sabato 30 aprile 2016

La Terza Natura

Iippolita

Le nostre identità digitali sono composte da sentimenti e informazioni sempre più strettamente intrecciati tra loro. Quando condividiamo via web ci sentiamo al contempo più gratificati e più informati. Sempre presenti e al contempo proiettati in un altrove, siamo come anime elettriche in estasi permanente. Perché nella ribalta mediatica dei servizi gratuiti, dove ci esercitiamo nella disciplina della pornografia emotiva, si disegna una diversa unità tra mente e corpo. Ci troviamo in uno spazio continuo di sollecitazioni e senza accorgerci siamo alla mercé di un potere dopante e manipolatorio. Ma la partita è tutta da giocare. Con uno sguardo antiproibizionista Ippolita fa un nuovo giro dietro le quinte della società del controllo, alla ricerca di vie di fuga e strategie di autodifesa.

(dal risvolto di copertina di Ippolita, "Anime elettriche. Riti e miti social", Jaca Book, pp. 118, euro 12)


Il dolente risveglio degli avatar
- di Benedetto Vecchi -

I social network non riflettono la realtà, semmai la manipolano all’interno di una stringente e profittevole logica del controllo sociale. È uno dei punti fermi di Anime elettriche (Jaca Book, pp. 118, euro 12), un agile, ma denso volume di Ippolita, il gruppo di mediattivisti milanesi e non solo che da circa un decennio analizza l’evoluzione della Rete e della network culture. Un gruppo di informatici, filosofi, antropologi e attivisti che ha avuto come «incubatore» gli hack lab fioriti negli anni Novanta del Novecento nei centri sociali, dove l’alfabetizzazione informatica si univa creativamente alla sperimentazione di un uso «alternativo», antagonista delle tecnologie digitali e della Rete.
Di quella stagione è rimasta intatta l’irriverente attitudine libertaria e la conseguente insofferenza verso ogni dogmatica attorno alla Rete, compresa quella che tutt’ora caratterizza la network culture. I componenti del gruppo hanno deciso di discutere, elaborare e scrivere collettivamente a partire da una pratica di condivisione «circoscritta» (il numero dei componente varia nel tempo, ma non supera mai le dieci persone). A testimonianza del loro lavoro vanno citati i volumi "Open non è free" (sul software non vincolato alle norme dominante sulla proprietà intellettuale), "Luci e ombre su Google", "Nell’acquario di Facebook", "La rete è libera e democratica. Falso!".
 
Il panopticon digitale
Anime elettriche ha però le caratteristiche di un volume di svolta, quasi a ratificare una presa di congedo dal recente passato. Nessuna presa di distanza, tuttavia, ma la pacata convinzione che un lavoro analitico è stato svolto e che la realtà costringe a misurarsi con temi e problematiche che richiedono analisi, approfondimenti e «cura del sé» dopo la colonizzazione dell’immaginario compiuta dai padroni della Rete, siano essi imprese che organismi sovranazionali che governi nazionali. La connessione «permanente» al web è infatti diventata esperienza quotidiana nella vita di miliardi di esseri umani. Il web è così interpretato come un potente e pervasivo dispositivo panottico teso a controllare comportamenti sociali e individuali, definendo i confini tra il lecito e l’illecito, che non vanno confusi con legale e illegale, ma tra ciò che garantisce la conferma dello status quo e ciò che lo minaccia.
Il lecito che piace ai progettisti dei social media e dei social network ha molto a che fare con una pornografia emotiva dove gli affetti, i sentimenti, i turbamenti sono messi in evidenza senza alcun pudore. Tutto quanto deve essere trasparente, cioè visibile in quella perversione della comunicazione dei molti ai molti controllata, indirizzata, «catturata» da imprese come Facebook, Amazon, Google per accrescere ulteriormente i Big Data, che possono essere elaborati e poi venduti in quanto profili personali o aggregati statistici ai pianificatori di strategie pubblicitarie. Oppure sono messaggi, post, like monitorati e «carpiti» dai servizi di intelligence per «difendere» la sicurezza nazionale di questo o quel paese. Il panopticon digitale pretende una trasparenza radicale da parte dei singoli: chi si sottrae a questo imperativo compie un’operazione illecita di defezione, meglio di diserzione. E se nel recente passato l’uso di nickname era propedeutico a entrare nel territorio della Rete, mettendo il singolo a suo agio, attualmente l’uso di account che non corrispondono al nome «vero» è guardato con sospetto dai gestori dei social network.
Mark Zuckeberg non ha, ad esempio, nascosto la volontà di introdurre una clausola nella policy di Facebook la possibilità di disconnettere gli utenti che preferiscono un nickname al posto del nome proprio. Così come i servizi di intelligence nazionali considerano l’anonimato e i software per criptare i messaggi una vera iattura da dissuadere o perseguire con ostinazione. Una posizione che stride con la richiesta sempre più diffusa di misure tese a tutelare la privacy e la riservatezza delle comunicazione on line, come testimoniano il fiorire di imprese che forniscono software per rendere meno trasparenti i percorsi di navigazione in rete o i servizi di messaggistica sempre più usati dagli utenti della rete.

La decisione di WhatsApp di criptare i messaggi ha incontrato diffusi consensi. Ma la trasparenza radicale rimane comunque una condizione necessaria ai social network per rendere intelligibili i contenuti della rete al fine di appropriarsene e farli diventare merce pregiata.

Nel denunciare la pornografia emotiva Ippolita è mossa da intenti moralistici. Parte semmai dalla constatazione di pratiche diffuse dove gli alter ego digitali non sono un doppio o un avatar, bensì l’elaborazione di una identità desiderata, agognata. I social network sono cioè il simbolo di una «società della confessione» dove tutto deve essere reso pubblico, cancellando così quella linea di confine tra il pubblico e il privato.

La società della confessione

Questa oscena pratica della trasparenza non ha nulla di liberatorio, bensì è propedeutica alla messa in forma di una identità corrispondente ai desideri del singolo e tuttavia corrispondente a un principio di prestazione mercantile. La trasparenza radicale, va aggiunto, è funzionale all’individuo proprietario che opera in Rete al fine di massimizzare il suo capitale sociale, culturale. L’imprenditore di se stesso è «trasparente» perché è disponibile a sottomettersi motu proprio alle strutture di controllo e dominio.
Per Ippolita, il web è comunque la rappresentazione più chiara di come opera la servitù volontaria descritta da Étienne de La Boétie nel celebre discorso a lui attribuito. Nessun è costretto a sottoporsi alle regole e all’ordine del discorso dei social network. È garantita libertà di parola e di espressione – entro certo limiti, ovviamente -, accedendo gratuitamente alla Rete e usando altrettanto gratuitamente programmi informatici che possono essere usati gratuitamente. L’unico prezzo da pagare è la cessione dei propri dati personali. Ma questo campo tematico della servitù volontaria nell’era del web è circondato da insidie e trabocchetti. È certo un antidoto alle forme di dominio e di invasione di uno spazio interiore (altra ambivalente espressione usata spesso in questo volume), ma sposta il baricentro dell’analisi sui comportamenti opachi, dipendenti dalle forme del potere costituito del singolo.
 
La servitù è volontaria
In Anime elettriche è continuamente richiamata la denuncia di Elias Canetti alle forme sottili di sottomissione del singolo – e delle masse – al potere. Ne diviene anzi la bussola quando il volume affronta il tema di come un sistema così pervasivo nelle sue tecnologie del controllo incontri così poca resistenza. Per Canetti ciò è dovuto al fatto al regime di sicurezza che la massa garantisce. Le dinamiche sociali di sottomissione del singolo alla massa e di quest’ultima al potere sta nella sicurezza che esso offre al singolo. Per il mondo del web questo significa il contesto nel quale l’individuo può vivere l’esperienza di costruzione della propria identità. Ma ciò significa pagare un prezzo, la perdita della propria autonomia e accettare la colonizzazione della sfera intima. Da qui la necessità di una ricostruzione della propria intimità, sfuggendo alle lusinghe e al fascino di un avatar che si muove in una territorio simulacro della realtà. Con una fuga in avanti, Ippolita risuscita l’inquietante categoria del genius, cioè un proprio io autentico, intimo, irraccontabile da contrapposto all’avatar, cioè la maschera che si indossa per stare in Rete. E, ancor più sorprendente, è la torsione pedagogica che ha il volume.
La sottrazione al potere passa quindi attraverso un paziente lavoro di cura del sé, quasi un’opera di disintossicazione da una sostanza chimica che crea dipendenza in cambio di frammenti di euforia. Una cura che passa attraverso la crescita di una consapevolezza e svelamento dei meccanismi che sono dietro gli algoritmi che fanno funzionare i social network e la rete al fine di individuarne i dispositivi di cattura e di sottomissione e una possibile «ecologia della comunicazione». Insomma un lungo e a volte doloroso percorso psicologico di conoscenza del proprio genius, della propria «anima» e quindi un disertare il grande rito collettivo della servitù volontaria.
 
Tecnologie del sé
C’è nell’analisi di Ippolita una forte eco naturalistica e antiproibizionista tesa a una riduzione del danno. Non c’è indulgenza verso attitudini tecnofobe. Semmai, l’adesione a una visione dicotomica dove la tecnica è antitetica a un mondo autentico che va ricostruito. Solo così si spiega la ricorrente affermazione che il web non è specchio della realtà. Per quel che concerne Internet, sostenere che nella comunicazione on line non si rifletta la realtà è espressione di buon senso. Semmai più importante è comprendere come la Rete intervenga a modificare la realtà, cioè se questa tecnologia – digitale, ma anche tecnologia del sé, per usare il lessico di Michel Foucault – intervenga a modificare artificialmente una condizione data della realtà. Più prosaicamente, il web è, a tutti gli effetti, una seconda natura, cosi come seconda natura sono sempre state la macchine, perché una volta introdotte e diffuse diventano una presenza costante in quello strano meccanismo che porta la specie umana a modificare continuamente la natura.
Non c’è però separazione tra vita dentro e fuori lo schermo. Come per ogni media, il web riflette la vita associata, producendo ordini del discorso funzionali all’ordine costituito. La pedagogia e la cura del sé prospettate di Ippolita sono opzioni significative se finalizzate non solo a una presa di coscienza del mondo prodotto dall’animale umano dove la Rete è diventata una seconda natura, ma soprattutto se veicolano pratiche sociali che rompano la gabbia del controllo sociale.
 
L’ossimoro del savoir faire
Complementare alla torsione illuminista di Ippolita – in fondo, molte delle proposte presenti in Anime elettriche possono esser rubricate come un accorto tentativo platonico di illuminare la caverna della comunicazione sociale – è la negazione della tesi sulla Rete come laboratorio sociale e politico della grande trasformazione che ha investito il capitalismo. Soltanto che quel laboratorio ha smesso di funzionare quando il web è diventato la piattaforma dove viene organizzata, coordinata la contemporanea produzione di merci. La seconda natura del web è tale proprio perché coincide con la realtà. Non c’è, va ripetuto, un dentro il web e un fuori la Rete. C’è solo la realtà, che va certo interpretata, al fine però di trasformarla.
La cura di sé ha un valore euristico e dunque politico solo se è un processo collettivo che abbia l’ambizione a confliggere con la produzione di manufatti, immaginario, senso, opinione pubblica che presiede la cattura dei desideri, dell’intelligenza collettiva, del savoir faire di quel potente ossimoro marxiano che è l’essere sociale. Come sempre, la consapevolezza e la presa di parola individuale hanno un senso solo se non rimangono relegati ai singoli, ma producano collettivamente differenze significative nel corso di una ripetizione del sempre eguale. In fondo, l’unica pedagogia che vale la pena perseguire è quella che punta alla liberazione. Individuale e collettiva.

