giovedì 31 maggio 2018

L'ecologia del capitale

polli

Come ha fatto il "nugget di pollo" a diventare il vero simbolo della nostra epoca
- È questo quello che succede quando si trasforma il mondo naturale in una macchina per il profitto -
  di Ray Patel e Jason W.Moore

Il simbolo più significativo dell'era moderna non è l'automobile o lo smartphone. È il "chicken nugget"  [ crocchetta di pollo ]. Negli Stati Uniti, la carne di pollo è già l'alimento più popolare, e si prevede che entro il 2020 lo diventerà anche per tutto il resto del pianeta. Le civiltà future troveranno nel Registro fossile tracce dell'abitudine che ha avuto l'umanità di mangiare 50miliardi di uccelli all'anno; un indicatore per quello che noi chiamiamo Antropocene. Eppure la responsabilità per il drammatico cambiamento avvenuto nel nostro consumo, non risiede tanto nell'attività umana in generale, quanto nel capitalismo. Sebbene ci venga insegnato a comprenderlo come se fosse un sistema economico, il capitalismo non si limita ad organizzare le gerarchie del lavoro umano. Il capitalismo è ciò che avviene quando potere e denaro si combinano per trasformare il mondo naturale in una macchina per produrre profitto. E in effetti, il modo che abbiamo di comprendere la natura, dipende molto dal capitalismo.
In ogni civiltà si è avuta una data versione della differenza fra "noi" e "loro", ma solamente sotto il capitalismo si è stabilito un confine fra "società" e "natura" - un confine violento posto strettamente sotto un controllo poliziesco che affonda profondamente le sue radici nel colonialismo.
A partire dall'epoca di Cristoforo Colombo, il capitalismo ha creato un peculiare ordine binario. Nella mente dei filosofi, per quel che riguardava le politiche degli imperi europei, e nelle previsioni dei centri finanziari globali, la "natura" divenne l'antonimo della "società". La "natura" era un luogo di profitto, una vasta frontiera di regali gratuiti che aspettavano di essere accettati dai conquistatori e dai capitalisti.
Per ogni genere di motivo, si trattava di una punto di vista pericoloso riguardo la natura, non ultimo a causa del fatto che degradava simultaneamente sia la vita umana che la vita animale di ogni tipo. Ciò che noi chiamiamo "natura a buon mercato" includeva non solo foreste, terreni e corsi d'acqua, ma anche la stragrande maggioranza dell'umanità. Nei secoli intercorsi fra Colombo e la rivoluzione industriale, sono stati schiavizzati e messi sotto contratto Africani, Asiatici, popolazioni indigene, e virtualmente tutte le donne che sono diventate parte della "natura" - ottenendo così il risultato che venissero trattati come se fossero a basso costo. Quando gli esseri umani possono essere trattati con così poca cura, non sorprende che sotto il capitalismo altri animali possano essere trattati anche peggio, in special modo quelli che poi finiamo per pagare per poi mangiarli.
Gli animali si sono trovati ad essere al centro di cinque secoli di trasformazione della dieta, che dopo la seconda guerra mondiale ha avuto una brusca impennata. La creazione del mondo moderno dipendeva dal movimento nel nuovo mondo di mucche, pecore, capre, cavalli, maiali e polli, che dopo il 1492 rafforzavano l'avanzamento assassino di microbi, soldati e banchieri. La "impronta ecologica" del capitalismo, per usare l'efficace immagine del nutrizionista Tony Weis, è diventata da allora radicalmente globalizzata. Nel mezzo secolo successivo al 1961, ci dice Weis, il consumo pro capite di carne e uova è raddoppiato, ed il numero di animali macellati è salito di otto volte, passando da 8 a 64 miliardi.
Per chi ha una visione romantica circa la provenienza del cibo, ritiene che la carne cruda sia un ingrediente grezzo, piuttosto che lavorato. Ma è il contrario. La coltivazione di mangimi e semi oleosi costituisce parte di ciò che Weis chiama "il complesso industriale del grano e dei semi oleosi". I mercati del grano hanno permesso alla carne, non solo di diventare cibo a buon mercato, ma anche di restituire in cambio un sostegno finanziario. Le "future" in pancetta di maiale, per esempio, richiedono a loro volta l'uniformità, l'omogeneizzazione e la industrializzazione delle colture che trasformano. La carne cruda in vendita nei supermercati viene, in altri termini, cucinata da un braccio sofisticato ed intensivo dell'ecologia del capitalismo.
Dove c'è profitto, ci sono anche tutti gli incentivi a realizzarlo in maniera efficiente. I moderni sistemi di produzione di carne possono prendere un uovo fertile e 4 kg di farina e trasformarlo in cinque settimane in un pollo da 2 kg. Fra il 1970 ed il 2000, i tempi di produzione di un tacchino sono stati quasi dimezzati, e sono arrivate a volerci 20 settimane per passare dall'uovo al volative di 20 kg. Altri animali hanno visto progressi simili grazie ad una combinazione di procreazione, alimentazione concentrata, e catene globali di approvvigionamento. Le conseguenze dell'aumento sostenuto del consumo di carne sono anch'esse un affare planetario: 14,5% di tutte le emissioni antropogeniche di CO2 provengono dalla produzione di bestiame.
Ovviamente, le conseguenze ambientali della produzione di carne sono esterne all'insieme dell'agricoltura industriale. La natura è semplicemente la riserva dalla quale vengono estratti gli animali per essere allevati industrialmente, e la discarica nella quale scompaiono i loro rifiuti. Il pericolo risiede nel credere che la divisione fra natura e società sia reale, nel vedere "l'agricoltura industriale" come un problema ambientale e nel vedere la "produzione industriale" come se fosse un problema sociale. I problemi sociali sono dei problemi ambientali, e viceversa.

pollo mucca

I polli non si trasformano da soli in crocchette. Ai capitalisti serve lavoro a buon mercato. E quel lavoro si presento, nel corpo degli indigeni, nel 1492, con l'invasione europea del nuovo mondo. Verso la fine XVI secolo, quando gli spagnoli cercavano disperatamente di far rivivere la produzione d'argento nella grande montagna d'argento del Potosì, nell'attuale Bolivia, cominciarono ad usare la parola "naturales" per riferirsi ai popoli indigeni. Attraverso il duro lavoro e la preghiera, questi popoli indigeni, e gli schiavi africani, potrebbero ottenere la divina redenzione attraverso il lavoro e forse in un lontano futuro magari anche l'ingresso alla pari nella società.
Il lavoro non è mai stato pensato per essere divertente. Si consideri l'etimologia del travail francese e del trabajo spagnolo, ciascuna di esse è una traduzione della parola inglese "work": la loro radice latina è trepaliare, "torturare, infliggere sofferenza o agonia". Ma il modo in cui funziona il lavoro, è cambiato.
Per millenni, la maggior parte degli esseri umani è sopravvissuta per mezzo di relazioni più o meno intime con la terra e con il mare. Anche quelli che fra di loro non erano strettamente collegati a compiti e all'oggetto del lavoro.La sopravvivenza umana dipendeva da una conoscenza olistica, non frammentata: pescatori, nomadi, agricoltori, guaritori, cuochi e molti altri esperivano e praticavano il loro lavoro in un modo che era direttamente connesso alla rete della vita. I contadini, per esempio, dovevano conosce il suolo, i modelli metereologici, i semi - in breve, ogni cosa dalla semina alla raccolta. Ciò non significava che il lavoro fosse gradevole - spesso gli schiavi venivano trattati brutalmente. Né significava che le relazioni di lavoro fossero eque: i maestri delle corporazioni sfruttavano gli operai, i signori sfruttavano i servi, gli uomini sfruttavano le donne, il vecchio sfruttava il giovane. Ma il lavoro si basava su un senso olistico della produzione e su una connessione alla totalità del mondo della vita e della comunità.
Nel XVI secolo, tutto questo cominciò a cambiare. L'intraprendente agricoltore olandese o inglese - e il piantatore di canna da zucchero di Madera o del Brasile - si erano collegati sempre più ai mercati internazionali per i prodotti trasformati, e di conseguenza erano sempre più interessati alle relazioni fra il tempo di lavoro ed il raccolto. I mercati internazionali avevano spinto le trasformazioni locali. In Inghilterra, la terra si era consolidata attraverso la recinzione, la quale allo stesso tempo aveva "liberato" una quota sempre più crescente di popolazione rurale dai beni comuni che avevano fino ad allora coltivato, e che li avevano sostenuti facendoli sopravvivere. Questi braccianti appena sfollati era liberi di trovare un altro lavoro, e, se fallivano, erano liberi di morire di fame o di finire in prigione.
Questa storia è viva e vegeta dentro la moderna crocchetta di pollo. Gli allevatori di pollame vengano pagati molto poco: negli Stati Uniti, per ogni dollaro speso per un pollo da fast-food, due centesimi vanno agli allevatori. È difficile trovare manodopera quando, secondo uno studio relativo all'Alabama, l'86% degli addetti che tagliano ali di pollo hanno dei problemi a causa della ripetitività del loro lavoro e delle torsioni che svolgono sulla linea di montaggio. Per colmare le lacune relative alla mancanza di forza lavoro, alcuni operatori utilizzano il lavoro carcerario, pagato a 25 centesimi l'ora. In Oklahoma, i dirigenti delle compagnie di pollame sono tornati a far uso di una miscela coloniale di lavoro e di fede, creando nel 2007 un centro per il trattamento delle dipendenze, "Christian Alcoholics & Addicts in Recovery" (CAAIR). Con i giudici, che indirizzano i tossicodipendenti al trattamento, anziché al carcere, il programma di recupero ha ottenuto una pronta disponibilità di lavoratori. Al CAAIR, la preghiera è stata integrata con il lavoro non pagato, sulle linee di produzione di polli, come parte di una terapia di recupero. Se hai lavorato e pregato abbastanza per la durata del trattamento, ti viene permesso di rientrare nella società.
Le reclute del CAAIR erano in prevalenza giovani e bianchi, ma la maggioranza degli allevatori di polli sono persone di colore. Nell'agricoltura statunitense, gli immigrati latini (Latinx) sono una forza vitale, e l'utilizzo della loro forza lavoro a basso costo è stato reso possibile a parte da una ristrutturazione di classe avvenuta su due fronti. Il primo fronte, negli Stati Uniti, è stato quello di un forte movimento, negli anni '80, da parte delle nuove imprese di confezionamento della carne, volto ad aggredire e distruggere il potere sindacale e a sostituite i lavoratori sindacalizzati con lavoratori immigrati a salario basso. L'altro fronte è stato quello della destabilizzazione dell'ordinamento agrario messicano, avvenuto dopo il 1994 con il "North American Free Trade Agreement" (Nafta), che ha avuto come conseguenza un flusso di forza lavoro immigrante a basso costo - lavoratori disoccupati che sono stati dislocati dall'ecologia capitalista da un lato del confine degli Stati Uniti all'altro. Una linea, tracciata su una mappa, che unisce due Stati, costituisce una potente astrazione, ed è stata usata recentemente dall'estrema destra per reclutare e diffondere la paura, e da molto più tempo è stata usata dai capitalisti alla ricerca di lavoratori sempre più a buon mercato e sempre più redditizi. Sotto il capitalismo, i territori nazionali, le terre di proprietà locale ed i nuovi lavoratori migranti vengono prodotti simultaneamente.

