazione della missione rivoluzionaria stessa dai sordidi affari della vita quotidiana che il proletariato deve perseguire anche all'interno del quadro capitalista era un problema pervasivo del marxismo. Questo divario si è riprodotto teoricamente e politicamente nelle forme più diverse. L'impossibilità di passare dall'imbarazzo riformista allo sviluppo di strategie rivoluzionarie, il blocco interno del marxismo, è particolarmente evidente nella "attenzione rivoluzionaria" della Seconda Internazionale. Si possono trovare a un altro livello, ma altrettanto bene, per esempio, nelle contorsioni teoriche di Storia e coscienza di classe di Lukács. Come al solito, Lukács suppone che la natura del proletariato sia rivoluzionaria in sé, ma di questa natura non può però stabilire nessuna prova empirica. Nell'azione quotidiana, la forma capitalista si sovrappone a questa essenza reale, e Lukács può decifrarla solo ricorrendo al livello del metodo e diluendo il problema in quello della prospettiva. Finché la sinistra, per poter immaginare l'abolizione della società borghese, deve cercare un soggetto risparmiato dal dominio del capitale, si vedrà costretta a dichiarare che è impossibile pensarla di fronte a questa vile realtà, e soccomberà al pessimismo.

Ernst Lohoff, "La Fin du prolétariat comme début de la révolution. Sur le lien logique entre théorie de la crise et théorie de la révolution." Crise e Critique.

lunedì 27 febbraio 2023

«Novecentizzare Crane» !!

Scrittore, giornalista e corrispondente di guerra, Stephen Crane sembra davvero il protagonista di un romanzo. Povero e tormentato dai debiti, muore giovanissimo, ma fa in tempo a vivere situazioni estreme – perseguitato dalla polizia di New York, scampato a un naufragio al largo della Florida, accoltellato per errore a Cuba – e a scrivere testi straordinari. Citando da lettere e testimonianze, leggendo con cura appassionata i suoi lavori, Paul Auster ne ricostruisce la vita e le opere in un libro coinvolgente, che agli ammiratori confermerà il mito e agli altri svelerà uno dei segreti meglio custoditi della letteratura americana. «Che storia! Ragazzo in fiamme è piú di un romanzo, piú di una biografia, piú di un libro di critica. È un'opera letteraria di rilievo. E il piú grande omaggio fatto da uno scrittore a un altro che io abbia mai letto» (Russell Banks). Stephen Crane, autore del Segno rosso del coraggio, ha vissuto una vita breve ma intensa. Nato nel 1871 in una famiglia molto religiosa, perde il padre da bambino e cresce spostandosi da un luogo all'altro, un nomadismo che conserverà da adulto e che lo porterà in giro per gli Stati Uniti e per il mondo. A vent'anni, dopo aver abbandonato il college, si trasferisce a New York e comincia a muovere i primi passi come giornalista e scrittore. Affascinato dai luoghi malfamati e dalle persone tormentate che li frequentano, conduce un'esistenza bohémien dividendo l'alloggio con altri artisti e ritrovandosi spesso a saltare i pasti e a dormire su una cassa portacarbone. I soldi sono un cruccio costante, ma per un salto in uno dei tanti bordelli della città ne ha sempre abbastanza. Difendendo una prostituta, finisce per mettersi in grossi guai con la polizia, al punto da trovarsi costretto a lasciare New York in tutta fretta. Poco male, però. Altre avventure lo attendono, in particolare come corrispondente di guerra in Grecia, a Cuba e a Portorico. Intanto, nel 1897, si trasferisce in Inghilterra (in una casa che ovviamente non si può permettere) e lí stringe amicizia con scrittori del calibro di Joseph Conrad e Henry James. Ma chi ha dentro un fuoco spesso brucia in fretta. Crane non fa eccezione. Da sempre magro e giallognolo, si spegne a ventotto anni in un sanatorio della Foresta nera. Al suo fianco fino all'ultimo faticoso respiro c'è Cora, l'ex proprietaria di un bordello che, pur non avendo mai divorziato dal secondo marito, per un lustro è stata la sua fedele compagna di follie. Partendo dalla grande ammirazione per il Crane scrittore, Paul Auster ne ricostruisce con cura e sensibilità la vita da spirito libero e l'opera originale, cosí avanti rispetto ai tempi da essere stata spesso oggetto di feroci critiche.

(dal risvolto di copertina di: Paul Auster, "Ragazzo in fiamme. Vita e opere di Stephen Crane". Einaudi, Traduzione di Cristiana Mennella, pagg. 1016. € 24)

Crane. Gioventù bruciata
- Paul Auster dedica un corposo libro a uno degli autori di culto della letteratura americana. Morto ad appena 29 anni -
di Michele Mari

Stephen Crane appartiene a quella non folta famiglia di scrittori che suscitano la devozione di altri scrittori: nel suo caso i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Conrad, che gli fu amico e gli dedicò molti ritratti affettuosi, e di Hemingway, che in Verdi colline d’Africa lo cita insieme a Henry James e a Mark Twain come maestro di stile. A loro si aggiunge adesso Paul Auster, autore della monumentale biografia "Ragazzo in fiamme. Vita e opere di Stephen Crane" appena uscita presso Einaudi nella traduzione di Cristiana Mennella. La vita di Crane fu così breve (1871-1900) e così schiva che quando nel 1923 apparve la biografia di Thomas Beer, Conrad commentò: «E dunque alla fine è successa, questa cosa che non mi aspettavo di vedere! Mai, infatti, avevo pensato che la biografia di Stephen Crane potesse apparire nell’arco della mia vita». Cosa direbbe ora, un secolo dopo, di fronte alle quasi mille pagine del libro di Auster? Il fatto è che in Crane tutto è smilzo e defilato, la sua figura, la sua presenza nella società letteraria, la brevità dei suoi testi, l’estemporaneità dei suoi reportage di guerra: al punto che, con l’eccezione del Segno rosso del coraggio, nelle storie letterarie la sua opera si compendia di norma in un solo racconto “esemplare”, The Open Boat. Contro questo cliché si è mosso Paul Auster, che pur accettando fin dal titolo la vulgata della vita che si brucia in un attimo, ha raccontato e montato a modo suo (cioè da scrittore prima che da studioso) un’immensa mole di documenti, con il passo lento e analitico che siamo abituati ad associare a biografie di autori come Voltaire, Puškin, Proust, Tolstoj. Indignato dal fatto che «Crane sia ormai nelle mani degli specialisti», Auster gli erige un monumento in cui la filologia è sempre al servizio dell’interpretazione, interpretazione che a sua volta punta dritta a fare di Crane il primo autore veramente moderno della letteratura americana: «Ragazzo in fiamme di rara precocità a cui fu impedito di entrare nella pienezza dell’età adulta, Crane è la risposta americana a Keats e Shelley, a Schubert e Mozart, e se continua a vivere come loro, è perché le sue opere non sono mai invecchiate».

Ma la mole del libro di Auster non è dovuta solo alla meticolosità investigativa con cui la vita di Crane è ricostruita quasi giorno per giorno: in gran parte dipende invece dalla scala 1:1 con cui sono presentati i romanzi e i racconti di Crane, con lunghe citazioni e lunghe parafrasi e chiose e commenti che ci restituiscono, nella forma tipicamente anglosassone del companion, un Crane riscritto da Auster. E poiché questo avviene anche al riguardo dei reportage di guerra (Messico, Grecia, Cuba), ne risulta un superamento della dicotomia (che invece Crane viveva in prima persona come una vera e propria lacerazione) fra il narratore e il giornalista, anche perché come un prestigiatore Auster passa senza transizioni dagli articoli di giornale ai racconti che quasi sistematicamente ne venivano ricavati dopo breve tempo (tanto che alla fine, prendendo atto della propria operazione di montaggio, si vede costretto a un’affermazione impegnativa: «Poco importa qual è la forma in cui lavora Crane, narrativa, non narrativa o altro»). In ogni caso l’enfasi sulla consustanziale adolescenzialità del suo autore porta Auster ad alcune esagerazioni, come quando, interrogandosi sui possibili capolavori che Crane non ebbe il tempo di scrivere (e dimenticandosi di casi come quello di Rimbaud, che sopravvisse a se stesso per diventare un mercante di zanne d’elefante), si azzarda ad affermare che «avrebbe potuto produrre meraviglie in stile parlato simili a Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline», o quando vede nel Segno rosso del coraggio l’annuncio di tutto il Novecento, in particolare di cattedrali dell’«interiorità appassionata» come l’Ulisse e la Ricerca del tempo perduto. È indubbio che Il segno rosso sia un libro bellissimo per il ritmo, la concentrazione, l’energia delle frequentissime metafore (soprattutto in ambito cromatico), e naturalmente per il filtro emotivo e psicologico che fa della mente del protagonista il vero campo di battaglia (lo stesso autore definì il romanzo «un ritratto psicologico della paura»): ma questo non può dirsi, per differenti motivi, di romanzi fra loro diversissimi come Lord Jim o Il richiamo della foresta? In altre parole, non credo che novecentizzare Crane sia rendergli un gran servigio, soprattutto se per sorreggere la tesi gli si sovrappone il mentalismo di autori come Henry James o Virginia Woolf. Minuzie, comunque, di fronte alla passione e all’acribia di un’impresa d’altri tempi che da un lato fa giustizia del «guazzabuglio macchiettistico semiromanzato» di Thomas Beer, dall’altro ha l’umiltà di presentarsi come un «sottoprodotto» (così sempre Auster) delle fatiche dei due massimi studiosi di Crane, Stanley Wertheim e Paul Sorrentino.

Michele Mari - Pubblicato su Robinson del 12/11/2022 -

domenica 26 febbraio 2023

Mettersi in riga !!

