"Un ragazzino di Sparta, che aveva rubato una volpe e se
l'era nascosta sotto la giacca, poiché la gente, per la sua
stoltezza, si vergogna di un furto più di quanto noi temiamo
la punizione, sopportò che essa gli straziasse il ventre
piuttosto che scoprirsi."
Montaigne, Essais, I, XIV
L'uso dei corpi
- di Giorgio Agamben -
1. È curioso come in Guy Debord una lucida coscienza dell'insufficienza della vita privata si accompagnasse alla più o meno comapevole convinzione che vi fosse, nella propria esistenza o in quella dei suoi amici, qualcosa di unico e di esemplare, che esigeva di essere ricordato e comunicato. Già in Critique de la séparation, egli evoca così a un certo punto come intrasmissibile «cette clandestinité de la vie privée sur la quelle on ne possède jamais que des documents dérisoires» (DEBORD, p. 49); e, tuttavia, nei suoi primi film e ancora in Panégyrique, non cessano di sfilare uno dopo l'altro i volti degli amici, di Asger Jorn, di Maurice Wyckaert, di Ivan Chtcheglov e il suo stesso volto, accanto a quello delle donne che ha amato. E non solo, ma in Panégyrique compaiono anche le case in cui ha abitato, il 28 della via delle Caldaie a Firenze, la casa di campagna a Champot, lo square des Missions étrangères a Parigi (in realtà il 109 della rue du Bac, il suo ultimo indirizzo parigino, nel cui salotto una fotografia del 1984 lo ritrae seduto sul divano di cuoio inglese che sembrava piacergli). Vi è qui come una contraddizione centrale, di cui i situazionisti non sono riusciti a venire a capo e, insieme, qualcosa di prezioso che esige di essere ripreso e sviluppato – forse l'oscura, inconfessata coscienza che l'elemento genuinamente politico consista proprio in questa incomunicabile, quasi ridicola clandestinità della vita privata. Poiché certo essa - la clandestina, la nostra forma-di-vita - è così intima e vicina, che, se proviamo ad afferrarla, ci lascia fra le mani soltanto l'inpenetrabile, tediosa quotidianità. E, tuttavia, forse proprio quest'omonima, promiscua, ombrosa presenza custodisce il segreto della politica, l'altra faccia dell'arcanum imperii, su cui naufraga ogni biografia e ogni rivoluzione. E Guy, che era così abile e accorto quando doveva analizzare e descrivere le forme alienate dell'esistenza nella società spettacolare, è così candido e inerme quando prova a comunicare la forma della sua vita, a fissare in viso e a sfatare il clandestino con cui ha condiviso fino all'ultimo il viaggio.
2. In girum imus nocte et consumimur igni (I978) si apre con una dichiarazione di guerra contro il suo tempo e prosegue con un'analisi inesorabile delle condizioni di vita che la società mercantile allo stadio estremo del suo sviluppo ha instaurato su tutta la terra. Improvvisamente, tuttavia, circa a metà del film, la descrizione dettagliata e impietosa si arresta per lasciare il posto alla malinconica, quasi flebile evocazione di ricordi e vicende personali, che anticipano l'intenzione dichiaratamente autobiografica di Panégyrique. Guy rammenta la Parigi della sua giovinezza, che non esiste più, nelle cui strade e nei cui caffè era partito con i suoi amici all'ostinata ricerca di quel «Graal néfaste, dont personne n'avait voulu». Benché il Graal in questione, «intravvisto fuggevolmente», ma non «incontrato», dovesse avere indiscutibilmente un significato politico, poiché coloro che lo cercavano «si sono trovati in grado di comprendere la vita falsa alla luce della vera» (DEBORD, p. 252), il tono della rievocazione, scandita da citazioni dall'Ecclesiaste, da Omar Khayyam, da Shakespeare e da Bossuet, è altrettanto indiscutibilmente nostalgico e tetro: «À la moitié du chemin de la vraie vie, nous étions environnés d'une sombre mélancolie, qu'ont exprimée tant des mots ràilleurs et tristes, dans le café de la jeunesse perdue» (ivi, p. 240). Di questa giovinezza perduta, Guy ricorda il disordine, gli amici e gli amori («comment ne me serais-je pas souvenu des charmants voyous et des filles orgueilleuses avec qui)'ai habité ces bas-fonds. . . » - p. 237), mentre sullo schermo appaiono le immagini