polli pulcini

Insieme ai lavoratori migranti arrivò anche la paura delle élite per i vagabondi poveri. Nell'Inghilterra del XVII e del XVIII secolo, questo panico sfociò in dure leggi contro il vagabondaggio, e nello svilupparsi di opere di carità volte a migliorare i peggiori effetti dovuti alla miseria forzata. La minaccia della galera spinse i poveri verso il lavoro salariato, un'attività che prendeva l'intelligenza, la forza e la destrezza degli esseri umani, e li disciplinava attraverso il lavoro produttivo facendo uso di un'altra invenzione moderna: un nuovo modo di misurare il tempo.
Se è la pratica del lavoro a dare forma all'ecologia del capitalismo, la sua macchina indispensabile è l'orologio meccanico. L'orologio - non il denaro - emergeva come la tecnologia chiave per misurare il valore del lavoro. Questa distinzione è cruciale in quanto è facile pensare che il marchio del capitalismo sia lavorare in cambio di un salario. Non è così: nell'Inghilterra del XIII secolo, solo un terzo della popolazione economicamente attiva dipendeva dai salari per la sua sopravvivenza. Il fatto che i salari siano diventati un modo decisivo per la strutturazione della vita, dello spazio e della natura, lo si deve ad un nuovo modello di tempo.
All'inizio del 14° secolo, il nuovo modello temporale stava modellando l'attività industriale. Nelle città tessili come Ypres, in quello che oggi è il Belgio, gli operai si vedevano regolati, non dal flusso di attività o da quello delle stagioni, ma da un nuovo tipo di tempo - astratto, lineare, ripetitivo. A Ypres, il tempo di lavoro veniva misurato dalle campane della città, che suonavano all'inizio e alla fine di ogni turno di lavoro. Nel XVI secolo, il tempo veniva misurato secondo intervalli regolari di minuti e di secondi. Questo tempo astratto è arrivato a plasmare tutto - lavoro e gioco, sonno e veglia, credito e denaro, agricoltura e industria, persino la preghiera. Alla fine del XVI secolo, la maggior parte delle parrocchie inglesi era dotata di orologi meccanici.
La conquista spagnola delle Americhe, portò ad inculcare nei loro residenti un nuovo concetto del tempo, oltre che dello spazio. Dovunque penetrassero gli imperi europei, ecco che appariva l'immagine del nativo "pigro", che ignorava gli imperativi di Cristo e dell'orologio. Il tempo dell'attività di controllo era centrale per l'ecologia del capitalismo. Già nel 1553, la corona spagnola aveva iniziato ad installare "almeno un orologio pubblico" in ogni principale città coloniale. Le altre civiltà avevano le proprie sofisticate regole temporali, ma i nuovi regimi di lavoro andavano a sostituire il tempo e quelle che erano le relazioni indigene con il mondo naturale. Il calendario Maya è una complessa gerarchia di tempi e di letture del cielo, che offre una ricca serie del modo in cui si dispongono gli esseri umani nell'universo. Gli invasori spagnoli lo rispettarono solo fino ad un certo punto: sincronizzarono i loro assalti coloniali con i momenti sacri segnati nel calendario.
Come ha osservato lo storico Edward Palmer Thompson, nel suo studio fondamentale, "Time, Work-Discipline and Industrial Capitalism" ["Tempo e disciplina del lavoro"], la governance del tempo segue una logica particolare: «Nella società capitalista matura, tutto il tempo dev'essere consumato, commercializzato, messo al lavoro; per la forza lavoro limitarsi a "passare il tempo" è offensivo». La connessione fra attività specifiche e obiettivi produttivi più ampi non consentiva il furto del tempo , e la disciplina dell'orologio veniva imposta con la violenza su tutto il pianeta.
Insegnare il valore e la struttura del tempo capitalistico ai nuovi soggetti era una parte fondamentale dell'impresa coloniale. Nel 1859, un colono osservava che gli indigeni australiani «ora... hanno il vantaggio di poter attribuire una data ("Nip Nip") a partire dal periodo di tosatura annuale svolto dai coloni. Questo sembra fornire loro un modo di contare gli anni, che prima non avevano. I mesi, o le lune, li soddisfacevano». Ma la regolazione del tempo è stata anche al centro della resistenza. Un altro colono scrive in un diario: «Questa sera c'è stato un grande Korroberry [sic, per corroboree, forse un un raduno spirituale esuberante] - Ho cercato di dissuaderli, dicendo loro che era domenica - ma loro hanno detto "per i neri nessuna domenica"». Perché questa resistenza? Forse perché sapevano perfettamente che era il loro lavoro ad essere oggetto di furto, che i coloni si stavano appropriando del loro lavoro.
Le battaglie contro la regolamentazione del tempo continuano anche adesso. Riguardo le linee di produzione di pollame, esiste una legge federale che limita la velocità alla quale possono essere prodotti gli uccelli: 140 uccelli al minuto. L'industria sta facendo pressioni per poter eliminare questo limite, cosicché possa competere con le fabbriche in Brasile ed in Germania, dove il tasso si avvicina a 200 uccelli al minuto. Le preoccupazioni che riguardano la contaminazione del cibo e gli infortuni sul lavoro, vengono superate per mezzo del profitto determinato da un maggior numero di polli morti.

Il capitalismo ha sempre sperimentato simultaneamente ogni tipo di sistema di lavoro disponibile. Ad esempio, una piantagione di zucchero nel Brasile degli anni 1630 sarebbe stata facilmente riconoscibile in quanto moderna operazione industriale, cosi come, diciamo l'industria tessile del Bangladesh. Si fabbricano hamburger standardizzati, proprio come se a farlo fossero operai del settore automobilistico che assemblano sulla linea delle parti semplificate e intercambiabili, allo stesso modo in cui gli schiavi africani svolgevano lavori specializzati nel paesaggio semplificato della monocoltura dello zucchero.
Dietro la fabbrica moderna, c'è sempre stata una suddivisione della torta dello sfruttamento. I manager delle fabbriche avevano un salario migliore di quello degli operai, i quali lavoravano con materie prime che venivano acquisite per mezzo di vari tipi di bracciantato e di sfruttamento delle risorse naturali, e tutti quanti loro dipendevano dal lavoro domestico gratuito, di solito delle donne. La fabbrica globale dipende da una miniera globale, da una fattoria globale, e da una famiglia globale.
Da qui, il persistere della schiavitù. Un'agenzia dell'ONU, la International Labour Organization, stima che oggi ci siano in schiavitù 40 milioni di persone, la maggioranza delle quali sono donne, molte in uno stato di matrimonio forzato. Ad esempio, i campi di lavoro in tempo di guerra, nella Repubblica Democratica del Congo, forniscono i metalli delle terre rare, come il tantalio, che alimenta le strutture che stano dietro l'economia virtuale.
Ma proprio come avviene per la dirigenza, che cerca di trovare nuovi modi per generare profitti, allo stesso modo i lavoratori trovano nuovi modo di resistere. Le grandi frontiere delle merci del primo capitalismo - dello zucchero, dell'argento, del rame, del ferro, dei prodotti forestali, della pesca e perfino dell'agricoltura dei cereali - erano zone di sperimentazione in quelle che erano strategie di controllo in Europa e nelle sue colonie, ed erano sempre spazi di conflitto. Scioperi, ribellioni, negoziazioni e resistenza hanno caratterizzato l'applicazione delle discipline del lavoro capitalistico. Ogni resistenza da parte del lavoro era una nuova ragione per introdurre macchinari. I moderni regimi di lavoro e le tecnologie sono emersi dal crogiolo di esperimenti, strategie e resistenze dei primi lavoratori moderni.
Le rivolte operaie nelle fabbriche e la ribellione di schiavi, passate e presenti, sono collegate fra di esse non solo perché sono espressioni di resistenza, ma perché sono proteste contro l'ecologia del capitalismo. Ogni fabbrica globale ha bisogno di una fattoria globale: le imprese industriali, le imprese tecnologiche e dei servizi si basano sull'estrazione di lavoro a buon mercato e sulla natura, altrettanto a buon mercato, per poter prosperate. Le app sul tuo Iphone, progettate a Cupertino, in California, potrebbero essere state codificate da ingegneri informatici indipendenti che si auto-sfruttano, ed il telefono stesso può essere stato assemblato in un posto di lavoro draconiano in Cina, e fabbricato con minerali che sono stati estratti in condizioni disumane in Congo. La moderna produzione si basa su regimi di lavoro stratificati, simultanei e differenti. E, in risposta ad ogni atto di resistenza nei confronti di tutto questo, il capitalismo ha spostato ancora una volta le frontiere del lavoro.

pollo spam

L'egemonia sui lavoratori è stata supportata da cibo a buon mercato, e dalla promessa di un pollo in ogni pentola. Per millenni, il cibo economico è stato fondamentale ai fini del mantenimento dell'ordine. Ma nell'ecologia del capitalismo, quest'ordine è stato mantenuto grazie alla trasformazione planetaria.
Fin dal XV secolo, ci sono state alcune terre che sono diventate dominio esclusivo di specifici tipi di colture e di sistemi di coltura: campi di monoculture progettate per portare fiumi di denaro contante. Altre aeree sono state riservate ad ospitare quegli esseri umani che erano stati sradicati da quelle terre, per essere messi meglio al servizio dei capitalisti nelle città. Si trattava sempre di una geografia socialmente instabile, con dei bassi salari industriali sostenuti per mezzo dei bassi salari agricoli, sostenuti a loro volta dai doni gratuiti della natura, delle donne e delle colonie. Dopo le rivoluzioni del XIX e del XX secolo che avevano offerto ai lavoratori la promessa che ci fossero delle alternative allo sfruttamento, le paure capitaliste delle rivolte urbane e del comunismo arrivarono a dei picchi febbrili. Per dissipare questo timore esistenziale, i governi e le istituzioni non hanno affrontato la disuguaglianza e lo sfruttamento. Invece, hanno finanziato lo sviluppo di colture che sarebbero cresciute abbastanza abbondantemente da fornire cibo a basso costo per saziare la fame urbana.
Il fatto che fosse urbana, e non rurale, la fame che ha turbato i politici è di vitale importante. Cibo ed occupazione per le persone che vivono nelle aree rurali - dove si trova concentrata la più parte della fame del mondo - destavano poca preoccupazione. La fame ha cominciato a contare politicamente solo quando i poveri sono arrivati nelle città ed hanno tradotto la cosa in rabbia, e quindi potenzialmente in insurrezione e sfida alla regola della natura a basso costo. È qui - nella preoccupazione borghese per quella regola ed il fatto che di essa ci sia bisogno ai fini della quiescenza operaia - che troviamo l'origine di quella che è diventata nota con nome di Rivoluzione Verde.
L'obiettivo era quello di coltivare varietà di cereali che potessero scorrere liberamente per tutte le aree urbane. Ma la rivoluzione non era semplicemente una trasformazione agronomica. Richiedeva qualcosa di più, oltre che semi magici. Affinché gli agricoltori potessero far crescere le colture, i governi nazionali dovevano sovvenzionare l'acquisto di colture per mezzo di marketing agricolo, porre le strutture per l'irrigazione, e sopprimere il dissenso politico nei confronti dei sistemi alimentari alternativi. La Rivoluzione Verde, fra l'inizio e la metà del XX secolo, è consistita in un pacchetto di riforme volte a prevenire l'obiettivo politico rivoluzionario di molti movimenti contadini e di lavoratori senza-terra: un'agricoltura integrale ed una riforma agraria.
Se strizzi bene gli occhi, puoi riuscire a vedere la Rivoluzione Verde come se fosse un successo. Globalmente, fra il 1950 ed il 1980, la produzione di cereali ed il rendimento (la quantità di prodotto per unità di area) è più che raddoppiata. La produzione di grano dell'India è aumentata, fra il 1960 ed il 1980, dell'87%. similmente a quello che è stato sperimentato da coltivatori americani di mais nei vent'anni successivi al 1935. Una quota sempre più crescente di tutto questo cibo è stata scambiata sul mercato mondiale, con un'esportazione globale di grano che durante gli anni '60 e '70 ha visto un incremento del 295%. Se è questa la misura del successo, allora l'impegno politico di rendere a buon mercato il cibo, attraverso sussidi statali e violenza, ha funzionato.
Ma la prodigiosa produzione non ha ridotto la fame. In India la produzione di grano è aumentata vertiginosamente, ma la quantità di quello che mangiano gli indiani non è aumentata. La fame, soprattutto in un'economia dipendente dall'agricoltura, non finisce se le persone rimangono povere: non importa quanto grano ci sia, se non ti puoi permettere di comprarlo. Infatti, dal 1990 al 2015, è un fenomeno globale quello che vede i prezzi dei prodotti alimentari trasformati nettamente inferiori a quelli di frutta e verdura fresca, e che oggi, in quasi tutti i paesi, la parte più povera della popolazione non può permettersi di mangiare cinque volte al giorno frutta o verdura.
Sebbene i lavoratori dei paesi appartenenti all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) abbiano visto un incremento nella loro quota di reddito nazionale, dopo la seconda guerra mondiale, questa tendenza si è invertita negli anni '80. Questa è stata una conseguenza diretta delle politiche anti-lavoro, che gli studiosi chiamano giustamente "repressione salariale". Dati i salari consistentemente bassi in epoca neoliberista, ha senso che si guardi al cibo a basso prezzo, non solo rispetto a costi salariali, ma direttamente in termini di prezzo. Se lo facciamo, appare non casuale il fatto che un alimento il cui prezzo in Messico è diminuito drasticamente, sia il pollo - una diretta conseguenza del NAFTA, della tecnologia e dell'industria statunitense della soia.
Originariamente, il NAFTA escludeva i beni agricoli, che però successivamente erano stati inclusi su insistenza del governo messicano, che voleva "modernizzare" il suo settore agricolo, trasferendo i suoi agricoltori dall'agricoltura ai circuiti industriali urbani. La strategia ha funzionato: l'economia agricola contadina del Messico si è indebolita, come dimostrato dalle proteste di "El Campo No Aguanta Más" ["La campagna non ce la fa più"] che, nel 2003. si sono diffuse in tutto il paese. I circuiti della migrazione e le riserve di manodopera destinai all'agricoltura degli USA, sono stati il risultato. Ma almeno il pollo costava poco!