« La società esiste solo in quanto insieme globale di pratiche sociali. Gli ordini sociali che obbediscono a una costituzione feticista, così come l'ordine dominante, non fanno eccezione. L'autonomizzazione del legame sociale in quanto potenza estranea contrapposta agli individui, non è un fatto positivo da presupporre semplicemente a livello analitico. Al contrario, si tratta di una separazione che gli individui riproducono attivamente giorno dopo giorno, sia nelle loro azioni che nel loro pensiero. Il dominio oggettivato esiste solo nella forma di un dominio esercitato sugli individui, vale a dire, come pratica permanente di auto-miglioramento che coincide con l'incessante instaurazione e con il rinnovamento della forma di pensiero e azione che fonda questa società: la forma-soggetto. Quando Marx classificò la società delle merci vedendola come un sistema paradossale di "socialità asociale", egli aveva in mente quella che era la sua struttura di feticcio oggettivato. Ma a essere paradossale non è solo il risultato, la relazione sociale, quanto piuttosto quel comportamento stesso che porta a tale risultato; ovvero il comportamento della società delle merci. I membri della società delle merci vengono consegnati a quello che è il loro contesto sociale complessivo in un modo assai più diretto di quanto non accadesse agli esseri umani nelle epoche precedenti. Essi, oggi, per mettersi in riga, vengono sottoposti a pressioni sempre maggiori. L'adattamento mimetico al vincolo di forma, è dovuto proprio al fatto che gli individui agiscono come se si trovassero per definizione a completa distanza dal legame sociale. La monade della merce trasforma magicamente la società in un potere estraneo che ha una vita propria, il quale si comporta come se fosse un essere profondo, in modo solipsistico, vale a dire, non toccato nella sua essenza dal contesto sociale. Ed è proprio questo tipo di pratica sociale che la forma-soggetto rappresenta. In esso, esiste il vero fantasma dell'attore auto-identico che si oppone al legame sociale dall'esterno, rispetto a cui il dominio del valore ha la sua controparte, la sua forma di realizzazione e il suo presupposto. Ora, se il paradosso fondamentale di una "socialità asociale" non designa la struttura oggettivata, ma già proprio la pratica sociale, a questo punto emerge innanzitutto un'implicazione: l'intreccio, definito nel capitolo precedente come caratteristica fondamentale della metafisica del valore, tra imperialismo della forma e dissociazione forzata, deve poter essere rintracciabile fino al livello della forma-soggetto, e va visto come momento costitutivo. Inoltre, l'intreccio tra la pretesa di validità universale da un lato, e l'interiorizzazione di una pratica indispensabile dall'altro, caratterizza in primo luogo anche la forma-soggetto, e ha in essa il suo punto di partenza logico. »

da: Ernst Lohoff, "L'incanto del mondo. La forma-soggetto e la storia della sua costituzione - uno schema" (su: https://www.krisis.org/2005/die-verzauberung-der-welt/)

sabato 25 febbraio 2023

Il Tempo della Pazienza ?!??

Nella tradizione culturale europea, la pazienza è una virtù fondamentale, anche se minore, che i Greci accostavano al coraggio e il pensiero cristiano alla speranza e alla carità. Oggi, quello che già Georg Simmel chiamava il «ritmo impaziente della vita moderna» sembra farne una nozione del tutto inattuale. Tuttavia, essa può rivelarsi una risorsa quanto mai preziosa, come emerge dalla riflessione sul rapporto dell’essere umano con il tempo e con l’attesa che Andrea Tagliapietra conduce in queste pagine. La pazienza s’inscrive nel tempo del corpo, fatto di lentezza, vulnerabilità e mortalità. Essa fa emergere il significato del corpo come fondo biologico dell’uomo nel suo essere animale. Allora, accanto al discorso «umano, troppo umano» della filosofia, ecco l’urgenza di guardare allo specchio del mondo animale e di prendere in considerazione quelle «icone del pensiero» che, nell’arte, esprimono la metafora animale in continuità con il genere umano. Si scopre così che, nella pittura europea, l’immagine della pazienza è stata spesso affidata a una specie animale che da sempre accorda i propri passi a quelli dell’uomo. Nell’arte i cani fanno la loro comparsa come silenziosi dettagli. Di essi quasi non ci si accorge, tanto la loro presenza risulta consueta e comune. Eppure spesso sono proprio loro a scandire il tempo della scena. Fondendo l’analisi filosofica e l’osservazione di oltre cento opere d’arte, l’autore rivela l’attualità non antropocentrica della pazienza, intesa come strada per giungere a una piena responsabilità nei confronti del tempo vissuto, fondamento della relazione ospitale con gli altri esseri e presupposto indispensabile per abitare il mondo avendone finalmente cura. Da Dürer a Goya, da Bassano a Leonardo fino a Marc, Balla e Warhol, i cani del tempo ci conducono all’antidoto della più pura forma di pazienza, quella dell’attenzione per ciò che semplicemente accade, che è anche la più difficile da conservare nell’epoca impaziente e distratta in cui viviamo.

(dal risvolto di copertina di: Andrea Tagliapietra, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza. Donzelli. € 34,00)

Impariamo dalla vita filosofica dei cani che la virtù più utile oggi è la pazienza
- di Simone Regazzoni -

Difficile pensare a un tema più distante dalla sovraeccitata sensibilità contemporanea, più inattuale, nell'epoca dell'Onlife - la nostra vita perennemente connessa -, della pazienza. D'altra parte è proprio a partire da una presa di distanza dalla postura esistenziale della pazienza, come capacità di attendere, capacità di misurarsi con dolore e fatica, capacità di ascolto verso l'altro, che si è costituita la soggettività moderna di cui l'individuo contemporaneo, che vive nella fretta del fare per fare e del voler avere sempre di più, è il figlio. Proprio per questo il libro di Andrea Tagliapietra, "I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza" , edito da Donzelli, è un libro filosoficamente contemporaneo, e non un semplice studio erudito sulla storia di una virtù minore ormai senza più interesse o utilità. Contemporaneo infatti, come ebbe a ricordare Giorgio Agamben, non è ciò che coincide semplicemente con il proprio tempo, ma ciò che è in grado di affrontarlo, di leggerlo a partire da uno scarto, da un'anacronia interna. È in questo scarto prezioso, vitale, che si colloca il lavoro di Tagliapietra che, a partire dalla storia e dall'iconografia dell'idea di pazienza, interroga il cuore delle nostre esistenze visto che, scrive Tagliapietra nell'introduzione, «l'impazienza può essere ritenuta la cifra contemporanea dell'esperienza soggettiva o, se si vuole, la causa della sua mancanza».

In questo senso il libro, che come altri dell'Autore sembra quasi, con pudore, nascondersi dietro la forma della storia delle idee, è un libro genuinamente filosofico, guidato da un'idea greca di filosofia di cui oggi più che mai, come aveva ben compreso Foucault nell'ultimo periodo della sua vita, abbiamo bisogno: «La filosofia stessa, quando è degna della vocazione inscritta nel suo bel nome greco, non mira a nient'altro che a restituirci, per abitarlo, questo inesausto luogo dove l'esperienza del senso delle cose è tutt'uno con la grazia del moto dei corpi e con l'ebrezza appagata del referto dei sensi». La tesi del libro è originale e forte. Non si tratta di fare l'elogio nostalgico di un'antica virtù perduta, ma di interrogare una dimensione essenziale della nostra vita di cui facciamo esperienza nell'unità di mente e corpo, nell'animale che dunque siamo per riprendere una formula derridiana che riecheggia tra le pagine del libro. Il percorso di Tagliapietra attraversa costrutti culturali, ma guarda al corpo vivente che siamo. Qui si radica la nostra potenza di patire, stare, persistere. Qui insiste la nostra pazienza, nonostante tutto. Per giungere fin qui, al di là dei discorsi umani troppo umani di filosofia e teologia, occorre misurarsi con quelle forme di pensiero in cui l'uomo, esplorando la metafora animale, ha provato a comprendersi in uno spazio di indistinzione con l'animale, nell'immanenza della sua nuda vita al di là dei limiti dell'«io penso». Così una filosofia della pazienza come interrogazione della profondità della nostra vita volge necessariamente la propria attenzione verso la rappresentazione pittorica dei cani come icone del tempo della vita, di quella «temporalità che sembra essere il dato immediato della nostra intimità vivente», lì dove non misuriamo la durata ma la sentiamo, per usare le parole di Bergson.  Questo tempo è il tempo della pazienza.

Tagliapietra ne indaga le molteplici forme e declinazioni partendo dal dipinto "Due cani da caccia legati a un ceppo" (1548-50) di Jacopo Bassano, fino ad arrivare ai cani di Franz Marc, Francis Bacon, passando per Albrecht Durer e Francisco Goya. Ma più ci si immerge nella lettura più ci si accorge come l'indagine sulla pazienza sia un'interrogazione sul tempo della vita che vive, quella vita che Heidegger, citato da Tagliapietra, ritrovava nell'antico etimo del verbo essere. D'altra parte la parola tempus, scrive Tagliapietra, al plurale, tempora, significa  anche «tempie», il luogo in cui si sentiva nell'antichità il battito del cuore. E al cuore si rivolgeva Ulisse, eroe della pazienza mitica, per indurlo a sopportare, pazientare: «Sopporta, cuore!» Guardando al mondo greco, emerge chiaramente come la pazienza non abbia nulla della passività o della rassegnazione, ma sia davvero la virtù dei forti, di chi ha la capacità di restare saldo, tenere la posizione, attendere nonostante tutto. E la pazienza come karterìa, che si lega alla forza d'animo e al coraggio e che fa il paio con l'hypomoné, l'altro nome greco di pazienza come forza di mantenere la posizione di cui il guerriero della falange oplitica è un'incarnazione. È la pazienza di Argo, il cane di Ulisse raffigurato in "Penelope al telaio" (1764) di Angelica Kauffmann: sdraiato ai piedi di Penelope che sta disfacendo la tela, il muso poggiato sull'arco di Ulisse, Argo, il manto pezzato bianco e marrone, attende paziente il ritorno del suo padrone, o meglio, è questa «attesa che non si fa distrarre o ammansire dalle condizioni avverse».

Ora, questa pazienza animale, ci mostra Tagliapietra, fa corpo e carne con l'esperienza stessa del pensare, che si sottrae così agli angusti limiti di un io sovrano, per farsi potenza di ricevere, potenza di accogliere ciò che accade a un corpo che vive, vero cuore pulsante del libro. Per questo Argo può diventare il riferimento di quella corrente filosofica il cui nome fa corpo con il corpo stesso del cane: i cinici. Antistene, il caposcuola, era soprannominato «il puro cane», mentre Diogene di Sinope era detto semplicemente «il cane». Qui la filosofia si libera da ogni astratto fardello teorico, abbandona la speculazione per farsi modo di vivere, arte della vita, esercizio quotidiano di esistenza. Filosofo e cane si incontrano materialmente nella dimensione di una forma di vita altra. L'animalità non è più ciò da cui occorre distinguersi, rivendicando il possesso della ragione o del linguaggio, ma un compito etico da perseguire. Con le parole di Foucault: «L'animalità è un esercizio. È un compito per sé stessi e al contempo uno scandalo per gli altri».