- Benedetto Vecchi - Pubblicato su Il Manifesto, il 12 aprile 2016 -

Ippolita

venerdì 29 aprile 2016

Le prove

prove

Come si può vedere dal grafico qui sopra, con l'aumentare delle ore di lavoro non si incrementano i salari, né tanto meno la diminuzione dell'orario di lavoro porta ad avere salari più bassi.
Nell'eurozona, si vede che con il diminuire delle ore di lavoro (asse X), aumentano i salari (asse Y).
L'eurozona ci permette di studiare direttamente la relazione empirica fra ore lavorate e salari, in quanto la valuta comune fa sì che non ci sia bisogno di aggiustare i dati secondo il tasso di cambio della valuta.
I dati, forniti dall'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), mostra come la Grecia, con il suo orario di lavoro più prolungato rispetto agli altri paesi, abbia i salari fra i più bassi di tutta l'eurozona, mentre la Germania, che ha l'orario lavorativo più corto, si trova fra i paesi con i salari più alti.
Osservando il grafico, si può notare che esiste una correlazione inversa fra ore di lavoro e salari.
I marxisti, i quali sostengono che una riduzione dell'orario lavorativo porterebbe ad un crollo dei salari, non hanno alcuna prova, né empirica né teorica, che possa servire a sostenere i loro argomenti. Come al solito, stanno soltanto rigurgitando le loro consuete sciocchezze borghesi secondo le quali la schiavitù salariale è un bene per i lavoratori.

fonte: The Real Moviment

giovedì 28 aprile 2016

Antidoti

khayati

Mustapha Khayati, allora membro dell'Internazionale Situazionista, scrisse "Les Marxismes : Idéologies et révolution" per la "Encyclopédie du monde actuel", pubblicata nel gennaio del 1970. Ritengo che la concisa presentazione della critica rivoluzionaria di Marx fatta da Khayati sia un eccellente complemento a "Il proletariato come soggetto e rappresentazione", quarto capitolo de "La società dello spettacolo" di Debord. Di sicuro è un antidoto alle diverse letture "ortodosse" di Marx. Secondo un altro ex situazionista, Donald Nicholson-Smith,  La partecipazione del 'gruppo situazionista' all'Enciclopedia del Mondo attuale [EDMA] non era ufficiale. Ci sono stati alcuni lavori pagati-poco cui alcuni membri dell'IS si sono dedicati. Il lavoro consisteva nel redigere delle "schede EDMA" e, eventualmente, degli opuscoli mensili. (Ogni scheda includeva un testo di 500 parole; ogni opuscolo conteneva all'incirca 30 pagine illustrate). [...] Alcuni di quegli opuscoli vennero scritti da situazionisti - anche dopo la dissoluzione del movimento avvenuta nel 1972. Guy Debord redasse "Il surrealismo" nel settembre del 1968. "La Poesia francese dal 1945 ai nostri giorni" è attribuita a Raoul Vaneigem. Ci sono stati altri articoli scritti dai situazionisti per "L'Enciclopedia del mondo attuale", inclusi "La pittura moderna", pubblicata nel novembre del 1968; "I marxismi", pubblicato nel gennaio 1970; "L'Affiche", nel settembre 1974; "Il Golfo Persico", nell'ottobre del 1974.

Nel testo originale di "Marxismi", Khayati fa riferimento a due importanti lettere di Marx. Alla prima lettera si riferisce una sezione nella prima parte - Lavoro, "essenza" dell'uomo. Si tratta della lettera di Marx a Vera Zasulic, scritta l'8 marzo del 1881 (due anni prima della sua morte) nella quale Marx afferma chiaramente che la sua descrizione della "genesi della produzione capitalista" non è una teoria generale della "inevitabilità storica" ma è piuttosto un "processo espressamente limitato ai paesi dell'Europa occidentale". Perciò Marx continuava dicendo che la comune contadina russa, il Mir, e la sua forma di proprietà comunale era di fatto il "fulcrum" dello sviluppo della rivoluzione comunista in Russia, piuttosto che un impedimento. Nello scrivere questo, Marx si è messo contro ogni corrente del marxismo che si è sviluppata nei 40 anni successivi.
La seconda lettera appare fra la fine della sezione su Marx e l'inizio della seconda sezione sulle "Ideologie della Seconda Internazionale". Si tratta effettivamente di una sorta di avvertimento per il futuro da parte di Marx. La lettera indirizzata a Maurice La Chatre è del 18 marzo 1872 (un anno dopo la Comune di Parigi). Nella lettera Marx plaude all'idea di dividere il Capitale in "uscite periodiche [...] più accessibili alla classe operaia". Tuttavia Marx fa anche notare che il suo "metodo di analisi" (la famigerata concezione materialista dialettica della storia) rende alquanto ardua la lettura dei primi capitoli. Marx così continua:
"c'è da temere che il pubblico francese, sempre impaziente di arrivare alle conclusioni ed ansioso di sapere come i principi generali si rapportano alle questioni immediate che lo intrigano, potrebbe scoraggiarsi in quanto non è stato in grado di proseguire. Questo è uno svantaggio, rispetto al quale non posso opporre altro che una continua cautela ed avvertire quei lettori preoccupati dicendo loro la verità. Non c'è alcuna strada maestra per imparare e le uniche persone che hanno una possibilità di scalare le vette luminose sono quelle che non hanno paura di stancarsi quando intraprendono i sentieri scoscesi che portano a quelle vette.

"Les Marxismes" di Khayati non dovrebbe essere letto come un'alternativa alla lettura di Marx, o come un sostituto al fine di sviluppare oggi una critica radicale. E' piuttosto un contributo alla critica svolta da Marx, in particolare alla sua continua rilevanza (e quindi deve essere letto ed usato), ed alla critica del problematico sviluppo dei marxismi che hanno fatto così tanto sia per far avanzare che per oscurare il progetto del superamento rivoluzionario del capitalismo.

(annotazioni di Anthony Hayes, Canberra, Aprile 2016)


I Marxismi: Ideologie e Rivoluzione
- di Mustapha Khayati -
(Pubblicato la prima volta nel Cahiers de l'Encyclopédie du monde actuel, Numéro 51, Janvier 1970)

A partire da più di un secolo dopo la pubblicazione de Il Capitale, Karl Marx ha preso posto fra i grandi autori classici. Il marxismo ha ottenuto un posto legittimo in tutti i campi del pensiero, e sono rari i suoi avversari che non ammettano di concordare con qualcuna delle sue idee. Questo successo è dovuto alla sua ambiguità? Può trionfare il marxismo mentre fallisce la rivoluzione? Quali sono le relazioni che si sono stabilite nella storia recente fra il marxismo e Karl Marx? E come possiamo catalogare i diversi marxismi, relazionando gli uni agli altri?

I. I fondatori e la loro teoria
Storia del concetto
1.
Karl Marx una volta ci ha rassicurato circa il fatto che "Io non sono un marxista". Per dare seguito al paradosso di una simile epigrafe, qualcuno sostiene che il "marxismo" ed il pensiero di Karl Marx sono lontani dal coincidere. Utilizzato dai nemici politici di Marx nell'Associazione Internazionale dei Lavoratori [AIT, la Prima Internazionale], l'epiteto di "marxista" serviva a designare i partigiani dei metodi "autoritari" in seno al movimento dei lavoratori, in opposizione agli "anti-autoritari" anarchici adepti di Bakunin. Il termine apparve per la prima volta, su un libro, nel 1882 quando Paul Brousse pubblicò il suo opuscolo dal titolo "Le Marxisme dans l’Internationale" [Il marxismo nell'Internazionale].
2. Brousse, come la maggioranza dei suoi compagni bakuninisti, non metteva in discussione il pensiero di Marx, ma piuttosto denunciava lo stesso Marx come il "leader del partito" a capo di una consorteria di "agenti" e di "abili individui" nell'Internazionale: "Il marxismo non consiste nell'essere un partigiano delle idee di Marx. Ad esempio, molti dei suoi attuali avversari, e soprattutto l'autore di queste righe, a tal proposito potrebbero essere marxisti... Il marxismo consiste soprattutto in un sistema che tende non a diffondere la dottrina marxista, ma ad imporla in tutti i suoi aspetti."
3. L'amico ed il teorico più vicino a Marx, Friedrich Engels, cercò di fare di tale attributo peggiorativo un'arma ed un appellativo prestigioso - con riluttanza, a dire il vero. Ma a quel tempo, sia lui che tutti i discepoli di Marx avevano assunto una convinzione incrollabile. Gli anarchici "si mangeranno le mani per averci dato questo nome". dichiarava Engels. Da quel momento era nato il marxismo.

Il pensiero di Marx
1.
Al di là dell'apparente diversità - che continua ad alimentare la moltitudine di scoperte da parte di differenti specialisti - la profonda unità della teoria sviluppata da Karl Marx consiste del suo spirito critico e rivoluzionario. La critica radicale di tutto quel che esiste, la critica totale "che non ha paura dei suoi risultati", è il nucleo costante e fondamentale dell'opera di Marx. Ogni tentativo di suddividere quest'opera in domini separati appare perciò subito condannata al fallimento ("Marx il filosofo", "Marx il sociologo", "Marx l'economista" o "Marx il politico", ecc.) in quanto contrario al vero spirito del suo autore.
2. Per Marx la "critica della religione è il presupposto di ogni critica". L'abolizione della religione diventa un requisito essenziale per arrivare al mondo reale. E' l'uomo che fa la religione e non il contrario. L'uomo "è il mondo dell'uomo", il che vale a dire che è la società e lo Stato a produrre la religione, "la coscienza capovolta del mondo" in quanto sono essi stessi "un mondo a rovescio". Una volta che "l'oppio del popolo" è denunciato e rivelato nella sua vera dimensione, "la critica dei Cieli diventa la critica della Terra, la critica della religione diventa la critica della legge, e la critica della teologia la critica della politica.
3. Per poter realizzare la critica reale della religione, dobbiamo agire praticamente per abolire le condizioni sociali in cui l'uomo è "un essere degradato, schiavizzato, spogliato, miserabile". Una volta arrivati alla critica teorica dell'alienazione religiosa, ossia alla filosofia che ha solo interpretato il mondo (delineata da Hegel e formulata da Feuerbach), d'ora in poi dev'essere allo stesso tempo "trascesa" e "realizzata" nella trasformazione cosciente di tutto ciò che esiste - in breve, diventando la "prassi" cosciente del suo obiettivo. L'agente cosciente responsabile di tale compito è la classe oppressa, quelli in cui si concentra tutta l'alienazione di questo mondo, e la cui abolizione darà inizio a quella di tutte le altre classi.
4. Nel realizzare la "critica della filosofia", la critica della religione ha scoperto che tutte le sfere dell'attività umana, materiale e spirituale, sono in realtà lo sfondo malato di queste morbose rappresentazioni della sfera religiosa. A tal proposito, "La questione ebraica" ha rivelato una profonda analogia fra l'alienazione religiosa e l'alienazione politica nella società borghese e nel suo regime democratico formale. Il cittadino è una "forma profana", un essere straniato, "differente dall'uomo reale". La verità reale dell'uomo non è "la mente" [o lo "spirito"] dei filosofi (quella "forma astratta dell'uomo straniato"), tanto meno neppure la sua essenza religiosa, ma fondamentalmente e soprattutto il lavoro e la produzione.

Il lavoro, "essenza" dell'uomo
1.
"Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza," scrive Marx ne L'Ideologia Tedesca. Il lavoro non è un'attività economica separata e parziale, ma è letteralmente l'essenza dell'uomo. Tutta l'autentica attività umana "finora è stato lavoro - cioè, industria" (Manoscritti filosofico-economici del 1844). Quindi tutta la storia dell'uomo non è nient'altro che il processo della sua attività, concepito come un'incessante lotta contro la natura, e come i ripetuti tentativi di dominare la propria natura. "Si vede come la storia dell'industria e l'esistenza oggettiva già formata dell'industria sia il libro aperto delle forze essenziali dell'uomo, la psicologia umana, presente ai nostri occhi in modo sensibile."
2. Questo è quel che a volte viene chiamato "economicismo", oppure al contrario è un nuovo concetto dell'uomo e della storia - dell'uomo e della natura? Marx, in ogni caso, lo ha definito un "nuovo materialismo" che andava oltre il "vecchio materialismo" filosofico di cui l'ultimo rappresentante è stato Feuerbach. Il materialismo può essere soltanto "storico", considerando il mondo sensibile come il prodotto della "attività totale vivente sensibile degli individui che lo compongono."
3. Da questo momento sono state gettate le basi teoriche di una critica reale del mondo esistente, e la critica del "cielo ideologico" si è trasformata in critica della "Terra" capitalista - ossia della religione, filosofia, legge, Stato politico, ecc.. Se il lavoro è l'essenza dell'uomo allora la proprietà privata, fondamento del capitalismo borghese, condanna il produttore ad un'esistenza contraria alla sua essenza, dacché il lavoratore è obbligato a "fare della sua attività vitale, del suo essere essenziale, un mero mezzo della sua esistenza". Tutta la "alienazione" capitalista si trova riassunta in questa formula. La critica del lavoro salariato, vale a dire dell'esistenza proletaria, viene dunque svolta alla luce del progetto rivoluzionario della realizzazione dell' "uomo totale" - l'alienazione e la sua fine [la disalienazione] seguono un solo e medesimo percorso.
4. Tale fine dell'alienazione [disalienazione] non è altro che l'oggetto del "progetto comunista". Il comunismo, secondo Marx, è la fine della preistoria umana e l'inizio del controllo della storia da parte dell'uomo. Ciò porta ad una fine del conflitto fra l'uomo e la natura, fra l'uomo e l'uomo. E' "la trascendenza positiva di ogni straniamento - vale a dire, il ritorno dell'uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo Stato, ecc., al suo essere umano, ossia all'esistenza sociale". Questo comunismo così inteso è la vera soluzione a tutti gli antagonismo: "è l'enigma della storia che viene risolto, e sa di essere questa soluzione."

