In occasione del centenario della nascita di Luciano Bianciardi, ExCogita ha voluto raccoglierne l’intera produzione giornalistica. Giornalista infaticabile, traduttore prolifico e narratore di raro acume, Bianciardi ha lasciato in pochi anni una produzione vastissima, raccontando sui giornali l’evoluzione della storia dei costumi, della televisione, della politica, della letteratura, dell’arte, del cinema e dello sport. Per presentare questa immensa mole di testi, si è scelto di adottare l’ordine cronologico: il susseguirsi degli articoli restituisce al lettore una sorta di storia d’Italia vista dagli occhi di un personaggio che è stato definito anarchico, ribelle e inclassificabile. Come in un diario costruito giorno per giorno, lo sguardo di Bianciardi si sofferma con lo stesso straordinario acume e la stessa valenza profetica sia sui grandi fatti internazionali sia sulle piccole vicende quotidiane, mostrando un lato inedito della personalità dell’autore che si discosta dalla narrazione mitologica che spesso lo accompagna. Se nel grande mucchio del lavoro di Bianciardi non troverete mediocrità e sciatteria, è per una ragione soltanto: lui era uno scrittore “naturale”, lo era anche prima di pubblicare libri e di diventarlo per riconoscimento sociale. Non sarebbe stato capace di scrivere una sola riga senza che le sue parole gli assomigliassero e gli appartenessero, e questa mi pare, tutto sommato, la definizione più azzeccata di “scrittore”.
(dal risvolto di copertina di: Luciano Bianciardi, Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971. ExCogita 3 volumi - vol. I pp.1020; vol.II pp.1086; vol.III pp.866 - €150)
Vita agra di un anarchico in Italia
- È il sentimento che divora e ossessiona lo scrittore Ma anche il motore che lo ispira. Oggi, nel suo centenario, quel disincanto ci mostra ciò che siamo e potevamo essere -
di Francesco Piccolo
Dopo il successo inaspettato de La vita agra, Luciano Bianciardi si trovò in una situazione paradossale: aveva scritto un romanzo contro la borghesia culturale milanese, ed era invitato come una star a tutti gli appuntamenti mondani. Si struggeva e beveva e si chiedeva dove aveva sbagliato; ma intanto ci andava, e chissà quanto si rendeva conto di somigliare ancora di più al protagonista del suo libro: Luciano de La vita agra era andato a Milano con l’intento di far saltare il “torracchione” della società responsabile della tragedia in miniera dalle sue parti, in Toscana, e piano piano il proposito rivoluzionario si era sciolto in qualcosa di inerme, inespresso e rassegnato. Quando divenne quindi un autore di successo, ambito dalla società culturale, ricevette la telefonata di Indro Montanelli che gli chiedeva di andarlo a trovare al Corriere della Sera. A via Solferino, Bianciardi ci aveva abitato, in una pensione. Oltrepassa il portone e sale per la prima volta le scale del grande giornale. Montanelli gli offre una collaborazione di prestigio e ben pagata, due pezzi al mese per trecentomila lire, una cifra che allora Bianciardi non riusciva a guadagnare nemmeno lavorando giorno e notte con le traduzioni. Bianciardi dice di aver bisogno di un paio di giorni per dare una risposta, Montanelli glieli concede ma intuisce che qualcosa non va, e quando Bianciardi sta per uscire gli dice: «Mi raccomando, non fare il bischero».