E qui arriviamo ad un punto importante per quel che riguarda i regimi alimentari a basso costo: essi non garantiscono né che le persone siano nutrite, né tantomeno che siano nutrite bene - come viene dimostrato dal persistere a livello globale di malattie legate alla dieta e alla malnutrizione. Le frontiere agricole del capitalismo continuano a premere contro i contadini del mondo, i quali forniscono il 75% del cibo in vaste aree del sud globale. Ma mentre il presente è triste, con le frontiere agricole che premono sull'Amazzonia e che spostano contadini per tutto il mondo, nel XXI secolo è apparso un nuovo problema che minerà fatalmente il regime alimentare capitalista già vecchi di cinque secoli: il cambiamento climatico.
L'immagine della frontiera si presta a far pensare solo alla terra. Ma negli ultimi due secoli abbiamo assistito ad un genere di movimento delle frontiere assai diverso: il cerchio degli spazi comuni atmosferici visto come discarica per le emissioni di gas serra. Nel XXI secolo, l'agricoltura e la silvicoltura (che include la ripulitura dei terreni per la coltivazione commerciale) contribuisce con qualcosa che sta fra un quarto ed un terzo delle emissioni di gas serra.
Questo è inevitabile, perché consumano molta energia, e lo fanno sempre di più. Si tratta di un grosso problema, poiché non abbiamo più spazi comuni atmosferici da includere, e nessun modo ovvio per poter escludere dalla contabilità i costi del cambiamento climatico. Tutto ciò, in nessun altro posto è più chiaro che nella vacillante fattoria globale, la cui crescita della produttività ha subito un rallentamento, proprio come accadde per gli agricoltori inglesi a metà del XVIII secolo. La promessa dell'agro-biotecnologia di una nuova rivoluzione agricola è stata finora inesistente - non riuscendo a generare un nuovo boom produttivo, creando super-semi e super-batteri in grado di sopportare il glisofato ed altri veleni, e sostenendo il modello alimentare a basso costo che sta spingendo il cambiamento in corso nel sistema climatico globale.
Il cambiamento climatico rappresenta assai più che la chiusura di una frontiera - è qualcosa di simile ad un'implosione del modello di natura a basso costo, che non porta alla fine di una natura gratis o poco costosa, bensì ad un drammatico rovesciamento. Come viene dimostrato da una documentazione in crescita, il cambiamento climatico sopprime la produttività agricola. "Clima" va riferito a fenomeni estremamente diversi, inclusa la siccità, le precipitazioni estreme, ondate di calore e shock di gelo. La soia, la paradigmatica coltura neoliberista, ha già sperimentato quello che gli agronomi chiamano soppressione del raccolto in quanto risultato del cambiamento climatico. Quello che continua ad essere argomento di dibattito, viene collocato da molte analisi in un territorio che va dal 3% di riduzione della crescita a partire dagli anni '80 - un valore di 5 miliardi di dollari l'anno, dal 1981 al 2002.
Peggio ancora, il cambiamento climatico promette dei declini assoluti. Ogni incremento di un 1°C della temperatura rispetto alla media annuale della temperatura globale si accompagna ad un rischio ancora più grande di drammatiche conseguenze sull'agricoltura globale. Nel prossimo secolo, i raccolti agricoli diminuiranno fra il 5% ed il 50% (o più), a seconda del periodo di tempo, della coltura, della locazione e del grado secondo cui il carbonio continuerà ad essere pompato nell'aria agli attuali prodigiosi tassi odierni. A partire dal 2050, l'agricoltura globale assorbirà i due terzi di tutti i costi del cambiamento climatico. Ciò significa che tanto il clima quanto il modello agricolo del capitalismo si trovano nel mezzo di un improvviso ed irreversibile momento di cambiamento.
Non ci sono molte ragioni per poter immaginare che il cambiamento climatico non spezzi il moderno sistema alimentare. Peggio ancora, la produzione industriale di cibo è un terreno fertile per le pandemie, ed un'analisi ragionata suggerisce che quel genere di allevamenti di animali concentrati, che ci portano carne a basso costo, ci porteranno anche virus che potrebbero decimare la popolazione. Ancora una volta, in tutto questo non c'è niente di nuovo. Proprio come il primo precoce cambiamento climatico, e la peste, portarono alla fine del feudalesimo e all'inizio del capitalismo, così ci ritroveremo in un futuro in cui il cambiamento climatico e la vulnerabilità rispetto a grandi shock sistemici rappresenteranno una fine drammatica per l'ecologia del capitalismo. «Verrà presentato il conto alla nostra specie».
Abbiamo studiato abbastanza la storia, da poter vedere che ciò che seguirà al capitalismo potrebbe anche non essere migliore. In tutto il mondo, dal suolo del liberalismo è emerso il fascismo. Tuttavia, proprio come sono dovuti i pagamenti delle bollette del capitalismo, le comunità resistono e sviluppano risposte complesse e sistemiche a quelle che sono le frontiere del capitalismo. Intorno a ciascuna delle sette cose a buon mercato che rendono possibile il capitalismo - natura, lavoro, cura, cibo, energia, denaro e vita - esistono dei movimenti che stanno sviluppando delle alternative. Sia che si tratti di un movimento operaio che si risveglia a livello globale, o del Movimento for Black Lives, o delle richieste di cibo, di manutenzione, e di locale sovranità economica, oppure di femminismo contadino e popolare come quello sviluppato da La Via Campesina, un movimento in America Latina che riunisce le preoccupazioni a proposito di cibo, cura, natura e lavoro; tutti movimenti che si stanno battendo e stanno sviluppando alternative intersezionali.
John Jordan, attivista e co-fondatore del movimento inglese "Reclaim the Streets", sostiene che la resistenza e le alternative sono «i due fili gemelli del DNA del cambiamento sociale». Questo cambiamento avrà bisogno di risorse e di spazio per potersi sviluppare. Se siamo costituiti dall'ecologia del capitalismo, allora possiamo rimediare solo se mettiamo in pratica nuovi modi di produrre e prenderci cura tutti insieme l'uno dell'altro - un processo di ricostituzione, di ripensamento e di rivitalizzazione delle nostre relazioni più basilari.

- Ray Patel e Jason W.Moore  - Adattato da "A History of the World in Seven Cheap Things" pubblicato da Verso il 22/5/2018 -

fonte: The Guardian

mercoledì 30 maggio 2018

Fa freddo!

inverno

Quella che è stata definita la «piccola era glaciale», tra il 1570 e il 1700, vide le temperature abbassarsi con variazioni da tre a cinque gradi, dando avvio a una vera e propria «rivolta della natura» che sortì effetti devastanti sui raccolti. Philipp Blom dimostra la sorprendente correlazione tra questa circostanza e la nascita dell’Illuminismo, analizzando le ricadute culturali dello sconvolgimento climatico in Europa.

Con un registro narrativo e appassionante, Blom costruisce un affresco in cui combina storia delle idee, della cultura materiale, delle scienze della natura, intorno a una suggestione di grande attualità: l’impatto che il cambiamento del clima produce sulla vita delle società. Così, l’avvento della piccola era glaciale diventa il punto di partenza per interrogare e mettere in relazione avvenimenti e discipline che concorrono alla formazione del mondo e del pensiero moderno. Attingendo ai racconti di testimoni diretti – tra cui Montaigne e Shakespeare – Blom riesce a proiettare il lettore nella realtà dei secoli xvi-xvii. La descrizione della vita delle comunità nel nuovo scenario ridisegnato dalla natura prende vita grazie alle affascinanti connessioni tra innovazioni nel campo della scienza, dell’economia, della tecnica e fenomeni artistici. Il capovolgimento della prospettiva operato da Blom riguarda infatti anche l’aspetto iconico: se abbiamo sempre guardato ai paesaggi invernali di Avercamp, Bruegel e altri come a rappresentazioni di un mondo in armonia con il susseguirsi delle stagioni, qui diventano ulteriori prove della catastrofe climatica  L’affresco di ghiaccio del lungo inverno europeo si rivela il pretesto per rileggere la storia da una prospettiva inedita.

(dal risvolto di copertina di: Philipp Blom, Il primo inverno. La piccola era glaciale e l'inizio della modernità europea (1570-1700). Marsilio)

Il gelo aguzzò l'ingegno e modernizzò l'Europa
- di Eleonora Belligni -

   Di fronte alle grandi questioni relative al passato, gli storici d'oggi, ben più dei loro predecessori, rinunciano ad adottare prospettive ampie nel tempo e nello spazio. Ma questo è un coraggio che non manca al libro del filosofo e giornalista Philipp Blom, pubblicato in tedesco nel 2017 e tradotto ora per Marsilio da Francesco Peri con il titolo "Il Primo Inverno": un saggio divulgativo e non specialistico, che ha però il respiro delle grandi opere storiche del Novecento. L'oggetto del suo narrare è spiegato nel sottotitolo, che in italiano è una sintesi della lunga versione originale: La piccola era glaciale e l'inizio della modernità europea.
    La piccola era glaciale di cui si parla è un fenomeno di irrigidimento del clima che l'autore colloca tra il 1570 ed il XVIII secolo e che interessò non solo l'Europa, ma il mondo intero. Il cambiamento climatico fece seguito a un lungo, caldo Medioevo, in cui la mitezza delle stagioni aveva sì favorito il propagarsi della tremenda peste nera del 1348, ma anche la successiva ripresa demografica, lenta eppur costante.
    Fino al termine del Cinquecento, il tempo atmosferico si era mostrato benevolo con il genere umano, e soprattutto con gli europei. L'agricoltura aveva prosperato nonostante l'arretratezza degli strumenti e dei sistemi produttivi, arricchendo, se non i contadini, almeno l'aristocrazia e i grandi proprietari terrieri; le condizioni metereologiche avevano favorito i commerci, i viaggi, le scoperte. E tuttavia, per cause definite ancora incerte dall'autore, questa congiuntura climatica favorevole si rovesciò improvvisamente in un crollo delle temperature medie di circa due gradi, con «inverni glaciali, estati piovose e primavere funestate dalla grandine».
    Le correnti marine e oceaniche si raffreddarono, causando migrazioni ittiche, tempeste e maremoti; contemporaneamente, l'attività sismica si risvegliò in molte parti delle terre emerse, sollevando cortine di cenere a coprire il già pallido sole. Medie stagionali più basse e umidità diffusa danneggiarono la produzione dei cereali maggiori, come il grano, e quella del vino, cardini dell'alimentazione europea. Di conseguenza, le carestie si avvicendarono ad un ritmo insolitamente serrato, perché l'agricoltura di sussistenza non permetteva di fare scorta di sementi. DI semi e cibo facevano incetta gli organi religiosi o i mercanti cittadini; alla ricerca di queste riserve, folle contadine affamate sciamavano verso le città, dando luogo a disordini e rivolte.
    In questo drammatico scenario, immortalato dalle allegorie pittoriche di Avercamp e Bruegel, nella morsa di ghiaccio e neve l'Europa non cessò di trasformarsi, assecondando i mutamenti che avevano accompagnato il Rinascimento, la Riforma protestante e la scoperta del Nuovo Mondo. Il problema di Blom è quello di capire in che modo i cambiamenti climatici del "primo inverno", destabilizzando l'assetto economico del continente, investirono la società e la politica, l'arte e la cultura, la religione e la scienza.
    Esiste un nesso di causa-effetto tra freddo, fame e carestia e la nascita della mentalità moderna? Per rispondere, l'autore dipinge un affresco che si direbbe arioso e a tinte calde, se non si collocasse sotto una cappa di cenere vulcanica, tra pianure innevate e alberi stecchiti, sulle rive di fiumi e laghi ghiacciati così in profondità da poter reggere interi mercati. È un quadro che utilizza la lente del tempo atmosferico, delle escursioni termiche e delle anomalie climatiche per raccontare un continente travagliato da guerre di religione e fanatismi, da superstizioni e cacce alle streghe e che nondimeno, nel giro di due secoli eccezionalmente freddi. giunse a colmare la distanza dal nostro presente sotto innumerevoli aspetti.
    Battuta dalle precipitazioni, attanagliata da una natura più che matrigna, l'Europa assistette al crollo della feudalità e dell'Antico Regime, diede i natali a due rivoluzioni politiche (inglese e francese) e alla rivoluzione scientifica; «adottò» il sistema solare copernicano; teorizzò il relativismo culturale con Montaigne e Bayle, il razionalismo con Descartes, lo Stato-Leviatano con Hobbes, la libertà e i diritti con Spinoza e Locke e la sfera pubblica con Mandeville; passò dai fanti mercenari alle unità di moschetteria; sperimentò mercantilismo e liberismo; creò le società per azioni, il capitalismo e finanche gli anticapitalisti. Quanto ci entri, in tutto questo, il grande freddo, l'autore lo spiega solo in parte, e non sempre in modo convincente: la temperatura di cui parla è, per buona parte, quella emanata dai dibattiti filosofici, dall'intelligenza innovatrice, dall'energia della polemica, dalla battaglia delle idee.
    Ne risulta un'opera vivida, brulicante di vicende biografiche e avventure culturali, non sempre stimolate da fame e gelo. Alcuni storici del clima non l'hanno apprezzata, accusando l'autore di colpevoli inesattezze, di cronologie fantasiose e di poca dimestichezza con i fenomeni atmosferici e con le fonti storiche. Gli errori, però, non inficiano l'interesse di un lavoro in cui il clima è spesso un semplice pretesto, un espediente narrativo per ben raccontare le trasformazioni culturali della prima età moderna. Il ghiaccio è a parte.