La necessità della rivoluzione
1.
Il capolavoro di Marx, Il Capitale, non è tanto un trattato economico quanto piuttosto "una critica dell'economia politica", come indicato dallo stesso sottotitolo dell'opera. Nonostante i riferimenti al rigore scientifico, Marx non segue la moda di un'opera economica, né tantomeno quindi di arricchire la scienza economica. La teoria esposta nel Capitale è finalizzata soprattutto a smantellare le base dell'economia politica, la "scienza" borghese per eccellenza. La critica della merce, della forma-merce della produzione, ne costituisce il suo nucleo. Ed il "feticismo" è il concetto che riassume questa critica.
2. La rivoluzione proletaria diviene una necessità inerente all'essenza stessa del proletariato. Per cui esso "o è rivoluzionario o non è niente". Il suo internazionalismo non è un'opzione "ideologica" bensì il risultato della forza stessa delle circostanze. La borghesia ed il suo sistema della merce hanno unificato il mondo, e perciò la lotta contro di loro può essere portata avanti solo a livello globale. L'ultima rivoluzione di classe, la rivoluzione socialista ha come scopo l'abolizione definitiva delle classi e la costituzione di una società nella quale non può più esistere niente "indipendentemente dagli individui". Perché questo avvenga, l'abolizione dello Stato è una condizione indispensabile. D'ora in poi la "auto-emancipazione dei lavoratori", la liberazione della classe può essere effettuata solo in maniera collettiva, senza nessuna rappresentanza (ossia il principio borghese). Questa "dittatura del proletariato" abolirà simultaneamente la proprietà privata, il principio gerarchico, le classi e lo Stato, la merce ed il lavoro salariato.
3. Era questo il nocciolo fondamentale della teoria di Marx quando è apparsa. Per più di un secolo, raramente è stata accettata nella sua totalità, da tutti i suoi discepoli. Già quando era ancora in vita, Marx dovette protestare, contro la deformazione del suo pensiero, "Io non sono marxista". Da un lato, il marxismo sarebbe diventato non solo un'ideologia (nel senso che Marx dava al termine) ma anche una giustificazione per la politica dei partiti operai riformisti e stalinisti. Dall'altro lato, il marxismo non avrebbe mai smesso di ispirare, fuori dagli apparati politici e dalle lotte operaie, una riflessione "critica e rivoluzionaria" fedele alle sue origini se non ai suoi obiettivi.
4. Il processo di "ideologizzazione" del pensiero di Marx era cominciato con Engels, il suo più fedele compagno, verso la fine della sua vita. L'accordo stabilitosi fra lui ed i leader del più potente partito dei lavoratori del tempo, la socialdemocrazia tedesca, contribuì alla creazione della scuola e divenne la giustificazione di numerosi compromessi politici. Nell'ammettere il parlamentarismo come un mezzo possibile per arrivare al socialismo, Engels - in quello che è noto come il suo testamento - sembrava approvare la politica riformista dei leader del movimento dei lavoratori. Anche se dapprima aveva insistito sul carattere "scientifico" del socialismo, aveva poi aperto la strada a tutti gli ideologhi della Seconda Internazionale (essenzialmente al kautskismo) - in una parola, all'ideologia marxista.

II. Le ideologie della Seconda Internazionale
Kautskismo - ovvero, la "ortodossia"
1.
Nel 1883, lo stesso anno della morte di Marx, Karl Kautsky (nato nel 1855), fondava una rivista teorica, Die Neu Zeit, che nel corso degli anni sarebbe diventata la tribuna internazionale del socialismo marxista. Istituzionalizzandosi, il marxismo da allora in poi è conosciuto come una "scienza". Il suo "spirito rivoluzionario" declina a favore del "rigore" e della "obiettività". Non è più la "teoria del movimento reale", l'analisi critica di "tutto ciò che si svolge sotto i nostri occhi", bensì la "scienza" che il movimento dei lavoratori deve rigorosamente comprendere ed applicare per raggiungere il suo obiettivo. Il socialismo battezzato come scientifico è una cosa, ed il movimento dei lavoratori un'altra; il loro coincidere sarà il lavoro degli specialisti della socialdemocrazia.
2. Per Kautsky, il marxismo non è tanto una teoria rivoluzionaria che esprime lo sviluppo della lotta proletaria, quanto piuttosto un metodo scientifico da applicare a tutti i campi dell'attività umana. Da qui, due direzioni di ricerca, o meglio di applicazione: nella pratica, nel mondo politico, [con] il partito dei lavoratori nel cuore della società borghese; nella teoria, colmando tutte le lacune che le opere di Marx ed Engels non erano state in grado di affrontare.
3. Dal 1891, al congresso di Erfurt, il Partito Socialdemocratico Tedesco aveva adottato un programma marxista dovuto essenzialmente a Kautsky. Ma nella misura in cui era diventato ufficialmente marxista, il movimento dei lavoratori sembrava allontanarsi sempre più dal percorso rivoluzionario per adottare un riformismo che era allo stesso tempo sindacalista e parlamentare. La proclamata fedeltà a Marx non escludeva una pratica spesso in opposizione al pensiero di Marx. Il kautskismo è l'ideologia della gestione del partito dei lavoratori tedesco, la prima ideologia della "burocrazia operaia".
4. Nei paesi dove questa burocrazia doveva ancora formarsi e dove il movimento dei lavoratori era ancora organicamante debole, la "ortodossia" rimaneva assai più fedele alle intenzioni rivoluzionarie di Marx. In Russia, Plekhanov (soprannominato il padre del marxismo russo) guidava la lotta contro il populismo ed istruiva nel suo paese un'intera generazione di giovani rivoluzionari. Aveva fondato il primo partito socialdemocratico russo. In Italia c'era soprattutto Antonio Labriola che avrebbe introdotto un marxismo ripulito da ogni traccia ideologica (economicismo e scientismo).

Bernstein - o, del "revisionismo"
1.
Studente di Engels (ed anche il beneficiario del suo testamento), Edouard Bernstein era anche il maestro di Kautsky. Coautore del programma socialista di Erfurt, aveva scritto anche numerose opere storiche (soprattutto sulle origine del cristianesimo e sulla rivoluzione inglese). Ma la sua opera più celebrata - sia maledetta che incensata - sarebbe stata una collezione di articoli scritti fra il 1896 ed il 1899 e raccolti sotto il titolo di "Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica", un'opera che avrebbe fatto di lui il leader della scuola "revisionista".
2. Bernstein aveva l'ambizione - il primo - di trarre le conclusioni finali dalle lezioni pratiche e teoriche offerte dall'esperienza della socialdemocrazia tedesca. Basando la sua analisi sull'esempio inglese e sulla situazione reale del partito tedesco, si dispose ad attuare un'ampia "revisione" del pensiero marxista alla luce degli ultimi sviluppo del capitalismo. Denunciando le flagranti contraddizioni fra l'ideologia rivoluzionaria del suo partito e la sua pratica decisamente riformista, Bernstein invitava i suoi compagni ad avere il coraggio "di emanciparsi da una fraseologia che è attualmente logora e decidersi ad apparire per quello che in realtà ogni giorno siamo: un partito democratico, socialista delle riforme."
3. Rivendicando il "testamento" di Engels, Bernstein e poi anche i suoi discepoli tedeschi e russi, metteva in discussione la teoria marxista del valore, la concentrazione di capitale, il plusvalore e la pauperizzazione. A livello politico, contestava l'idea della dittatura del proletariato e riteneva che fosse segnata dal "blanquismo".
4. Nonostante le proteste contro il "revisionismo bernsteiniano" in tutta l'Internazionale socialdemocratica, il partito dei lavoratori non cessò comunque la sua pratica riformista; al contrario, essa divenne sempre più evidente. La "ortodossia rivoluzionaria" venne ridotta ad una ripetizione meccanica di formule prive di contenuto.

Sorel - ovvero, il sindacalismo rivoluzionario
1.
Molti storici ritengono che ad introdurre veramente il marxismo in Francia non siano stati né Paul Lafargue o Jules Guesde, fondatori del primo partito marxista dei lavoratori (il Parti Ouvrier Français nel 1879) ed autori di alcuni testi di propaganda socialista e divulgatori del "materialismo storico", né Gabriel Deville, autore di una sintesi assai chiara e fedele del primo volume del Capitale (come detto da Engels). Il pensiero di Marx venne reso noto ed utilizzato in Francia per mezzo due riviste di breve durata: L'Ere Nouvelle (1893-94) e Le Devenir Social (1895-98). Uno dei principali animatori di queste riviste fu un giovane filosofo - Georges Sorel.
2. A partire da un totale rifiuto della politica riformista dei partiti socialdemocratici, Sorel propose di ristabilire l'idea fondamentale del marxismo: la lotta di classe. Bloccato nel parlamentarismo e nell'illusione che un giorno avrebbe conquistato lo Stato, Sorel riteneva che i socialisti avessero abbandonato la strada della rivoluzione proletaria. Di conseguenza, il parlamentarismo era non solo "utopico" ma addirittura controrivoluzionario. [Perciò] L'erede della politica marxista della lotta di classe poteva essere solamente il "sindacalismo rivoluzionario".
3. Secondo Georges Sorel, il proletariato non poteva in alcun modo auto-emanciparsi costituendosi "sul modello delle vecchie classe sociali, andando a scuola dalla borghesia". Se, come aveva detto Marx, i proletari potevano impadronirsi delle forze produttive solo abolendo "l'attuale modo di appropriazione", "come si poteva accettare che preservassero la quintessenza del modo borghese di appropriazione, vale a dire le forme di governance tradizionali?" Le uniche forze organizzate e sviluppate, in grado di impedire "il ritorno del passato" sono i sindacati. Queste organizzazioni puramente operaie - che devono "rimanere esclusivamente operaie" - devono strappare alla municipalità ed allo Stato, uno per uno, tutti i loro attributi, al fine di arricchire le organizzazioni proletarie nel loro processo di formazione. I sindacati sono già il seme ed il nucleo della futura società socialista in seno alla società capitalista.
4. "Per riassumere il mio pensiero in una formula, dico che l'intero futuro del socialismo risiede nello sviluppo autonomo dei sindacati dei lavoratori." E' questo il tema ricorrente che si può ritrovare nell'opera di Georges Sorel, da "Avvenire socialista dei Sindacati", fino a "Decomposizione del marxismo" e "Riflessioni sulla violenza".

Il marxismo rivoluzionario tedesco
1.
Già, verso la fine del 19° secolo, si andava sviluppando una corrente di sinistra all'interno della socialdemocrazia. Tuttavia, la sua prima dichiarazione teorica venne fatta in risposta a Bernstein. Nel 1899, Rosa Luxemburg aveva pubblicato "Riforme o Rivoluzione", dove aveva sostenuto il rovesciamento violento del sistema capitalista ed aveva rifiutato la "la teoria dell'adattamento del capitalismo". Per lei era solamente la lotta di classe, insieme allo sviluppo delle contraddizioni interne del sistema, che avrebbe portato alla "crisi generale" ed avrebbe così facilitato il "passaggio al socialismo" per mezzo di una rivoluzione. Riassumendo, la sua teoria prendeva la famosa frase di Bernstein e la rovesciava: "Il movimento è niente, il fine è tutto."
2. E' la corrente "Luxemburghiana" che, il giorno dopo la notte del 4 agosto 1914 e dopo l'adesione da parte della socialdemocrazia tedesca al programma di guerra del Secondo Reich, innalza la bandiera dell' "internazionalismo proletario" e combatte per svegliare la classe operaia. Rosa Luxembourg, Clara Zetkin, Karl Liebknecht e Franz Mehring creano insieme ad altri gruppi rivoluzionari tedeschi la Spartakusbund e chiamano all'instaurazione del potere dei consigli degli operai e dei soldati, proclamando che la rivoluzione proletaria può essere solo il risultato della "azione della grande massa di milioni di persone, destinata a compiere una missione storica e a trasformare in realtà la necessità storica."
3. Fedele alla sua idea di auto-emancipazione dei lavoratori, Rosa Luxemburg dopo aver fortemente criticato la concezione "ultra-centralista" dell'organizzazione leninista salutava la rivoluzione russa del 1917, ma sottoponendola a critica ("La rivoluzione russa", 1918). Alcuni mesi più tardi sarebbe caduta insieme a Liebknecht, vittima della repressione socialdemocratica guidata da Noske contro gli insorti spartachisti nel gennaio del 1919 a Berlino. Ciò nonostante, queste tendenze in seno al proletariato tedesco non saranno eliminate ed il "marxismo rivoluzionario tedesco" riapparirà negli anni 1920.