- Simone Regazzoni - Pubblicato su TuttoLibri del 12/11/2022 -

venerdì 24 febbraio 2023

Quantisticamente!!

« Abbi cura dei tuoi ricordi perché non puoi viverli di nuovo» (Bob Dylan)

Arrivato ormai all'età di settant'anni, avviene che ora, da qualche giorno, mi sta capitando di guardare indietro, volgendomi a considerare tutte le mie vite; "quantisticamente" intendo!
Estendendo anche alla singola vita umana (la mia, nel caso)  il concetto di "ucronia", ho cominciato a guardare al mio tempo trascorso cercando quei punti in cui le strade, per così dire, si biforcano e poi, ulteriormente, si ramificano, e lo fanno proprio a partire e a causa del bivio. Ne ho individuati non pochi, di bivi, mentre mi rigiro nel letto la notte.

Ora vengo e mi spiego: se per esempio prendo come punto nodale quello nel quale parto - lasciando Siracusa per la prima volta per trasferirmi a Firenze -  ecco che, nel farlo, scelgo di chiudere un mondo, mentre però che allo stesso tempo ne apro un altro nel nuovo universo; simultaneamente, tuttavia chiudo anche quelle storie alternative che non si realizzeranno mai più, ma che avrebbero potuto, aprendo allo stesso tempo una possibilità a ciascuna delle infinite altre. E così via.

Prima ancora della “partenza”, nella mia vita ce n'è stato un altro di punto nodale che ho individuato, non meno importante, ma che non decido io, allorché all'età di 6 anni vado direttamente in terza elementare, saltando i primi due anni, e creando così le premesse per quella che sarà poi la prima parte importante della mia vita. Amici, insegnanti, esperienze, quasi tutto proviene da lì, tranne la famiglia. Da lì provengono anche tutte le possibilità che non ci sono state, e a partire dalle quali avrei poi potuto anche decidere, una volta finito il liceo all'età di diciassette anni, di restare a Siracusa; oppure di andare altrove, in Italia e nel mondo, anziché a Scienze Politiche a Firenze.

Insomma, ecco che le cose si complicano… E intanto ( ovviamente parlo dell'intanto di allora! ) decido di non usufruire del diritto a rinviare il militare, e vengo mandato per quindici mesi a Udine. Tornato libero, la nuova decisione è quella di lasciare la mia Siracusa ancora una volta per tornare a Firenze a seguire il filo dei nuovi eventi, e delle nuove scelte che mi si impongono, nel mentre che continuo a rendere impossibili tutte le altre realtà non nate.

Insomma, mille e una vita, come in un Urania che ho letto tanti anni fa, e non mi ricordo nemmeno se allora mi fosse piaciuto o no. Solo che nel mio vagabondare tra gli universi mi è capitato anche di morire. Sul serio, dico, non come in quelle altre volte che c'ero andato vicino, come quando ero volato fuori dal finestrino spiaccicandomi sull'autostrada tra le auto che sfrecciavano, rompendomi solo un braccio e una decina di costole. No, stavolta sono proprio morto! Non come quella volta che all'età di circa due anni mi feci un'overdose di pasticche di clorato di potassio, complice mia sorella, con cui ero rimasto solo in casa. Stavolta, il 24 febbraio del 2017, senza né botti né urla, il cuore si era semplicemente fermato, senza alcuna intenzione di ripartire. E senza l'intervento della persona che allora mi stava accanto che ha reso possibile che venissi collegato a una macchina per la circolazione extracorporea, cosa che  ha reso possibile, giorni dopo, la mia… ripartenza.

Ecco, con questo voglio dire che quel giorno, di ora son sei anni fa, tutti gli altri me che avevano preso strade diverse, e che avevano fatte scelte differenti, a Firenze o a Siracusa o in qualsiasi altra parte del mondo, tutti quei francosenia - o come minchia avevano scelto di farsi chiamare - sono tutti morti, finiti, andati.

Insomma, quel 24 febbraio c'è stata una strage!! "Quantisticamente", naturalmente! Certo, potrebbe essere stato anche possibile che uno di loro - probabilmente il più pazzo e/o il più fortunato - abbia compiuto precedentemente tutto un giro di scelte così folle e vorticoso da aver reso possibile che alla fine sia trovato nella medesima situazione geografica-sentimentale in grado di permettergli di replicare la mia stessa … fortuna. Ma sinceramente ne dubito! Vabbè, non importa. Per dirla con Flaiano, «il meglio è passato» !!

giovedì 23 febbraio 2023

Il Vecchio Ponte

Niente da dimenticare !??

Se non sbaglio dev'essere stato tra il 1971 e il 1972. Sto parlando dei ragazzi e delle ragazze del Liceo Artistico di Via Cavour, a Firenze, di Antonio Lombardi e di Giacomo Taiuti, delle poesie recitate con l'ombrello aperto sul tetto della scuola e della contestazione al presidente Leone (senz’altro meno retorico e inutile di quello attuale), il quale rispose loro "facendo le corna"; e che così facendo spingevano alla disperazione la preside Coco. Sto parlando di quello straordinariamente vivace gruppo anarchico che era riuscito a coinvolgere praticamente tutto il Liceo, al punto di sentire l'esigenza di darsi anche una sede politica fisica - al di là delle aule del Liceo - trovandone una in via Sangallo (all'epoca le sedi politiche si affittavano!).
  Il Vecchio Ponte, era il nome che avevano  dato al gruppo e alla sede: niente a che fare con la toponomastica fiorentina e/o coi ponti sull'Arno; gli è che quel riferimento fluviale serviva solo a tradurre in italiano il nome di un qualche piccolo gruppo anarchico tedesco o olandese di non so precisamente dove, se non ricordo male.

"Coincidenza" volle però, che allora, in quello stesso periodo e momento storico (che parole grosse!!), sfortunatamente accadde che Lotta Continua (il gruppo politico di "estrema sinistra" più potente in Italia) venisse - a dir loro - sfrattato e privato della sede politica che avevano in quella realtà fiorentina dove asserivano di essere presenti (e ciò, nonostante il dire di chi come Michelangelo Caponetto, leader di PotOp, sosteneva che a Firenze, essi costituissero solo la "federazione giovanile" del suddetto gruppo operaista; insomma il posto dove mandare i propri studenti medi a farsi le ossa !!).
  Ragion per cui - in quel giocoso e felice clima di compagneria che sembra essere stato l'inizio degli anni '70 – ecco che fu giocoforza che i ragazzi di Sofri si risolvessero a chiedere "aiuto" ai giovani e alle giovani artiste anarchiche, impetrando loro ospitalità, oltre che un posto dove parcheggiare la strumentazione (ciclostili, ecc.), di modo che così la rivoluzione in atto non dovesse fermarsi solo per cedere alle esose richieste dei proprietari di case.

Ad ogni modo - ve la faccio breve - nel giro di poche settimane la cosa si concluse nel "migliore" dei modi (per i ragazzi di Bugliani)  i quali, trovatasi una nuova sede in Santa Croce (quartiere destinato a essere in futuro il quadro di riferimento per l'intervento politico degli anni a venire), pensarono anche di portarsi dietro più di qualcuno dei militanti di quel gruppo così nutrito e così... particolare che li aveva accolti e aiutati. Decretandone la fine!

Ricordo che a caldo, in quegli stessi mesi, parlando con dei compagni provenienti dall'esperienza del potere operaio pisano a Piombino, venni edotto riguardo a come una simile tattica - conosciuta come «l'opportunismo del cuculo» - fosse allora per quel gruppo moneta assai comune; insieme a quell'altra relativa ai finanziamenti sia immobiliari che "artistici", laddove il quadro dell'artista di grido veniva tagliato in quattro o in sei (a seconda delle sue dimensioni) in modo da trarne il maggior profitto possibile. Altri tempi!!

lunedì 20 febbraio 2023

Il Valore di … Aristotele !!

Karl Marx, discepolo di Aristotele
- Valore d'uso e valore di scambio. Il ruolo del denaro. Le basi della nozione di plusvalore. Parte delle idee economiche e filosofiche marxiane affondano le loro radici nel pensatore greco. Entrambi sapevano che non è possibile quantificare alcune qualità -
di Marcos Barbosa de Oliveira

«Come valori di uso, le merci sono prima di tutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, e quindi non contengono nemmeno un atomo di valore di uso.» (Marx)