- Eleonora Belligni - Pubblicato su La Lettura del 22/4/2018 -

martedì 29 maggio 2018

Domande

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Se il capitalismo dell'era fordista è davvero morto, come si può fare a comprendere il nuovo «capitalismo finanziario»? Svolto a partire soprattutto dall'opera di Polanyi, questo prezioso contributo di Bernard Drevon, economista e presidente della Société des Amis de Veblen, offre una riflessione, densa e pedagogica, sul ruolo della finanza nell'evoluzione del capitalismo e sulle contraddizioni

Capitalismo, capitalismi...
- di Bernard Drevon -

La nostra riflessione si concentrerà sui principali sviluppi del capitalismo e delle relazioni sociali che lo caratterizzano. Per cui verranno lasciati fuori dal suo campo di studi, gli altri elementi della storia e delle nostre società contemporanee altrettanto importanti, rifiutando di porli in una prospettiva deterministica nella quale in ultima analisi l'economia sarebbe decisiva. Inoltre, per limitare l'ampiezza dell'argomento, tenteremo di isolare, senza voler essere esaustivi, con grande prudenza di fronte alla complessità della realtà, alcune tendenze importanti... Uno dei fili conduttori è costituito dalla riflessione sullo status della finanza nell'evoluzione del capitalismo, le sue funzioni e le sue contraddizioni, di cui la finanziarizzazione è portatrice.

La finanza al servizio dell'accumulazione, nel primo capitalismo industriale
Secondo la definizione di Karl Polanyi, un sistema economico è un «processo istituzionalizzato di interazione fra l'uomo ed il suo ambiente, che si traduce nella fornitura continua di mezzi materiali che permettono la soddisfazione dei bisogni» [*1]. Il sistema capitalistico è solo un modo particolare di istituzionalizzazione del processo di produzione, quello della proprietà privata dei mezzi di produzione. In questo sistema, l'iniziativa della produzione spetta agli attori privati, individui e imprese, guidati dalla ricerca del profitto. In un secondo tempo, questi individui ed imprese validano socialmente la loro produzione, soddisfacendo la domanda dei consumatori che si esprime sul mercato [*2].
Questa definizione generale così formulata, continua a presentare delle difficoltà. In realtà, sono esistiti dei capitalismi che si sono succeduti storicamente, e al giorno d'oggi coesistono delle forme differenti di capitalismo. In particolare, possiamo sottolineare la distinzione, proposta da J. Maucourant, fra un capitalismo qualificato come «razionale», in quanto basato sull'introduzione nel dominio economico della razionalità strumentale - un'organizzazione statale burocratico-razionale, per parafrasare Max Weber - ed un capitalismo statale autoritario. In effetti, ai nostri giorni coesistono altre forme in Cina, in Russia o in Iran per esempio, le quali assumono la forma di una capitalismo di Stato in alcuni paesi dove lo Stato non è democratico, o l'appropriazione della ricchezza è collettiva ed è riservata ad un particolare strato della popolazione, come l'esercito - un'oligarchia in simbiosi con l'apparato statale - oppure delle fondazioni religiose come in Iran. Si tratta di forme particolare nelle quali la distinzione fra il politico e l'economico è fuori luogo. Il carattere autoritario, perfino totalitario dello Stato si articola attraverso il dispiegamento della logica della valorizzazione e l'assorbimento della ricchezza da parte di una minoranza legata allo Stato, gli conferisce un carattere che è distinto dal capitalismo occidentale [*3].
Possiamo anche stabilire una distinzione fra principio capitalista e sistema capitalista: «l'antichità del principio capitalistico non implica affatto la necessità del capitalismo in quanto sistema» [*3]. Esiste da molto tempo un principio capitalistico caratterizzato dalla valorizzazione delle ricchezze, senza alcun altro scopo che essere fine a sé stesso: già Aristotele criticava la cremastica pura, vale a dire la ricerca infinita del denaro in sé, e denunciava il commercio lontano, il prestito ad interesse, il lavoro salariato, tutte pratiche che considerava pericolose per l'equilibrio personale e sociale, poiché senza limiti. Ma è cosa assai dubbia che esistesse un sistema capitalista nel V secolo AC ad Atene.
In effetti, quest'ultima cosa implica che si potessero trovare, riunite tutte insieme, quelle condizioni tecniche, istituzionali e culturali che raramente si possono constatare nella storia. Bisognerà aspettare il XIX secolo perché sia messo in atto un sistema capitalistico relativamente coerente, con delle specificità nazionali sulle quali per il momento non ci dilungheremo. Se evidenziamo i suoi tratti fondamentali, questo capitalismo iniziale può essere descritto come industriale e liberale.

Karl Marx è indubbiamente, insieme a Joseph Schumpeter [*4] e a John M. Keynes [*5], uno degli economisti che ha meglio teorizzato la dinamica del sistema sociale-economico che viene solitamente definito come «capitalismo». Tuttavia, questo modello marxiano basato sull'accumulazione allargata di capitale non è più del tutto adeguato per poter spiegare la forma attuale delle relazioni sociali capitalistiche. In realtà, il modello era basato sul reinvestimento degli utili che si generavano nell'attività di produzione di merci (di tipo 1, vale a dire beni materiali destinati a soddisfare un bisogno, un servizio produttivo - su questo concetto si veda [*6] -, un'attività essenzialmente industriale svolta grazie all'implementazione del lavoro salariato nel quadro della struttura dell'impresa, ossia secondo un famoso schema che sintetizza il processo di accumulazione: denaro investito in attrezzature, energia e forza lavoro - produzione di merci dotate di un valore superiore ai fattori produttivi - commercializzazione delle merci e realizzazione di questo valore attraverso la vendita) [Il Capitale, Libro I]. Nel modello marxiano, il lavoro è all'origine del valore delle merci; una teoria che ha suscitato molte discussioni, e sulla quale qui non ci pronunceremo.
In questo modello iniziale, la finanza è «al servizio» del settore produttivo: il credito serve al finanziamento e a quella flessibilità essenziale per i rapporti di mercato (credito interaziendale con emissione di rate). L'autofinanziamento serve per avviare attività che richiedono un investimento di fondi relativamente basso. L'emissione di azioni è limitata alle grandi imprese che mobilitano delle grandi quantità di capitale, come quello relativo alle infrastrutture ferroviarie. Il valore prodotto viene certamente anticipato, ma non ha problemi ad arrivare all'appuntamento per rimborsare questo capitale prima «fittizio». Il denaro è basato sull'oro, che serve da garanzia, e il settore bancario ha solo un margine assai limitato e temporaneo per la creazione monetaria. Fino al 1914, il deficit e il debito pubblico sono inoltre strettamente limitati nel quadro del gold standard. La crisi poteva provenire sia da delle difficoltà legate alla valorizzazione del capitale (caduta del saggio di profitto, di redditività - legato alla sovraccumulazione del capitale, o a un aumento eccessivo dei salari, o alla debolezza prolungata del progresso tecnico), sia da dei problemi di realizzazione del valore che si incorporano virtualmente nelle merci prodotte - un problema ricorrente delle crisi di sovrapproduzione che si lega ai limiti imposti dal livello del mercato, tendenzialmente sempre insufficiente (si veda il punto precedente - bisogna che la redditività arrivi all'appuntamento - per cui, nel quadro antagonistico del primo capitalismo industriale, il circuito è difficile da chiudere, perché c'è sempre bisogno di controllare il livello dei salari e dei costi). Al di fuori di questi periodo di crisi, il capitalismo raggiunge uno stato di equilibrio dinamico (comparabile a quello di una bicicletta) attraverso, da parte delle imprese, il reinvestimento dei profitti nel processo produttivo. Così facendo, esse creano sempre più le condizioni di un equilibrio micro-economico e macro-economico. In realtà, i profitti reinvestiti creano le condizioni di una riproduzione nel momento in cui il processo produttivo a livello di ciascuna impresa arriva su scala sociale. In altri termini, l'ammortamento del capitale è stato realizzato. Inoltre, gli investimento al netto della loro capacità hanno permesso a livello di ogni capitale individuale, così come a livello sociale, di creare le condizioni per la crescita della produzione, attraverso l'aumento delle capacità produttive e l'incorporazione del progresso tecnico nel processo produttivo, una condizione questa della crescita della produttività. Schumpeter insiste su questa dimensione dinamica teorizzando il processo di «distruzione creatrice», oggi ben noto. Inoltre, c'è stata un'espansione dei mercati per i produttori di macchinari e di attrezzature. Ma questa riproduzione economica è stata anche riproduzione del rapporto sociale, in quanto gli investimenti si traducevano nell'assunzione di lavoratori salariati, cosa che portava all'allargamento della base sociale del sistema (e, ancora una volta, del mercato). La creazione di posti di lavoro è stata anche condizione dell'accettabilità del sistema.

Il fordismo, fase di stabilizzazione del capitalismo
Con una partenza caotica, in cui il XIX ed il primo XX secolo sono stati caratterizzati per il ripetersi delle crisi e delle tensioni sociali esacerbate, questo processo doveva trovare il suo equilibrio nel fordismo del dopoguerra, il cui modello è ben noto, con alla sua base le democrazie ed i modelli sociali contemporanei dei paesi economicamente dominanti, principalmente europei. La crescita della produttività del lavoro ha permesso l'aumento dei salari reali, ed il farsi carico dei rischi sociali ha risolto la questione degli sbocchi della produzione per il mercato, mentre i profitti venivamo mantenuti ad un livello sufficiente (ancora una volta, con importanti specificità nazionali).
In questo modello, che richiedeva enormi investimenti, il capitale fittizio viene sempre più mobilitato, pur rimanendo al sicuro, al riparo del valore anticipato ed effettivamente prodotto. È principalmente attraverso il credito bancario (in Francia, sotto il controllo pubblico) che fino agli anni '70, gli enormi investimenti vengono realizzati su base industriale.
Le politiche industriali avevano potuto orientare l'apparato produttivo in quei settori ritenuti essenziali per l'economia nazionale. Nazionalizzazioni e pianificazione indicativa, completavano il quadro di questa «economia mista».
Lo statuto del deficit, del debito pubblico e della moneta, in quest'epoca, sotto l'influenza della teoria di Keynes - che in effetti condannava la speculazione e l'irrazionalità dei mercati finanziari (mercati che vengono piuttosto tenuti al guinzaglio nel periodo che segue alla seconda guerra mondiale), in seguito all'estrema gravità della crisi del 1929 - cambia. Ma, di contro, deficit pubblico e disavanzo amministrativo vengono messi al servizio dell'accumulazione del capitale, soprattutto al servizio del livellamento congiunturale della crescita. La valuta viene ad essere oggetto di un processo endogeno di creazione da parte delle banche di deposito, sotto il controllo delle banche centrali nazionali («i crediti costituiscono i depositi»). L'oro continua ad essere il riferimento ultimo per il dollaro solo dal 1944 al 1971.