Chi era Luciano Bianciardi? Perché doveva pensarci? Era stato un intellettuale della sua città, Grosseto. Poi era andato a costruire, insieme ad altri, una nuova casa editrice a Milano, la Feltrinelli. Poi si era messo a tradurre e campava così. I tre libri hanno come argomento esattamente questi tre periodi della sua vita. Aveva scritto anche un altro mezzo libro, il primo. Quel I minatori della Maremma firmato a quattro mani con Carlo Cassola, per raccontare la tragedia dell’esplosione del pozzo di Ribolla dove morirono quarantatré minatori. È l’episodio che genera la rabbia, e che genera la spinta per andarsene da Grosseto, per scrivere i tre libri successivi; ed è inoltre l’episodio che genera la narrazione de La vita agra, il motivo esplicito della vendetta in nome di quelle povere vittime. Prima di scrivere di questo personaggio autobiografico, Bianciardi si era sdoppiato. Ne Il lavoro culturale e ne L’integrazione racconta di due fratelli, Luciano e Marcello, e distribuisce loro pregi e difetti di sé stesso. Il lavoro culturale (1957; ripubblicato con aggiunte nel 1964) è l’esilarante descrizione della vita intellettuale di provincia, con lo sforzo di imparare il linguaggio e i modi per essere considerati persone di cultura, per costruire quella vita grama, triste e routinaria dell’intellettuale periferico. Bianciardi in questo libro è feroce, è vivo, allegro e cinico, malinconico e sprezzante insieme. Ci sono, in questo libro sorprendente, tutti i prodromi del disastro della sinistra — anzi, più che del disastro: dell’impotenza, dell’inazione, della pochezza della sinistra. Bianciardi riesce con una lucidità inimmaginabile ad anticipare tutto ciò che finirà in un vicolo cieco; prima di ogni altro raccoglie con divertente precisione tutti i tic linguistici che disarmeranno l’efficacia del linguaggio intellettuale. E siamo ancora nel pieno degli anni Cinquanta. Poi nei libri successivi subentrerà la rabbia che lo porterà a tentare di pensare a un gesto rivoluzionario come ne La vita agra, ma anche quello, come dire, sarà fallimentare. Il lavoro culturale, quindi, diventa una profezia prima sulla sinistra e poi sullo stesso Bianciardi; ed è il libro che genera la rabbia che lo scrittore esprimerà fino alla fine dei suoi giorni. L’integrazione (1960) racconta gli anni della Feltrinelli, la vita povera in una pensione milanese con personaggi indimenticabili, le riunioni editoriali che a lungo non portano a nulla, fino a quando il Giaguaro (Giangiacomo Feltrinelli) non si deciderà a cominciare le pubblicazioni. Persone che vengono assunte e licenziate, direttori editoriali che hanno paura del termine “sociologia” perché può rovinarli agli occhi dei razionalisti amanti della scienza storica; traslochi in sedi sempre più grandi, schede di libri e collane che diventano proprietà di segretarie ossessionate dall’ordine. Un lavorio continuo, intorcinato, che sembra tornare sempre al punto di partenza — e anche questo è simbolo della vita (sprecata) degli intellettuali. E infine, quando l’esperienza di traduttore gli fa incontrare Henry Miller, di cui traduce i due Tropici, e che sente così vicino da chiamarlo Enrico Molinari, trova la spinta sia formale sia espressiva per abbandonare lo sdoppiamento e scrivere di sé stesso, in modo allucinato, colto, comico, potente. La vita agra (1962) racconta gli anni del boom mentre il boom economico è al massimo dell’espansione, e con grande sorpresa di Bianciardi viene accolto con clamore, e viene amato da coloro contro cui si scaglia. Diventa ed è rimasto il romanzo simbolo di quegli anni.
Il lavoro culturale è il libro sulla provincia e sul suo disincanto. L’integrazione è il libro del provinciale che va in città e viene travolto dal ritmo, dalla frenesia anche del fare. La vita agra è la disillusione anche della vita di città; però in fondo è anche il tentativo di ribellarsi alla propria apatia e alla propria sconfitta. Il primo libro è il lavoro preparatorio della rabbia, che esplode con i successivi due. Qui non ho nessuna intenzione di raccontare le trame — posto che siano importanti, e grazie a dio per Bianciardi non lo sono. Spero invece che la Trilogia della rabbia vada in mano, oltre che ai cultori dello scrittore (e ce ne sono davvero tanti), soprattutto a coloro che non lo conoscono, o che non lo hanno mai letto. Perché una cosa bisogna dirla: sono tre libri del tutto atipici, liberi, disordinati, aperti; sfuggono a definizioni che molti si affaticano a cercare. E questo è il pregio più grande della trilogia: sembrano diari saggistici, romanzi dannati, saggi personali. Sembrano libri improvvisati, che non erano scritti per essere pubblicati; e allo stesso tempo hanno un andamento sicuro e sapiente, un controllo totale del caos che inscenano. La libertà che si è presa Bianciardi nella scrittura non è riconducibile ad altri; e paradossalmente questo discorso vale ancor più per i primi due libri che per La vita agra, che un genitore visibile ce l’ha, ed è Tropico del Cancro di Henry Miller, anche se in modo del tutto italianizzato nei temi e nel linguaggio; e anche se, a proposito di linguaggio, questo libro è stato da molti accostato a Gadda. Ma cercare di mettere in gabbia Bianciardi è operazione davvero ardua, e credo anche fallimentare. Si tratta di un uomo libero, di uno scrittore libero — anarchico, verrà definito -, e di conseguenza scrive libri liberi, che scivolano dalle mani di coloro che vogliono mettere ordine nella storia della letteratura. E presi tutti insieme, riescono a raccontare lo stato dell’arte e dell’anima del Paese. Perché è anche questa la tensione di Bianciardi, e la capacità di radiografare i sentimenti peggiori degli italiani. Quindi ci sono due modi di descrivere questa rabbia: il primo, è quello che i personaggi dei tre libri esprimono come reazione al mondo circostante; il secondo, è quella furia che si deposita dentro, senza poterla affermare, per la frustrazione di non essere capaci di esprimere la prima. È questa seconda descrizione che corrisponde con più precisione allo scrittore dei tre libri.