Nelle sue "Considerations on western marxism" (tradotto in Italia da Laterza e pubblicato nel 1977 col titolo: "Il dibattito nel marxismo occidentale"), Perry Anderson illumina uno degli aspetti che accomuna i pensatori di quell'orientamento, vale a dire il ricorso a «filosofie pre-marxiste al fine di legittimare, spiegare o integrare la filosofia di Marx». Il primo significativo esempio di questo genere, è stato lo studio di Hegel, da parte di Lukács, in "Storia e coscienza di classe". Nella medesima prospettiva, a grandi linee, Anderson cita le seguenti coppie autore-filosofo: Colletti/Kant, Althusser/Spinoza, Goldmann/Pascal, Lefebvre/Schelling, Marcuse/Schiller, Gramsci/Machiavelli (Anderson, 2004, p. 79 ss.). In nessuna di queste coppie il posto del filosofo viene preso da Aristotele. La tesi principale di questo modesto saggio invece è che - se il tema è quello dei precursori filosofici di Marx - il più importante è, di fatto, il filosofo greco nativo di Stagira. Un contributo secondario in tal senso, lo troviamo nelle osservazioni sulla polarità quantitativo/qualitativo: in genere, in economia, questo in particolare lo si trova in relazione al valore d'uso. Il polo quantitativo richiede un chiarimento dei significati con cui verranno utilizzati i termini «quantificazione», «misurazione» (o «misurabilità»; qui tratteremo i due termini come sinonimi) e matematizzazione. Assumendo la quantità come concetto primitivo, definiamo la quantificazione come il processo di sviluppo della visione della realtà in termini di quantità. La quantificazione è un processo cognitivo che si situa nella sfera delle idee, nella mente degli esseri umani. La misurazione si trova situata nella sfera della pratica, ed è una forma di interazione con la realtà che rende più definiti, più precisi, tutti gli aspetti della visione quantitativa. La quantificazione può esistere anche senza la misurazione. Un buon esempio di questa possibilità è la geometria euclidea. Il teorema di Pitagora si riferisce ovviamente alla quantità: le dimensioni dei lati di un triangolo rettangolo. Non c'è nulla di assurdo nel pensarlo come una legge empirica, che può essere verificata misurando i lati di triangoli reali, cioè di entità materiali vicine all'idea di triangolo rettangolo. Ma tale operazione è esterna all'universo concettuale della geometria euclidea. La misurazione, invece, presuppone la quantificazione: affinché qualcosa possa essere misurato, deve prima essere quantificato. Il termine matematizzazione, infine, designa le due operazioni insieme (matematizzazione = quantificazione + misurazione).[*1] Un'altra osservazione preliminare riguarda l'importanza di Aristotele nella storia dell'economia. Come dice Scott Meikle (1995, p. 1): « L'influenza dovuta agli scritti economici di Aristotele è stata enorme, per quanto essi occupino solo meno di mezza dozzina di pagine dell'Etica e della Politica Nicomachea nell'edizione di Bekker. Essi hanno costituito tuttavia la spina dorsale del pensiero medievale relativo al comportamento commerciale, e su tutti gli argomenti che noi chiamiamo "economici". [...] Usualmente, vengono considerate come il primo contributo analitico all'economia, e le storie del pensiero economico le assumono come punto di partenza.» [*2] Ancora oggi, alcune delle idee economiche di Aristotele vengono grossomodo considerate valide; come i concetti di valore d'uso e di valore di scambio, così come la sua concezione del denaro avente tre funzioni: mezzo di scambio, misura del valore e riserva di valore. Sulla base di una libera interpretazione, sostengo che al fine della comprensione di queste e di altre idee economiche, è indispensabile tenere conto del fatto che esse nascono motivate da questioni etiche. Naturalmente, il fatto che i passaggi "economici" compaiano nell'Etica Nicomachea e nella Politica depone a favore di questa interpretazione. Malgrado l'importanza storica delle idee economiche di Aristotele, secondo l'opinione di diversi commentatori i passi in questione non eccellono per chiarezza. «Una delle poche proposizioni accettabili per tutti i commentatori moderni del Libro V dell'Etica, è quella secondo cui, per quanto le intuizioni in esso contenute siano notevoli, il testo in sé è disorganizzato e assai spesso oscuro» (Kaye, 2004, p. 53), dando così luogo a diverse interpretazioni. Schumpeter, ad esempio, rifiuta l'interpretazione qui adottata, e sostiene che la motivazione etica passa in secondo piano, ed è preceduta da quella analitica (Schumpeter, 1994, p. 54). In tutta evidenza, il sistema economico dell'antica Grecia non era il capitalismo, tuttavia esistevano merci, mercanti e mercati, artigiani che vendevano i loro prodotti e fornitori di servizi a pagamento (ad esempio, consulenze mediche, lezioni tenute dai sofisti). Da un tale contesto, emerge il concetto di prezzo equo, il quale non ha perso la sua attualità. Per quanto il termine non sia usato spesso, il concetto viene presupposto nel senso comune allorché si commenta che un supermercato è caro, oppure quando ci si lamenta delle case editrici che chiedono prezzi esorbitanti per l'accesso agli articoli scientifici. Le idee di Aristotele sull'argomento, compaiono nella sezione dell'Etica dedicata alla giustizia (EN, 1129a-1138b). Il carattere etico dell'approccio di Aristotele alle questioni economiche, si manifesta nella condanna di alcune pratiche, molte delle quali possono essere interpretate come deviazioni dalla norma del giusto prezzo. Un esempio è quello che riguarda la possibilità che un venditore, grazie al monopolio, possa praticare prezzi superiori al giusto - anche in quell'epoca! In un noto passo, a proposito di Talete di Mileto, egli dice:
«A causa della sua povertà, attribuita all'inutilità della filosofia, Talete era disprezzato, ma grazie alle sue conoscenze di astronomia predisse, anche in pieno inverno, che ci sarebbe stato un abbondante raccolto di olive; si procurò perciò un po' di denaro e acquistò il diritto d'uso di tutti i mulini di Mileto e Chio, pagando poco perché nessuno gli faceva concorrenza; quando arrivò la stagione dell'estrazione dell'olio, ci fu un'improvvisa richiesta di numerosi frantoi contemporaneamente, e subaffittandoli alle condizioni che desiderava fece molti soldi, dimostrando che per il filosofo è facile fare profitti quando vuole, ma non è di questo che si occupa.» (Pol, 1259a9)
Un'altra dimostrazione della disposizione etica si trova nella condanna dell'usura: « L'usura è detestata a ragione, dal momento che il suo guadagno proviene dal denaro stesso, e non da ciò che ha portato alla sua introduzione. Infatti, lo scopo originario del denaro era quello di facilitare gli scambi, ma l'interesse portò ad aumentare la quantità del denaro in sé, [...] pertanto questa forma di guadagno è tra tutte la più contraria alla natura.» (Pol., 1258a).

Se ora si passa alle concezioni di Marx, come è noto, sappiamo che egli nutriva grande stima per Aristotele, e non mancava di esprimere la propria ammirazione, definendolo come «il grande studioso che per la prima volta ha analizzato la forma del valore, così come tante altre forme del pensiero, della società e della natura» (Capitale, vol. I, p. 135). Nell'interpretazione che proponiamo, il primo aspetto delle concezioni aristoteliche incorporate da Marx è l'approccio etico, da cui emerge la norma del giusto prezzo. Il Capitale è una critica dell'economia politica, ma lo è anche, naturalmente, del capitalismo stesso. Il capo d'accusa critico più centrale, formulato da Marx contro il sistema capitalistico, è senza dubbio quello relativo al plusvalore, la cui appropriazione, da parte del capitalista, egli condanna come furto (Capitale, vol. I, pp. 308 e 498). È facile capire come tale condanna non sia altro che l'applicazione della norma del giusto prezzo al caso particolare del prezzo della forza lavoro [*3] Per i neoliberisti, il giusto prezzo è quello di mercato. Come si fa a sapere qual è il giusto prezzo di un bene? Inizialmente, Aristotele non considera le transazioni di compravendita, bensì lo scambio semplice, o baratto, nel quale nessuno dei beni scambiati corrisponde al denaro. A titolo di esempio, egli discute di quante paia di scarpe dovrebbero essere scambiate per una casa [*4]. Si tratta - si potrebbe dire - di una teoria dello scambio equo, secondo la quale, per fa sì che uno scambio sia equo, i due beni scambiati devono avere qualcosa in comune, qualcosa che sia uguale in entrambi; e questo qualcosa è il valore. In uno scambio equo, i beni scambiati devono avere lo stesso valore. Successivamente, in un secondo momento, Aristotele introduce il denaro come mezzo di scambio, un dispositivo ovviamente di grande utilità come facilitatore delle transazioni in una società che ha un certo grado di divisione del lavoro. E insieme al denaro, viene introdotto anche il concetto di prezzo onesto. Affinché una transazione di compravendita sia equa, il valore della merce acquistata deve essere uguale alla somma di denaro pagata. Ciò implica che i valori delle merci devono essere commensurabili (e prima ancora quantificabili). Nelle parole di Aristotele: «In questo modo, il denaro, fungendo da misura, rende i beni commensurabili e li equipara gli uni agli altri; infatti non avremmo associazione se non ci fosse scambio, né avremmo scambio se non ci fosse uguaglianza, né uguaglianza se non ci fosse commensurabilità. Ci deve essere dunque un'unità di misura, ed essa è un'unità stabilita a partire da un accordo comune [...], di modo che è questo ciò  che rende tutte le cose commensurabili, a partire dal fatto che tutte quante sono misurate dal denaro» (EN, 1133a) [*5]. Questo principio di uguaglianza, o equivalenza, viene incorporato da Marx come uno dei pilastri della sua teoria del capitalismo. Come dice Harvey (2010, p. 36), «nel sistema di mercato, questo attributo di uguaglianza è terribilmente importante; Marx lo concepisce come fondamentale ai fini del funzionamento teorico del capitalismo.» [*6]

Essendo il denaro un'entità essenzialmente quantitativa, ed essendo il valore un elemento fondamentale della teoria economica, tutto ciò deve essere quantificato. Fin qui tutto bene. Ma come può essere misurato tale valore quantificato? All'inizio, si presentano due alternative, ossia quelle che lo identificano o con il valore di scambio o con il valore d'uso. La prima è chiaramente inadeguata, visto che il valore di scambio si manifesta come prezzo, e il prezzo consiste in ciò che, da un punto di vista analitico, ha bisogno di essere spiegato; oppure, da un punto di vista etico, nella sua forma di prezzo giusto, è ciò che deve essere giustificato. Anche la seconda alternativa, cioè quella del valore che viene identificato con il valore d'uso, non funziona, dal momento che per Aristotele i valori d'uso sono delle qualità e pertanto - secondo quella che è la sua teoria delle categorie (esposta nell'Organon) - le qualità non possono essere né quantificate né misurate. In mancanza di un'alternativa, Aristotele è incapace di formulare una teoria del valore. Oltre che al principio di equivalenza, Marx si avvale di altre riflessioni economiche, diverse da quelle di Aristotele, seguendo assai da vicino le orme del maestro fino ad arrivare all'introduzione della teoria del valore, spingendosi su questo ad approfondire grazie alla sua Teoria del Valore-Lavoro. A partire da un approccio esternalista, egli spiega - sulla base delle condizioni sociali dell'epoca, in particolare della schiavitù - l'incapacità di Aristotele a formulare una teoria del valore basata sul lavoro. «Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto di uguaglianza nell’espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società in cui viveva gli impedisce di scoprire in che cosa consista, “in verità”, {il contenuto reale di} tale rapporto di uguaglianza.» (Capitale, vol. I, p. 136). Il carattere etico dell'approccio aristotelico, si manifesta anche in quello che è un altro aspetto delle sue idee economiche, vale a dire, quello relativo alle varie forme di transazione. Ciascuna di esse è rivolta un determinato fine, da cui dipende la sua approvazione o la sua condanna. Per analizzarle, Meikle adotta la notazione dove le lettere M e D stanno per merce e denaro. [*7] La prima forma di transazione è il baratto (M-M'), la seconda è la compravendita (M-M) insieme alla vendita (M-M-D), la terza invece è la crematistica ovvero l'«arte di fare denaro» (M-M/MD') o, in breve, (M-M-M-D'), infine, la quarta è l'usura (M-D') (Meikle, 1994, pp. 27-8). Da un punto di vista assiologico, appare fondamentale la distinzione aristotelica tra due tipi di crematisca: quello naturale, accettabile da un punto di vista etico, il cui fine, per definizione, è il soddisfacimento dei bisogni materiali della vita umana, e quello innaturale, condannabile da un punto di vista etico, nel quale il fine è l'accrescimento del denaro posseduto, fine a sé stesso e senza limiti. [*8] Il concetto di limite (peras) svolge un ruolo essenziale nel pensiero di Aristotele, non solo per quel che riguarda l'Economia, ma anche per la Metafisica (Meikle, 2000, p. 257). In disaccordo con Solone, allorché quest'ultimo afferma «Per l'uomo, non è stato fissato alcun limite alle ricchezze», il filosofo invece afferma: «Le cose passibili di venire accumulate, necessarie e utili alla comunità composta dalla famiglia o dalla città [...] sembrano costituire la vera ricchezza, dal momento che il bisogno di questi beni, necessari di per sé a consentire una vita piacevole, non è infinito.» (Pol. 1256a14).

