Navigare a vista
Amministrazione della crisi e transizione verso un capitalismo di Stato autoritario: molti elementi della politica economica keynesiana sono attualmente in fase di attuazione.
Questo potrebbe indicare la transizione verso una gestione autoritaria della crisi da parte del capitalismo di Stato.
- di Tomasz Konicz -
Sia che si tratti di discepoli ultraconservatori del mercato o di conservatori unionisti socialdemocratici, quando arriva il momento della crisi diventano tutti keynesiani. Negli ultimi anni, a ogni scoppio di crisi, nel momento in cui è stato nuovamente necessario salvare il tardo capitalismo dal collasso per mezzo di programmi di stimolo miliardari e stampa di moneta, è sempre accaduto che gli insegnamenti dell'economista britannico John Maynard Keynes, la cui politica economica orientata alla domanda era stata dominante nel dopoguerra fino al momento in cui negli anni Ottanta non è stata sostituita dal neoliberismo, hanno sperimentato un fugace boom nell'opinione pubblica. Anche dopo che c'è stato, nel 2008, prima lo scoppio della bolla immobiliare transatlantica, e poi, dopo il collasso causato dalla pandemia del 2020, si è ancora una volta tornati a parlare di Keynes, il quale, da economista di riferimento della socialdemocrazia, aveva propagandato un ruolo attivo dello Stato, per mezzo di programmi di investimento e di una politica monetaria espansiva. Poi, nel momento in cui nel circo mediatico si vedono i soliti segni di logoramento, il riferimento a Keynes scompare di nuovo e il capitalismo sembra tornare alla normalità, dopo la fase di stabilizzazione "keynesiana". Ciò che rimane ogni volta, sono i keynesiani che nell’era neoliberale vengono espulsi dal mainstream politico e accademico e non fanno altro che lamentarsi, e con i quali ora deve vedersela la sinistra non socialdemocratica. Ma di fronte alla realtà politica il piagnisteo continuo dei neo-keynesiani e dei sostenitori della Moderna Teoria Monetaria (MMT) - secondo cui sarebbe necessario un maggior keynesismo in modo che le cose migliorino, e fare così in modo che il tardo capitalismo ritorni all'epoca del "miracolo economico" - appare quantomeno fuori luogo. Comunque, nella gestione della crisi che dal 2008 ha stabilizzato il sistema, molti strumenti del keynesismo continuano a essere utilizzati, solo che non vengono più etichettati o percepiti come tali. Questo è logico solo se visto nel contesto della genesi storica di questa scuola economica: il keynesismo è diventato la corrente capitalistica dominante dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando è stato assunto come la grande "lezione" che doveva essere tratta dalla fase di crisi iniziata nel 1929 ; allorché le élite capitalistiche funzionali ricorrono ai suoi strumenti, quasi di riflesso, in tempi di crisi. Una regolamentazione coerente dei mercati monetari e finanziari, lo Stato come fattore di regolamentazione e di orientamento economico, il perseguimento di una politica attiva degli investimenti, una politica salariale e sociale orientata alla domanda, in cui i salariati siano intesi anche come consumatori, e una politica economica anti-ciclica che si suppone possa prevenire le recessioni grazie a dei programmi di stimolo economico finanziati dal debito, in modo che così possa poi ripagare il debito nelle fasi di boom: erano queste le caratteristiche di base idealizzate dell'ordine economico keynesiano, fino a quando il neoliberismo è diventato dominante con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Ed è questo l'ordine a cui i neokeynesiani vorrebbero tornare.