Il marxismo rivoluzionario russo
1.
Nel 1902 con il suo "Che fare?" Lenin aveva aperto un importante dibattito in seno alla socialdemocrazia, un dibattito che si sarebbe concluso con la scissione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo in due fazioni: i Bolscevichi (la maggioranza) guidati da Lenin, ed i Menscevichi (la minoranza) guidati da Plekhanov e Martov. Sebbene tale scissione avesse avuto luogo a partire dalla "questione organizzativa", le due tendenze dovevano divergere sempre più riguardo al vero significato della rivoluzione in Russia e all'interpretazione del marxismo. Dopo lo scoppio della guerra del 1914, la loro separazione sarà definitiva.
2. Parallelamente alla corrente di sinistra in Germania, si sviluppa in Russia una corrente ostile al riformismo e al compromesso con la borghesia liberale. Nonostante le esitazioni di Lenin, Trotsky difende le tesi della "rivoluzione permanente". Per lui, solo i lavoratori potranno realizzare l'insurrezione rivoluzionaria in Russia. Guidare il movimento contro l'autocrazia zarista sarebbe ricaduto sul proletariato dal momento che la borghesia russa era troppo debole. "Immaginare che la dittatura del proletariato sia in qualche modo automaticamente dipendente dallo sviluppo tecnico e dalle risorse di un paese è un pregiudizio del materialismo 'economico' semplificato fino all'assurdo. Questo punto di vista non ha niente in comune con il marxismo" (Trotsky, "Risultati e Prospettive").
3. Lenin ha risposto a queste tesi solo quando, nell'aprile 1917 ha proclamato "Tutto il potere ai Soviet". Dopo aver esortato ad un'analisi marxista sulla questione chiave dello Stato, contro ciò che chiamava la deformazione opportunista dei leader della Seconda Internazionale, l'autore di "Stato e Rivoluzione" abbandona la sua teoria del partito e si impegna nella lotta per la conquista del potere da parte dei consigli operai e contadini. Ma, da 1918, ritorna al primato del partito sulla classe, e tocca all'opposizione difendere i principi dell'autonomia dei lavoratori (la quale sarebbe stata al centro di tutte le nuove correnti del marxismo non ortodosso, mentre il marxismo-leninismo diventava l'ideologia ufficiale del Comunismo Internazionale, ora guidato da Stalin).

III. Marxismo-Leninismo
Prima dello Stalinismo

1. In quanto prima rivoluzione proletaria a trionfare, la rivoluzione russa produce un effetto eccezionale sul movimento operaio internazionale. Salutata con entusiasmo dai rivoluzionari di tutto il mondo, diventa l'esempio da seguire per tutto il proletariato, per cui costituisce la "avanguardia". Dal 1918, i bolscevichi vivevano nell'attesa della rivoluzione in Occidente: i segni della decomposizione capitalista, che entrava nella sua fase finale della "putrefazione imperialista", erano ovunque.
2. La rivoluzione ungherese dei soviet, guidata da Bela Kun (1918), trovava il suo miglior teorico nella persona del giovane filosofo Georg Lukács (nato nel 1885). Attraverso una serie di articoli pubblicati fra il 1919 ed il 1923 Lukács era diventato uno dei principali rappresentati del marxismo rivoluzionario nella Terza Internazionale. Quando nel 1924 pubblicava la sua opera "Storia e Coscienza di Classe", il suo libro aveva l'effetto di una bomba. Condannato come revisionista dalla nuova ortodossia comunista, l'autore inaugurava la sua carriera come pensatore "marxista-leninista" - caratterizzata da una serie di autocritiche - e rinnegava la sua opera precedente. L'idea fondamentale di tale opera precedente aveva sfidato su ogni punto il materialismo meccanico del Lenin di "Materialismo ed Empiriocriticismo" (1908).
3. Contemporaneamente nel Nord Italia il movimento operaio dell'occupazione delle fabbriche a Torino aveva il suo principale teorico in Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista d'Italia. Appassionato lettore di Machiavelli, Gramsci aveva scoperto nel partito rivoluzionario il "Principe" dei tempi moderni e nei consigli dei lavoratori la forma adeguata per realizzare il potere proletario. E' per mezzo del partito che la classe accede alla coscienza dei propri compiti, ed il marxismo, anziché essere una scienza neutrale (per spiegare l'economia e la società), è piuttosto la "filosofia della prassi" che dev'essere realizzata. Il partito rivoluzionario può solo esprimere la verità della classe, ma questa verità può essere affermata praticamente soltanto nei consigli, "dove tutti diventano sia maestri che discepoli".
4. Per Gramsci, preparare la classe operaia a realizzare effettivamente il suo compito storico significava "organizzare il proletariato in quanto classe dominante". La scoperta dei consigli operai da parte del proletariato nella rivoluzione è il fatto principale delle rivoluzioni del 20° secolo. I consigli operai sono "l'organismo più adatto [...] che il proletariato è riuscito a sviluppare dalla viva e fertile esperienza della comunità del lavoro". E' alla base dell' "Ordine Nuovo".

Lo Stalinismo
1.
La metamorfosi della rivoluzione russa e lo sviluppo della burocrazia in una nuova classe dirigente aveva trasformato la teoria rivoluzionaria di Marx in un'ideologia che serviva a giustificare il sistema politico installato in Russia. Il marxismo-leninismo ortodosso e dogmatico avrebbe avuto i suoi sacerdoti e i suoi fedeli. Zhdanov, in nome del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, aveva legiferato in materia di dottrina per tutto il movimento comunista internazionale - sia per l'arte che per la scienza e la filosofia. "Diamat" (Materialismo dialettico) e "realismo sociale" costituivano la "favolosa scienza" che aveva ridotto a niente le scoperte "cosmopolite ed oggettivamente borghesi" (come la psicoanalisi, la teoria della relatività di Einstein, la pittura impressionista, ecc.).
2. Due esempi francesi possono illustrare questo modello di ortodossia marxista: Roger Garaudy e Louis Althusser. Il primo ha seguito un itinerario politico ed ideologico più o meno fedele all'evoluzione del Partito Comunista Francese di cui è stato uno dei principali membri fra il 1945 ed il 1969. La prima opera filosofica con la quale si è distinto era la tesi di dottorato presentata alla Sorbona nel 1953. "La Teoria materialista della conoscenza" si inscriveva in un'ortodossia zdanovista che definiva il marxismo come una filosofia "scientifica". Sostenendo un dogmatismo ideologico contro le tendenze critiche che si erano sviluppate dopo la morte di Stalin, Garaudy si sarebbe convertito al liberalismo solo molti anni più tardi. Autore di "Umanesimo e Marxismo, Che cos'è la morale marxista?" e di "Dio è morto" (un importante lavoro su Hegel), diviene il direttore del "Centro Studi e Ricerche sul Marxismo" e l'organizzatore delle "Settimane del pensiero marxista". Con "Per un realismo senza limiti" apriva all'arte "borghese" e difendeva Kafka, Saint John-Perse e Picasso. Nello stesso tempo si impegnava in un importante dialogo con i cristiani e partecipava a molti dibattiti con teologhi cattolici e protestanti cercando un'intesa ed una convergenza. Campione di un "socialismo aperto ed umanista", Garaudy si univa alla causa di Dubcek e del suo esperimento in Cecoslovacchia e condannava fermamente l'intervento sovietico, cosa che gli valeva la reprimenda del suo partito.
3. Louis Althusser, senza accedere alla gerarchia di partito, sviluppava in relativa indipendenza una nuova interpretazione dell'opera di Marx. Docente alla Scuola Normale Superiore, dove riuniva molti allievi, si allineava alla grande tradizione filosofica del "socialismo scientifico": “Marx – Engels – Lenin – Stalin – Mao Zedong”. Pur rimanendo membro del partito, Althusser non aveva timore a proclamare che "Stalin è uno dei più grandi filosofi del nostro tempo". Nelle sue due opere, "Per Marx" e "Leggere il Capitale", si proponeva di fondare una "filosofia marxista", per completare la teoria scientifica della storia scoperta dai fondatori. In questo progetto prendeva in prestito dai moderni filosofi, in genere strutturalisti (come Claude Levi-Strauss, Jacques Lacan e perfino Gaston Bachelard), dei nuovi concetti al fine di illustrare una nuova lettura di Marx.
4. Secondo Althusser, tutta l'opera del giovane Marx non è ancora "marxista", e rimane influenzata da Hegel e Feuerbach - perciò anche il concetto fondamentale di "alienazione". L'opera scientifica, e quindi specificamente "marxista", di Marx comincia con Il Capitale, vale a dire dopo il 1867. Negando ogni aspetto umanistico nel pensiero di Marx ed insistendo sul suo carattere scientifico, Althusser metteva in atto un ritorno alla vecchia ortodossia, in gran misura fedele allo stalinismo. La sua influenza nei confronti dei giovani studenti e dell'ambiente intellettuale di sinistra, a quanto pare gli è valsa una certa tolleranza da parte di un settore della leadership del PCF che teme il rafforzamento delle correnti pro-cinesi dentro e fuori il partito.

Il revisionismo post-stalinista
1.
Prima la morte di Stalin e poi il "rapporto Krusciov" del 20 ° Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica hanno innescato un'immensa campagna di critica in tutto il tutto il movimento comunista internazionale. Ma è stata soprattutto l'insurrezione di Budapest ad aver segnato l'era del "disgelo". Gli intellettuali dei paesi dell'Est hanno fornito la miglior introduzione ai temi fondamentali del pensiero marxista al fine di attraversare la vasta critica che i "revisionisti" di questi paesi avevano prodotto nel corso degli anni 1956 e 57. Attraverso la loro critica del totalitarismo stalinista hanno preparato le armi con cui equipaggiare gli insorti della Polonia e dell'Ungheria contro la dittatura burocratica. Secondo tale critica tutte le alienazioni analizzate da Marx sono state rilevate nella società socialista e sono state denunciate come tali. La lotta per la "disalienazione" totale dell'umanità significa l'ingresso in una nuova fase storica.
2. La repressione dell'insurrezione ungherese ha provocato una profonda crisi della coscienza fra gli intellettuali comunisti europei. Molti hanno lasciato il partito ed hanno scoperto la "fresca aria della critica". In Francia, tutti i partecipanti alla rivista Arguments sono passati attraverso l'esperienza dello stalinismo ed il dramma della destalinizzazione. Arguments voleva essere la tribuna di un "Nuovo Marxismo", aperto, umanista ed anti-dogmatico. Mettendo tutto in discussione, si era specializzato nello "interrogarsi". I suoi principali editori: Kostas Axelos, Edgar Morin, Jean Duvignaud, [Pierre] Fougeyrollas, F[rançois] Châtelet, L[ucien] Goldmann, G[eorges] Lapassade ed Henri Lefebvre, hanno tutti contribuito all'elaborazione di questo nuovo marxismo, "de-dogmatizzato" e "rivisto".
3. Henri Lefebvre, ex membro del PCF, passa per essere quello che molti specialisti considerano il più brillante di questa scuola. Operando una sorta di ritorno alle fonti, con "Problemi attuali del marxismo" (1958), ha poi scritto un'autobiografia critica, "La somme et le Reste", in cui ha aggiornato i temi tratteggiati nei suoi primi libri (La Conscience mystifiée, 1936, e Critique de la Vie quotidienne, 1947). Insistendo sull'importanza del concetto di alienazione nel pensiero di Marx e sulla critica del mondo moderno, Henri Lefebvre ha dichiarato guerra al dogmatismo ed ha analizzato il fenomeno stalinista. Tutto questo lavoro lo ha reso degno di essere considerato dalla "ortodossia" il "leader del revisionismo internazionale". Seppur focalizzato sulla critica della società moderna e sul ripristino della verità originale della teoria marxista, alcuni fra gli studenti di Lefebvre ritengono che la sua opera soffra di concessioni ai pensatori alla moda, soprattutto nei settori sociologico e linguistico.

IV. "Marxismo tedesco"
La "sinistra tedesca"
1.
L'ondata rivoluzionaria che aveva travolto l'Europa dopo la prima guerra mondiale, dal 1921 aveva cominciato a defluire. Questa contro-rivoluzione occidentale aveva avuto ripercussioni sulla rivoluzione russa, a sua volta trasformata dalla "restaurazione del capitalismo" in forma burocratica. I rivoluzionari tedeschi, eredi diretti di  Rosa Luxemburg e Liebknecht, furono i primi a segnalare amaramente questo nuovo corso della storia. La scissione nel Partito Comunista Tedesco, avvenuta alcuni mesi dopo la sua creazione, in due fazioni, permise alla "sinistra" di organizzarsi in un nuovo partito: il KAPD (Partito degli Operai Comunisti Tedeschi). I suoi teorici ed i sostenitori stranieri cercarono di rinnovare il marxismo rivoluzionario facendo rivivere il suo nucleo "critico e rivoluzionario".
2. Partendo dallo slogan "tutto il potere ai consigli dei lavoratori", la sinistra assumeva il bolscevismo-leninismo come il suo bersaglio principale, considerandolo come l'erede dell'ortodossia socialdemocratica e del suo riformismo. E' questa la corrente stigmatizzata con l'etichetta di "ultra-sinistra" da Lenin nel suo "Estremismo: malattia infantile del comunismo". I "comunisti dei consigli" pensavano che subordinando il movimento comunista internazionale alle esigenze nazionali della Russia - vale a dire dello Stato - la Terza Internazionale ripeteva la storia della Seconda. Sacrificava "l'internazionalismo proletario all'imperialismo nazionale".
3. Il teorico che più di tutti ha segnato la scuola tedesca è stato Karl Korsch (1886-1961). Quando nel 1923 ha pubblicato il suo saggio "Il marxismo e la filosofia" si è scontrato frontalmente sia con Kautsky ed i suoi discepoli sia con il bolscevismo trionfante. La comune disapprovazione riguardo Korsch ed il suo libro consisteva nel fatto che poteva portare a credere che il movimento leninista fosse ancora parte integrante dell'ortodossia kautskiana. Denunciato in quanto eresia "revisionista", "Il marxismo e la filosofia" aveva l'ambizione di ristabilire la relazione dialettica che esiste fra il movimento rivoluzionario attualmente in corso e la sua espressione teorica, al di là della scienza e della filosofia borghese. Elevare il "materialismo dialettico" a legge invariabile dei processi storici e cosmici - così come avevano fatto Engels e Lenin - è, secondo Korsch, in contrasto con il pensiero di Marx. E' all'origine della trasformazione della teoria della rivoluzione proletaria in una "visione del mondo", senza un collegamento alla lotta di classe.