di Gil J. Wolman, di Ghislain de Marbaix, di Pinot-Gallizio, di Attila Kotanyi e di Donald Nicholson-Smith. Ma è verso la fine del film che l'impulso autobiografico riappare con più forza e la visione di Firenze quand elle était libre s'intreccia con le immagini della vita privata di Guy e delle donne con cui è vissuto in quella città negli anni settanta. Si vedono poi passare rapidamente le case in cui Guy ha vissuto, l'impasse de Clairvaux, la rue St. Jacques, la rue St. Martin, una pieve nel Chianti, Champot e, ancora una volta, i volti degli amici, mentre si ascoltano le parole della canzone di Gilles in Les visiteurs du soir: « Tristes enfants perdus, nous errions dans la nuit. . . ». E, poche sequenze prima della fine, i ritratti di Guy a 19, 25, 27, 31 e 45 anni. Il nefasto Graal, di cui i situazionisti sono partiti alla ricerca, concerne non soltanto la politica, ma, in qualche modo, anche la clandestinità della vita privata, di cui il film non esita ad esibire, apparentemente senza pudore, i «documenti ridicoli».
3· L'intenzione autobiografica era, del resto, già presente nel palindromo che dà il titolo al film. Subito dopo aver evocato la sua giovinezza perduta, Guy aggiunge che nulla ne esprimeva meglio lo scialo di questa «antica frase costruita lettera per lettera come un labirinto senza uscita, in modo che essa accorda perfettamente la forma ed il contenuto della perdita: In girum imus nocte et consumimur igni. "Giriamo in cerchio nella notte e siamo divorati dal fuoco"».
La frase, definita a volte il «verso del diavolo», proviene, in realtà, secondo una corsiva indicazione di Heckscher, dalla letteratura emblematica e si riferisce alle falene inesorabilmente attratte dalla fiamma della candela che le consumerà. Un emblema si compone di un'impresa - cioè una frase o un motto - e di un'immagine; nei libri che ho potuto consultare, l'immagine delle falene divorate dal fuoco compare spesso, ma non è però mai associata al palindromo in questione, bensì a frasi che si riferiscono alla passione amorosa («così vivo piacer conduce a morte», «così de ben amar porto tormento») o, in qualche raro caso, all'imprudenza in politica o in guerra («non temere est cuiquam temptanda potentia regis», «temere ac periculose»). Negli Amorum emblemata di Otto van Veen's (1608) a contemplare le falene che si precipitano verso la fiamma della candela è un amore alato e l'impresa suona: brevis et damnosa voluptas. È probabile, quindi, che Guy, scegliendo il palindromo come titolo, paragonasse se stesso e i suoi compagni alle falene che, amorosamente e temerariamente attratte dalla luce, sono destinate a perdersi e a consumarsi nel fuoco. Nell'Ideologia Tedesca - un'opera che Guy conosceva perfettamente - Marx evoca criticamente la stessa immagine: «ed è così che le farfalle notturne, quando il sole dell'universale è tramontato, cercano la luce della lampada del particolare». Tanto più singolare è che, malgrado questa avvertenza, Guy abbia continuato a inseguire questa luce, a spiare ostinatamente la fiamma dell'esistenza singolare e privata.
4· Verso la fine degli anni novanta, sui banchi di una libreria parigina, il secondo volume di Panégyrique, contenente l'iconografia, si trovava - per caso o per un'ironica intenzione del libraio - accanto all'autobiografia di Paul Ricoeur. Niente è più istruttivo che comparare l'uso delle immagini nei due casi. Mentre le fotografie del libro di Ricoeur ritraevano il filosofo unicamente nel corso di convegni accademici, quasi che egli non avesse avuto altra vita al di fuori di quelli, le immagini di Panégyrique pretendevano a uno statuto di verità biografica che riguardava l'esistenza dell'autore in tutti i suoi aspetti. «L'illustration authentique» avverte la breve premessa «éclaire le discours vrai . . . on saura donc enfin quelle était mon apparence à différentes âges; et quel genre de visages m’a toujours entouré; et quels lieux j’ai habités . . . ». Ancora una volta, nonostante l'evidente insufficienza e la banalità dei suoi documenti, la vita - la clandestina - è in primo piano.