Un aspetto sul quale concordano tanto i sostenitori quanto i critici, è quello secondo cui il capitalismo valorizzerebbe essenzialmente la crescita illimitata dei profitti, dell'efficienza, dell'accumulo di capitale, ecc. [*9] Come dice Weber, «fare soldi e sempre più soldi» è il summum bonum dell'etica dello spirito del capitalismo, il quale corrisponde chiaramente a una crematisca innaturale. [*10] In un altro scritto, che tratta di Marx, Meikle afferma:«La notazione che utilizza M e D per indicare i circuiti delle merci e del denaro, è dovuta a Marx. Si veda il Capitale, vol. I, capitoli 3 e 4, e il suo precedente "Contributo alla critica dell'economia politica". L'analisi marxiana di questi circuiti segue da vicino quella di Aristotele. Ci sono molte indicazioni, in special modo nel "Contributo", il precursore del Capitale, ma anche nel Capitale stesso, del fatto che Marx abbia tratto da Aristotele gli elementi più basilari della sua analisi, e quindi non sorprende che la notazione sia così ben adeguata alle concezioni aristoteliche. [...] L'intera critica marxiana dell'economia politica [...] si basa sulla stretta osservanza della distinzione categorica tra valore d'uso e valore di scambio, rispettivamente come qualità e quantità. Nella visione di Marx, le imprese capitalistiche e l'economia capitalistica, viste come una totalità, sono essenzialmente imprese finalizzate a D-M-D', e non a M-D-M'. Anche Keynes era dello stesso parere, a differenza di molti economisti» (Meikle, 1995, p. 52). Nel ragionamento del percorso che porta alla Teoria del Valore-Lavoro, Marx segue Aristotele, affermando che il motivo per cui il valore d'uso non può essere assunto come sostrato del valore risiede nel fatto che, da un lato, il valore deve essere quantitativo, mentre dall'altro essendo i valori d'uso qualità, come tali, non possono essere quantificati o misurati. Per approfondire l'analisi di tale tesi, è opportuno tornare alla storia, ora non più a quella dell'Antichità, ma al Basso Medioevo, periodo in cui fiorì la Scolastica. Un'altra giustificazione per questo percorso risiede nel fatto che l'influenza di Aristotele su Marx è avvenuta non solo direttamente, ma anche attraverso i contributi della Scolastica [*11]. L'interesse che gli Scolastici nutrivano per la vita economica - in particolare per il denaro - viene testimoniato dagli scritti che essi hanno lasciato sull'argomento. Dato che si dedicavano anche alla Filosofia della Natura, ciò consentiva loro di avere influenze reciproche nei due campi del sapere. Tali scritti consistevano nei commenti alle idee economiche di Aristotele che, da un lato, le incorporavano e, dall'altro, se ne discostavano, aprendo così la strada alla visione del mondo propria della modernità. Tra i commenti più importanti ci sono quelli di Alberto Magno (1193-1280), di Tommaso d'Aquino (1225-1274) e di Nicole Oresme (1323-1382) [*12]. L'aspetto più rilevante che essi condividevano con Aristotele era l'approccio etico, cosa che dava origine a giudizi morali sui vari tipi di transazione, una buona parte dei quali aveva come fondamento proprio la norma del giusto prezzo, a sua volta basata sul principio di equivalenza. Un'altra nozione di Aristotele, anch'essa molto importante, la quale non venne solo adottata, ma fu anche sviluppata dagli scolastici, è quella della seconda funzione del denaro, quella del denaro come misura del valore, e in particolare la proposizione secondo cui il denaro è la misura di tutte le cose (o, più precisamente, di tutto ciò che può essere oggetto di scambio). L'introduzione delle idee economiche in altri ambiti di pensiero, può essere interpretata come originata dalla seguente linea di ragionamento, la cui conclusione consiste in un aspetto in cui gli scolastici si discostano dagli insegnamenti di Aristotele. Detta molto schematicamente: 1) tutto ciò che è scambiabile è misurabile con il denaro; 2) l'insieme delle cose scambiabili comprende un'immensa varietà di elementi, i quali si distinguono gli uni dagli altri per le loro qualità; 3) stando così le cose, il denaro misura le qualità; il che dimostrerebbe che, contrariamente alla teoria aristotelica delle categorie, esse sono misurabili. [*13]

La possibilità di quantificare le qualità, aveva rappresentato una liberazione dalla visione qualitativa del mondo del sistema aristotelico, dando origine a quello che oggi noi chiameremmo un vasto programma di ricerca finalizzato alla quantificazione delle qualità. Kaye lo descrive come un «frenetico tentativo di estendere la misurazione e la quantificazione alle qualità più varie e più soggettive» (Kaye, 1988, p. 256). I progressi ottenuti dal programma, stimolarono gli scolastici spingendoli a introdurre la visione quantificante anche nella Teologia stessa: «Ben presto, non solo le entità che non erano mai state misurate prima, ma anche quelle che non erano mai state misurate dopo, vennero sottoposte a una sorta di analisi quantitativa. Le questioni teologiche riguardanti le qualità più soggettive e apparentemente incommensurabili, come la forza della carità cristiana, o il confronto tra l'amore umano e l'amore di Cristo, o i mezzi con cui la qualità della grazia aumenta nell'anima, venivano abitualmente trattate come se fossero dei problemi di quantificazione e venivano sottoposte ad analisi secondo gli ultimi sviluppi della logica e della matematica della misurazione» (Kaye, 2004, p. 3). Su un piano più concreto, Kaye cita la tariffazione delle indulgenze: «All'inizio del XIV secolo (1308), la monetizzazione e la misurazione razionalizzata del prezzo invasero a tal punto il dominio della teologia ufficiale che la proporzione del pagamento. rispetto alla retribuzione sotto forma di indulgenza. poté essere fissata ufficialmente da Papa Clemente V al valore di un soldo di Tours per ogni anno di indulgenza concesso» (Kaye, 2004, p. 168). Per contro, un aspetto della massima importanza nella linea quantificatrice degli scolastici è l'assenza di misurazione. Come dice Anneliese Maier:
«Più volte, i filosofi del Trecento si accontentarono di comprendere il modo di conoscere, senza tuttavia cercare la conoscenza stessa. Questo atteggiamento produsse - o forse era derivato da - un'insolita insufficienza nella "nuova fisica" del XIV secolo: nessuno misurava più nulla. Non solo i filosofi si rifiutarono, anche nei casi più semplici, di cercare modi e mezzi per effettuare misure indirette, ma ignorarono anche l'opportunità di effettuare delle misure dirette, quando ciò era invece chiaramente fattibile» (Maier, 1982, p. 168-9). Avendo bene in mente la distinzione tra quantificazione, misurazione e matematizzazione descritta sopra, si potrebbe dire che gli scolastici quantificarono tutto ma non misurarono nulla, e quindi non matematizzarono nulla. La matematizzazione ebbe inizio solo quasi due secoli dopo, ad opera dei pionieri della Rivoluzione Scientifica, Galileo, Keplero, Cartesio, ecc. Questo ritardo si spiega in parte con il fatto che il compito di effettuare misurazioni non è né semplice né ovvio. Al contrario, oltre alle conoscenze teoriche, l'operazione richiede al ricercatore una grande dose di ingegno, la capacità di inventare espedienti per risolvere problemi pratici; tutti attributi di cui Galileo era notevolmente dotato (Mariconda & Vasconcelos, 2020).

A partire dalla Fisica, il programma matematico della Rivoluzione Scientifica conquistò successivamente la Chimica, la Biologia, la Geologia, ecc., e poi - nel campo delle scienze umane, rafforzate dal positivismo - la Sociologia e la Psicologia. Pertanto, non c'è alcun dubbio che il programma ebbe un grande successo, al punto da permettere, alla fine del XIX secolo, all'eminente Lord Kelvin di radicalizzarsi, dichiarando:
«Quando possiamo misurare ciò di cui parliamo ed esprimerlo in cifre, sappiamo qualcosa su di esso; quando non possiamo esprimerlo in cifre, la nostra conoscenza è scarsa e insoddisfacente; può essere l'inizio della conoscenza, ma nel nostro pensiero siamo a malapena avanzati verso lo stadio della scienza, qualunque sia la questione» (Thomson (Lord Kelvin), 1891, p. 73).
L'aspetto determinante del programma di matematizzazione della scienza moderna, nella linea di ragionamento ora in corso, consiste nel fatto che i suoi progressi hanno incluso molti casi in cui la quantità matematizzata è stata considerata una qualità, come il colore, il suono, il gusto e altro. Ciò confuta il principio aristotelico dell'incommensurabilità delle qualità. Applicato al valore d'uso, tale cambiamento annulla l'incommensurabilità considerata come motivazione secondo cui esso non può svolgere il ruolo di valore, o di sostrato del valore, come avviene nelle concezioni di Aristotele; cui a tal proposito si accompagna anche Marx. Ma se la ragione non è questa, allora quale sarebbe? Il valore d'uso potrebbe essere misurabile? Scartando una simile possibilità, la risposta che proponiamo è quella secondo cui, semplicemente, nella natura così come nella vita sociale, per motivi che variano da caso a caso, esiste un'infinità di entità incommensurabili. Tra queste, ce ne sono molte che un autore o un programma di ricerca vorrebbe misurare, dando in tal modo origine a una tensione. Per fare un esempio rilevante nel contesto attuale, W. S. Jevons, uno dei pionieri del filone neoclassico dell'economia, avrebbe voluto poter misurare il valore d'uso. Nonostante i suoi strenui sforzi, non ci riuscì, poiché il concetto di utilità, da lui proposto come sostituto, mancava degli attributi del valore d'uso, come tradizionalmente viene concepito. Secondo Meikle (2000, p. 250): «W. S. Jevons sposta in maniera decisa l'attenzione, dall'utilità nel consumo all'utilità nella compravendita, con la conseguenza che si perde completamente una nozione indipendente di valore d'uso. Jevons era convinto che quasi tutto ciò che nell'economia del suo tempo era errato, fosse dovuto alla presenza di nozioni qualitative, e il suo obiettivo era quello di sostituirle con nozioni quantitative ogni volta che sembrava possibile. L'utilità, ciò che in precedenza era stato chiamato "valore d'uso", si trovava in cima alla sua lista. [...] La sua nozione di utilità era quella di un servizio che non è discriminato secondo la specie, e che può essere presente indistintamente in qualsiasi tipo.»