Il Freudo-Marxismo
1.
Parallelamente allo sviluppo della contro-rivoluzione, nella Repubblica di Weimar fioriva un movimento intellettuale prodigioso. Dal confronto fra il marxismo e la psicoanalisi sarebbe nato tutto un nuovo pensiero conosciuto col nome di Scuola di Francoforte, il cui capostipite era Wilhelm Reich.
2. Psicoanalista eretico e membro non ortodosso del Partito Comunista, Reich vide le sue opere bruciate simultaneamente in Unione Sovietica, nella Germania di Hitler e negli Stati Uniti. La sua opera era considerata da Herbert Marcuse come "il più serio tentativo di sviluppare la teoria critica sociale implicita in Freud". Reich è stato attivo per anni sia nei circoli psicoanalitici di Vienna che fra i giovani comunisti di Berlino. Finendo per essere escluso da entrambi. Per l'autore de "La rivoluzione sessuale" solo una radicale trasformazione della società può mettere fine alle nevrosi: il futuro della psicoanalisi non sta nelle clinica ma nella rivoluzione sociale. Marxismo e psicoanalisi hanno un solo e medesimo fine, è questa la conclusione degli scritti di Reich fra il 1930 ed il 1933, soprattutto ne "La Lotta Sessuale della Gioventù".
3. Sono queste le idee che vengono riprese e sviluppate alla luce della filosofia tedesca (soprattutto Hegeliana) e delle fiorenti scienze sociali, da coloro che promuovono la ricerca sociale a Francoforte: Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm. L'Autorità e la Famiglia forniscono i temi alle loro prime investigazioni, che sarebbero proseguite in America attraverso gli Studi sulla Personalità e la Famiglia. Nel 1947 Adorno ed Horkheimer pubblicano Dialettica dell'Illuminismo, in sostanza dedicato ad Hegel, filosofo della rivoluzione borghese. Denunciando la "mistificazione filosofica" di Heidegger, "erede della decadenza nazionalsocialista", Adorno attacca tutte le forme di totalitarismo, fra cui pone il marxismo stalinista.
4. Herbert Marcuse inagura la sua opera con una riflessione su Hegel. Pubblicando "L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità" nel 1932, contribuisce con Adorno ed Horkheimer ad un approfondimento della relazione fra Marx e Freud. Nel 1941 pubblica "Ragione e Rivoluzione", un'interpretazione marxista di Hegel. Fa i conti con il marxismo ufficiale nel marxismo sovietico, definito come la "sovrastruttura ideologica" di una società repressiva dominata dalla burocrazia stalinista. "Se c'è una differenza fondamentale fra le società occidentali e quella sovietica, c'è anche un forte tendenza all'assimilazione", scrive Marcuse. Ma l'opera che lo ha reso più celebre in tutto il mondo è "Eros e Civiltà", in cui critica il pessimismo di Freud a proposito del futuro della cultura ed attacca violentemente il culturalismo di Eric Fromm, accusandolo di predicare l'adattamento all'oppressione. Ne "L'uomo ad una dimensione" descrive in maniera disperata le strutture totalitarie nella società moderna, senza opposizione né prospettiva rivoluzionaria.

I Situazionisti
1.
Creata nel 1957 da un gruppo internazionale di artisti rivoluzionari, l'Internazionale Situazionista è diventata dall'inizio degli anni 1960, dopo varie esclusioni, "un gruppo internazionale di teorici", con radici in Dada e nel Surrealismo, ma soprattutto nel pensiero storico di Hegel e Marx. Riprendendo da Marx alcuni temi fondamentali, hanno sviluppato una critica unitaria del mondo contemporaneo, allo stesso tempo geografica - denunciando tutti i poteri che esistono nel mondo moderno in quanto oppressivo - e storica - criticando tutte le "alienazioni" sviluppate dal capitalismo moderno, sia nell'Occidente borghese che nell'Est burocratico.
2. Il tema centrale sviluppato ne "La società dello spettacolo" di Guy Debord è la critica oggettiva dell'attuale mondo capitalista concepito come "spettacolo". La teoria dello spettacolo riprende l'analisi della merce svolta nel primo capitolo de Il Capitale. Nello spettacolo tutto si trova invertito, il reale diventa ideologia, e quest'ultima è "materializzata" diventando una sorta di realtà nella misura in cui invade tutti i campi della vita sociale ed individuale. L'assenza della vita reale è il modo dominante dell'esistenza nella società moderna. Lo spettacolo è in realtà soltanto un momento dello sviluppo della produzione di merce, in cui "il vero è un momento del falso". Come la religione, lo spettacolo separa l'uomo dal suo essere, e lo fa muovere nel mondo irreale dell'immagine.
3. Dopo aver svolto la critica dell'urbanismo, della cultura e dell'ideologia, Debord evoca, nel movimento rivoluzionario del proletariato che ritorna all'assalto della società capitalista, la prospettiva della liberazione. Solamente una rivoluzione proletaria, consapevole dei suoi obiettivi, può porre fine alle alienazioni che dominano la vita di tutti. Una tale rivoluzione deve avere come suo programma la realizzazione del potere assoluto dei consigli dei lavoratori e l'abolizione di tutte le separazioni: lo Stato, le classi, la famiglia, la religione e l'ideologia, ecc..
4. Pubblicato alla fine del 1967, il libro di Raoul Vaneigem, "Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni", è diventato uno dei punti di riferimento della gioventù ribelle del maggio 1968. Partendo da una critica totale del nostro mondo, Raoul Vaneigem ha tentato di definire a partire dalla tradizione del rifiuto e dalla contestazione contemporanea le nuove linee di forza rivoluzionarie. Laddove Debord partiva dalla critica spassionata dello spettacolo, Vaneigem, a partire dalla prospettiva della "soggettività radicale", denunciava la sopravvivenza che si oppone alla vera vita, e che è la sorte di ciascuno nel mondo dell'oppressione. Ma entrambi convergono nel rifiuto radicale di tutto ciò che esiste indipendentemente dall'uomo, e nell'approfondimento del progetto dell' "uomo totale". La "Autogestione generalizzata" è l'obiettivo ed il mezzo per realizzare un simile progetto, il proletariato (vale a dire tutti quelli "che non hanno potere sulle loro vite e che lo sanno") sarà il soggetto.

- Mustapha Khayati -

fonte: Notes from the Sinister Quarter

mercoledì 27 aprile 2016

Informatica, stadio supremo del capitalismo

Employees working in a call center

Il computer - insieme di elementi tecnici che concorrono al fine dell'informatica - dal momento che è una macchina in grado di fare qualsiasi cosa, è materialmente adeguata al capitalismo, il quale è la produzione di qualsiasi cosa, basta che si tratti di merce valorizzabile.
In una società post-capitalista, per soddisfare a dei bisogni particolari, verranno utilizzati degli strumenti particolari, e non una macchina in grado di poter fare qualunque cosa.

Nel momento in cui una forte opposizione al progetto di legge-sul-lavoro, in Francia, affronta ed approfondisce questa servitù costitutiva il capitalismo che è la merce-lavoro, arrivando a rimetterlo direttamente in discussione, alcuni ricercatori (collectif Indépendance des Chercheurs) tentano - in maniera maldestra, d'altronde - di focalizzare l'attenzione sull'automazione-robotizzazione del processo produttivo, cioè a dire sulla tendenza alla sostituzione del "lavoro vivente", dei lavoratori, per mezzo dei fattori della produzione tecnologica. Questa sostituzione è già responsabile di una disoccupazione tecnologica di massa e di una crisi che è la conseguenza logica del capitalismo, e secondo numerose fonti, da qui al 2030, si arriverà ad una soppressione del 48% dei posti di lavoro. Inoltre, questa tecnologizzazione comporta un'intensificazione-accelerazione del lavoro concreto rimasto in carico ai lavoratori viventi - che vengono assoggettati ai ritmi crescenti dettati dalle forze tecnologiche produttive scatenate - e porta alla loro precarizzazione, dal momento che una forza lavoro meno produttiva e meno redditizia relativamente alle macchine si deprezza, perde il suo valore.
Questa forza tecnologica di sostituzione del lavoro vivente, che fa precipitare una crisi del capitalismo e del lavoro, ed un'intensificazione-precarizzazione di quest'ultimo (soprattutto attraverso la valutazione individuale delle performance e per mezzo di una guerra di tutti contro tutti organizzata all'interno delle imprese fra lavoratori-atomi muniti del loro personal computer), questa forza motrice delle trasformazioni e delle distruzioni avvenute negli ultimi 40 anni, è l'informatica in senso lato.
Ed essa non si accontenta di tali sconvolgimenti: ma è la base centrale di un alluvione digitale, dell'invazione di computer, tablet, smartphone, nuovi televisori, lettori ed altre merci che danno luogo ad una trasformazione che ha l'ampiezza di una mutazione antropologica: la distruzione accelerata delle relazioni sociali rimpiazzate da delle connessioni virtuali, la desensualizzazione rispetto a sé stessi, al mondo e agli altri, l'invasione generalizzata dello Spettacolo mediatico e della sua propaganda capitalista, la formazione delle soggettività come soggetti capitalisti, lavoratori, consumatori, isolati-separati, sottomessi ad un "patriarcato diffuso" e a delle norme imposte dall'alto, che si concepiscono come avatar, come dei marchi che devono fare spettacolo e che si devono vendere in ogni momento, ecc.. (Cfr. Cédric Biagini: "L’emprise numérique", éditions L’échappée; Robert Kurz: "L'industria culturale nel 21° secolo").
L'informatica quindi non è nient'altro che un supremo avatar delle forze produttive del capitalismo, ed è allo stesso tempo un supremo avatar dello Spettacolo con la S maiuscola, quello di Guy Debord.

fonte: Sortir du capitalisme

martedì 26 aprile 2016

Uomini

greppi

Gino ha undici anni e della guerra sa solo che porta la fame, e che quando arrivano gli aerei si scappa in cantina. L'emigrato Italo vive a Parigi, si è sposato da poco ed è felice, ma stanno arrivando i tedeschi, e con loro le cacce all'uomo. Ben poche delle persone investite dalla guerra in casa furono senza dubbio carnefici, o divennero vittime senza scampo. La verità è che tutti cercarono, ogni giorno, di prendere decisioni e di sopravvivere in un contesto sempre più difficile, in una dimensione esistenziale che non può coesistere con facili schematismi, ma è immersa nel grigio della nebbia morale. Come hanno fatto loro i conti con quel passato? E come li abbiamo fatti noi? L'Italia dei venti mesi di guerra civile (1943-1945) è tutt'oggi un campo di battaglia storiografico. Le responsabilità, gli eroismi, le ragioni e i torti occupano ancora molta letteratura storica e divulgativa. Gli occhi sono puntati sui nazisti, oppure sugli ebrei, oppure sui partigiani. Con questo libro, Carlo Greppi compie un'operazione del tutto originale e riesce a spostare la questione al di fuori del terreno consueto, impostando la sua ricerca alla scoperta del vissuto, delle storie e delle vite degli "uomini in grigio", cercando di restituire al lettore una visione non deformante di quel momento storico. Un modo nuovo di scrivere la storia. Il periodo più buio dell'Italia novecentesca. E una domanda: cosa sarebbe stato ciascuno di noi sotto la Repubblica di Salò?