La globalizzazione e la finanziarizzazione come via d'uscita dalla crisi del fordismo
Questo modello entra in crisi negli anni 1970, e dopo molti tentativi trova una soluzione provvisoria della sua crisi negli anni 1980. Nella sua forma neoliberista, il capitale si orienta in maniera massiccia verso due direzioni: da un lato, in tutto il mondo, verso un trasferimento dei processi produttivi attraverso una frammentazione delle catene del valore verso i territori e le zone che offrono i necessari vantaggi comparatici (padronanza della tecnologia, costi salariali), e dall'altro lato, allo sviluppo delle attività finanziarie, che diventano una vera e propria «industria», che produce su scala sempre più allargata dei Titoli che possono essere definiti come delle «merci di tipo 2» [*6]. Le loro caratteristiche consistono nell'assenza di materialità (si tratta di semplici simboli), nel fatto che il loro valore si basa sulla fiducia nel reddito che possono generare in futuro, sui potenziali plusvalori legati all'aumento del loro valore, sul loro carattere di scambiabilità, quindi la loro liquidità, su dei mercati organizzati. Questa proprietà di liquidità è essenziale, in quanto permette di poter trasformare immediatamente il titolo in denaro, per evitare ogni perdita di capitale, e per permettere la mobilità istantanea del capitale. La loro emissione e la loro circolazione spingono fino al suo limite il principio capitalista, in quanto permettono l'arricchimento senza passare da qualsivoglia processo materiale - A - À', il denaro genera denaro...

Le cause profonde di questa rivoluzione neoliberista
Questa rivoluzione neoliberista, secondo molti analisti si è resa necessaria, da una parte, per poter riuscire a superare il problema della redditività del capitale, ma dall'altra anche per risolvere il problema legato alla gestione della manodopera salariata. La disciplina della fabbrica si è rivelata insopportabile per le giovani generazioni di lavoratori, i quali hanno massicciamente, e sotto forme diverse, praticato il «rifiuto del lavoro» (scioperi, assenteismo, scioperi «selvaggi», ecc.). Le tensioni sociali proprie del fordismo (manifestatesi nei movimenti sociali come il Maggio '68, il Maggio rampante italiano del 1969, le lotte sociali in tutto il mondo avvenute negli anni '70) hanno dapprima provocato dei forti aumenti salariali, e poi la ricerca di soluzioni alternative in materia di organizzazione delle imprese e delle attività produttive: automazione, outsourcing, delocalizzazione, segmentazione dei salariati in varie categorie con protezioni differenziate (Contratti a tempo indeterminato, contratti a tempo determinato, lavoro temporaneo). Al livello superiore del sistema salariale, era anche necessario rispondere alla «critica artistica» del capitalismo contro l'alienazione di cui è il vettore: sottomissione ad una pesante gerarchia, assenza del senso dell'attività nel quadro burocratico delle grandi organizzazioni, soffocamento della creatività, obiettivi dell'impresa definiti dalle gerarchie e dalle leggi di mercato, perseguimento esclusivo del profitto monetario [*7]. La reazione è consistita ad esempio in un accorciamento delle catene gerarchiche ed in un appello alla mobilitazione di ciascuno all'interno dell'azienda (la nuova gestione ha portato alla responsabilizzazione di ciascuno, alla definizione di obiettivi valutabili...).
Inoltre, negli Stati Uniti, l'aumento del tasso di interesse avviato dalla FED (Banca Centrale) all'inizio degli anni '80, e prolungatosi a causa dello shock sul tasso di interesse causato dall'unificazione tedesca (crisi del SME 1992-1993), dapprima ha aggravato le condizioni finanziarie delle imprese, e quindi i loro costi, che è stato un altro stimolo a «cambiare tutto».
La ristrutturazione della produzione diviene la parola d'ordine generale. E quindi viene massicciamente incorporata l'ICT (Information and Communications Technology) per poter abbassare i costi salariali, ereditati dal periodo dello sfarzo, ed i costi finanziari dovuti al cambiamento di strategia messo in atto dalle autorità e dalle grandi imprese. Inoltre, nel centro sviluppato, vengono anche chiuse delle unità di produzione, per essere trasferite verso le periferie (da qui, la deindustrializzazione di intere regioni e lo sviluppo accelerato di certe zone situate in Cina, ad esempio).
La caduta del muro di Berlino, il crollo dell'URSS e del socialismo reale, inoltre hanno anche permesso la generalizzazione del capitalismo sotto la forma di capitalismo politico, soprattutto in Cina, dove la forza sfrenata della sete di benessere materiale da parte della popolazione ed il suo carattere autoritario ereditato dal vecchio regime, che permette dei salari molto bassi ed una grande adattabilità della manodopera... L'Europa dell'Est può servire come entroterra per la capitale tedesca... Da principio tutto sembrava sorridere e dare un nuovo anelito a questo sistema. È stata perfino teorizzata la fine della storia, in cui si combinava il Grande Mercato e la democrazia. Ma piuttosto alcune caratteristiche del modello hanno generato delle contraddizioni fino a quel momento soggiacenti.

Le principali caratteristiche del capitalismo finanziario
È opportuno caratterizzare questo capitalismo neoliberista in maniera più precisa. Una prima caratteristica è quella della mobilitazione sistematica delle conoscenze tecniche e scientifiche nel processo produttivo,una mobilitazione che sembra apparentemente negare il lavoro come fonte principale del valore delle merci. Le nuove teorie, sia nel quadro classico che in quello neo-keynesiano, mettono il luce le fonti endogene della crescita che si basano sul progresso tecnico, esso stesso a sua volta oggetto di sistematici investimenti pubblici e privati. Anche questo approccio insiste sull'innovazione rivoluzionaria (su questa corrente si veda la rilettura fatta da Schumpeter). Su questo tema del progresso endogeno, possiamo fare riferimento a T.Veblen. (1899) che lo vede come il prodotto di un'attività collettiva di produzione soggetto ad un'appropriazione privata (Si veda O.Brette [*8], così come Marx, che a metà del XIX secolo (1857-1858), nei Grundrisse, aveva sviluppato la teoria del General Intellect).
Anche la governance aziendale ha conosciuto dei cambiamenti fondamentali. Il valore azionario è diventato il criterio principale di gestione che impone alle imprese di generare un surplus sempre superiore al rendimento corrente del capitale nel periodo e nella zona considerata. La "corporate governance", proveniente dai paesi anglosassoni, conferisce agli azionisti, a scapito dei dirigenti (i manager) e dei salariati, un potere che avevano perso durante il periodo precedente. L'impresa deve massimizzare e aumentare continuamente i suoi profitti per mezzo di una ristrutturazione senza fine e attraverso la ricerca del profitto nei settori finanziari, a scapito del settore precedentemente produttivo.
Un'altra delle sue caratteristiche è quella dello sviluppo del settore finanziario in proporzioni fino a quel momento sconosciute. Occorre comprendere quest'evoluzione e sapere se si tratta di un vero tratto strutturale o di escrescenza anomala, che dev'essere analizzata come patologica, che è piuttosto la tendenza dominante fra gli economisti critici (si veda più avanti). Possiamo sognare un ritorno al fordismo?
Queste tre caratteristiche si articolano, e sono un elemento essenziale ai fini di una riflessione critica. E senza fingere di decidere, è necessario fare emergere chiaramente le posizioni e le loro conseguenze.
Che cos'è la finanza contemporanea? Thorsten Veblen [*8] ci mette sulla strada di una una teoria alternativa del capitale e dell'investimento che distingue il capitale in quanto «fatto pecuniario» da quelli che sono i «beni capitali», vale a dire «l'attrezzatura industriale». Secondo lui, il capitale, per la sua funzione, non è altro che un fenomeno pecuniario poiché «l'investimento è un'operazione pecuniaria che mira ad un guadagno pecuniario - un guadagno in termini di valore e di proprietà». Da questo punto di vista, il capitale non è altro che «ricchezza investita».

Karl Marx, nel Capitale, Libro III, da parte sua ha definito i titoli (ai suoi tempi, essenzialmente delle cambiali, dei titoli al portatore) come capitale fittizio. Vale a dire? questo capitale assume la forma di titoli che rappresentano un valore anticipato (in opposizione alla merce di tipo 1, concreta, che rappresenta un valore già creato). Questi titoli sono delle Azioni, delle obbligazioni, dei prodotti derivati. Più precisamente, si distinguono due forme di capitale fittizio. Da un lato, troviamo l'obbligazione di debito che viene stabilita al momento della creazione di un credito. Possono essere obbligazioni societarie, titoli di Stato, ipoteche immobiliari, ma anche dei semplici libretti di risparmio. Dall'altro lato, abbiamo il capitale azionario che rappresenta l'aumento del capitale sociale delle imprese.
Il capitale fittizio è un capitale autonomo e supplementare. Questo aspetto un po' misterioso può essere descritto: L'acquirente di un'azione ha certamente ceduto del capitale sotto forma di denaro al venditore , il quale teoricamente se ne servirà per acquisire del capitale funzionale (macchinari, laboratori, ecc.). Ma, come controparte egli possiede un titolo che può essere rivenduto, incassando eventualmente un surplus (plusvalore di borsa). Inoltre, il titolo gli dà il diritto di ricevere una parte del profitto che la società emittente dovrebbe realizzare in futuro. Lo stesso vale per il rapporto di credito: il sottoscrittore acquisisce un bene immobiliare, del capitale, che senza questa proiezione nel futuro non avrebbe potuto avere. Il titolo di credito può perciò essere rivenduto in seguito (vedi, cartolarizzazione), riportando il rischio sull'acquirente del prodotto derivato (vedi, CDS, credit default swap). Esso è portatore di interesse per tutta la sua «vita».
Quindi, questo capitale fittizio ha un effetto assai reale sulla dinamica del sistema e sul processo di accumulazione. Inoltre, la relazione di credito genera un processo di creazione monetaria da parte delle banche commerciali che alimenta la domanda globale (si veda la creazione monetaria endogena, dal momento che i crediti costituiscono i depositi). Gli effetti cumulativi sono collegati e sono degli effetti assolutamente reali... Questa logica autoreferenziale, ben teorizzata da André Orléan [*9], è in effetti fonte di profitto e genera un'accumulazione di capitale, allo stesso modo di quella prodotta dall'acquisizione di beni di produzione e dall'assunzione di forza lavoro, man mano che la crescita continua e via via che vengono gettati sul mercato dei nuoti titoli portatori di speranze riguardo il futuro del loro mercato. Questa alimentazione che avviene attraverso un flusso continuo di nuovi titoli, è senza dubbio un elemento essenziale e nuovo del capitalismo contemporaneo. Naturalmente, questo capitale viene creato solo in maniera provvisoria, dal momento che si estinguerà al momento del rimborso del credito, il riacquisto dell'azione da parte della società che l'ha emessa, oppure la sua svalutazione dovuta ad un crollo del mercato azionario. Ma la produzione di nuovi titoli che eccedono quelli vecchi, arriva davvero a generare una nuova ricchezza che può sembrare paradossale. Le merci di tipo 2 che spingono fino al limite il feticismo della merce, e il denaro che genera denaro (A - À') senza passare attraverso il processo produttivo (lavoro e produzione), essi non sono meno portatori di una forte incertezza e di nuove contraddizioni. Infatti il loro valore si basa su delle aspettative: la capacità delle imprese di produrre un valore che sia sufficiente a rimborsare i prestiti, la capacità da parte delle famiglie a percepire un reddito sufficiente, la convalida delle aspettative riguardo gli utili sulle azioni, la capacità degli Stati di alzare le tasse... Certo, è possibile ridurre i rischi relativi a questo tipo di titoli (derivati creditizi), ma questo si è rivelato ampiamente illusorio a fronte della crisi iniziata nel 2007 (quella dei subprimes). Tutto quanto si basa sulle scommesse sul futuro, tanto più che questo capitale sta crescendo senza più alcun limite...

