Nella settima sezione della sua relazione-conferenza, "Il monolinguismo dell'altro", Jacques Derrida recupera una sorta di Bildung coloniale, vale a dire, dei frammenti della sua infanzia di scolaro in Algeria, negli anni Trenta e Quaranta: nemmeno una parola sull'Algeria, sulla sua storia o sulla sua geografia, scrive Derrida; in compenso, però, tutti i bambini conoscevano a memoria gli affluenti della Senna , e imparavano a tracciare a occhi chiusi la costa della Bretagna (cosa che mi riporta alla mente tutta un'altra serie di scene di apprendimento, quelle che Sebald ambienta nell'ultima parte de "Gli emigranti", dedicata a Max Aurach/Max Ferber, dove il personaggio racconta al narratore di una foto scattata dal padre nel suo secondo anno di scuola, nella quale si vede il ragazzo con la matita in mano, chino sul suo quaderno di scrittura).
Nelle scene dell'apprendimento, continua Derrida, l'unico momento positivo è riservato alla letteratura: consiste nell'opportunità di accedere a un mondo privo di qualsiasi continuità sensibile con il mondo concreto, quotidiano (con i suoi paesaggi culturali e naturali); ma questa discontinuità finisce per rivelare una seconda discontinuità, incorporata nella prima, scrive Derrida: per imparare la "letteratura francese" bisogna reprimere la "letteratura algerina" (si entra nella letteratura francese solamente perdendo l'accento, scrive Derrida).
Questa "neutralità" del francese privo di ogni marchio d'origine, è qualcosa che Derrida acquisisce nell'infanzia, e che poi porterà con sé per il resto della sua vita; egli confessa: qualsiasi tipo di accento (soprattutto quelli meridionali) appare incompatibile con la solennità del parlare in pubblico. Alla fine, arriva al punto estremo del ciclo: l'alunno diventa insegnante e, in questa posizione, egli deve usare la parola, la voce, la presenza (e a questo punto vale la pena commentare, asserendo che la retrospettiva autobiografica de "Il monolinguismo dell'altro" è anche una retrospettiva, contagiata dall'anamnesi dell'autobiografia, e dai principali concetti che verranno poi mobilitati da Derrida nella sua opera - parola, voce, presenza).
Derrida sostiene che, una volta diventato insegnante, ha dovuto sforzarsi di parlare a bassa voce; ha dovuto reimparare l'uso della voce e iniziare a parlare a bassa voce - cosa difficile nella sua famiglia, sottolinea Derrida (ogni volta, quindi, che prende la parola come insegnante, Derrida ritrova la scena familiare del linguaggio - le voci squillanti in famiglia - e la scena inaugurale della coercizione pedagogica: il parlare a bassa voce, evitare l'accento e così via).
fonte: Um túnel no fim da luz
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