5· Una sera, a Parigi, Alice, quando le dissi che molti giovani in Italia continuavano a interessarsi agli scritti di Guy e aspettavano da lui una parola, rispose: «on existe, cela devrait leur suffire». Che cosa voleva dire: on existe? Certo, in quegli anni, essi vivevano appartati e senza telefono fra Parigi e Champot, in un certo senso con gli occhi rivolti al passato e la loro «esistenza» era, per così dire, interamente appiattita sulla «clandestinità della vita privata».
Eppure, ancora poco prima del suicidio nel novembre del I994, il titolo dell'ultimo film preparato per Canal plus: Guy Debord, son art, son temps, non sembra - malgrado quel son art davvero inaspettato - del tutto ironico nella sua intenzione biografica e, prima di concentrarsi con una straordinaria veemenza sull'orrore del «suo tempo», questa sorta di testamento spirituale reitera con lo stesso candore e le stesse vecchie fotografie l'evocazione nostalgica della vita trascorsa. Che cosa significa dunque: on existe? L'esistenza - questo concetto in ogni senso fondamentale della filosofia prima dell'Occidente - ha forse costitutivamente a che fare con la vita. «Essere» scrive Aristotele «per i viventi significa vivere». E, secoli dopo, Nietzsche precisa: «Essere: noi non ne abbiamo altra rappresentazione che vivere». Portare alla luce - al di fuori di ogni vitalismo - l'intimo intreccio di essere e vivere: questo è certamente oggi il compito del pensiero (e della politica).
6. La società dello spettacolo si apre con la parola «vita» («Toute la vie des sociétés dans lesquelles règnent les conditions modernes de production s'annonce comme une immense accumulation de spectacles») e fino alla fine l'analisi del libro non cessa di chiamare in causa la vita. Lo spettacolo, in cui «ciò che era direttamente vissuto si allontana in una rappresentazione», è definito come una «inversione concreta della vita». «Quanto più la vita dell'uomo diventa il suo prodotto, tanto più egli è separato dalla sua vita» (n. 33) La vita nelle condizioni spettacolari è una «falsa vita» (n. 48) o una «sopravvivenza» (n. I54) o uno «pseudo-uso della vita» (n. 49). Contro questa vita alienata e separata, viene fatto valere qualcosa che Guy chiama «vita storica» (n. 139), che appare già nel Rinascimento come una «rottura gioiosa con l'eternità»: nella vita esuberante delle città italiane... la vita si conosce come un godimento del passaggio del tempo». Già anni prima, in Sur le passage de quelques personnes e in Critique de la séparation, di sé e dei compagni Guy dice che «essi volevano reinventare tutto ogni giorno, rendersi padroni e possessori della loro propria vita» (p. 22), che i loro incontri erano come «dei segnali provenienti da una vita più intensa, che non è stata veramente trovata» (p. 47). Che cosa fosse questa vita «più intensa», che cosa venisse rovesciato o falsificato nello spettacolo, o anche soltanto che cosa si debba intendere per «vita della società» non è chiarito in alcun momento; e, tuttavia, sarebbe troppo facile rimproverare all'autore incoerenza o imprecisione terminologica. Guy non fa qui che ripetere un atteggiamento costante nella nostra cultura, in cui la vita non è mai definita come tale, ma viene di volta in volta articolata e divisa in bios e zoè, vita politicamente qualificata e nuda vita, vita pubblica e vita privata, vita vegetativa e vita di relazione, in modo che ognuna delle partizioni non sia determinabile che nella sua relazione alle altre. Ed è, forse, in ultima analisi proprio l'indecidibilità della vita che fa sì che essa debba ogni volta essere politicamente e singolarmente decisa. E l'indecisione di Guy tra la clandestinità della sua vita privata - che, col passar del tempo, doveva apparirgli sempre più sfuggente e indocumentabile - e la vita storica, tra la sua biografia individuale e l'epoca oscura e irrinunciabile in cui essa si iscrive, tradisce una difficoltà che, almeno nelle condizioni presenti, nessuno può illudersi di aver risolto una volta per tutte. In ogni caso, il Graal caparbiamente ricercato, la vita che inutilmente si consuma nella fiammata- non era riducibile a nessuno dei termini opposti, né all'idiozia della vita privata né all'incerto prestigio della vita pubblica e revocava anzi in questione la possibilità stessa di distinguerle.