E così, dopo essere uscito dall’ufficio di Montanelli, per due giorni Bianciardi si strugge. Scrive al suo amico Terrosi: «Il mondo va così, cioè male. Ma io non ci posso fare nulla. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro». Si chiede quindi se lui può stare dalla stessa parte di coloro che ha scorticato, e se è giusto sfruttare il successo del libro per scrivere sul giornale che rappresenta in fondo, in quegli anni, quelli che stanno dentro il torracchione. E dice no al Corriere. Questo rifiuto è il simbolo della sua vita per due motivi. Il primo è la scelta di essere quella specie di intellettuale dannato alternativo, povero e un po’ perduto che era sempre stato e che in fondo aveva anche il timore di non essere più. Voleva essere sé stesso, ed essere sé stesso significava questa vita di traduzioni forsennate, consegne in ritardo, stenti economici, serate al bar Giamaica, cappotto liso e camminate nel freddo della città. Il secondo motivo, probabilmente, è proprio il culto ossessivo della rabbia. Questa rabbia che si è portato dentro per tutta la vita e che si è trasformata in letteratura ed è stata usata per esprimere la forza del suo libro migliore. Il boom economico è forse una terza ragione da aggiungere alle altre; Bianciardi rifiuta di entrare dentro il mondo perché lo disapprova, e la combinazione di disapprovazione e rabbia si traduce in speranza della rivoluzione. In fondo Bianciardi ha sempre vissuto silenziosamente accanto alla rabbia; e insieme alla rabbia, accanto alla speranza della rivoluzione. E su questa idea del mondo si basa anche la sua voluta marginalità un po’ eroica, un senso di superiorità che ha un valore, ed è il valore appunto di ciò che ricordiamo ora. In fondo Bianciardi continua a rappresentare quella letteratura altra, marginale, quella letteratura che non si è potuta né voluta imporre; e però chiunque lo incontri sulla propria strada, chiunque incontri per la prima volta questa trilogia non può che esserne sedotto in maniera definitiva, non può che fare di Bianciardi un autore del cuore e non può che avere, come accade in qualsiasi persona che sia o voglia essere giovane, la voglia di emulare questa vita più che dannata.
Dopo aver rifiutato l’offerta del Corriere della Sera, accetta di collaborare al Giorno, il giornale della borghesia progressista; al Guerin Sportivo; e ad altre testate che gli hanno reso la vita solo un po’ più facile, e solo per un po’, dal punto di vista economico. Quando ho letto questi libri molto giovane, in mezzo a questa rabbia, sfiducia, sarcasmo, disincanto, io leggevo e vedevo anche che «la grossa iniziativa» era esaltante, mi accendeva, così come mi accendeva la vita dannata di quest’uomo. E la verità è che quello che leggevo dentro questi libri in modo ingenuo, c’era per davvero, al fondo; che la rabbia era proprio questa, una passione grande che si scontrava con la realtà dei fatti e le difficoltà concrete, e la voglia di far saltare tutto che rimaneva una voglia. Bianciardi conserva dentro i suoi libri un segreto, che forse è il segreto che rende la sua vita luminosa — ed è il motivo per cui vale la pena cominciare a leggerlo il prima possibile: il disincanto con cui parla di tutto ciò che attraversa insegna a sdrammatizzare e a stare attenti nel credere fino in fondo alle proprie idee — insegna perfino a fregarsene di tutto e a starsene due giorni e due notti nel letto con la persona che ami; ma la capacità di non scalfire la grandezza delle idee è più forte, ancora più forte del disincanto, dell’ironia e del sesso; e alla fine insegna certo a non essere ingenui, a non essere ciechi; ma di più: a credere con tutta la forza alla libertà delle idee. E questo modo così adulto di parlare ai sognatori, non so proprio chi altro lo abbia avuto. Ma poi sappiamo anche che, senza alcun giudizio in merito, ma come constatazione oggettiva, se si guarda Milano oggi, hanno stravinto i torracchioni.
- Francesco Piccolo - Pubblicato su Robinson del 19/11/2022
2 lettere di Bianciardi
Rapallo, 30 marzo 1970
Cari ragazzi,
ieri era Pasqua e io cercai di farvi gli auguri a voce, ma il vostro apparecchio era preoccupato. Pazienza. Ora son qui che sbatacchio la cartella 444 del Little Big Man, ma interrompo volentieri per salutarvi in forma scritta e mandarvi lo assegno. Volevo dirvi che ho insegnato la tecnica dello scherzo grafico alla gioventù rivierasca, e che ho ottenuto i risultati che vi trascrivo a parte. Serbateli, che un giorno, forse, ne faremo un libretto. Non so se ieri avete visto in televisione I recuperanti, un film fatto da tre miei cari amici, che si chiamano Olmi, Rigoni Stern e Kezich. A me è ripiaciuto moltissimo. Lo avete visto? Avevo dimenticato di dirvi che fra le novità trovate rientrando c’era anche un telegramma del Milan che mi vuole offrire un lavoro. Ma che lavoro? Mi vogliono come allenatore?