Gli economisti potranno correggermi, ma a mio avviso la nozione di valore d'uso, nel senso in cui appare in Aristotele, negli scolastici e nell'Economia Politica classica, è stata esclusa dal filone ortodosso dell'Economia, a partire dai neoclassici. Lo stesso si può dire dell'economia marxista, come possiamo vedere nel Capitale, allorché Marx relega i valori d'uso in una «disciplina specifica, la merceologia» [*14] . Uno studio delle ragioni per cui alcune entità possono, mentre altre non possono, essere misurate richiederebbe un'analisi rigorosa delle idee di Aristotele sulle categorie; un compito questo che va ben oltre i limiti di questo saggio. Nelle considerazioni finali che seguono, tenendo conto che la valutazione quantitativa non è altro che una forma di misurazione, mi occuperò di un caso particolare: quello della valutazione accademica in quanto misurazione della produttività delle attività di ricerca. In altri testi (Oliveira, 2015, 2019 e 2022), difendo la tesi dell'esistenza, nella vita sociale, di due forze quantificatrici. Una è la scienza moderna, la cui forza quantificatrice diventa tanto più intensa quanto più la scienza stessa si matematizza [*15]. L'altra forza è quella del capitalismo, tanto più intensa quanto più si radicalizzano i suoi principi; come avviene nel neoliberismo. Le due forze si rafforzano a vicenda, e la loro azione congiunta sostiene il valore del principio di Kelvin, che continua a funzionare a manetta. Tale constatazione, di fatto apre la strada a una tesi critica, ossia che le pressioni quantificatorie in tempi di neoliberismo spingono a tentare di misurare l'incommensurabile, generando in tal modo delle misurazioni estremamente precarie, piene di effetti deleteri sulla vita sociale. È quanto accade, ad esempio, con il PIL (pro capite), visto come misura della qualità della vita degli abitanti di un Paese. Un altro esempio è quello delle valutazioni quantitative che hanno un ruolo centrale nell'amministrazione dell'accademia, e che vengono viste come se fossero misurazioni della produttività dei ricercatori e della ricerca. In realtà, praticamente tutte le idee presentate in questo saggio sono il risultato di una riflessione, iniziata molti anni fa, sul binomio quantità/qualità nella valutazione accademica.

- Marcos Barbosa de Oliveira - Pubblicato il 18/2/2023 su OutrasPalavras -

NOTE:

[*1] - Un'interessante storia della misurazione si trova in The Measurement of Reality: Quantification and Western Society 1250-1600 (Crosby, 1997). Nel corso dei capitoli, Crosby studia la misurazione nelle varie dimensioni della vita umana: tempo, spazio, matematica, musica, pittura e contabilità. Per un'analisi rigorosa della misurazione nella scienza, si veda Tal (2020).
[*2] - Nei riferimenti ai passaggi di questi due libri, ne indicheremo la collocazione utilizzando le abbreviazioni EN e Pol. Le edizioni portoghesi utilizzate come fonte delle citazioni sono riportate nell'elenco di riferimento.
[*3] -  Esiste un'immensa letteratura sul tema delle posizioni di Marx riguardo all'idea di giustizia. Si veda, ad esempio, Geras (1985).
[*4] - Gli esempi forniti da Aristotele sono quantitativamente piuttosto bizzarri. Riuscite a immaginare qualcuno che scambia una casa con qualche migliaio di paia di scarpe? In un altro esempio, il prezzo di una casa è dato pari a quello di cinque letti (EN, 1133b). O una casa era molto economica, e/o le paia di scarpe e i letti erano molto costosi.
[*5] - Una parte di questa frase è citata da Marx: «Lo scambio non può esserci senza uguaglianza, ma l'uguaglianza non può esserci senza commensurabilità» (Capitale, vol. I, p.135).
[*6] - La validità del principio viene contestata da Böhm-Bawerk (1949, p. 69). Nelle sue parole: «Vorrei osservare, en passant, che il primo presupposto, secondo cui una "uguaglianza" deve manifestarsi nello scambio di due cose, mi sembra molto antiquato, il che, tuttavia, non avrebbe importanza se non fosse anche molto irrealistico. In parole povere, mi sembra un'idea sbagliata. [...] E, in effetti, i moderni economisti politici concordano nel considerare insostenibile la vecchia teoria scolastico-teologica dell'"equivalenza" tra le merci da scambiare.»
[*7] - In inglese, al posto di M si trova C , per commodity; al posto di D, M per money.
[*8] - Marx tratta ampiamente il concetto di crematistica, citando ampiamente Aristotele, nella lunga nota a piè di pagina n. 6 del cap. 4 del Capitale, vol. I, pp. 228-9.
[*9] - Una voce isolata nello spazio pubblico delle posizioni relative al capitalismo, sia ai suoi tempi che ai giorni nostri, è quella di Stuart Mill, quando difende l'ideale di un'economia stazionaria, cioè senza crescita (che può essere sostenuta come condizione indispensabile per superare i problemi ambientali, a cominciare dal riscaldamento globale). Nelle sue parole: «Non posso quindi considerare la condizione stazionaria del capitale e della ricchezza con quell'impassibile avversione manifestata dagli economisti della vecchia scuola. Sono propenso a credere che questa condizione stazionaria sarebbe, nel complesso, un enorme miglioramento della nostra condizione attuale. Confesso di non essere affascinato dall'ideale di vita propugnato da coloro che pensano che lo stato normale degli esseri umani sia quello di lottare sempre per il progresso economico, i quali pensano che il calpestare e travolgere gli altri, il darsi di gomito e competere sempre (caratteristiche della vita sociale di oggi) siano il destino più desiderabile della specie umana, quando in realtà non sono altro che i sintomi sgradevoli di una delle fasi del progresso industriale». (Mill, 1983 [1948], vol. II, p. 252). Rimane la domanda: perché, sostanzialmente, un capitalismo senza crescita è impraticabile?
[*10] - A questo punto vale la pena fare un'osservazione terminologica. Secondo le definizioni del dizionario, massimizzare significa agire nel senso di aumentare una variabile fino a raggiungere un valore limite, il massimo. Pertanto, per massimizzare (e i suoi analoghi) è necessario avere un massimo. Ma il verbo viene usato per designare azioni che mirano anch'esse ad aumentare una variabile, ma senza un limite. Per trattare i casi in cui la differenza è rilevante (come accade nell'attuale contesto), per amore di precisione, sarebbe conveniente restringere il significato di 'massimizzare' al senso di aumentare con un massimo, e introdurre un altro verbo per la crescita illimitata. Quello che mi viene in mente è aumentare. Diventerebbe così, ad esempio: la condizione per il buon funzionamento del capitalismo non è la massimizzazione del PIL, ma il suo incremento.
[*11] -  Sulla base di un confronto tra il pensiero di Tommaso d'Aquino e quello di Marx, lo storico inglese dell'economia Richard Tawney attribuisce a Marx l'appellativo di "ultimo degli scolastici" (Tawney, 1948, p. 36). Per un commento su questa attribuzione, si veda McCarthy (2015). Si potrebbe anche dire: Marx è figlio della Scolastica e nipote di Aristotele.
[*12] - Tra le condizioni sociali che contribuirono all'interesse degli Scolastici per l'economia, vi fu la monetizzazione della società europea, all'incirca dal 1260 al 1380 (Kaye (1988 e 2004)). Come dice Crosby (1999, p. 78), «nel vortice vertiginoso di un'economia monetaria, l'Occidente imparò le abitudini della quantificazione».
[*13] - Cfr. Sylla (1971): «Secondo la teoria aristotelica, quantità e qualità appartengono a categorie distinte. Si potrebbe quindi supporre che i teorici aristotelici non avrebbero tentato di quantificare le qualità. Nel Medioevo, tuttavia, i teorici che avevano un approccio fondamentalmente aristotelico tentarono di quantificare le qualità».
[*14] - Capitale, vol. I, p. 114. Nelle traduzioni inglesi del Capitale che ho consultato, «conoscenza commerciale delle merci» compare al posto di «merceologia». Nell'originale tedesco il termine è «Warenkunde».
[*15] - Il termine "scienza moderna" viene usato nel senso che include le scienze naturali e le scienze umane (specialmente quelle naturalizzate, che adottano il paradigma dei naturali come ideale).

Bibliografia

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Geras, Norman (1985). The controversy about Marx and justice. New Left Review I/150, p. 47-85.
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Thomson, William (Lord Kelvin) (1891). Popular lectures and addresses, vol 1. Londres: Macmillan.

sabato 18 febbraio 2023

Comico e osceno allo stesso tempo…

Sempre nella medesima settima sezione de "Il monolinguismo dell'altro", nel momento in cui Derrida parla della sua resistenza agli accenti (e di come essi neghino una sufficiente dignità, la quale possa poi permettere di accedere alla parola pubblica), aggiunge un ulteriore elemento autobiografico (e lo fa dopo aver commentato la propria vita scolastica in Algeria, negli anni Trenta):

Nell'ascoltare René Char che leggeva i suoi propri aforismi, e lo faceva con un accento «comico e osceno allo stesso tempo», Derrida sperimenta «il tradimento di una verità», insieme allo sgretolamento di un'«ammirazione giovanile» (l'accento è incompatibile con la dignità della parola pubblica e, aggiunge Derrida, lo è anche con «la vocazione della parola poetica»). L'osservazione è degna di nota poiché Char è anche un indiscutibile legame con Heidegger; fondamentale per la formazione di Derrida (volendo, possiamo anche ricordare lo stretto rapporto che aveva Héctor Ciocchini con Char, così come il tentativo di pensare un «umanesimo contemporaneo» a partire dalla sua opera).