Ciò che è a buon mercato non può essere ciò che è più conveniente
Il ricorso pragmatico agli strumenti del keynesismo trova la sua espressione più esplicita in tutti i programmi di stimolo economico lanciati sulla scia delle crisi ricorrenti. Con l'intensificarsi di queste ultime, ad ogni scoppio di crisi, anche i sussidi governativi e i pacchetti di investimento sono cresciuti di dimensioni, come ha dimostrato la società di consulenza McKinsey con un raffronto tra la crisi finanziaria globale del 2008/2009 e il crollo della pandemia del 2020. Già a metà degli anni '20, la spesa governativa globale per la crisi ammonterà a circa 10.000 miliardi di dollari USA, circa tre volte i programmi di crisi del 2008/2009. Mentre nel 2008 il governo tedesco aveva una politica di bilancio restrittiva, e si era guadagnato titoli negativi politicamente devastanti solo grazie ai famigerati «bonus per la rottamazione delle auto», nel 2020 ha lanciato invece dei programmi di crisi particolarmente articolati ed esaustivi. Rispetto al prodotto interno lordo (PIL), se confrontati con quelli di tutti i Paesi industrializzati occidentali, il pacchetto di stimoli economici tedesco è stato addirittura il più consistente, pari al 33% del PIL. Inoltre, il governo guidato da Angela Merkel aveva anche avviato un graduale allontanamento dal regime di austerità dell'eurozona che il precedente governo della stessa cancelliera aveva imposto un decennio prima: per la metà del 2020, è stato concordato un programma di stimolo economico dell'UE da 750 miliardi di euro. In esso sono inclusi i pagamenti di aiuti alla periferia dell'UE, per un valore non inferiore a 390 miliardi di euro.
In termini di politica monetaria, anche la Banca Centrale Europea (BCE) e la sua omologa statunitense, la Federal Reserve, hanno recentemente seguito il principio secondo cui i prestiti dovevano essere il più possibile a buon mercato. I tassi d'interesse di riferimento, nell'UE e negli USA, nel XXI secolo sono tendenzialmente scesi sempre di più. Tra il 2009 e il 2021, con brevi interruzioni, per sostenere l'economia e i mercati finanziari hanno prevalso le politiche di tasso zero. Inoltre, dopo lo scoppio della bolla immobiliare transatlantica, le banche centrali sono passate alla mera stampa di denaro, acquistando dapprima titoli garantiti da ipoteca, e poi sempre più titoli di Stato: iniettando così ulteriore liquidità nella sfera finanziaria; cosa che nel contesto della grande bolla di liquidità ha portato all'inflazione dei prezzi delle obbligazioni, poi scoppiata nel 2020. Nel XXI secolo, la Federal Reserve e la BCE hanno quasi decuplicato il loro bilancio totale, trasformandosi in delle vere e proprie discariche del sistema finanziario tardo-capitalista - destinato così a un boom permanente - diventando così i maggiori proprietari dei titoli di debito dei loro Stati.
Il capitalismo iperattivo delle banche centrali
Nel corso del processo di crisi, le banche centrali sono diventate autorità economiche decisive, senza il cui intervento sarebbero collassati sia la sfera finanziaria che il finanziamento statale. Si potrebbe così parlare di «capitalismo delle banche centrali», come fa l'economista politico Joscha Wullweber nel suo libro dallo stesso titolo, nel quale descrive la dipendenza di una parte della sfera finanziaria, parlando di un mercato quasi non regolamentato degli accordi di riacquisto (repos) e dell'inflazione dell'offerta di moneta da parte delle banche centrali. Tuttavia, a causa degli elevati tassi di inflazione, l'attuale tentativo della BCE e della Federal Reserve di contenere l'inflazione - che può essere attribuita a vari fattori (pandemia, guerra, scoppio della bolla di liquidità, fallimenti della catena di approvvigionamento, aumento dei prezzi dell'energia) - utilizzando una politica monetaria restrittiva, non va necessariamente di pari passo con la fine degli acquisti di titoli di Stato. Nell'Eurozona, con il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), la Banca Centrale Europea ha istituito un proprio programma di crisi del valore di 1,85mila miliardi di euro, grazie al quale si continuano ad acquistare titoli di Stato, il che mina la lotta all'inflazione che nel frattempo viene fatta attraverso il contemporaneo aumento dei tassi di interesse di riferimento, aumentando così il margine di manovra economico dello Stato. Inoltre, si prevedono, da parte dello Stato, dei passi concreti verso una politica attiva di controllo economico, soprattutto nell'ambito del cosiddetto Green Deal europeo. Gli adepti della linea dura neoliberista, ora si lamentano degli sforzi dello Stato per «orientare al credito» l'ambiente; sforzi che si esprimono principalmente nella regolamentazione tassonomica dell'UE che definisce quali devono essere gli investimenti sostenibili: ironia della sorte, fanno parte di questi anche gli investimenti in gas naturale ed energia nucleare, che sono pertanto considerati sostenibili. Al di là di questo, Sven Giegold (Verdi), sottosegretario di Stato al Ministero dell'Economia, un anno fa aveva sostenuto sul Financial Times una «politica industriale attiva» del governo tedesco, la quale dovrebbe «sostenere l'innovazione» in modo da trasformare così la RFT in una «economia ecologica e sociale di mercato». Tuttavia, questa struttura del capitalismo di crisi, caratterizzata da una crescente attività statale, o quanto meno da un'influenza statale sempre più forte, non segue una strategia coerente, ma si sforza solo di evitare il collasso economico durante i periodi di crisi. Si tratta di un keynesismo che viene messo in atto quasi di riflesso dalle élite funzionali. I programmi di emergenza, spesso introdotti come delle misure temporanee, diventano poi permanenti nel corso della crisi, prendendo forma grazie a nuove strutture. Un «navigare a vista», come disse l'allora ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble a proposito delle azioni del governo tedesco durante la crisi finanziaria globale del 2009.