L'esistenza di capitale fittizio nutre la possibilità di bolle speculative sempre più importanti e dalle conseguenze potenzialmente devastatrici. Infatti, è razionale partecipare a dei movimenti al rialzo che si basano sulla speranza di guadagni in valore sul prezzo dei titoli (o immobiliari), guadagni che non hanno alcun rapporto con la capacità di rimborso da parte degli agenti o con la redditività delle imprese. Come sottolineava Keynes, nel 12° capitolo della "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (1936), la speculazione è l'alternativa agli investimenti nell'impresa, se vengono soddisfatte le condizioni istituzionali per far sì che questo libero corso sia lasciato allo sviluppo dei mercati finanziari. Keynes percepisce qual è la posta in gioco rappresentata da questo nuovo patto: lasciato senza una cornice istituzionale, il capitale si autonomizza dalla sua base materiale e sociale, e rischia così di far affondare l'economia nel marasma (equilibrio della sottoccupazione) e la società nella violenza, nel momento in cui si verificano crolli e crisi. La perdita di fiducia nella moneta durante la crisi monetaria, pone le forze sociali in una relazione faccia a faccia che libera «la violenza della moneta» [*10]. Per Keynes dev'essere assicurata la liquidità, in modo da permettere la liquidità dei capitali e la loro allocazione ottimale per i loro detentori, ma dev'essere contenuta entro dei limiti rigidi, al fine di evitare questo passaggio dal capitale ad A - À'. Ma nella crisi, se ciascuno cerca di vendere i suoi titoli per «arrivare per primo», prima del previsto ribasso, realizzando in questo modo la profezia del crollo che si auto-avvera, allora la liquidità potenzialmente è anche una minaccia. Bisogna perciò garantire la regolamentazione dei mercati attraverso delle regole severe, per evitare che «la speculazione» abbia il meglio su «l'impresa». Tuttavia, la ricerca del valore nella speculazione, ha permesso di ritrovare un estremo vigore negli anni 1980, con la rivoluzione neoliberista, la quale doveva essere uno dei fattori di risoluzione della crisi del fordismo. Il segnale di semaforo verde venne dato dalle autorità politiche, dando il via al più fantastico rigonfiamento di denaro creditizio della storia (contrariamente ai principi di rigore che venivano mostrati pubblicamente e politicamente). La liberalizzazione dei mercati finanziari e la loro internazionalizzazione andava ad alimentare una speculazione senza limiti, dal momento che una massa di titoli veniva ad essere messa sul mercato a causa della rapidissima crescita del debito pubblico (i cosiddetti titoli sovrani sono molto apprezzati perché in linea di principio sono molto liquidi in quanto beneficiano della garanzia dello Stato) e delle privatizzazioni, l'altro mantra dei guru neoliberisti.
Viene denunciato assai spesso il carattere irrazionale della crescita dei mercati azionari e finanziari. E questo naturalmente viene fatto inconsiderazione della logica economica ragionevole e del benessere sociale, e dell'equilibrio politico delle società. Ma sembrava che negli anni 1990 si fosse entrati in una «nuova economia» in cui le start-up venivano valutate miliardi di dollari, senza che non avessero mai prodotto niente... Il crollo del 2000 che riguardava le nuove tecnologie sembrava aver messo ordine nei confronti di tale illusione, ma la speculazione schizzava con il gigantesco indebitamento delle famiglie americane e dello Stato federale, mentre si sviluppavano dei nuovi titoli che si riteneva potessero diluire e ridurre il rischio (derivati cartolarizzati CDS) con la benedizione degli «esperti» della scienza economica. Allo stesso modo, l'abbassamento del tasso d'interesse avviato dalla FED per contrastare i danni causati dalla crisi delle Nuove Tecnologie, alimentava l'infernale pentolone della speculazione, fino alla crisi estrema del 2007, le cui conseguenze si fanno tuttora sentire. L'indebitamento ipotecario sul settore immobiliare è arrivato a dei livelli record relativamente al PIL degli Stati Uniti.
Un altro esempio: in Europa, nella zona euro, i bassi tassi d'interesse degli anni 2000 hanno cominciato ad alimentare delle bolle nel settore immobiliare, causando un'ingannevole euforia, soprattutto nei paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia). Le capitali del Nord (Germania, Olanda, ecc.) hanno pesantemente investito su questo, ponendo così le basi per la crisi del 2011 che ha portato la zona euro al limite dell'implosione con la crisi greca ed i dubbi insinuati rispetto alle banche commerciali della zona euro (soprattutto in Germania ed in Italia). I limiti della moneta unica e le inadeguatezze del suo quadro istituzionale sono sotto gli occhi di tutti. Sembra importante insistere sulla natura strutturale della produzione su una scala progressiva di merci di tipo 2, vale a dire titoli, in connessione con un nuovo ruolo assegnato alle Banche centrali nel quadro di un sistema monetario internazionale deregolato a partire dal 1976. A tal proposito, ci sono tre teorie principali che si affrontano:
- La tesi, dominante da tempo insieme alla rivoluzione neoliberista, era quella dell'efficienza di questo settore conformemente all'idea di aspettative razionali e di informazione perfetta sui mercati [*11]. Questa tesi supportava la deregolamentazione e l'internazionalizzazione di questi mercati, ed a portato al crollo del 2007-2008.
- Oppure riteniamo che la finanza sia un'escrescenza improduttiva, della quale andrebbero limitati gli eccessi limitando il suo sviluppo e regolando la sua attività (alcuni, come Paul Jorion, propongono semplicemente di vietare la speculazione). Questa tesi viene in larga misura ripresa a sinistra e all'estrema sinistra, e anche in molte correnti sovraniste che si basano su una lettura marx-keynesiana della crisi.
- Una tesi alternativa si basa su una rilettura della teoria di Marx [*12]. Il capitale fittizio sarebbe in grado di permettere che venga liberato quanto basta a finanziare la transizione neoliberista e mantenere i profitti per mezzo di una fuga in avanti che viene rinnovata senza fine: avrebbe perciò delle «virtù» molto reali. Le imprese si ristrutturano, gli utili delle grandi imprese sono in crescita grazie alla crescente quota, nel loro bilancio, delle attività finanziarie, mentre il lavoratori vengono sottomessi a dei nuovi vincoli di produttività e di intensificazione del lavoro, ed i posti di lavoro intermedi continuano a diminuire; le scadenze sociali legate alla disoccupazione, all'eredità delle conquiste sociali del fordismo, vengono portate avanti grazie all'indebitamento di Stato e dei sistemi di protezione sociale. Questo debito pubblico a sua volta alimenta la crescita della finanza per mezzo di titoli che beneficiano della garanzia pubblica (basata sulla legittimità degli Stati e della loro capacità di aumentare le tasse, una legittimità e una capacità che d'altra parte continua a diminuire.
L'importante è sottolineare che la dinamica dell'accumulazione si baserebbe sulla crescita permanente della produzione di titoli (da qui, le innovazioni permanenti in quei settori ed il discorso, che viene continuamente rinnovato, a proposito del loro beneficio e della loro razionalità), il cui valore si baserebbe sulle aspettative positive sempre convalidate in questi settori potenzialmente «portatori» di profitti futuri (varie bolle sulle nuove tecnologie, sul settore immobiliare, sulle start-up. ecc.).

Quali conseguenze sulla società e sul futuro del capitalismo? Che ne sarà della critica?
Il fordismo è morto, l'equilibrio socio-economico è sempre più difficile da realizzare nei quadri istituzionali ereditati dal periodo precedente, i settori tipicamente produttivi del valore sperimentano un'espulsione massiccia di lavoratori nei centri sviluppati, e delle delocalizzazioni verso delle zone che presentano dei vantaggi comparativi. Nei paesi sviluppati, i sistemi di protezione sociale e di solidarietà territoriale sono minacciati, in quanto si basano sul lavoro e su dei prelievi fatti localmente sul valoro produttivo.
Lo scoppio delle catene del valore su scala mondiale, ha delle conseguenze complesse: i prodotti incorporano in gran numero delle componenti provenienti da paesi e da imprese, cosa che richiede trasporti in rapida crescita. I poli di crescita si sviluppano intorno a delle metropoli o a dei centri di ricerca, che mobilitano così una manodopera assai qualificata. Ma si creano anche dei posti di lavoro che riguardano delle attività poco o punto produttive, dove i salari sono bassi. Perciò nelle zone sviluppate i posti di lavoro medi, delle classi medie, e di quella che è la parte più importante della classe operaia sono minacciati dalla globalizzazione e dalle conseguenze di un progresso tecnico assai rapido. I posti di lavoro vengono creati massicciamente in certi paesi come la Cina, l'India, il Marocco, ma si tratta di posti di lavoro fragili, minacciati da un lato dal progresso tecnico, e dall'altro dalla crescita dei salari, dalle norme di sicurezza o dagli standard di qualità imposti o ottenuti dalla dura lotta.
A questi effetti della globalizzazione si aggiungono quelli del progresso tecnico che per il momento si traducono nel rafforzamento delle tendenze precedentemente citate riguardo la polarizzazione dei posti di lavoro nel centro sviluppato: crescita dei posti di lavoro altamente qualificati e dei posti di lavoro poco qualificati, minaccia relativa ai posti di lavoro mediamente qualificati nell'industria e creazione di nuovi servizi. Ciò non senza conseguenza sull'equilibrio delle democrazie che si basano sull'adesione delle classi medie e che si lega al miglioramento della loro situazione.
Per il momento, a livello mondiale, il bilancio è positivo in termini di creazione di posti di lavoro e di riduzione delle disuguaglianze fra i paesi grazie all'uscita dalla povertà rurale. Ma le disuguaglianze crescono in seno ai paesi , sviluppatisi precedentemente come periferici. È dubbio altresì che l'insieme della popolazione del Sud possa iscriversi in un quadro di posto di lavoro salariato sul modello fordista, in quanto esiste un ampio divario fra offerta e domanda di lavoro. L'attrazione causata dalle metropoli del Sud prosciuga masse crescenti di contadini in cerca di occupazione e di modelli di vita urbani. Inoltre, l'automazione si diffonde nelle zone periferiche facendo aumentare i salari, e viene alimentato in questo modo il fenomeno della delocalizzazione.
La stagnazione secolare attualmente constatata, ha delle cause complesse e mette in dubbio il futuro: si manifesta attraverso la bassa crescita della produttività totale dei fattori, un'eccedenza di risparmio, un debole investimento produttivo (si veda R. Gordon e L. Summers). L'industria vive un un aumento di produttività assai significativo, ma la crescita dei posti di lavoro dei settori dei servizi a bassa produttività, ed il mantenimento del capitale investito nei vecchi settori compensa questo aumento. Forse i progressi tecnici non vengono misurati bene? La redditività del capitale è forse talmente debole che il tasso d'interesse dev'essere mantenuto in maniera durevole a dei livelli che si avvicinano a quelli dello zero, senza che via sia alcuna inflazione.
Alcuni (come Patrick Artus e Marie-Paule Virard [*13]) avanzano la seguente ipotesi: la stagnazione della produttività sarebbe legata agli interventi massicci ed intempestivi delle grandi Banche centrali. I bassi tassi di interesse, l'abbondanza di liquidità, consentirebbero alle imprese della «vecchia economia» di sopravvivere e bloccherebbero il processo di distruzione creatrice. Nel lottare contro la deflazione, le banche centrali sbaglierebbero obiettivo. Al contrario, sarebbe consigliabile agevolare l'emergere e la crescita di nuovi settori altamente produttivi, e la mobilità del capitale verso queste nuove attività. Ciò comporterebbe tuttavia una massiccia svalutazione del capitale investito nel settore tradizionale (come la grande distribuzione), la cancellazione di molti debiti di questi settori (quindi, la rovina dei creditori), il loro trasferimento verso il settore pubblico, la disoccupazione e la riconversione della forza lavoro... In sintesi, una grande crisi deflattiva. Al momento, questo programma tradizionale, che vede grandi fasi di transizione, dal 2008, non è mai stato attuato realmente, poiché i rischi sociali e politici sono considerevoli. Tuttavia, non possiamo escludere che non venga applicato in futuro...

