Valtellina. Novembre 1994. Il settantenne Ulisse Bonfanti attende Mario Ferrari davanti al bar e lo ammazza a picconate. E, alla gente che accorre, dice di chiamare i carabinieri, che vengano a prenderlo, lui ha fatto quello che doveva.
Erano quarantotto anni che Ulisse mancava da quei monti. Dopo avere lavorato tutta la vita con la madre Giuditta in una fabbrica tessile della Valsusa, è tornato e si è rifugiato nella vecchia baita di famiglia, o almeno in quel che ne è rimasto dopo un incendio appiccato nel 1944.
Non un fiato, non un filo di fumo, non una presenza tutto intorno. In questo abbandono, tormentato da deliri e allucinazioni, Ulisse trascorre l’ultima notte di libertà: riposa davanti al camino, cammina nei boschi, rivive la tragedia che ha marchiato la sua esistenza. Dimenticato da tutti, si rinchiude come un animale morente in quella malga dove nessuno si è avventurato da decenni. I ricordi della povertà contadina, della guerra, della fabbrica, delle tragedie familiari, si alternano in una tormentata desolazione. Una desolazione che nasce dal trovarsi nel paese dove, nel 1946, è morta la sorella Nerina.
È la stessa Nerina a narrare quanto accaduto. Uno di fronte all’altra, la neve sullo sfondo, Ulisse e la giovane sorella si raccontano le verità di sangue che rendono entrambi due fantasmi sospesi sul vuoto della Storia.
Dopo La fabbrica del panico, Stefano Valenti fa della morte violenta di una giovane donna il trauma di un uomo, ossessionato dalla religione, e al contempo il trauma di tutta una stagione civile del nostro paese. Con una scrittura febbrile e allucinata, Valenti evoca passioni, crudeltà, tensioni mai sopite, destini che devono trovare compimento e voce.
E senza darmi conto, dice Ulisse, non chiamavo il Creatore con l’attenzione di prima, lo sgomento di prima, ma lo convocavo di frequente in nome della rivoluzione.
(dal risvolto di copertina di: Stefano Valenti: Rosso nella notte bianca, Feltrinelli)
Ulisse, allucinato killer per conto della Storia
- di Angelo Ferracuti -
Viene dal passato il personaggio del romanzo "Rosso nella notte bianca" di Stefano Valenti (Feltrinelli, in uscita il 31 marzo, pp.128. euro 12), così come è un ritorno la lingua che muove la sua fisionomia, quella di una letteratura oggi considerata da molti massimalista e inattuale, viene dal ’900 italiano, arriva dai vinti del secolo scorso. Non a caso il suo nome è Ulisse, ha fatto il partigiano sulle montagne lombarde, poi per tanti anni l’operaio e il militante di base del Pci, devoto a Gesù Cristo e al comunismo, è matto e allucinato come la lingua che parla, la sua «mente è un incendio, un dolore forte, come un roditore che rosicchi dentro il cranio».
È il novembre del 1994 e quasi ottantenne, «affetto da emicranie, da incubi di natura religiosa», è tornato pieno d’odio e accecato d’ira nella sua baita in Valtellina, dove «l’Adda è un fiume di bruma», dentro un paesaggio che sembra lo stesso di Una questione privata di Beppe Fenoglio sul quale la scrittura vertiginosa di questo libro s’intona, la cui citazione posta in epigrafe è una chiara dichiarazione di poetica.
È la voce di Milton, l’alter ego dello scrittore di Alba, che rispondendo a un vecchio che lo incita ad ammazzarli tutti i nazifascisti, risponde secco: «Li ammazzeremo tutti, siamo d’accordo». Stessi camminamenti e cupe descrizioni di paesaggio di quell’epica lontana, così come la neve, che sembra un elemento temporale che cristallizza il tempo, lo spazio dove pendolareggia tra passato e presente il racconto, stesso crudo realismo con improvvise impennate liriche, così come l’incedere di passi e battiti del cuore.
Ulisse Bonfanti è tornato dalla Valsusa nella malga dove è cresciuto ed è stato ragazzo, nel microcosmo dove è diventato uomo, per fare i conti non solo con la propria vicenda, quella della sua famiglia, ma con la Storia. «Mettere ordine nelle cose» dice, «sono tornato a mettere ordine nelle cose». Ma non è tornato solo per vendicarsi, prendere a picconate Mario Ferrari, il traditore che aveva accompagnato in casa sua i fascisti arrivati fin lì per catturarlo mezzo secolo prima, ma il suo è anche il ritorno di un personaggio-uomo che sembrava estinto con l’Epoca, franato con i crolli del novecento, rimasto travolto nelle eclissi dell’ideologia comunista. Dopo, trascorre l’ultimo giorno di libertà in quello che resta della sua casa, vaga per le campagne, ripercorre la sua vita, quella dei suoi famigliari, della gente della valle, nella memoria esplosa.
La prosa abilmente inventata da Valenti è ritmica, scarna e scabra, non priva di una sua ruvida pronuncia, concentrata e martellata, compulsiva, un flusso di coscienza inarrestabile e una macchina narrativa che pare alimentarsi dalle ruote dentate di un oscuro ingranaggio psicotico. La voce che racconta in terza persona a tratti cede la parola al personaggio centrale, o a sua madre Giuditta e alla sorella Nerina, in quello che è anche un esperimento riuscito di rielaborazione di un universo narrativo che sembrava estinto dentro un conio realista, come se Valenti ne reclamasse l’urgenza formale e sociale, e in questo modo volesse compiere dentro una operazione estetica anche quella che ha soprattutto lo scopo politico e l’istinto storico di cui parlava Orwell.