La politica industriale attiva del ministro dell'Economia Robert Habeck (Verdi), della quale Giegold ha fatto un gran parlare sul Financial Times, ha avuto come precursore la promozione statale dei cosiddetti «campioni» (grandi aziende considerate particolarmente importanti) fatta dal suo predecessore Peter Altmaier (CDU), il quale nel 2019 voleva promuovere in modo specifico l'industria tedesca delle esportazioni, a causa della crescente concorrenza di crisi, e dei sussidi statali informali messi in atto in Cina e negli Stati Uniti. Questa «navigazione a vista» da parte delle élite funzionali in tempi di crisi - nel corso della quale avviene che sempre più nuovi elementi di amministrazione statale capitalista della crisi vengono applicati in reazione ai focolai di crisi - conferisce a tale realtà tutte le caratteristiche di quella che appare come una fase di transizione verso un'amministrazione autoritaria della crisi. Le crisi economiche e sempre più ecologiche, che costringono i politici ad adottare il keynesismo di crisi, non sono espressione di una politica economica "sbagliata", ma delle crescenti contraddizioni interne ed esterne della relazione di capitale, le quali si manifestano concretamente in un debito che aumenta senza sosta, più velocemente della produzione economica globale, e con una concentrazione sempre maggiore di CO2 nell'atmosfera terrestre. A causa di un livello di produttività globale sempre più elevato, il sistema mondiale funziona infatti sempre più a credito, incapace di aprire un nuovo settore industriale che possa diventare leader di un nuovo regime di accumulazione, in cui il lavoro salariato possa essere valorizzato in maniera massiccia. Lo Stato, attraverso la stampa di moneta e la spesa in deficit (prestiti per finanziare una maggiore spesa pubblica), rimane praticamente l'ultima risorsa per procrastinare la crisi, dopo che le economie speculative delle bolle (bolla delle dot-com, bolla immobiliare, bolla della liquidità) si sono in gran parte estinte nei mercati finanziari surriscaldati.
Economia di guerra post-keynesiana
Nella produzione di merci, il capitale perde così la sua stessa propria sostanza, il lavoro che crea valore. L'aporia del capitalismo, derivante da questo limite interno del capitale diventa pertanto visibile e fa la sua comparsa nella monotona disputa a proposito delle priorità della politica economica, che va avanti da anni, tra i neoliberali orientati all'offerta e i keynesiani orientati alla domanda. È sempre la stessa storia, ripetuta in innumerevoli varianti: all'allarme neoliberista del sovra-indebitamento e dell'inflazione dovuti ai programmi di stimolo, i keynesiani contrappongono il pericolo di una spirale deflazionistica verso il basso innescata dai programmi di austerità. Entrambe le parti hanno ragione nella loro diagnosi: un dilemma questo, che era stato mascherato solo grazie all'economia della bolla finanziaria dell'era neoliberista. Ora che si profila una stagflazione, cioè un'inflazione elevata senza crescita economica, appare evidente come sia proprio la politica monetaria delle banche centrali quella che ora si trova in una trappola di crisi. Perciò, dovrebbero aumentare i tassi di interesse a causa dell'inflazione, mentre che, allo stesso tempo, hanno simultaneamente bisogno di abbassarli, in modo da poter evitare così una recessione. Il keynesismo ha fallito nel corso della stagflazione degli anni '70; alla quale praticamente il sistema globale tardo-capitalista sta ora tornando, però con un livello di produttività e di indebitamento globale assai più elevato. Dopo la fine del grande boom del dopoguerra, sostenuto dal regime di accumulazione fordista, la spesa in deficit keynesiana, che ha solo alimentato l'inflazione, ha fallito. Il neoliberismo è riuscito ad affermarsi solo negli anni '80 proprio perché il keynesismo aveva fallito miseramente, con i suoi tassi di inflazione a due cifre, con le frequenti recessioni e con la disoccupazione di massa. Quando vediamo dei keynesiani in disarmo - come Heiner Flassbeck, ex Segretario di Stato del Ministero federale delle Finanze sotto Oskar Lafontaine (allora SPD) - che affermano che a scatenare, allora come oggi, lo scoppio della crisi e dell'inflazione sarebbe stata solo la crisi energetica, e quella dei prezzi del petrolio, mentono a sé stessi. Il keynesismo, nonostante tutti i programmi di stimolo economico, non è stato in grado di creare un nuovo regime di accumulazione; né sarà in grado di creare magicamente nuovi mercati, con lo sviluppo dei quali il lavoro salariato potrebbe essere massicciamente valorizzato a livello globale di produttività. All'epoca, il neoliberismo aveva "risolto" il problema con il decollo speculativo della sfera finanziaria e con la finanziarizzazione del capitalismo, ritardando in tal modo le crisi nel quadro di una vera e propria economia della bolla finanziaria, e la cosa ha permesso al capitale di vivere, a credito per tre decenni,una sorta di esistenza da zombie. È anche questa la differenza fondamentale tra la fase di stagflazione degli anni '70 e quella attuale. La portata della crisi è molto più ampia, e lo si può vedere semplicemente a partire dal livello del debito totale in rapporto alla produzione economica la quale, secondo il Fondo Monetario Internazionale, è passato da circa il 110% all'inizio dell'era neoliberista, nel 1980, al 256% nel 2020. La riduzione di questo livello di indebitamento è possibile solamente al prezzo di una recessione; detto in altre parole, nel lungo periodo non è assolutamente possibile. Reagire alle recessioni con dei programmi di stimolo keynesiani sarebbe oltretutto una pura follia ecologica. Gli anni di recessione del 2009 e del 2020 sono stati gli unici del XXI secolo in cui le emissioni di CO2 sono diminuite, ma negli anni successivi i pacchetti di stimolo sopra descritti hanno portato a quelli che si sono rivelati come i maggiori aumenti relativi delle emissioni di questo secolo.
Impoverimento da recessione o morte da clima? Questa alternativa esprime l'aporia ecologica della politica di crisi capitalista. Ovviamente, il keynesismo, con la sua monotona spesa in deficit e con la sua fiducia nello Stato, non può certo risolvere la crescente crisi interna ed esterna del capitale, ma può avviare la transizione verso una nuova gestione della crisi. Il riferimento a Keynes può rappresentare un utile programma di partenza per riuscire a innescare una forma qualitativamente nuova di gestione autoritaria delle crisi, soprattutto per quelle élite funzionali che spesso agiscono «a vista». I post-keynesiani ideologicamente avanzati, come la redattrice della Taz Ulrike Herrmann, lo hanno capito da tempo. Nel suo ultimo libro sulla "Fine del capitalismo", abbina un'esposizione dei limiti esterni del capitale, in gran parte copiata dalla critica del valore, a un impegno nell'economia di guerra, ivi comprese le misure coercitive e il razionamento. È in tale direzione che si sta dirigendo il corso della crisi: una gestione autoritaria e post-democratica della crisi, condotta e realizzata dagli apparati statali in via di erosione, e a volte apertamente inselvaggiti. I keynesiani sono i sostenitori di una simile dinamica. In tal modo, il keynesismo - che solo a causa dell'assurdo spostamento a destra di tutto il mondo politico delle idee, può essere collocato a sinistra della socialdemocrazia e considerato di sinistra in generale - degenera così in un'ideologia nel senso letterale del termine: nella giustificazione dell'imminente amministrazione autoritaria della crisi capitalista di Stato, che finisce per essere esattamente l'opposto dell'emancipazione dal regime coercitivo del tardo capitalismo al collasso. Un'emancipazione necessaria per la sopravvivenza.
- Tomasz Konicz - Pubblicato su Jungle World 19.01.2023 -
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