Un altro modo di pensare la questione delle contraddizioni del capitalismo, è quello che arriva alla sua maturità passando per i concetti della teoria standard: i costi sono diminuiti così tanto, in seguito ai progressi della produttività del settore industriale, una diminuzione legata anche alle enormi economie di scala, in particolare nel settore ICT, dove la produzione avviene a costo marginale zero. Questo è stato sottolineato da Daniel Cohen [*14], il quale afferma che è la prima unita di merce fabbricata ad essere costosa, e non quelle che seguono. Un software è costoso da progettare e da mettere a punto, allo stesso modo in cui avviene per la molecola di un farmaco. I costi fissi sono molto importanti, in quanto sembra che il progresso tecnico sia influenzato dalla legge dei rendimenti marginali decrescenti (sembra che la spesa per la ricerca produca meno innovazioni radicali).Ma le copie supplementari hanno costo zero. Questo abbassamento dei costi marginali, tende a verificarsi in settori che diventano sempre più numerosi: il settore audiovisivo, ma anche i trasporti, il commercio, l'industria farmaceutica con la diffusione dell'Intelligenza Artificiale... In tale contesto, la concorrenza libera ed equa non è più necessaria. Al costo marginale zero, dovrebbe corrispondere un prezzo pari a zero, e quindi un profitto pari a zero. Le regole della determinazione del prezzo in regime di concorrenza perfetta non si applicano più...
In questo contesto, i capitalisti devono reagire creando dei monopoli come il GAFA (Google, AMazon, Facebook, Apple) che impone dei prezzi largamente positivi. Il controllo della proprietà intellettuale è un altro modo per preservare la possibilità di vendere a caro prezzo: la protezione dei diritti di proprietà fa aumentare i costi unitari di capitale ed impedisce al costo marginale di crollare a zero (si vedano le battaglie intorno ai brevetti, ai diritti d'autore sui medicinali, sulle opere intellettuali). Ai suoi tempi (1899), Thorstein Veblen ha criticato le rendite dei monopoli creati attraverso l'accumulazione «di beni immateriali», elementi immateriali di ricchezza come i segreti di fabbricazione, i brevetti, la reputazione, le concessioni, i marchi ed altri diritti. Per lui, strettamente, questi beni non hanno «alcuna utilità» per la comunità in generale, e ne approfittano «solo i venditori». Al contrario, costituiscono uno spreco delle risorse che riduce il «bene comune», come fa la pubblicità che spinge al «confronto aggressivo». Questa critica rimane attuale se consideriamo il valore che nella strategia delle imprese, nei bilanci delle società e negli utili che possono essere distribuiti, viene acquisito attraverso questo tipo di beni.
Un altro modo è quello di estendere costantemente il «campo d'azione» del capitalismo: innovazioni dei prodotti e dei processi (si vedano i modelli neo-schumpeteriani [*15], nuovi marchi e nuovi territori, ecc.), ma in un contesto di vincoli ambientali sempre più rigidi in un mondo finito.
In questo contesto la finanza svolge un ruolo centrale in quanto settore portatore della valorizzazione del capitale, e sarebbe illusorio pensare che se ne potrebbe limitare drasticamente, o vietare, la crescita, nell'attuale quadro istituzionale e sociale. Essa si basa anche sull'intervento pubblico delle banche centrali su una scala mai vista prima, e con un ruolo probabilmente irreversibile senza un grande sconvolgimento. Questa crescita del loro intervento, all'inizio era legato alla profondità della crisi dei subprime del 2007. La necessità di intervento si legava inizialmente alla crisi di liquidità, che bloccava totalmente il mercato monetario. Con l'aggravarsi della crisi negli Stati Uniti, e più particolarmente in Europa a partire dal 2011, le banche centrali hanno acquisito ingenti quantità di titoli pubblici e privati (obbligazioni). Il bilancio della BCE ora è gigantesco (più di 4000 miliardi di euro) e si pone la questione dell'uscita dal quantitative easing (programma di riacquisto mensile di titoli che è passato da 80 miliardi di euro, a 60 miliardi, per arrivare, nel 2018, a 30 miliardi). La Fed ha messo fine al suo programma, ma si trova anche ad avere un'enorme quantità fatta di miliardi di dollari di titoli vari (su un bilancio di 4200 miliardi di dollari). Questa liquidità, che viene fornita alle banche di deposito, dovrebbe essere utilizzata per aumentare il volume del credito concesso all'economia (famiglie, imprese) al fine di stimolare gli investimenti, e quindi la crescita. Questo effetto è rimasto assai limitato, in quanto la domanda di credito per gli investimenti è relativamente modesta. Perciò le banche, e gli agenti, riallocano questa liquidità trasferendola verso delle collocazioni sicure (presso la Banca Centrale), o speculative (verso i mercati finanziari). Tutto ciò sta alimentando un continuo aumento del mercato azionario, che assorbe questa liquidità supplementare che viene iniettata in quantità ingenti nel sistema bancario, in seguito a questi vari crolli, senza che appaia l'inflazione su beni e servizi.
Per evitare questo ritorno di liquidità verso la Banca Centrale, quest'ultima accompagnava la sua azione con un abbassamento drastico, a zero e addirittura a dei livelli negativi, del tasso di interesse, cosa che rimane una delle più grandi innovazioni. la quale la dice lunga sulla profondità della crisi. La Banca centrale è riuscita anche a pilotare a lungo verso il basso il tasso di interesse, per stimolare gli investimenti. Sembra difficile che le banche centrali possano riuscire a tirarsi fuori da questa situazione. In effetti, l'aumento dei tassi potrebbe provocare obbligatoriamente un crollo e mettere in gravi difficoltà sia gli Stati che gli agenti privati, pesantemente indebitati. Sembra che le banche centrali stiano considerando la possibilità di giocare un loro ruolo nella regolamentazione finanziaria, per limitare i cicli finanziari intervenendo sui mercati azionari ed immobiliari. La Banca del Giappone lo ha fatto per qualche tempo, rilevando gli indici borsistici (quindi sostenendo i prezzi delle azioni in borsa). Stiamo entrando in un mondo sconosciuto... [*16]

Ma bisogna considerare anche gli aspetti sociali e culturali di questo tipo di capitalismo e della sua generalizzazione. D'altra parte, la finanziarizzazione ha svolto un ruolo importante nella transizione verso un universo culturale e sociale nuovo, espropriando partner commerciali stabili e rimettendo in discussione quelli che erano dei contratti impliciti che stabilizzavano le relazioni sociali. I partner (in inglese «stakeholders» - i lavoratori con uno status garantito, una parte dei quadri dirigenziali, i partner commerciali, i fornitori) sono stati espropriati dei loro profitti dai «raiders», i quali valorizzano il capitale investito per mezzo delle plusvalenze borsistiche e grazie ai dividendi delle azioni attraverso le loro incursioni e ristrutturazioni. A partire dagli anni '80, entriamo in un universo meno stabile, più fluido, ed anche più precario...
La relazione salariale di tipo fordista viene così sottomessa a forte pressione, e si avvia ad essere abbandonata. Il contratto a tempo indeterminato viene compromesso dall'emergere dei nuovi contratti di lavoro (interim, contratto a tempo determinato, contratti a progetto, part-time, ecc.). Le protezioni legate al posto di lavoro vengono erose, mentre il rapporto di lavoro diventa sempre più instabile, come lo ha ben dimostrato Robert Castel [*17]. La disoccupazione e la sottoccupazione diventano strutturali. I contratti di lavoro collettivo saltano, nell'impresa, i lavoratori possono ritrovarsi coinvolti in diversi tipi di relazione giuridica: permanente, a tempo determinato, interinale, sub-appalto...Anche la globalizzazione delle catene di valore contribuisce alla destabilizzazione di tutta la relazione salariale, anche se i più colpiti sono i lavoratori scarsamente qualificati o di qualificazione media del settore industriale. I diritti e la protezione sociale si deteriorano, ed è il settore delle assicurazioni private a prenderne il posto, a costi crescenti. Secondo la storia dei sistemi sociali, tutto ciò assume varie forme, come lo mostra chiaramente Gosta Esping-Andersen [*18]. Il modello liberale residuale dei paesi anglosassoni lascia sempre più spazio al mercato, mentre il modello conservatore-corporativista alla francese finora ha resistito soffrendo però sempre più battute d'arresto e critiche (rimborsi negativi, aumento dei contributi, eccedenza delle tasse). Allo stesso modo, l'impiego pubblico si è ridotto sempre più, seguendo i modelli sociali, subendo anche critiche e regressioni (in termini di salario relativo, ad esempio). Emergono inoltre delle nuove forme di relazioni imprenditoriali  come l'autoimprenditorialità, che assai spesso non sono altro che forme degradate e precarie di rapporto salariale. In questi ultimi decenni, si sono moltiplicati, con una gradualità che va dallo status reale dell'imprenditore nell'ambito delle start-up innovative a quella del correttore nella versione del contratto a tempo indeterminato a zero ore, passando per l'autista Uber, il fattorino Deliveroo, o il mercante di pizza... Questi cambiamenti sono il frutto complesso delle lotte sociali degli anni 60-70 (rifiuto del lavoro industriale da parte dei giovani operai), ma anche la ricerca dell'autonomia individuale, la fascinazione per lo status di imprenditore trasmessa attraverso la letteratura e la stampa, la delusione per il fallimento dei movimenti collettivi, il collasso del socialismo reale... Questi processi sociali vanno considerati nella loro complessità, in quanto sono allo stesso tempo oggetto di una domanda sociale (rifiuto della subordinazione gerarchica, ricerca di autonomia, ricerca di soluzioni alternative nel settore dell'economia sociale e solidaria, ricerca di soluzioni individuali per conto proprio, anche se si rivelano illusorie in quanto sottomissione alle logiche impersonali e vincolanti del mercato), e di un'offerta interessata (le imprese beneficiano di margini sempre più grandi di adattabilità nei confronti del loro volume di posti di lavoro, e della selettività delle loro assunzioni). Circa la ricerca di senso e circa la relazione con il lavoro, ricordiamo l'interesse che rivestono le tesi di André Gorz [*19].
D'altra parte la crescita delle disuguaglianze è direttamente legata a questo nuovo capitalismo perché la compressione dei salari bassi e medi, e l'esplosione degli alti redditi salariali e da capitale (rendita, diritti di proprietà, plusvalenze, dividendi) sono ovviamente il risultato dei cambiamenti precedentemente descritti. Per i risultati statistici, si veda Thomas Piketty [*20]. Questa debolezza salariale e la deformazione della condivisione del valore aggiunto, hanno senza dubbio permesso di mantenere la redditività del capitale malgrado il debole guadagno legato alla produttività.
Gérard Duménil e Dominique Lévy [*21] attribuiscono questo cambiamento radicale che riguarda la distribuzione nei paesi anglosassoni ad una nuova alleanza di classe fra quadri salariali di alto livello ed i detentori di capitale. Tale alleanza avrebbe sostituito il compromesso keynesiano del dopoguerra (vedi fordismo) basato su un accordo fra quadri e classe operaia, sulla crescita dei salari al ritmo dei guadagni di produttività, sul reinvestimento dei profitti, e la creazione di una protezione sociale con forme diverse, secondo i diversi paesi.
Lungi dall'essere inattivo, o essersi ritirato, lo Stato gioca un ruolo centrale in questa transizione verso il neoliberismo. Infatti, la diffusione del capitalismo e dei mercati a partire dal XVIII secolo è avvenuto con l'appoggio dello Stato, come ha dimostrato Karl Polanyi, in particolare studiando soprattutto la formazione del «mercato del lavoro» britannico. James K. Galbraith mostra come lo Stato modifichi il quadro istituzionale a favore delle imprese private e dei più abbienti: abbassamento delle imposte sul capitale, privatizzazioni, deregolamentazione dei mercati di capitale, del mercato del lavoro, benefici e vantaggi concessi ai grandi gruppi... [*22]. La riconfigurazione neoliberista a partire dagli anni 1970 non è tanto un indebolimento dello Stato, quanto una ridefinizione dei suoi modi di azione. Il mercati non vengono più concepiti come un ordine spontaneo che dev'essere realizzato sopprimendo tutto ciò che vi si oppone, ma come un ordine che dev'essere istituito. Se, da un punto di vista principale, lo Stato, la formazione politica, ed il capitalismo, il sistema economico, sono due categorie indipendenti, nella loro incarnazione storica, il capitalismo non esiste senza lo Stato. Quest'ultimo sostiene e regola il capitalismo.