Il libro ha molti antenati e discendenti, certamente Fenoglio per l’epopea partigiana e i microcosmi da provincia dell’anima, ma anche Volponi, quello del Memoriale di Albino Saluggia, il contadino scampato alla seconda guerra che entra in fabbrica e si ammala, un elemento che ritorna anche in questo libro ma era già presente ne La fabbrica del panico, il libro d’esordio dell’autore. Come è presente anche la rielaborazione di un parlato popolare, quello sepolto della civiltà contadina che Nuto Revelli ha riportato alla luce nei suoi lacerti in molti libri-documento, come l’Autobiografia della leggera di Danilo Montaldi.
Valenti di tutta questa letteratura ne fa un recupero narrativo ma soprattutto antropologico, ricostruendo lingua e Storia, la lingua contadina e operaia dei doveri, degli obblighi, delle privazioni, quella de La malora, tanto per rimettere in circolo un altro romanzo verista di Fenoglio, come la lingua rabbiosa della lotta di classe e della rivolta, quella disperata ma vitale della sconfitta. La sua costellazione è questa, peraltro dettagliata nella nota finale, dove figurano non a caso anche Franco Fortini e Mario Rigoni Stern, ai quali aggiungerei un altro picaro scrittore e operaio, cioè Luigi Di Ruscio, soprattutto nelle invettive di classe quando nomina il «Noi» collettivo, o Ulisse invoca Dio. Questo mi pare, al di là della presa forte del romanzo, la lettura senza fiato che l’autore ci costringe a fare, un elemento decisivo che conferma questo traduttore (di Zola, Verne) arrivato tardivo alla narrativa anche con intento critico, e ne fa una delle voci più forti della nostra recente letteratura.
Ulisse ricorda con rabbia nel suo lungo ragionamento, dove l’autore nello spazio breve di un lungo racconto con il passo e l’intensità di un romanzo, ricompone la storia della sua gente, i contadini valtellinesi che per scappare dalla miseria dei monti andarono a lavorare in fabbrica in Valsusa, nell’omonimo cotonificio diventando classe operaia. La narrazione a volte si moltiplica con i suoi echi eccitati di memoria, il narratore racconta Ulisse che racconta sua madre Giuditta: «Così, in cambio del salario, abbiamo accettato la fabbrica, dannazione della miseria, dannazione di tutte le dannazioni», invoca. Perché «nei monti non eravamo esseri umani, non eravamo uomini e donne, nei monti eravamo bestie». È in fabbrica che Ulisse diventa un ribelle: «La mia vita è una condanna perché è una condanna l’ordine in cui viviamo, l’ordine del mercato, dice Ulisse, e dice che questo è l’ordine più inumano di tutti, di tutti gli ordini, un incubo per chi non ha patrimoni, non nasce in famiglie che hanno influenza e non può contare altro che sul proprio lavoro».
Il libro è composto di sei partiture, in un crescendo di strazio e d’intensità, dall’arrivo di Ulisse, i ricordi del parentado, la morte della madre e le malattie nervose, nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, la fabbrica «Grande madre», fino all’ultimo «La troia Italia», citazione da Foglio di via di Franco Fortini, dove il passato si collega al presente. Anche se quello che di questo libro resta nel profondo e colpisce, non sono tanto i fatti, la tramatura intrecciata nel delirio di Ulisse, la corrente alternata dei suoi arrovellati ragionamenti, ma la natura del racconto, la scrittura corporale, sensoriale, fatta di nervi scoperti, del sangue e del dolore degli ultimi, la sua necessità espressiva in questo tempo che cancella, un organismo che Valenti monta e modella con grande bravura, senza mai cedimenti. Il buco nero e ossessivo di Ulisse è fermo all’estate del 1944, quando le montagne della Valtellina nel racconto diventano la città di Alba, e le Brigate nere stanno compiendo un rastrellamento ad ampio raggio, «e non lo dimentico quanto accaduto, non dimentico. Lo ricordo e lo ricordo» dice, quando una banda di fascisti fa irruzione nella malga incendiandola, raccontando allucinato alla sorella Nerina, la quale anche lei racconta delle violenze subite, mentre «andata via dentro al dolore e il dolore ha fatto tutto il resto» nel capitolo dove il romanzo raggiunge il suo acme emotivo ed espressivo.
Quando lo arrestano, in caserma dice al carabiniere che ha compiuto un’azione di guerra, e «mostra un documento in cui è detto che nel novembre del 1944 le Brigate Nere gli hanno bruciato la baita e che ora ha diritto a una pensione». Ulisse è tornato dentro la sua ferita, nella ferita della Storia, in un’Italia «dove estremisti di destra e nostalgici non sono isolati nel riconsiderare il fascismo, nel tenerlo in considerazione, e con loro politici, industriali, intellettuali», dove «l’estate ribelle è durata un attimo e subito è arrivato l’inverno della conservazione». Proprio in quel punto nevralgico in cui questo romanzo di forte impegno civile salda urgenza morale e formale.
- Angelo Ferracuti - Pubblicato su Il Manifesto del 29 marzo 2016 -
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