(dal risvolto di copertina di Carlo Greppi, "Uomini in grigio, storia di gente comune nell’Italia della guerra civile", Feltrinelli, pp. 377, € 29 )

greppi libro

Quelli che tra il Duce e la Resistenza aspettavano che passasse la “nuttata”
- di Giovanni De Luna -

Arriva la polizia e si porta via il vostro vicino. Può essere un ebreo, un partigiano, uno qualunque. Vi siete mai chiesti cosa avreste fatto se, tra il 1943 e il 1945, nell’Italia occupata dai tedeschi, vi foste trovati anche voi in una situazione di questo tipo? Avreste applaudito ai carnefici? Cercato di aiutare le vittime? O avreste «guardato», scrutato da una finestra, aspettando la fine della guerra convinti che il vostro ruolo sarebbe stato sempre e comunque quello di «spettatori»?
La ricerca dell’anonimato
In quei due anni, milioni di persone hanno vissuto aspettando che la «nuttata» passasse, schiacciate tra il consenso e la paura, tra il coraggio e la vergogna di «vivere tempi che sarebbero stati giudicati». Sono gli uomini e le donne che popolano una zona grigia sospesa tra le vittime e i carnefici; un pezzo di umanità che è certamente esistita ma che, dal punto di vista storiografico, ha assunto i contorni incerti di una nebulosa difficile da decifrare. I carnefici hanno lasciato una documentazione sterminata delle loro nefandezze; le vittime anche, delle loro sofferenze. Ma gli spettatori? Non uno slancio di protagonismo, una impennata: solo la ricerca ostinata di un anonimato destinato a non lasciare tracce, a nascondere, a mimetizzare.
Alla «zona grigia» è dedicata una parte de I sommersi e i salvati di Primo Levi (che ne sottolinea «il contagio di un potere che cerca complicità anche tra i perseguitati»); la «zona grigia» di quelli che «non scelsero» da che parte stare è stata celebrata da uno storico come Renzo De Felice ed è stata esaltata dalla pubblicistica revisionista; sulla «zona grigia» erano calati gli anatemi dei partigiani combattenti che ne sottolineavano un opportunismo e una viltà di fondo. Pure, in tutte queste definizioni restava sempre qualcosa di inafferrabile, dovuto proprio all’assenza di tracce documentali, testimonianze dirette in grado di forzare una pesante cappa di silenzi e dissimulazioni.
Vittime e carnefici
Ora un giovane storico italiano, Carlo Greppi, ci ha provato con un libro coraggioso e innovativo, Uomini in grigio, storia di gente comune nell’Italia della guerra civile (in uscita domani per Feltrinelli, pp. 377, € 29), che apre ampi squarci di luce in quella nebulosa. I documenti sui quali si fonda la sua ricerca sono i fascicoli dei processi avviati contro i collaborazionisti nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945. In passato questi archivi erano stati esplorati soprattutto in chiave giudiziaria, contribuendo a spiegare la mancanza di una Norimberga italiana. Greppi li ha invece studiati con un taglio quasi antropologico, restituendo a quel grigio i colori vivi di un’umanità scrutata senza indulgenze, ma anche senza furori vendicativi. A risaltare, così, è una «strategia della sopravvivenza» ingenua, furbesca, rassegnata, cinica, ma comunque sempre riconoscibile in tutte le giravolte, i compromessi, le contraddizioni che segnano una sconfinata voglia di vivere, di tenersi al riparo dalle bufere della grande storia per continuare a consumare il più possibile la propria piccola storia.
Gli uomini e le donne che si inseguono nelle pagine del libro intrecciano i percorsi più diversi. Anche chi è indiscutibilmente vittima e chi è indiscutibilmente carnefice appaiono circondati da una folla di personaggi che rendono più sfumati i loro ruoli, meno netti i loro confini di appartenenza.
Antonio M., ad esempio, è un brigadiere della Guardia nazionale repubblicana, «un uomo che non dava ordini, li eseguiva, e che fu incriminato per le sue azioni». Alla fine della guerra, il suo processo per collaborazionismo diventa una sorta di palcoscenico per la «rappresentazione» della zona grigia: i testi dell’accusa e quelli della difesa lo fanno rimbalzare di volta in volta nelle file dei carnefici o in quelle di chi si è impegnato a soccorrere le vittime: aveva arrestato e torturato partigiani; no, aveva aiutato famiglie ebree e si era adoperato per lenire le sofferenze dei detenuti nella caserma torinese di via Asti. Intorno a lui si muove una folla di portinaie, operai, avvocati più o meno loschi, partigiani o sedicenti tali, aguzzini dichiarati, un sacerdote bastonatore (don De Amicis), disertori, gente normale, delatori, spie, eroi della Resistenza (Carlo Pizzorno).
Italo Momigliano è invece un ebreo, destinato alla deportazione e alla morte nel Lager. Una vittima, quindi, che debutta nel libro attraverso le lettere che scrive a Regina, sua moglie, nel giugno del 1940, da una Parigi appena occupata dai tedeschi, restituendoci una lenta discesa agli inferi alla quale porrà termine ritornando a Torino per incontrare qui, sulla collina, il suo terribile destino: «in Italia […] sarò in patria e potrò far valere la mia qualifica di ex combattente al fine di trovare lavoro in condizioni di parità», scriveva il 14 gennaio 1942, comunicando a Regina la sua tragica illusione.
Un’ombra lunga sul futuro
Il carnefice di Momigliano, quello che riesce a stanarlo e a catturarlo, è una spia, Antonio Franzolini, nome in codice K9: è arrivato a Torino da Udine per continuare il suo mestiere di cacciatore di ebrei. Nella terra di mezzo, tra Momigliano e Franzolini, ci sono i luoghi della tortura e dell’attesa (la caserma di via Asti della Gnr o le carceri Nuove), i fascisti integrali (il federale Giuseppe Solaro) e quelli che tirano a campare, tanti, tanti campioni del doppio gioco e della trattativa a cui si lega la sorte di Momigliano. Nel marzo del 1944, Gastone Serloreti, capo dell’Upi, in cambio della revoca da parte del Cln della sentenza di morte emessa contro di lui, si impegnò a far cessare le sevizie contro i detenuti di via Asti.
Alla fine, tutte queste figure, anche le più sbiadite, tendono ad assumere una loro fisionomia. E la «zona grigia» si materializza, acquista concretezza storiografica, proiettando la sua ombra lunga sull’Italia del dopoguerra. Veramente i venti mesi della Resistenza furono troppi per i lutti e le sofferenze da cui furono segnati, ma furono troppo pochi per riuscire a scalfire il peso di comportamenti che appartenevano a un’Italia profonda, ansiosa solo di tranquillità e di un sollecito ritorno alle abitudini di sempre, senza più nessuno a disturbare gli «spettatori».

- Giovanni De Luna - Pubblicato il 13 aprile 2016 su La Stampa/Cultura -

lunedì 25 aprile 2016

Ulisse

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Valtellina. Novembre 1994. Il settantenne Ulisse Bonfanti attende Mario Ferrari davanti al bar e lo ammazza a picconate. E, alla gente che accorre, dice di chiamare i carabinieri, che vengano a prenderlo, lui ha fatto quello che doveva.

Erano quarantotto anni che Ulisse mancava da quei monti. Dopo avere lavorato tutta la vita con la madre Giuditta in una fabbrica tessile della Valsusa, è tornato e si è rifugiato nella vecchia baita di famiglia, o almeno in quel che ne è rimasto dopo un incendio appiccato nel 1944.
Non un fiato, non un filo di fumo, non una presenza tutto intorno. In questo abbandono, tormentato da deliri e allucinazioni, Ulisse trascorre l’ultima notte di libertà: riposa davanti al camino, cammina nei boschi, rivive la tragedia che ha marchiato la sua esistenza. Dimenticato da tutti, si rinchiude come un animale morente in quella malga dove nessuno si è avventurato da decenni. I ricordi della povertà contadina, della guerra, della fabbrica, delle tragedie familiari, si alternano in una tormentata desolazione. Una desolazione che nasce dal trovarsi nel paese dove, nel 1946, è morta la sorella Nerina.
È la stessa Nerina a narrare quanto accaduto. Uno di fronte all’altra, la neve sullo sfondo, Ulisse e la giovane sorella si raccontano le verità di sangue che rendono entrambi due fantasmi sospesi sul vuoto della Storia.
Dopo La fabbrica del panico, Stefano Valenti fa della morte violenta di una giovane donna il trauma di un uomo, ossessionato dalla religione, e al contempo il trauma di tutta una stagione civile del nostro paese. Con una scrittura febbrile e allucinata, Valenti evoca passioni, crudeltà, tensioni mai sopite, destini che devono trovare compimento e voce.
 
E senza darmi conto, dice Ulisse, non chiamavo il Creatore con l’attenzione di prima, lo sgomento di prima, ma lo convocavo di frequente in nome della rivoluzione.

(dal risvolto di copertina di: Stefano Valenti: Rosso nella notte bianca, Feltrinelli)

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Ulisse, allucinato killer per conto della Storia
- di Angelo Ferracuti -

Viene dal passato il personaggio del romanzo "Rosso nella notte bianca" di Stefano Valenti (Feltrinelli, in uscita il 31 marzo, pp.128. euro 12), così come è un ritorno la lingua che muove la sua fisionomia, quella di una letteratura oggi considerata da molti massimalista e inattuale, viene dal ’900 italiano, arriva dai vinti del secolo scorso. Non a caso il suo nome è Ulisse, ha fatto il partigiano sulle montagne lombarde, poi per tanti anni l’operaio e il militante di base del Pci, devoto a Gesù Cristo e al comunismo, è matto e allucinato come la lingua che parla, la sua «mente è un incendio, un dolore forte, come un roditore che rosicchi dentro il cranio».
È il novembre del 1994 e quasi ottantenne, «affetto da emicranie, da incubi di natura religiosa», è tornato pieno d’odio e accecato d’ira nella sua baita in Valtellina, dove «l’Adda è un fiume di bruma», dentro un paesaggio che sembra lo stesso di Una questione privata di Beppe Fenoglio sul quale la scrittura vertiginosa di questo libro s’intona, la cui citazione posta in epigrafe è una chiara dichiarazione di poetica.
È la voce di Milton, l’alter ego dello scrittore di Alba, che rispondendo a un vecchio che lo incita ad ammazzarli tutti i nazifascisti, risponde secco: «Li ammazzeremo tutti, siamo d’accordo». Stessi camminamenti e cupe descrizioni di paesaggio di quell’epica lontana, così come la neve, che sembra un elemento temporale che cristallizza il tempo, lo spazio dove pendolareggia tra passato e presente il racconto, stesso crudo realismo con improvvise impennate liriche, così come l’incedere di passi e battiti del cuore.
Ulisse Bonfanti è tornato dalla Valsusa nella malga dove è cresciuto ed è stato ragazzo, nel microcosmo dove è diventato uomo, per fare i conti non solo con la propria vicenda, quella della sua famiglia, ma con la Storia. «Mettere ordine nelle cose» dice, «sono tornato a mettere ordine nelle cose». Ma non è tornato solo per vendicarsi, prendere a picconate Mario Ferrari, il traditore che aveva accompagnato in casa sua i fascisti arrivati fin lì per catturarlo mezzo secolo prima, ma il suo è anche il ritorno di un personaggio-uomo che sembrava estinto con l’Epoca, franato con i crolli del novecento, rimasto travolto nelle eclissi dell’ideologia comunista. Dopo, trascorre l’ultimo giorno di libertà in quello che resta della sua casa, vaga per le campagne, ripercorre la sua vita, quella dei suoi famigliari, della gente della valle, nella memoria esplosa.
La prosa abilmente inventata da Valenti è ritmica, scarna e scabra, non priva di una sua ruvida pronuncia, concentrata e martellata, compulsiva, un flusso di coscienza inarrestabile e una macchina narrativa che pare alimentarsi dalle ruote dentate di un oscuro ingranaggio psicotico. La voce che racconta in terza persona a tratti cede la parola al personaggio centrale, o a sua madre Giuditta e alla sorella Nerina, in quello che è anche un esperimento riuscito di rielaborazione di un universo narrativo che sembrava estinto dentro un conio realista, come se Valenti ne reclamasse l’urgenza formale e sociale, e in questo modo volesse compiere dentro una operazione estetica anche quella che ha soprattutto lo scopo politico e l’istinto storico di cui parlava Orwell.
Il libro ha molti antenati e discendenti, certamente Fenoglio per l’epopea partigiana e i microcosmi da provincia dell’anima, ma anche Volponi, quello del Memoriale di Albino Saluggia, il contadino scampato alla seconda guerra che entra in fabbrica e si ammala, un elemento che ritorna anche in questo libro ma era già presente ne La fabbrica del panico, il libro d’esordio dell’autore. Come è presente anche la rielaborazione di un parlato popolare, quello sepolto della civiltà contadina che Nuto Revelli ha riportato alla luce nei suoi lacerti in molti libri-documento, come l’Autobiografia della leggera di Danilo Montaldi.
 