In un'intervista (a cura di Adriano Sofri) pubblicata nel novembre 1985, Giorgio Agamben racconta di aver assistito a uno degli incontri tra Char e Heidegger - avvenuto nel 1966, in occasione del corso tenuto da quest'ultimo nella cittadina francese di Le Thor (parliamo dello stesso anno in cui Derrida si recò negli Stati Uniti, per l'evento sullo strutturalismo alla Johns Hopkins, e presentò il famoso testo "La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane"):

«Ci sono tornato quest'anno, sapendo che quello che avrei trovato sarebbe stato un villaggio ormai irriconoscibile a causa del turismo, e invece ho trovato lo stesso albergo, ormai completamente abbandonato, invaso dalle erbacce e con le finestre chiuse, come se mi aspettasse da vent'anni. Nel 1968 si sarebbe tenuto nello stesso luogo un seminario su Hegel. Questa volta eravamo una decina, tra poeti e filosofi. Era vita comune, il seminario aperto al mattino, i pasti consumati insieme e le lunghe passeggiate in campagna. Il seminario non era assolutamente formale e si basava sulla lettura attenta dei testi. Heidegger ci ricordava all'inizio che in un seminario non ci può essere altra autorità se non la cosa stessa».

fonte: Um túnel no fim da luz

venerdì 17 febbraio 2023

Il culto della Rabbia, e la speranza della Rivoluzione !!

In occasione del centenario della nascita di Luciano Bianciardi, ExCogita ha voluto raccoglierne l’intera produzione giornalistica. Giornalista infaticabile, traduttore prolifico e narratore di raro acume, Bianciardi ha lasciato in pochi anni una produzione vastissima, raccontando sui giornali l’evoluzione della storia dei costumi, della televisione, della politica, della letteratura, dell’arte, del cinema e dello sport. Per presentare questa immensa mole di testi, si è scelto di adottare l’ordine cronologico: il susseguirsi degli articoli restituisce al lettore una sorta di storia d’Italia vista dagli occhi di un personaggio che è stato definito anarchico, ribelle e inclassificabile. Come in un diario costruito giorno per giorno, lo sguardo di Bianciardi si sofferma con lo stesso straordinario acume e la stessa valenza profetica sia sui grandi fatti internazionali sia sulle piccole vicende quotidiane, mostrando un lato inedito della personalità dell’autore che si discosta dalla narrazione mitologica che spesso lo accompagna. Se nel grande mucchio del lavoro di Bianciardi non troverete mediocrità e sciatteria, è per una ragione soltanto: lui era uno scrittore “naturale”, lo era anche prima di pubblicare libri e di diventarlo per riconoscimento sociale. Non sarebbe stato capace di scrivere una sola riga senza che le sue parole gli assomigliassero e gli appartenessero, e questa mi pare, tutto sommato, la definizione più azzeccata di “scrittore”.

(dal risvolto di copertina di: Luciano Bianciardi, Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971. ExCogita 3 volumi  - vol. I pp.1020; vol.II pp.1086; vol.III pp.866 - €150)

Vita agra di un anarchico in Italia
- È il sentimento che divora e ossessiona lo scrittore Ma anche il motore che lo ispira. Oggi, nel suo centenario, quel disincanto ci mostra ciò che siamo e potevamo essere -
di Francesco Piccolo

Dopo il successo inaspettato de La vita agra, Luciano Bianciardi si trovò in una situazione paradossale: aveva scritto un romanzo contro la borghesia culturale milanese, ed era invitato come una star a tutti gli appuntamenti mondani. Si struggeva e beveva e si chiedeva dove aveva sbagliato; ma intanto ci andava, e chissà quanto si rendeva conto di somigliare ancora di più al protagonista del suo libro: Luciano de La vita agra era andato a Milano con l’intento di far saltare il “torracchione” della società responsabile della tragedia in miniera dalle sue parti, in Toscana, e piano piano il proposito rivoluzionario si era sciolto in qualcosa di inerme, inespresso e rassegnato. Quando divenne quindi un autore di successo, ambito dalla società culturale, ricevette la telefonata di Indro Montanelli che gli chiedeva di andarlo a trovare al Corriere della Sera. A via Solferino, Bianciardi ci aveva abitato, in una pensione. Oltrepassa il portone e sale per la prima volta le scale del grande giornale. Montanelli gli offre una collaborazione di prestigio e ben pagata, due pezzi al mese per trecentomila lire, una cifra che allora Bianciardi non riusciva a guadagnare nemmeno lavorando giorno e notte con le traduzioni. Bianciardi dice di aver bisogno di un paio di giorni per dare una risposta, Montanelli glieli concede ma intuisce che qualcosa non va, e quando Bianciardi sta per uscire gli dice: «Mi raccomando, non fare il bischero».

Chi era Luciano Bianciardi? Perché doveva pensarci? Era stato un intellettuale della sua città, Grosseto. Poi era andato a costruire, insieme ad altri, una nuova casa editrice a Milano, la Feltrinelli. Poi si era messo a tradurre e campava così. I tre libri hanno come argomento esattamente questi tre periodi della sua vita. Aveva scritto anche un altro mezzo libro, il primo. Quel I minatori della Maremma firmato a quattro mani con Carlo Cassola, per raccontare la tragedia dell’esplosione del pozzo di Ribolla dove morirono quarantatré minatori. È l’episodio che genera la rabbia, e che genera la spinta per andarsene da Grosseto, per scrivere i tre libri successivi; ed è inoltre l’episodio che genera la narrazione de La vita agra, il motivo esplicito della vendetta in nome di quelle povere vittime. Prima di scrivere di questo personaggio autobiografico, Bianciardi si era sdoppiato. Ne Il lavoro culturale e ne L’integrazione racconta di due fratelli, Luciano e Marcello, e distribuisce loro pregi e difetti di sé stesso. Il lavoro culturale (1957; ripubblicato con aggiunte nel 1964) è l’esilarante descrizione della vita intellettuale di provincia, con lo sforzo di imparare il linguaggio e i modi per essere considerati persone di cultura, per costruire quella vita grama, triste e routinaria dell’intellettuale periferico. Bianciardi in questo libro è feroce, è vivo, allegro e cinico, malinconico e sprezzante insieme. Ci sono, in questo libro sorprendente, tutti i prodromi del disastro della sinistra — anzi, più che del disastro: dell’impotenza, dell’inazione, della pochezza della sinistra. Bianciardi riesce con una lucidità inimmaginabile ad anticipare tutto ciò che finirà in un vicolo cieco; prima di ogni altro raccoglie con divertente precisione tutti i tic linguistici che disarmeranno l’efficacia del linguaggio intellettuale. E siamo ancora nel pieno degli anni Cinquanta. Poi nei libri successivi subentrerà la rabbia che lo porterà a tentare di pensare a un gesto rivoluzionario come ne La vita agra, ma anche quello, come dire, sarà fallimentare. Il lavoro culturale, quindi, diventa una profezia prima sulla sinistra e poi sullo stesso Bianciardi; ed è il libro che genera la rabbia che lo scrittore esprimerà fino alla fine dei suoi giorni. L’integrazione (1960) racconta gli anni della Feltrinelli, la vita povera in una pensione milanese con personaggi indimenticabili, le riunioni editoriali che a lungo non portano a nulla, fino a quando il Giaguaro (Giangiacomo Feltrinelli) non si deciderà a cominciare le pubblicazioni. Persone che vengono assunte e licenziate, direttori editoriali che hanno paura del termine “sociologia” perché può rovinarli agli occhi dei razionalisti amanti della scienza storica; traslochi in sedi sempre più grandi, schede di libri e collane che diventano proprietà di segretarie ossessionate dall’ordine. Un lavorio continuo, intorcinato, che sembra tornare sempre al punto di partenza — e anche questo è simbolo della vita (sprecata) degli intellettuali. E infine, quando l’esperienza di traduttore gli fa incontrare Henry Miller, di cui traduce i due Tropici, e che sente così vicino da chiamarlo Enrico Molinari, trova la spinta sia formale sia espressiva per abbandonare lo sdoppiamento e scrivere di sé stesso, in modo allucinato, colto, comico, potente. La vita agra (1962) racconta gli anni del boom mentre il boom economico è al massimo dell’espansione, e con grande sorpresa di Bianciardi viene accolto con clamore, e viene amato da coloro contro cui si scaglia. Diventa ed è rimasto il romanzo simbolo di quegli anni.

Il lavoro culturale è il libro sulla provincia e sul suo disincanto. L’integrazione è il libro del provinciale che va in città e viene travolto dal ritmo, dalla frenesia anche del fare. La vita agra è la disillusione anche della vita di città; però in fondo è anche il tentativo di ribellarsi alla propria apatia e alla propria sconfitta. Il primo libro è il lavoro preparatorio della rabbia, che esplode con i successivi due. Qui non ho nessuna intenzione di raccontare le trame — posto che siano importanti, e grazie a dio per Bianciardi non lo sono. Spero invece che la Trilogia della rabbia vada in mano, oltre che ai cultori dello scrittore (e ce ne sono davvero tanti), soprattutto a coloro che non lo conoscono, o che non lo hanno mai letto. Perché una cosa bisogna dirla: sono tre libri del tutto atipici, liberi, disordinati, aperti; sfuggono a definizioni che molti si affaticano a cercare. E questo è il pregio più grande della trilogia: sembrano diari saggistici, romanzi dannati, saggi personali. Sembrano libri improvvisati, che non erano scritti per essere pubblicati; e allo stesso tempo hanno un andamento sicuro e sapiente, un controllo totale del caos che inscenano. La libertà che si è presa Bianciardi nella scrittura non è riconducibile ad altri; e paradossalmente questo discorso vale ancor più per i primi due libri che per La vita agra, che un genitore visibile ce l’ha, ed è Tropico del Cancro di Henry Miller, anche se in modo del tutto italianizzato nei temi e nel linguaggio; e anche se, a proposito di linguaggio, questo libro è stato da molti accostato a Gadda. Ma cercare di mettere in gabbia Bianciardi è operazione davvero ardua, e credo anche fallimentare. Si tratta di un uomo libero, di uno scrittore libero — anarchico, verrà definito -, e di conseguenza scrive libri liberi, che scivolano dalle mani di coloro che vogliono mettere ordine nella storia della letteratura. E presi tutti insieme, riescono a raccontare lo stato dell’arte e dell’anima del Paese. Perché è anche questa la tensione di Bianciardi, e la capacità di radiografare i sentimenti peggiori degli italiani. Quindi ci sono due modi di descrivere questa rabbia: il primo, è quello che i personaggi dei tre libri esprimono come reazione al mondo circostante; il secondo, è quella furia che si deposita dentro, senza poterla affermare, per la frustrazione di non essere capaci di esprimere la prima. È questa seconda descrizione che corrisponde con più precisione allo scrittore dei tre libri.