7· Ivan Illich ha osservato che la nozione corrente di vita (non «una vita», ma «la vita» in generale) è percepita come un «fatto scientifico», che non ha più alcun rapporto con l'esperienza del singolo vivente. Essa è qualcosa di anonimo e generico, che può designare di volta in volta uno spermatozoo, una persona, un'ape, una cellula, un orso, un embrione. Di questo «fatto scientifico», così generico che la scienza ha rinunciato a definirlo, la Chiesa ha fatto l'ultimo ricettacolo del sacro e la bioetica il termine chiave del suo impotente sciocchezzaio. In ogni caso, «vita» ha oggi più a che fare con la sopravvivenza che con la vitalità o la forma di vita dell'individuo. In quanto in essa si è insinuato in questo modo un residuo sacrale, la clandestina che Guy inseguiva è diventata ancora più inafferrabile. Il tentativo situazionista di restituire la vita alla politica si urta a una difficoltà ulteriore, ma non è per questo meno urgente.
8. Che significa che la vita privata ci accompagna come una clandestina? Innanzitutto, che essa è separata da noi come lo è un clandestino e, insieme, da noi inseparabile, in quanto, come un clandestino, condivide nascostamente con noi l'esistenza. Questa scissione e questa inseparabilità definiscono tenacemente lo statuto della vita nella nostra cultura. Essa è qualcosa che può essere diviso - e, tuttavia, ogni volta articolato e tenuto insieme in una macchina medica o filosofico-teologica o biopolitica. Così non è soltanto la vita privata ad accompagnarci come una clandestina nel nostro lungo o breve viaggio, ma la stessa vita corporea e tutto ciò che tradizionalmente si iscrive nella sfera della cosiddetta «intimità»: la nutrizione, la digestione, l'orinare, il defecare, il sonno, la sessualità... E il peso di questa compagna senza volto è così forte che ciascuno cerca di condividerlo con qualcun altro - e, tuttavia, estraneità e clandestinità non scompaiono mai del tutto e permangono irrisolte anche nella convivenza più amorosa. La vita è qui veramente come la volpe rubata che il ragazzo nasconde sotto le vesti e non può confessare benché gli dilani atrocemente la carne. È come se ciascuno sentisse oscuramente che proprio l'opacità della vita clandestina racchiude in sé un elemento genuinamente politico, come tale per eccellenza condivisibile - e, tuttavia, se si prova a condividerlo, esso sfugge ostinatamente alla presa e non lascia dietro di sé che un resto ridicolo e incomunicabile. Il castello di Silling, in cui il potere politico non ha altro oggetto che la vita vegetativa dei corpi, è, in questo senso, la cifra della verità e, insieme, del fallimento della politica moderna - che è, in realtà, una biopolitica. Occorre cambiare la vita, portare la politica nel quotidiano - eppure, nel quotidiano, il politico non può che naufragare. E quando, come avviene oggi, l'eclisse della politica e della sfera pubblica non lascia sussistere che il privato e la nuda vita, la clandestina, rimasta sola padrona del campo, deve, in quanto privata, pubblicizzarsi e provare a comunicare i propri non più risibili (e, tuttavia, ancora tali) documenti, che coincidono ormai immediatamente con essa, con le sue uguali giornate riprese dal vivo e trasmesse sugli schermi ad altri, una dopo l'altra. E, tuttavia, solo se il pensiero sarà capace di trovare l'elemento politico che si è nascosto nella clandestinità dell'esistenza singolare, solo se, al di là della scissione fra pubblico e privato, politica e biografia, zoè e bios, sarà possibile delineare i contorni di una forma-di-vita e di un uso comune dei corpi, la politica potrà uscire dal suo mutismo e la biografia individuale dalla sua idiozia.
- Giorgio Agamben - Prologo a "L'uso dei corpi" - Neri Pozza -
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