giovedì 9 febbraio 2023

Venti caratteruzzi …

Perché la A è la prima lettera dell’alfabeto? Forse perché il bue era considerato dai fenici il più importante fra i beni? Perché la D, fra i numeri romani, significa 500? Come si può vedere nella M il volto di un uomo? Perché davanti a U usiamo Q? Questo libro è una storia dell’alfabeto. La storia di una delle più straordinarie invenzioni umane, di quei «venti caratteruzzi» che ci permettono di «parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni», per usare le parole di Galileo. (E perché per Galileo le lettere sono venti, e non ventuno?)
Alessandro Magrini ci accompagna in un viaggio affascinante, un capitolo per lettera, dall’antico Egitto alla Fenicia alla Grecia a Roma (con lo zampino degli etruschi). E lo fa con la rara capacità di tenere sempre viva l’attenzione, complici la sua contagiosa curiosità e un’esposizione limpida e avvincente. Grazie anche al ricco apparato d’immagini, Il dono di Cadmo è uno di quei rari libri in cui il rigore scientifico convive con una genuina abilità divulgativa. Venite a scoprire la storia delle lettere: ogni scarabocchio sul muro, ogni insegna pubblicitaria non vi parrà più la stessa. Quando vedrete una N, penserete d’ora in poi a un antico serpente di mare.

(dal risvolto di copertina di: Il dono di Cadmo, di Alessandro Magrini. Ponte alle Grazie, pagg. 192, € 16)

La «a» è sempre la prima, la «zeta» non è l’ultima
- Storia dell’alfabeto. Un brillante studio di Alessandro Magrini ci conduce attraverso misteri e curiosità delle lettere, dall’insofferenza di Cicerone per la «F» all’odio di Luciano per la «T» -
di Andrea Kerbaker

Una delle maggiori stranezze dell’italiano è la consistenza ridotta del suo alfabeto: 21 lettere al posto delle 26 comunemente in uso nelle altre lingue moderne. Da noi niente J, nessuna Y, non W né X, e soprattutto, dal punto di vista di chi scrive, niente K; che vuol dire, per uno con il mio cognome, vivere in uno strano limbo. Nella mia famiglia, infatti, il fattore K, anziché essere un dibattuto tema di politica internazionale, si è sempre identificato nella difficoltà di far scrivere correttamente il nostro nome da un qualsiasi interlocutore che non avesse fatto studi superiori, con equivoci a non finire, spesso più che comici. Nell’attesa di vedere sanata la mia personalissima discriminazione, per ora mi accontento di leggere con soddisfazione testi che si occupano dell’alfabeto senza distinzioni. È il caso del recente Il dono di Cadmo, che lo studioso classico Alessandro Magrini manda in libreria con l’editore Ponte alle Grazie. Non solo la K c’è, al suo posto, tra la J e la L; ma addirittura viene riscattata dalla sua immeritata assenza, con l’ipotesi di un inserimento per il possibile uso «molto vantaggioso, come hanno mostrato i giovani utilizzatori dei primi cellulari».

Magrini è studioso colto e serio, ma con il dono raro della divulgazione, che gli permette di affrontare il tema nella maniera più gradevole, alternando informazioni approfondite con aneddoti spesso imprevedibili, come Cicerone che se la piglia con la F, a suo giudizio «insuavissima, sgradevolissime e cacofonica»: caratteristiche dimostrate appieno da un verso decisamente brutto, Finis, frugifera et efferta arva Asiae tenet. Invece Luciano di Samosata ce l’ha con la T, che ricorda la croce e le sue sofferenze: «Piangono gli uomini e deplorano la loro sorte, e maledicono Cadmo di continuo per aver introdotto il Tau nella famiglia delle lettere. Dicono infatti che i tiranni impalano la gente a patiboli che ne riproducono la forma in legno e che proprio da questa lettera sia derivato lo scellerato nome dello strumento di supplizi». Altre volte, per fortuna, le lettere hanno suoni e aspetti considerati più gradevoli. Su tutte, la O, che deriva dal geroglifico egizio dell’occhio. Se ne accorge per primo, nel 1838, l’archeologo francese Charles Lenormant, poi dimenticato da tutti, tanto che meno di un secolo dopo la sua intuizione verrà attribuita al «figlio François, eccellente archeologo anche lui, ma che nel 1838 aveva un solo anno d’età». Altre lettere possono diventare perfino un segno di distinzione snob. Accade alla H in epoca romana: «Sant’Agostino faceva notare che ai suoi tempi, a cavallo tra IV e V secolo dopo Cristo, gli intellettuali facevano più caso alla pronuncia dell’acca di homo che all’odio di un uomo verso un altro uomo. Ma già al tempo di Cesare e Cicerone a pronunciare l’aspirazione a inizio parola era principalmente chi viveva nell’Urbe, chi viveva in campagna dall’acca non faceva uso». Abitudini del passato? Non così tanto: ho fatto leggere questa notazione a mia moglie inglese, che ogni volta che sente parlare i nostri connazionali nella sua lingua lamenta la pressoché totale scomparsa dell’acca inziale davanti a parole anche di uso comune come him o here. Del resto l’evoluzione della pronuncia non è soltanto un fatto antico: «Noi diciamo bi, alla toscana, ma fino a non moltissimo tempo fa il nome della seconda lettera dell’alfabeto italiano era be… il libro con cui si cominciava a imparare a leggere e scrivere si chiamava abbecedario, perché le prime lettere dell’alfabeto si recitavano appunto a, be, ce».

Da questo singolare viaggio nel tempo e nei luoghi emergono informazioni che magari erano sempre state sotto l’occhio di tutti noi, ma a cui forse non avevamo mai pensato: per esempio che tutti gli alfabeti vecchi e nuovi iniziano con la A, anche se non è chiara l’origine di questo primato. Diverso il caso della conclusione, molto ondivaga, tra X, omega e Z. Il latino, privo di Z, chiude con la X, come testimonia anche un graffito di un muro di Pompei. Questo è un altro aspetto del libro, non limitato alle fonti scritte, ma allargato a molteplici scienze che si occupano di antichità, a cominciare dall’archeologia. Giusto, perché per il tema questa disciplina ha un ruolo centrale, soprattutto per i cosiddetti alfabetari, «recipienti o tavolette per la scrittura che recano inciso il repertorio delle lettere in ordine alfabetico, a mo’ di sussidio didattico o come promemoria». E il percorso degli scavi, tutt’altro che concluso, continua a progredire: uno dei contributi più recenti sull’argomento arriva dalla città di Ugarit, nella Siria del nord, dove nel 1948 è stata ritrovata una tavoletta con l’intero alfabeto di circa tremila anni. Di queste informazioni il libro fornisce anche abbondanti riproduzioni fotografiche e disegni ad hoc, indispensabili per documentare il passaggio da una scrittura all’altra, attraverso un percorso lungo almeno tre millenni.

Così, tra il serio e il faceto, Magrini ci conduce per mano tra i misteri delle lettere. Come afferma il risvolto, ultimata la lettura «ogni scarabocchio sul muro, ogni insegna pubblicitaria non vi parrà più la stessa». Un’ultima annotazione: non so a che squadra di calcio tenga Magrini; ma dalle note biografiche vedo che è romano, e - quando si parla della J - fa una lunga perifrasi per non nominare «una squadra di calcio con sede a Torino, che porta un nome latino». A me, milanista impenitente, la censura dei colori bianconeri rende l’autore ancora più simpatico.

- Andrea Kerbaker - Pubblicato su Domenica del 6/11/2022 -

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