E così, dopo essere uscito dall’ufficio di Montanelli, per due giorni Bianciardi si strugge. Scrive al suo amico Terrosi: «Il mondo va così, cioè male. Ma io non ci posso fare nulla. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro». Si chiede quindi se lui può stare dalla stessa parte di coloro che ha scorticato, e se è giusto sfruttare il successo del libro per scrivere sul giornale che rappresenta in fondo, in quegli anni, quelli che stanno dentro il torracchione. E dice no al Corriere. Questo rifiuto è il simbolo della sua vita per due motivi. Il primo è la scelta di essere quella specie di intellettuale dannato alternativo, povero e un po’ perduto che era sempre stato e che in fondo aveva anche il timore di non essere più. Voleva essere sé stesso, ed essere sé stesso significava questa vita di traduzioni forsennate, consegne in ritardo, stenti economici, serate al bar Giamaica, cappotto liso e camminate nel freddo della città. Il secondo motivo, probabilmente, è proprio il culto ossessivo della rabbia. Questa rabbia che si è portato dentro per tutta la vita e che si è trasformata in letteratura ed è stata usata per esprimere la forza del suo libro migliore. Il boom economico è forse una terza ragione da aggiungere alle altre; Bianciardi rifiuta di entrare dentro il mondo perché lo disapprova, e la combinazione di disapprovazione e rabbia si traduce in speranza della rivoluzione. In fondo Bianciardi ha sempre vissuto silenziosamente accanto alla rabbia; e insieme alla rabbia, accanto alla speranza della rivoluzione. E su questa idea del mondo si basa anche la sua voluta marginalità un po’ eroica, un senso di superiorità che ha un valore, ed è il valore appunto di ciò che ricordiamo ora. In fondo Bianciardi continua a rappresentare quella letteratura altra, marginale, quella letteratura che non si è potuta né voluta imporre; e però chiunque lo incontri sulla propria strada, chiunque incontri per la prima volta questa trilogia non può che esserne sedotto in maniera definitiva, non può che fare di Bianciardi un autore del cuore e non può che avere, come accade in qualsiasi persona che sia o voglia essere giovane, la voglia di emulare questa vita più che dannata.

Dopo aver rifiutato l’offerta del Corriere della Sera, accetta di collaborare al Giorno, il giornale della borghesia progressista; al Guerin Sportivo; e ad altre testate che gli hanno reso la vita solo un po’ più facile, e solo per un po’, dal punto di vista economico. Quando ho letto questi libri molto giovane, in mezzo a questa rabbia, sfiducia, sarcasmo, disincanto, io leggevo e vedevo anche che «la grossa iniziativa» era esaltante, mi accendeva, così come mi accendeva la vita dannata di quest’uomo. E la verità è che quello che leggevo dentro questi libri in modo ingenuo, c’era per davvero, al fondo; che la rabbia era proprio questa, una passione grande che si scontrava con la realtà dei fatti e le difficoltà concrete, e la voglia di far saltare tutto che rimaneva una voglia. Bianciardi conserva dentro i suoi libri un segreto, che forse è il segreto che rende la sua vita luminosa — ed è il motivo per cui vale la pena cominciare a leggerlo il prima possibile: il disincanto con cui parla di tutto ciò che attraversa insegna a sdrammatizzare e a stare attenti nel credere fino in fondo alle proprie idee — insegna perfino a fregarsene di tutto e a starsene due giorni e due notti nel letto con la persona che ami; ma la capacità di non scalfire la grandezza delle idee è più forte, ancora più forte del disincanto, dell’ironia e del sesso; e alla fine insegna certo a non essere ingenui, a non essere ciechi; ma di più: a credere con tutta la forza alla libertà delle idee. E questo modo così adulto di parlare ai sognatori, non so proprio chi altro lo abbia avuto. Ma poi sappiamo anche che, senza alcun giudizio in merito, ma come constatazione oggettiva, se si guarda Milano oggi, hanno  stravinto i torracchioni.

- Francesco Piccolo - Pubblicato su Robinson del 19/11/2022

2 lettere di Bianciardi

Rapallo, 30 marzo 1970
Cari ragazzi,
ieri era Pasqua e io cercai di farvi gli auguri a voce, ma il vostro apparecchio era preoccupato. Pazienza. Ora son qui che sbatacchio la cartella 444 del Little Big Man, ma interrompo volentieri per salutarvi in forma scritta e mandarvi lo assegno. Volevo dirvi che ho insegnato la tecnica dello scherzo grafico alla gioventù rivierasca, e che ho ottenuto i risultati che vi trascrivo a parte. Serbateli, che un giorno, forse, ne faremo un libretto. Non so se ieri avete visto in televisione I recuperanti, un film fatto da tre miei cari amici, che si chiamano Olmi, Rigoni Stern e Kezich. A me è ripiaciuto moltissimo. Lo avete visto? Avevo dimenticato di dirvi che fra le novità trovate rientrando c’era anche un telegramma del Milan che mi vuole offrire un lavoro. Ma che lavoro? Mi vogliono come allenatore?
Intanto mi preparo a incontrare Scopigno, domenica prossima, credo, e spero vivamente che esista un aereo da Genova per Cagliari e ritorno, perché non mi va di andar per mare nelle Sardegne, faccenda lunga e avventurosa. Poi sembra che si riattacchi a viaggiare lontano, e un poco alla volta vi ci porto tutti e due, insieme o staccati. Questa estate a Londra ci dovrei proprio andare, e sarei contento di portarci la giovane anglista, la quale potrà sperimentare il suo accento oxoniense (ma che vor di’?) su spazzini, taxisti e ortofrutticoli. Ahi, Luciana, sentirai le pernacchie! Ma non t’impermalire, no. A parte gli scherzi, in inglese (e altrove) sei veramente brava.
Ettore invece vorrei portarlo a Dodge City, dove tutti odiano tutti, così almeno leggo sul mio eterno libretto del L.B.M., oppure a Wichita, dove c’è tutto, o a K.C., che vuol dire Kansas City, e somiglia notoriamente a Grosseto, Italy. Tutto questo per dire che vi ricordo e vi rammento. E che vi abbraccio e vi bacio con tutto l’affetto che può avere un padre prodigo e tardivo.
E ora passiamo agli scherzi grafici. Voltate il foglio. Ciao, a presto. Giovannetti/effigie
Rapallo,13 luglio 1970

Cara Luciana,
proprio oggi metto la parola finis al John Barleycorn, e voglio dirlo subito a che ne vedesti l’incipit. Traducendo mi sono accorto che questo romanzo d’un alcolizzato è autobiografico, che Jack London era così. Ripensandoci ti dirò che, per burla Jack può tradursi Giacomino. Il Giacomo in inglese è James, e ha per diminutivo Jimmy, mentre Jack è il diminutivo di John. Quindi Gianni, Giannino, Nanni, Nino, come vuoi, ma niente Giacomo. Hai capito?
Sono immerso nel lavoro, e nel sudore, fino a qui. Ho strappato appena due manate di mare, di voga. Non nuoto per non mortificare questi poveri rivieraschi con mie esibizioni di squalo dell’Alberese. E sgobbare mi serve anche per buttarmi un poco dietro le spalle le gatte che, ho trovato rientrando. (Anche di lavoro, sì).
Però stai sicura che ti ricordo sempre, né mi dimentico dell’ingegnere. (La tua filologia qui giova). Lo rammento, povero ingegnere chino allo sgobbo anche lui e gli mando un saluto solidale.
Mi pare che la vita, purtroppo, sia fatta di esami e di processi, che son poi la stessa cosa, due facce della stessa società autoritaria e repressiva che ci siamo costruiti intorno non so per quale follia.
E tu come stai, insigne anglista? Bada, Luciana, questo 1970 è stato per te un anno ultracarico. Hai affrontato una scuola per te nuova (per me vecchia, lo avrai capito) ne sei uscita benissimo, forse hai cominciato a scoprire una tua vocazione professionale (se ne sentiva la mancanza, in famiglia) hai ripescato quel bestione del tuo babbaccio, che ti vuole un gran bene, ma che è ingombrante. Ora stai tranquilla, goditi le tue vacanze, rifletti e digerisci.
Io sono sempre qui, quando vuoi vi vengo a trovare. D’accordo?
Ho scritto qualche altra cosettina. Un racconto di fantasport, in cui immagino cosa sarebbe successo se l’Italia avesse vinto ai campionati mondiali.
Ma questo mi pare che tu lo sappia perché eri presente quando me lo chiese il Billy Molco da Milano. Poi ho scritto una solenne tirata in difesa di Walter Chiari. E poi dai sotto a tradurre. Il guaio di finire un libro sai qual è? Che subito dopo ti tocca attaccarne un altro. E domani attacco infatti il The Road. Ma forse mi ci scappa una corsa fino a San Fruttuoso, col mio amico Delfo Ceni da Monticello sull’Amiata, che campa anche lui traducendo (ma guarda che fantasia, sta gente!) e ha tolto casa a pigione (così dice i1 Machiavelli) sopra Camogli. Sai cosa vuol dire Camogli?No? Rifletti. Paese di marinai. Donne sole a casa, ca mugge, ca’ mogli, casa delle mogli. Nel Settecento Camogli vantava mille velieri. Ma sarà poi vero? Su con la vita, Lucianona. E su con la vita, Lucianone babbo, poi traite traite con quello che del salmo è poscia scritto. Un bel bacione dal tuo Babbo.