Possiamo considerare alcuni effetti, su un futuro più o meno prossimo, di questo nuovo modo di regolazione neoliberista: sembra assai probabile che questo modo di crescita a partire dalla finanza possa portare ad un'accresciuta fragilità finanziaria, già visibile nelle sue premesse; formazione di bolle, crolli, crisi finanziarie e monetarie... E questo tanto più, visto che i regolamenti attuati dopo la crisi del 2008 sembrano del tutto insufficienti, ed in via di smantellamento da parte degli Stati Uniti.
Fra le altre possibili conseguenze, possiamo includere:
- L'incapacità di tener conto del futuro: il breve termine prevale sul lungo termine, com'è dimostrato dalla mancanza di investimenti di possibilità, e quindi la difficoltà a farsi carico delle sfide ambientali e sociali, come il cambiamento climatico, l'invecchiamento, la protezione sociale, lo sviluppo dell'Africa;
- Il proseguire di una situazione di «stagnazione secolare» sembra probabile (nonostante la riprese attualmente constatata) poiché il rimbalzo verso una fase di forte crescita implicherebbe tutt'altre politiche economiche e sociali, e soprattutto il rimettere radicalmente in discussione il ruolo della della finanza e un'allocazione massiccia di capitali verso le infrastrutture, e delle nuove attività che siano rivolte alla soddisfazione dei bisogni sociali ed ambientali, cosa che al momento non sembra sia il caso. Al contrario, assistiamo ad uno spettacolare passo indietro in queste aree (si veda l'emblematico esempio degli Stati Uniti dopo l'elezione di Trump): abbassamento delle imposte per i più ricchi, per le imprese, ed un passo indietro consistente per quel che riguarda la questione ambientale... A questo proposito, è consigliabile essere cauti, perché spesso le previsioni si sono rivelate false, soprattutto in materia di innovazioni e di capacità, da parte delle società, a supportare i cambiamenti...
- L'impoverimento relativo delle nuove generazioni, così come quello delle classi medie, non avverrà senza che si pongano dei problemi intergenerazionali di allocazione del risparmio e di accrescimento delle disuguaglianze: difficoltà di finanziamenti per i giovani, di rimborsi per le classi di età intermedia e per le classi medie, ottenimento di risorse per i agiati e per più vecchi... La fuga in avanti per quanto riguarda il debito studentesco sul modello anglosassone.
- La questione degli sbocchi rischia di diventare cruciale se la compressione dei salari e la precarietà si mantengono su quelle che sono le tendenze attuali (da qui, il processo di indebitamento delle famiglie).
- Le tensioni sociali riguardo i problemi di distribuzione rischiano anche di rendere durevoli conflitti e perdita di legittimità da parte dei regimi democratici e di quella che è la costruzione europea.
- Allo stesso modo, le tensioni internazionali si trovano già ad essere aumentate: ambiente, migrazioni, trattati commerciali e multilateralismo...

In una simile prospettiva, le lotte sociali e politiche dovrebbero orientarsi verso degli obiettivi sociali ed ambientali ambiziosi, per poter uscire da questa logiche largamente pericoloso per quello che è il futuro delle nostre società e del pianeta. L'immenso sviluppo delle forze produttive potrebbe permettere di ridurre penurie e povertà, e ripensare i nostri modelli economici ed ambientali. Il peggio non è mai certo, anche se allo stato attuale dei rapporti sociali, i motivi per mostrarsi ottimisti sono assai rari...
Bisogna tenere infatti conto della dimensione antropologica del capitalismo. Come è stato sottolineato da Antonin Pottier, il capitalismo si basa su un substrato culturale. Il suo funzionamento presuppone un tipo di uomo motivato dal guadagno economico, che ricerca il profitto in maniera metodica e sistematica. L'avvento del capitalismo ha così corrisposto alla nascita di un uomo nuovo, centrato sul perseguimento dei suoi interessi. Questo tipo antropologico, che possiamo chiamare homo oeconomicus, è stato promosso dalle classi dirigenti e dagli economisti del XVIII secolo, i quali vedevano negli interessi una materia da governare che era per loro più prevedibile delle impetuose passioni che avevano finora insanguinato le società europee [*23]. In questo sovvertimento delle motivazioni, come ha mostrato Max Weber, anche la trasformazione dell'ethos religioso ha giocato un suo ruolo. Il risultato è stato un ordine economico che «oggi determina, con forza irresistibile, lo stile di vita di tutti gli individui che nascono all'interno di questo meccanismo» [*24]. Altri autori [*25] puntano all'emergere di un soggetto narcisistico rivolto alla ricerca infinita della propria soddisfazione materiale nel contesto di un grande impoverimento culturale ed animato da pulsioni mortifere (da qui, per esempio, la violenza della società americana). Da parte sua, Thorstein Veblen sottolineava già nel 1899 il permanere dell'istinto di rivalità (o istinti predatori) nel seno stesso delle società moderne, che esacerbava i sentimenti egoistici di arroganza e di degradazione, che si traducevano nel «consumo ostentato», nella «corsa alla stima, al confronto provocatorio» e all'accumulazione pecuniaria che sta alla base della logica degli affari. Questi istinti sono tutti altrettante propensioni a soddisfare un interesse personale che si trova in contraddizione con «l'utilità impersonale» della comunità degli uomini. [*8]
Il capitalismo troverebbe così la sua legittimità nella crescita continua dei beni e dei servizi messi a disposizione degli homines oeconomici e per il loro libero consumo. Quest'ultima cosa spiega senza dubbio le reticenze riguardo i vincoli ambientali, tanto che la cultura a breve termine assai spesso vieta di proiettarsi nel futuro. Le difficoltà a tirarsi fuori dalla stagnazione secolare successiva alla grave crisi del 2007, probabilmente non sono per niente un effetto dell'ascesa delle correnti nazionalista autoritarie, ma per il momento senza alcun esito positivo (salvo considerare Trump come il portatore di un futuro desiderabile).
Ci sono delle ragioni per riporre la speranza nella ricerca di senso [*19] da parte di molti giovani che si fanno delle domande sul loro lavoro e sulle sfide ambientali, economiche e sociali che vengono poste alla società. Questi problemi richiederebbero un investimento politico critico che si manifesterebbe se le tensioni legate alle contraddizioni soggiacenti nel campo dell'occupazione, del lavoro, della formazione, dell'ambiente, delle politiche sociali, della ripartizione del reddito e dei patrimoni venissero approfondite... Ne constatiamo le premesse nell'investimento che viene fatto nell'economia sociale e solidaria e nei movimenti sociali degli ultimi anni, malgrado i loro limiti: lotte contra le espulsioni in Spagna ed in Grecia, la Primavera tunisina, la Nuit Debout in Francia... A questi movimenti mancano certamente delle prospettive positive che potrebbero dare ad essi un senso. Si dovrebbe riflettere sulle strutture sociali del continente europeo, sulla loro evoluzione a partire dalla crisi. L'opera collettiva, dal titolo "Le classi sociali in Europa" [*26], è senza dubbio la miglior introduzione ad un tale lavoro di riflessione sulla situazione delle classe popolari e medie, che sia basato su una solida analisi empirica.
Per le correnti critiche, fra le grandi questioni da risolvere, possiamo sottolineare quelle legate allo status da dare al mercato e alla moneta. Karl Polanyi è senza dubbio un autore su cui riflettere e che ha sottolineato i guasti antropologici irrimediabili provenienti dalla costituzione di un Grande Mercato nel XIX secolo, vale a dire, dalla sottomissione della società alle leggi del mercato per quel che riguardava l'istituzione di un mercato del lavoro, della moneta, e della terra (quindi della natura), al di là di quello dei beni e dei servizi (guasti che si concretizzano nel totalitarismo e nella seconda guerra mondiale) [*27]. La soluzione del socialismo reale e della pianificazione centralizzata, attuata nell'URSS o sotto la Cina di Mao si è dimostrata altrettanto mortifera. Quale assetto dare al mercato? In che modo rispondere alle aspirazioni al benessere e all'autonomia individuale, senza cedere nuovamente alla hybris capitalista? Come conciliare tutto questo con i necessari obblighi collettivi che la vita sociale implica? L'autonomia collettiva è conciliabile con le tendenze oligarchiche caratteristiche delle società contemporanee?
Sono queste le domande...

- Bernard Drevon - Articolo pubblicato l'8 marzo 2018 su Journal du MAUSS -

NOTE

1 - « L’économie en tant que procès institutionnalisé », in Michele Cangiani et Jérôme Maucourant (dir.), Essais de Karl Polanyi, p. 53–77. Paris, Seuil, 2008.

2 - Antonin Pottier - Le capitalisme est-il compatible avec les limites écologiques ? - prix Veblen - 2017, Institut Veblen.

3 - Jérôme Maucourant - 26/1/2010 - Revue Cités.

4 - Joseph Schumpeter, Capitalisme, socialisme et démocratie, 1942, Payot, 1990.

5 - J. M. Keynes, Théorie générale de l’emploi, de l’intérêt et de la monnaie, 1936, Payot, 2017.

6 - Ernst Lohoff et Norbert Trenkle, La Grande dévalorisation, Post-Editions, 2012.

7 - Luc Boltanski et Eve Chiappello - Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, 1999.

8- Thorstein Veblen, Théorie de la classe de loisir, 1899 - Gallimard 1970, cité par Olivier Brette « Connaissances technologiques, institutions et droits de propriété dans la pensée de Thorstein Veblen », Cahiers d’économie Politique / Papers in Political Economy, 2005/1 n° 48, p. 111-146. DOI : 10.3917/cep.048.0111

9 - André Orléan, L’empire de la valeur, La couleur des idées, Seuil, 2011.

10 - A. Orléan- M. Aglietta La Violence de la monnaie, PUF, 2012.

11 - voir Eugène Fama, article de mai 1970 du Journal of Finance, nommé « Efficient Capital Markets : A Review of Theory and Empirical Work ».

12 - Ernst Lohoff et Norbert Trenkle, La Grande dévalorisation, Post-Editions, 2012.

13 – Patrick Artus, Marie-Paule Virard, La folie des Banques Centrales, Fayard, 2016.

14 - Daniel Cohen, Trois leçons sur la société post-industrielle - La République des Idées – Seuil, 2006 et Paul Mason, Postcapitalism : A Guide to our Future, Editions Allen Lane, 2015.

15 - Philippe Aghion et Peter Howitt, The Endogenous Growth Theory, 1998.

16 – Michel Aglietta, Natacha Valla, Macroéconomie financière, La découverte, 2017.

17 – Robert Castel, Les métamorphoses de la question sociale - Une chronique du salariat, coll. L’espace du politique, Fayard, 1995.

18 - Gosta Esping Andersen, Les trois mondes de l’Etat Providence. Essai sur le capitalisme moderne, coll. Le lien social, PUF, 2015.

19 - Voir les travaux d’André Gorz, Métamorphoses du travail - Quête du sens - Critique de la raison économique, coll. Débats, Galilée, 1988.

20 - Thomas Piketty, Le capital au XXI° siècle, Seuil, 2013

21 - G. Duménil et D. Lévy, La grande bifurcation, En finir avec le néolibéralisme, coll. L’horizon des possibles, La Découverte, 2014

22 - James K. Galbraith, L’Etat prédateur, Comment la droite a renoncé au marché libre et pourquoi la gauche devrait en faire autant, Economie humaine, Seuil, 2009.

23 - Hirschman, Albert O. [1977], Les passions et les intérêts : justifications politiques du capitalisme avant son apogée, Paris, P.U.F., 1980.

24- Max Weber, L’éthique protestante et l’esprit du capitalisme, 1920, Gallimard, 2004, p. 251. » in A. Pottier - Prix Veblen - 2017 .

25 - Anselm Jappe, La société anthropophage, La découverte, 2017, , Christopher Lasch, La culture du narcissisme. La vie américaine à un âge de déclin des espérances (1979), coll. « Champs », Flammarion, 2006, Sur ce thème voir aussi Gilles Dostaler et Bernard Maris, Capitalisme et pulsion de mort, Albin Michel, 2009.

26 – Cédric Hugrée, Etienne Penissat, Alexis Spire, Les classes sociales en Europe, L’ordre des choses, Agone, 2017.

27 - K. Polanyi, La Grande Transformation, Gallimard, 1944.

fonte: Journal du MAUSS - Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales -