Una commedia inedita di Orson Welles, «un capolavoro di arte scenica» per «Le Monde». Mai pubblicata in inglese, data alle stampe in Francia nel 1952 e sparita nel nulla, questa brillante satira è una vera riscoperta del talento letterario del regista statunitense.
«La storia si svolge a Hollywood, mentre la città è stretta nella morsa di un ciclo di film religiosi. Un regista neorealista italiano gira un film su una santa alla Bernadette che fa miracoli e cura gli infermi. Ha appena licenziato la diva protagonista rimpiazzandola con una dattilografa che gli sembra più spirituale. Stanno girando una scena in cui ci sono molti storpi e l’italiano ha insistito che siano storpi autentici. La dattilografa li benedice e quelli gettano via le grucce! Sono guariti! Hollywood diventa la nuova Lourdes. Frammenti di pellicola vengono venduti come reliquie… ma gli affari vanno a rotoli. L’industria si salverà solo con l’arrivo di un Arcangelo che convoca i capi degli Studios e fa un patto con loro: il Cielo è disposto a sospendere ogni miracolo, a condizione che Hollywood smetta di fare film religiosi...». Orson Welles
(dal risvolto di copertina di: Orson Welles, Miracolo a Hollywood. Titolo originale: The Unthinking Lobster. Traduzione e nota di Gianfranco Giagni. SELLERIO, Pagine 161, €13)
Il teatro di Welles
- Fu una farsa che andò in scena a Parigi nel 1950. Adesso riemerge grazie all’acribia di Gianfranco Giagni. Una scatenata comicità si prende gioco della religione e mette alla berlina il neorealismo (e Roberto Rossellini) già nel titolo: «Miracolo a Hollywood» -
di Davide Ferrario
Per presentare il soggetto, val la pena leggere quel che ne dice lo stesso Orson Welles: «La storia si svolge a Hollywood. Un regista neorealista italiano gira un film su una santa alla Bernadette che fa miracoli e cura gli infermi. Ha appena licenziato la diva protagonista rimpiazzandola con una dattilografa che gli sembra più spirituale. Stanno girando una scena in cui ci sono molti storpi e il regista ha insistito che siano storpi autentici. La dattilografa li benedice e quelli buttano via le grucce! Hollywood diventa la nuova Lourdes».
È l’inizio di una specie di farsa che andò in scena a Parigi nell’estate del 1950 per quattro settimane e di cui si era persa traccia, salvo una citazione nelle biofilmografie di Welles, che parlavano di una misteriosa commedia intitolata The Unthinking Lobster («L’aragosta avventata» o «incauta») — titolo che suscitava più domande che risposte. C’è voluto Gianfranco Giagni, uno dei wellesiani più appassionati del mondo, certamente il più filologico d’Italia, perché quel testo tornasse alla luce. Giagni è riuscito a ripescare un’edizione su stampa francese del 1952 pubblicata come Miracle à Hollywood, l’ha brillantemente tradotta e la presenta con questo titolo — Miracolo a Hollywood — per la gioia dei fedeli del grande Orson. Ma non solo per loro. Non bisogna essere aficionados wellesiani per lasciarsi trascinare dalla scatenata comicità della pièce. Il cui secondo titolo fa ovviamente riferimento, parodisticamente, a Miracolo a Milano. Il motore della vicenda è infatti un regista «semi-realista» (sic), di cui in scena sentiamo solo la voce, ma in cui è facile riconoscere Rossellini.
Che Welles non avesse grande stima dell’autore di Paisà lo dice già il nome che gli affibbia nella storia: Alessandro Sporcacione. Il momento storico è quello in cui a Hollywood vanno alla grande le produzioni di carattere religioso in stile Cecil B. De Mille e un immaginario capo degli studios, Jake Behoovian, sta girando un film sulla Genesi — dato che, purtroppo, «il Diluvio l’ha sotto contratto la Warner». L’inizio è folgorante. Su uno schermo scorrono spettacolari immagini della creazione del mondo che però non convincono affatto il produttore. «Mi dispiace ragazzi, ma questa è roba che non interessa nessuno». «Ma è la Bibbia, mr. Beehovian!». «E allora? Tagliamola». È solo l’avvio di una scoppiettante sequela di surrealtà che culmina nella situazione descritta all’inizio: la dattilografa piazzata al posto della diva dal nevrotico regista italiano si mette a fare miracoli veri. Il che, in un primo momento, sembra uno splendido lancio pubblicitario per il film; ma alla lunga si rivela una minaccia per la natura stessa di Hollywood: «Eravamo una splendida copia di Babilonia e siamo finiti per fare concorrenza a Lourdes...».
La commedia è una miniera di battute («Non bastava l’arrivo della televisione, adesso ci si mettono anche i miracoli»; «Lei è una brava persona che si spaccia per Arciduca, io sono un prete che si spaccia per brava persona...») e di situazioni esilaranti in cui Welles, costretto a trasferirsi in Europa per lavorare, si vendica in modo sulfureo del sistema hollywoodiano che l’aveva di fatto mandato in esilio, umano e artistico. Non contento, Welles si prende gioco anche della religione, sia sotto forma della Chiesa cattolica che di Dio stesso. Arriva in città un Arcangelo di incerta natura («Mia cara signora...». «Non sono una signora». «E neanche un angelo»). Sarà lui a negoziare con gli studios la cessazione dei miracoli in cambio dello stop alla produzione di film religiosi. La lettura di questo testo consente anche di riflettere su un aspetto della poliedrica attività di Welles, quella teatrale. Che è ben nota a biografi e studiosi ma che purtroppo è pochissimo documentata dal punto di vista dei reperti visivi. Si sa di una provocatoria messa in scena del Macbeth shakespeariano con un cast nero; del suo storico Giulio Cesare in abiti moderni; della mirabolante produzione di Il giro del mondo in ottanta giorni. Di questo ed altro esistono testimonianze principalmente scritte. Un merito della lettura di Miracolo a Hollywood, uno dei pochi testi teatrali scritti in autonomia da Welles, è così anche quello di farci immaginare il ritmo, il tono e la forza di puro spettacolo che dovevano avere le sue regie teatrali. Produzioni che, come giustamente nota Giagni nella postfazione, erano anche grandi spettacoli illusionistici, data la sua ben nota passione per i trucchi e la finzione.
D’altra parte, quali forme di illusione più grandi ed efficaci di cinema e religione? Sotto la patina irresistibile del divertissement c’è, in questa commedia, una corrente sotterranea di più profonda riflessione sul «Gran Teatro del Mondo». Non a caso The Unthinking Lobster era solo la prima parte dello spettacolo che andò in scena al Théâtre Edouard VIII, e che aveva come titolo generale The Blessed and the Damned (che potremmo tradurre con qualche libertà «I graziati e i dannati») — spettacolo che, come spesso accadde al suo autore, fu encomiato dalla critica e ignorato dal pubblico. La seconda parte della serata, intitolata Time Rules, era basata sulla leggenda di Faust e prevedeva letture da Milton, Marlowe e Dante. Le musiche — originali — erano, noblesse oblige, di Duke Ellington. Nasce così più di un sospetto che l’intero progetto fosse, ancora una volta, un tentativo, molto wellesiano, di mettere in scena l’implacabile coesistenza del bene e del male nella natura umana. E forse la storia del patto faustiano, per Welles, nascondeva anche una metafora della condizione dell’artista, che conosce il bene della Bellezza ma sa che può arrivarci solo attraverso gli artifici del Diavolo. Con il paradosso che Faust barattò l’eternità dell’anima per l’effimero della conoscenza mondana, mentre con Welles è avvenuto il contrario: la sua picaresca vita è stata piena di inciampi e avara di soddisfazioni, ma la sua fama è oggi immortale.
- Davide Ferrario - Pubblicato su La Lettura del 6/11/2022 -
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