Valenti di tutta questa letteratura ne fa un recupero narrativo ma soprattutto antropologico, ricostruendo lingua e Storia, la lingua contadina e operaia dei doveri, degli obblighi, delle privazioni, quella de La malora, tanto per rimettere in circolo un altro romanzo verista di Fenoglio, come la lingua rabbiosa della lotta di classe e della rivolta, quella disperata ma vitale della sconfitta. La sua costellazione è questa, peraltro dettagliata nella nota finale, dove figurano non a caso anche Franco Fortini e Mario Rigoni Stern, ai quali aggiungerei un altro picaro scrittore e operaio, cioè Luigi Di Ruscio, soprattutto nelle invettive di classe quando nomina il «Noi» collettivo, o Ulisse invoca Dio. Questo mi pare, al di là della presa forte del romanzo, la lettura senza fiato che l’autore ci costringe a fare, un elemento decisivo che conferma questo traduttore (di Zola, Verne) arrivato tardivo alla narrativa anche con intento critico, e ne fa una delle voci più forti della nostra recente letteratura.
Ulisse ricorda con rabbia nel suo lungo ragionamento, dove l’autore nello spazio breve di un lungo racconto con il passo e l’intensità di un romanzo, ricompone la storia della sua gente, i contadini valtellinesi che per scappare dalla miseria dei monti andarono a lavorare in fabbrica in Valsusa, nell’omonimo cotonificio diventando classe operaia. La narrazione a volte si moltiplica con i suoi echi eccitati di memoria, il narratore racconta Ulisse che racconta sua madre Giuditta: «Così, in cambio del salario, abbiamo accettato la fabbrica, dannazione della miseria, dannazione di tutte le dannazioni», invoca. Perché «nei monti non eravamo esseri umani, non eravamo uomini e donne, nei monti eravamo bestie». È in fabbrica che Ulisse diventa un ribelle: «La mia vita è una condanna perché è una condanna l’ordine in cui viviamo, l’ordine del mercato, dice Ulisse, e dice che questo è l’ordine più inumano di tutti, di tutti gli ordini, un incubo per chi non ha patrimoni, non nasce in famiglie che hanno influenza e non può contare altro che sul proprio lavoro».
Il libro è composto di sei partiture, in un crescendo di strazio e d’intensità, dall’arrivo di Ulisse, i ricordi del parentado, la morte della madre e le malattie nervose, nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, la fabbrica «Grande madre», fino all’ultimo «La troia Italia», citazione da Foglio di via di Franco Fortini, dove il passato si collega al presente. Anche se quello che di questo libro resta nel profondo e colpisce, non sono tanto i fatti, la tramatura intrecciata nel delirio di Ulisse, la corrente alternata dei suoi arrovellati ragionamenti, ma la natura del racconto, la scrittura corporale, sensoriale, fatta di nervi scoperti, del sangue e del dolore degli ultimi, la sua necessità espressiva in questo tempo che cancella, un organismo che Valenti monta e modella con grande bravura, senza mai cedimenti. Il buco nero e ossessivo di Ulisse è fermo all’estate del 1944, quando le montagne della Valtellina nel racconto diventano la città di Alba, e le Brigate nere stanno compiendo un rastrellamento ad ampio raggio, «e non lo dimentico quanto accaduto, non dimentico. Lo ricordo e lo ricordo» dice, quando una banda di fascisti fa irruzione nella malga incendiandola, raccontando allucinato alla sorella Nerina, la quale anche lei racconta delle violenze subite, mentre «andata via dentro al dolore e il dolore ha fatto tutto il resto» nel capitolo dove il romanzo raggiunge il suo acme emotivo ed espressivo.
Quando lo arrestano, in caserma dice al carabiniere che ha compiuto un’azione di guerra, e «mostra un documento in cui è detto che nel novembre del 1944 le Brigate Nere gli hanno bruciato la baita e che ora ha diritto a una pensione». Ulisse è tornato dentro la sua ferita, nella ferita della Storia, in un’Italia «dove estremisti di destra e nostalgici non sono isolati nel riconsiderare il fascismo, nel tenerlo in considerazione, e con loro politici, industriali, intellettuali», dove «l’estate ribelle è durata un attimo e subito è arrivato l’inverno della conservazione». Proprio in quel punto nevralgico in cui questo romanzo di forte impegno civile salda urgenza morale e formale.

- Angelo Ferracuti - Pubblicato su Il Manifesto del 29 marzo 2016 -

domenica 24 aprile 2016

De Omnibus Dubitandum Est

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De Omnibus Dubitandum Est
(Intervista a Gianfranco Sanguinetti della rivista praghese Literarni Noviny)

1) Come decidere quale mezzo di comunicazione è affidabile? C'è qualche regola dettata dal buon senso per farlo?

Religione e politica si appoggiano entrambe sulla credulità delle persone, e la credulità Si basa sull'ignoranza. Si rende pertanto necessario costruire l'ignoranza della gente, per poter poi costruire sulla credulità. Poi, con la credulità si può far tutto. Allo stesso modo in cui avveniva con il sermone del prete, la stampa ufficiale, e con essa la TV, partecipano con successo alla fabbricazione dell'ignoranza informata. Ma, nell'epoca dell'informazione, paradossalmente, la gente non sa niente: esiste soltanto quello di cui si parla; ciò di cui non si parla, non esiste, scompare. La gente non sa neppure ciò che mangia né ciò che beve, né quanto sia il tasso di erbicida glisofato (Roundup) cancerogeno della Monsanto presente nel loro corpo, dal momento che non viene loro comunicato con esatteza [*1]. Allo stesso modo in cui ci si nutre di veleni, senza saperlo, ci si nutre della stampa avvelenata.

Il filosofo Seneca, il quale, in quanto consigliere dell'imperatore Nerone, aveva imparato a conoscere i popoli, diceva "Unusquisque mavult credere quam iudicare": "Ciascuno preferisce credere che giudicare". E' su questa debolezza umana che si costruisce la credulità.

Un altro filosofo, Hegel, diceva che "la lettura del gazzettino è la preghiera mattutina dell'uomo moderno". Naturalmente, con questo sottintendeva che per pregare bisogna credere. Ma aggiungeva anche che "nell'opinione pubblica c'è tutto il falso e tutto il vero: trovare il vero è opera del grande uomo" [*2].

Oggi l'opinione pubblica è rappresentata da Internet - dove c'è tutto il vero e tutto il falso - e non dalla stampa ufficiale, dove si trova solamente un narrazione amputata e disposta in modo da intossicare le persone cui è diretta. E' su Internet che il buon senso deve distinguere il vero dal falso.

Il buon senso aiuta, ma non basta. La ricerca della realtà delle cose è diventata, come nelle scienze fisiche, un lavoro scientifico, in quanto la realtà è un segreto nascosto talmente bene che non basta guardarla per vederla. E normalmente le persone non hanno né il tempo né la possibilità di fare tali ricerche. Il virus Zika, o il virus dell'influenza aviaria o quello dei suini, oppure Ebola, sono degli affari torbidi del valore di molti miliardi di dollari l'anno, non solo per la Big Pharma, ma anche per la stampa ufficiale, che ha il compito di fare terrorismo dell'informazione in tutti i paesi. Già nel 2005, il presidente Bush aveva destinato 7,1 miliardi di dollari alla prevenzione delle pandemie [*3]. Dopo questa pioggia di soldi, è chiaro che i virus arrivano. Ci si chiede se questo denaro sia stato utilizzato per prevenire le epidemie o, al contrario, per diffonderle. Nel 2009, alcuni scienziati cechi hanno scoperto che l'americana Baxter aveva deliberatamente mescolato nei suoi vaccini contro l'nfluenza H3N2 il pericoloso virus dell'influenza aviaria H5N1, per diffonderla in Ucraina. Fortunatamente, la cosa venne denunciata da un giornale ceco. Per una volta, ma eccezioalmente, il disastro mondiale venne evitato grazie ad un giornalista onesto. Ma lo scandalo venne completamente insabbiato dalla stampa ufficiale internazionale [*4]. Prima di accettare un vaccino per la popolazione, dovrebbero essere pubblicamente vaccinati tutti i manager e gli scienziati che lo hanno preparato: ecco una legge da adottare d'urgenza.

Per non parlare del grande business del terrorismo propriamente detto. Come potrebbe resistere alla tentazione la stampa ufficiale? Infatti, non resiste mai, dal momento che fa parte dell'operazione. Vive di questo.

L'unica buona regola è quella di dubitare di tutto quello che la grande stampa ci racconta (De omnibus dubitandum est); di diffidare delle notizie troppo ripetute e che forniscono troppi dettagli; di non prendere mai per vero ciò che è soltanto verosimile; di leggere tutte quelle piccole notizie pressoché nascoste.

2) Come descriverebbe gli attuali media ufficiali?

La stampa ufficiale è un potere economico, politico e militare, un territorio sorvegliato dove è vietato l'accesso ad ogni libertà di espressione. Peggio ancora: non c'è nemmeno libertà di intepretazione da parte del lettore, in quanto ciascuna notizia contiene già l'algoritmo per la sua lettura "corretta". Le notizie vengono fabbricate secondo la reazione pavloviana che si vuole ottenere. E la si ottiene. Paradossalmente, sono i giornalisti coloro ai quali, da un lato, viene completamente negata l libertà d'espressione, e dall'altro, a forza di non conoscerla, finiscono per non amarla. In ogni caso, devono sorvegliare spietatamente sé stessi e fare un esercizio di rigorosa e costante auto-censura. Un articolo che sveli determinate cose può procurare danni per miliardi a questa o a quell'altra impresa, oppure la caduta di un governo; quindi per i giornalisti ne va del loro lavoro, della loro carriera e talvolta della loro vita.Dall'oligarchia proprietaria del giornale viene loro proibito perfino di evocare certi argomenti: sollevare dubbi o critiche sulla versione ufficiale è molto pericoloso, e lo sanno bene. Per ricordarglielo, di tanto in tanto se ne punisce severamente qualcuno, al fine di educare tutti gli altri. Sono le prime vittime della non-libertà di espressione, e lo sanno bene, ma allo stesso tempo sembrerebbe che la maggior parte dei giornalisti non abbia niente da esprimere, né da contestare, riguardo questa scandalosa realtà. Fra di loro, le persone coraggiose sono molto rare. Allo stesso tempo, i giornalisti sono essenziali per poter scatenare una guerra, o per nasconderla: perciò sono indispensabili per qualsiasi potere.

La realtà non è più un semplice oggetto di informazione ma subisce un trattamento nella "comunicazione", e la "comunicazione" ha le sue ferree regole, è una specialità da spin doctor, il cui fine è quello di confezionarla e gestirla per condizionare determinate reazioni psicologiche pavloviane da parte del pubblico e creare in tal modo un consenso favorevole alle scelte del potere politico ed economico. Poiché viviamo in una "società dello spettacolo", assai spesso le notizie vengono create e messe in scena per mezzo della foto e del film, come i cadaveri di Timosoara tirati fuori dall'obitorio per essere fotografati, o i manifestanti di Maidan, o le esecuzioni dello Stato islamico. Lo stesso Stato islamico è un prodotto della "comunicazione".

Ron Suskind, che dal 1993 al 2000 è stato editorialista del Wall Street Journal, e a partire dal 2000 autore di diverse inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, ha riferito che, un anno dopo l'11 settembre, Karl Rove, spin doctor di George W. Bush per i suoi due mandati, aveva detto: "Siamo un impero, attualmente, e quando agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate questa realtà, giudiziosamente, come più vi piace, noi agiamo nuovamente e creiamo altre nuove realtà, che potete studiare a loro volta, ed è così che le cose accadono. Siamo gli attori della storia (...). E a voi, a voi tutti, non rimane altro che studiare ciò che noi facciamo" [*5].

Quindi, a partire dall'11 settembre, in America è stata perfezionata una strategia che Ira Chernus, professor all'Università del Colorado, definisce come "strategia di Sherazade": "Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare delle storie - dello storie talmente favolose, così accattivanti, così avvincenti che il re (o, in questo caso, i cittadini americani che, in teoria, governano il nostro paese) dimenticherà la sua condanna capitale" [*6].

E così si racconta al mondo intero la favolosa epopea del cattivo Bin Laden nella sua caverna in Afghanistan, che dirige gli attentati in America. E poi il suo epico assassinio holliwoodiano, poco prima delle ultime elezioni presidenziali. Senza il trattamento fattone dalla stampa ufficiale, non ci sarebbe nessun terrorismo, da nessuna parte, e molti giornalisti perderebbero il loro lavoro. Lo sanno, quindi trattano l'argomento con compiacenza e rafforzandone i dettagli, senza mettere mai in dubbio le versioni ufficiali.

La stampa ufficiale è un'arma di distrazione di massa: non deve mai parlare dei veri problemi della gente né di quelli della nostra epoca, ma deve saper raccontare certe storie, come si fa coi bambini per farli addormentare. Perciò, da un lato censura, nasconde e manipola la realtà, dall'altro lato è obbligata a crearne un'altra, e a parlare di quest'altra realtà per distrarre e ipnotizzare le persone. Se qualcuno, fra un secolo o due, leggesse i giornali di oggi, conoscendo la vera storia di quello che accade, ed i rischi attuali e i disastri che si preparano, dovrebbe concludere che la stampa dell'inizio del 21° secolo è stata completamente schizofrenica, cieca, separata dalla realtà. In realtà, non è né cieca, né schizofrenica. E' solo pagata per fare questo.

3) Ci può fare qualche altro esempio concreto?

Dopo Fukushima molti paesi, fra cui la Germania e la Svizzera, hanno fermato completamente e cancellato il loro programma nucleare, ma tutto questo è passato quasi del tutto inosservato. Il disastro di Fukushima è stato un duro colpo per le lobby nucleari: hanno dovuto spendere più soldi per cercare di nascondere le conseguenze della catastrofe di Fukushima di quanti ne hanno spesi per rimediare al disastro stesso. La stampa ufficiale ha guadagnato molti soldi, in quanto si guadagna altrettanto bene quando si tace a proposito del fatto che la gente muore di cancro: il ramo più essenziale della "comunicazione" è la "non comunicazione". Se una banca si trova sul punto di fallire, questa banca spenderà gli ultimi soldi dei suoi clienti per mettere a tacere la grande stampa.