Intanto mi preparo a incontrare Scopigno, domenica prossima, credo, e spero vivamente che esista un aereo da Genova per Cagliari e ritorno, perché non mi va di andar per mare nelle Sardegne, faccenda lunga e avventurosa. Poi sembra che si riattacchi a viaggiare lontano, e un poco alla volta vi ci porto tutti e due, insieme o staccati. Questa estate a Londra ci dovrei proprio andare, e sarei contento di portarci la giovane anglista, la quale potrà sperimentare il suo accento oxoniense (ma che vor di’?) su spazzini, taxisti e ortofrutticoli. Ahi, Luciana, sentirai le pernacchie! Ma non t’impermalire, no. A parte gli scherzi, in inglese (e altrove) sei veramente brava.
Ettore invece vorrei portarlo a Dodge City, dove tutti odiano tutti, così almeno leggo sul mio eterno libretto del L.B.M., oppure a Wichita, dove c’è tutto, o a K.C., che vuol dire Kansas City, e somiglia notoriamente a Grosseto, Italy. Tutto questo per dire che vi ricordo e vi rammento. E che vi abbraccio e vi bacio con tutto l’affetto che può avere un padre prodigo e tardivo.
E ora passiamo agli scherzi grafici. Voltate il foglio. Ciao, a presto. Giovannetti/effigie
Rapallo,13 luglio 1970
Cara Luciana,
proprio oggi metto la parola finis al John Barleycorn, e voglio dirlo subito a che ne vedesti l’incipit. Traducendo mi sono accorto che questo romanzo d’un alcolizzato è autobiografico, che Jack London era così. Ripensandoci ti dirò che, per burla Jack può tradursi Giacomino. Il Giacomo in inglese è James, e ha per diminutivo Jimmy, mentre Jack è il diminutivo di John. Quindi Gianni, Giannino, Nanni, Nino, come vuoi, ma niente Giacomo. Hai capito?
Sono immerso nel lavoro, e nel sudore, fino a qui. Ho strappato appena due manate di mare, di voga. Non nuoto per non mortificare questi poveri rivieraschi con mie esibizioni di squalo dell’Alberese. E sgobbare mi serve anche per buttarmi un poco dietro le spalle le gatte che, ho trovato rientrando. (Anche di lavoro, sì).
Però stai sicura che ti ricordo sempre, né mi dimentico dell’ingegnere. (La tua filologia qui giova). Lo rammento, povero ingegnere chino allo sgobbo anche lui e gli mando un saluto solidale.
Mi pare che la vita, purtroppo, sia fatta di esami e di processi, che son poi la stessa cosa, due facce della stessa società autoritaria e repressiva che ci siamo costruiti intorno non so per quale follia.
E tu come stai, insigne anglista? Bada, Luciana, questo 1970 è stato per te un anno ultracarico. Hai affrontato una scuola per te nuova (per me vecchia, lo avrai capito) ne sei uscita benissimo, forse hai cominciato a scoprire una tua vocazione professionale (se ne sentiva la mancanza, in famiglia) hai ripescato quel bestione del tuo babbaccio, che ti vuole un gran bene, ma che è ingombrante. Ora stai tranquilla, goditi le tue vacanze, rifletti e digerisci.
Io sono sempre qui, quando vuoi vi vengo a trovare. D’accordo?
Ho scritto qualche altra cosettina. Un racconto di fantasport, in cui immagino cosa sarebbe successo se l’Italia avesse vinto ai campionati mondiali.
Ma questo mi pare che tu lo sappia perché eri presente quando me lo chiese il Billy Molco da Milano. Poi ho scritto una solenne tirata in difesa di Walter Chiari. E poi dai sotto a tradurre. Il guaio di finire un libro sai qual è? Che subito dopo ti tocca attaccarne un altro. E domani attacco infatti il The Road. Ma forse mi ci scappa una corsa fino a San Fruttuoso, col mio amico Delfo Ceni da Monticello sull’Amiata, che campa anche lui traducendo (ma guarda che fantasia, sta gente!) e ha tolto casa a pigione (così dice i1 Machiavelli) sopra Camogli. Sai cosa vuol dire Camogli?No? Rifletti. Paese di marinai. Donne sole a casa, ca mugge, ca’ mogli, casa delle mogli. Nel Settecento Camogli vantava mille velieri. Ma sarà poi vero? Su con la vita, Lucianona. E su con la vita, Lucianone babbo, poi traite traite con quello che del salmo è poscia scritto. Un bel bacione dal tuo Babbo.
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