In Francia ci sono 58 reattori nucleari, di cui la maggior parte sono molto vecchi e pericolosi, e preoccupano enormemente la Germania, la Svizzera e l'Italia. Queste centrali sono state costruite in un'epoca nella quale l'equilibrio delle potenze impediva la guerra. Ora ci troviamo in tutt'altra epoca, dove già si combatte, da quindici anni, una sporca guerra non dichiarata, asimmetrica e non ortodossa, con mezzi perfidi come il terrorismo, la fabbricazione di crisi finanziarie, le migrazioni guidate: questi reattori nucleari sono diventati altrettanti obiettivi, delle vere e proprie bombe al plutonio che vengono stupidamente coltivate nel proprio giardino, e che possono sterminare generazioni di bambini francesi e degli altri paesi intorno. L'Europa si trova oggi al centro di un uragano mondiale. Un generale francese ha dichiarato, a ragione, che un paese nuclearizzato non è difendibile, ed io credo che ogni persona d'intelligenza media ne converrà. Una sola bomba ben piazzata può provocare un'apocalisse nucleare e mettere in ginocchio un'intera nazione.

Ora, la stampa francese è pressoché tutta sovvenzionata dalla lobby nucleare, e nasconde tutti gli incidenti, i rischi ed i problemi, così come quello che accade altrove. Non bisogna allarmare le popolazioni. Nella misura in cui si tratta di una questione veramente europea, assai più del formaggio Camembert, su cui si legifera a Bruxelles, si deve concludere che la stampa ufficiale deve vendere assai caro il suo silenzio!

Ci si potrebbe anche domandare perché non ci sia un solo giornale in Europa che pubblichi le clausole segrete del Trattato Transatlantico (TTIP). Perché devono restare segrete? I deputati europei le conoscono, ma sono corrotti. Verranno pubblicate solamente dopo essere state imposte ai popoli. Ecco la democrazia.

Le menzogne e le contro-verità diffuse sul colpo di Stato nazista in Ucraina, apertamente orchestrato e finanziato dall'America e dall'Europa, mentre Putin era occupato a causa dei giochi olimpici di Soci, così come le calunnie sulla guerra civile contro la popolazione russofona che ne è seguita, hanno squalificato per sempre la stampa ufficiale occidentale, la quale ha le mani sporche anche di sangue ucraino, a mille chilometri da casa nostra. Ecco ancora la democrazia.

Si può dire, per rispondere alla sua domanda, che la stampa ufficiale è de facto un paravento criminale eretto per impedire alle persone di vedere la realtà. E la realtà è che tutte le popolazioni non contano niente, sono ostaggio dei diversi poteri ed interessi, che possono massacrarle impunemente quando vogliono e come vogliono, ieri a Parigi e a Bruxelles, l'altro ieri a Fukushima, domani forse a Roma o a Berlino o a Praga.

4) Ha ancora senso parlare di libertà di stampa, quando la maggioranza dei media è nelle mani di oligarchi?

A Milano, avevo un grande professore di storia e filosofia, il quale mi aveva colpito la fantasia argomentando puntualmente come ciascun'epoca scriva dappertutto i nomi di quelle stesse cose che si impegna maggiormente a far sparire. Quindi, se la nostra epoca parla tanto di democrazia, di libertà, di libertà di espressione, di diritti umani, ecc., sappiamo bene perché lo fa. Vi chiedo: quale libertà d'espressione ci può essere in un'epoca in cui il libero pensiero viene soppresso? E anche la realtà. Una volta soppresso il pensiero e la realtà, di cosa si può parlare? Poiché la stampa è un'arma così potente. devono possederla un pugno di oligarchi di fiducia. Queste sono persone corrotte, che, quando necessario, possono essere ricattate.

Ai tempi di Breznev, c'era una barzelletta russa piuttosto spirituale che mi raccontava mia madre, Teresa Mattei, ex comandante partigiana e terrorista in tempo di guerra contro i nazisti e i fascisti, poi espulsa dal Partito comunista italiano [*7]: nel corso della tradizionale sfilata militare sulla Piazza Rossa, per l'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre, Breznev presenta ai capi di Stato stranieri l'ultima invenzione sovietica: la straordinaria macchina del tempo. Quindi Breznev richiama in vita Alessandro il Macedone, davanti alle televisioni di tutto il mondo, e gli domanda cosa avrebbe fatto con le armi ed i missili che vedeva sfilare? Alessandro risponde che con quelle armi non si sarebbe fermato in Persia, ma sarebbe arrivato fino all'India e alla Cina. Breznev richiama poi in vita Giulio Cesare, il quale risponde che con quelle armi non si sarebbe fermato alla Germania e all'Inghilterra ma che avrebbe conquistato tutta l'Europa e tutta l'Africa. Subito dopo arriva il turno di Napoleone, cui Breznev pone la stessa domanda. Napoleone non si mostra per niente impressionato, e domanda a Breznev di mostrargli il giornale che ha in tasca. Breznev allora tira fuori la Pravda, cosa che interessa Napoleone molto più dei carri armati e dei missili. Dopo cinque minuti di silenziosa lettura e di suspense, esclama: "Ah! Ecco l'arma che mi mancava! Se solo avessi avuto quest'arma ai miei tempi, tutto il mondo avrebbe creduto che a Waterloo avevo vinto".

Per rispondere in maniera più precisa alla sua domanda, la stampa è "la libertà" solo per gli oligarchi che la posseggono, e tale libertà è inversamente proporzionale a quella di coloro che la leggono.

5) Le persone sono in grado di prendere decisioni qualificate, diciamo durante le elezioni, sulla base delle informazioni dei media?

Nelle nostre democrazie non è previsto che le persone decidano a proposito di nessuna cosa importante. E' previsto il contrario, piuttosto. Colui che viene chiamato il cittadino, fiero e responsabile delle proprie scelte, e disposto a difenderle con le armi, se necessario, è scomparso con l'antica Atene, la Repubblica di Roma, la Firenze dei tempi di Dante e con la Rivoluzione francese. Oggi, non rimangono altro che elettori e consumatori. Tutte le scelte permesse non cambieranno mai le politiche - sempre imposte dall'esterno, dalla  burocrazia di Bruxelles, che obbedisce soltanto alle lobby e agli Stati Uniti. Forse i cechi ignorano che in Italia il governo è già il terzo governo non eletto che è stato imposto dall'esterno; probabilmente non sanno che l'attuale Parlamento è il secondo ad essere stato giudicato illegittimo dalla Corte costituzionale, e tuttavia rimane in carica. Per esempio, gli italiani hanno votato nel 2011 un referendum contro la privatizzazione dell'acqua, con una schiacciante maggioranza di 26 milioni: eppure l'acqua continua ad essere privata. In Francia ed in Italia il Parlamento non legifera più: approva i decreti imposti dal governo; non c'è più separazione fra potere esecutivo e potere legislativo; e l'indipendenza del potere giudiziario viene quotidianamente contraddetta. La corruzione dei parlamentari ha raggiunto un livello mai immaginato prima: un deputato italiano guadagna 46.000 euro al mese, esentasse, più una ricca pensione e molti benefici, cosa che la stampa non rammenta mai [*8]. Perciò la strada è tracciata: viviamo in regimi post-costituzionali. Sono sparite anche le forme della democrazia. Tuttavia, queste cose scandalose non sembrano turbare la stampa ufficiale italiana o francese, dal momento che non ne parla mai: per essa, evidentemente, si tratta di un dettaglio trascurabile. Quando le banche falliscono (in Italia, cinque o sei in tre mesi) la stampa non utilizza mai la parola fallimento. Si tratta di una non notizia. Eppure ci sono due o trecentomila persone che hanno perso tutto, e chi si è suicidato a causa di questo. Malgrado la grande immigrazione che l'Italia conosce, sono il doppio i giovani italiani, tutti laureati che ogni anno lasciano l'Italia. La stampa ufficiale, per non parlare di certe cose, che sono più grandi e più alte del Monte Bianco, deve avere delle buone ragioni. In dieci anni ha perso circa fra la metà ed il 70% dei suoi lettori, sia in versione cartacea che elettronica, e lo ha senz'altro meritato.

Oggi gli europei vengono distratti in mille modi, ma soprattutto dopo che è loro stato imposto l'Euro, sono sottoposti ad un crudele tormento economico: in Italia sono depressi e senza speranza, hanno perduto la volontà di combattere; le famiglie sono strangolate dalle tasse, la crisi è grave, la disoccupazione enorme, l'immigrazione continua. Nondimeno l'Italia rimane un caso interessante, in quanto è un campo di esperienza da 2.500 anni, è di lì che è passata la storia, e ci ha soggiornato a lungo, non a Mosca o a New York, e quindi è l'Italia che indica la strada agli altri: è lì che hanno inventato la repubblica, l'impero, il papato, la scienza, la storia, le arti, la cucina, la politica, l'economia, la musica, l'architettura, la grande poesia, la scoperta del mondo e delle terre sconosciute, dalla Cina fino all'America, è lì che sono stati riportati in vita gli antichi codici dei maestri greci e latini; ma è anche lì che hanno inventato i veleni, l'inquisizione, la mafia, le banche, il fascismo, è sempre lì che hanno sperimentato per la prima volta il terrorismo false flag, che tanto successo ha avuto altrove. E' li che oggi sono più avanti nella costruzione di un regime post-costituzionale e nella distruzione di ogni democrazia formale. La Francia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo ne seguono già l'esempio. E poi il modello italiano verrà applicato ovunque.

Un altro esempio di censura completa e scandalosa è la Grecia, della quale si ignora che si trova in una situazione insurrezionale da sette anni: basta guardare su Youtube le violente manifestazioni che settimanalmente hanno luogo ad Atene. Si teme che l'esempio della Grecia venga seguito altrove, perciò lo si censura. Creare la realtà o farla sparire: ecco il compito della stampa ufficiale.

5) Può essere Internet la soluzione, nonostante la sua enorme vulnerabilità? In effetti è più complicato "hackerare" l'edizione stampata che l'edizione in rete.

L'informazione è una cosa, e la conoscenza e la saggezza sono altre due cose, le quali possono essere anche chiamate coscienza. Si può essere perfettamente sovrainformati e rimanere completamente imbecilli. Non c'è mai stata un'epoca tanto informata quanto la nostra, con popoli così privi di coscienza e di saggezza. Internet può essere assai utile a reperire delle informazioni su tutto ciò che la stampa ufficiale nasconde e censura, e questo è già molto: una sorta di enciclopedia. La sua vulnerabilità è ben reale, ma quella della stampa è davanti ai nostri occhi, grazie alla sua corruzione materiale ed intellettuale. Internet, che rassomiglia ad un'immensa biblioteca, esige tuttavia anche un certo talento, e bisogna saper cercare per trovare. Se apri le porte della Biblioteca Nazionale a persone che non sono in grado di leggere un libro a casa loro, non troveranno niente di interessante; Internet non aumenterà la loro capacità di evolvere nel labirinto del mondo. Rimarranno sulla porta del Klementinum [ N.d.T.: vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Clementinum ], come degli imbecilli, senza apprezzarne nemmeno l'architettura, non oso dire i tesori che si trovano all'interno.

Per fortuna, però, ci sono delle persone, anche con poca cultura, che hanno "il buon senso", la saggezza, che è una delle virtù più rare e più indispensabili. Sono scettici come il buon soldato Schweik, ed hanno più acume di molti professori universitari o di molti strateghi militari. Persone che tengono gli occhi ben aperti, attenti, vigili, non ingenui. Guardano il mondo, e spontaneamente sanno concludere rapidamente, ad esempio, che l'euro è un podvod [N.d.T.: ceco, sta per "frode-truffa"], così come lo è quest'impostura chiamata Europa.

Uno dei più grandi filosofi dell'antica Grecia, dove tutti nascevano filosofi, è Eraclito. Di lui ci rimangono circa 80 pagine. Scrive: "Il mondo è unico e comune per coloro che sono svegli; mentre nel sonno ciascuno si rinchiude nel suo proprio mondo particolare". Coloro che nel 21° secolo hanno il potere sul mondo, e quindi anche sulla stampa ufficiale, vorrebbero chiudere gli occhi a tutti i nostri contemporanei, addormentarli, per fare di loro ciò che vogliono, come è già stato fatto, con grandi risultati, nelle guerre mondiali del 20° secolo. Ma io continuo a credere fermamente che ci saranno sempre delle persone che non dormono. Saranno sia i primi a morire, sia i primi a salvarsi.

- Praga, 16 marzo 2016 -

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NOTE

[*1] - "Più del 99% dei tedeschi avrebbero tracce di glisofato rilevabili nelle loro urine."

http://www.lemonde.fr/planete/article/2016/03/09/les-trois-quarts-desallemands-seraient-exposes-au-glyphosate_4879272_3244.html

[*2] - G.W.F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto

[*3] - Baxter-lawsuit.pdf – Injunction Documents Final Version. 2009

[*4] - Cfr. http://outsidermedia.cz/Ockovanie-proti-chripke-kontaminovanesmrtelnym-virusom/

[*5] - Vedi la nota successiva

[*6] - Tutte le citazioni provengono da Le Monde

http://www.lemonde.fr/idees/article/2008/09/05/le-retour-de-karl-rove-le-scenariste-parchristian-salmon_1091916_3232.html#IPORbD8yY3WD1axa.99

[*7] - https://en.wikipedia.org/wiki/Teresa_Mattei

[*8] - http://www.disinformazione.it/stipendiodeputati.htm

(traduzione dal francese di Franco Senia, revisione di Gianfranco Sanguinetti)