La Terra inabitabile
- Carestia, collasso economico, un sole che ci cuoce: cosa possono infliggerci i cambiamenti climatici – più presto di quello che pensiamo. -
di David Wallace-Wells
1. Il giorno del giudizio -Sbirciando oltre le reticenze scientifiche -
Vi posso assicurare che è peggio di quello che pensate. L’ansia per il riscaldamento globale, perché vi fa paura l’innalzamento del livello del mare, scalfisce appena la superficie dei terrori possibili, che si realizzeranno talmente a breve da essere incidere nella vita di chi oggi è solo teenager. Certo l’innalzarsi dei mari – e l’inabissarsi delle città – predomina nel quadro del riscaldamento globale, travolgendo allo stesso tempo la nostra capacità di panico climatico al punto da impedirci di percepire altre minacce, parecchie veramente prossime. L’innalzamento degli oceani è una cosa brutta, anzi bruttissima, ma allontanarsi dalle coste non sarà sufficiente. Difatti, se miliardi di esseri umani non cambieranno significativamente il loro stile di vita, entro la fine di questo secolo molte parti della Terra probabilmente diverranno pressoché inabitabili e altre parti terribilmente inospitali. Anche con occhi abituati al cambiamento climatico, non riusciamo a comprenderne appieno la portata. Lo scorso inverno, una serie di giornate più calde di 60/70 gradi °F (15/20°C ndT) rispetto al normale, hanno letteralmente cotto il Polo Nord, sciogliendo il permafrost che ricopre il deposito blindato delle sementi delle Svalbard in Norvegia – una banca globale del cibo chiamata “Doomsday”, (Giorno del Giudizio, ndT), costruita per assicurare che la nostra agricoltura sopravviva ad ogni catastrofe e che sembra essere stata investita dal cambiamento climatico neanche dieci anni dopo essere stata costruita.
Il deposito Doomsday per ora non è in pericolo, la struttura è stata messa in sicurezza e le sementi sono salve. Ma considerare l’episodio come la parabola di un’imminente alluvione fa perdere di vista l’aspetto più importante della notizia. Fino a poco tempo fa, il permafrost non era una delle principali preoccupazioni dei climatologi, perché, come suggerisce il nome, si tratta di suolo che rimane permanentemente congelato. Ma il permafrost Artico contiene 1800 miliardi di tonnellate di carbonio (anidride carbonica, anche nel seguito, ndT), più del doppio di quanto è attualmente sospeso nell’atmosfera terrestre. Quando disgela e viene rilasciato, questo carbonio può evaporare come metano, che è un gas serra con potenzialità di riscaldamento globale 34 volte maggiori del biossido di carbonio, misurato su una scala temporale di un secolo; se misurato su una scala temporale di due decadi, è 86 volte più potente. In altre parole, intrappolato nel permafrost artico abbiamo due volte più carbonio di quanto ne stia attualmente circolando nell’atmosfera del pianeta e il cui rilascio in massa è schedulato per una data che continua ad avvicinarsi, in parte sotto forma di un altro gas che moltiplica il suo potere di riscaldamento di 86 volte.
Forse lo sapete già – ci sono storie allarmanti nei giornali tutti i giorni, come quelle del mese scorso, che sembravano suggerire che i dati satellitari mostravano che il riscaldamento globale a partire dal 1998 era stato due volte più veloce di quello che gli scienziati avevano stimato (di fatto, la storia che seguiva era molto meno allarmante del titolo). O le notizie dall’Antartide dello scorso maggio, quando una crepa nella banchisa è cresciuta di 11 miglia in sei giorni, e continua a progredire; ora mancano solo 3 miglia alla rottura – per quando leggerete queste righe, potrebbe avere già raggiunto il mare aperto, dove farebbe cadere nel mare uno dei più grandi iceberg di sempre, un processo poeticamente conosciuto con il nome di “calving” (filiazione, ndT).
Ma per quanto siate bene informati, di sicuro non siete sufficientemente allarmati. Negli ultimi decenni, la nostra cultura ha sfornato apocalittici film zombie e distopie alla Mad Max, forse il risultato collettivo di un’ansia climatica rimossa, eppure quando si tratta di esaminare i pericoli del riscaldamento nel mondo reale, soffriamo di un incredibile carenza di immaginazione. Le ragioni di ciò sono molteplici: ad esempio il timido linguaggio delle probabilità scientifiche, una volta definito “reticenza scientifica” dal climatologo James Hansen che in un articolo rimproverava gli scienziati di adornare le proprie osservazioni in maniera così coscienziosa da non riuscire a comunicare quanto disastrosa fosse in realtà la minaccia; il fatto che il Paese è dominato da un gruppo di tecnocrati che credono che ogni problema possa essere risolto e una cultura opposta che non vede nemmeno il riscaldamento come un problema che valga la pena di affrontare; il modo in cui il negazionismo climatico ha reso gli scienziati ancor più cauti nel fornire previsioni e speculazioni; la semplice velocità dei cambiamenti, ma anche, la sua lentezza, che fa sì che solo ora si vedano gli effetti del riscaldamento dei decenni passati; la nostra incertezza sull’incertezza, che come ha suggerito in particolare la scrittrice sul clima Naomi Oreskes, ci impedisce di prepararci dato che pensiamo che potrebbe verificarsi anche qualcosa di peggio; il modo in cui noi assumiamo che il cambiamento climatico colpirà più forte altrove, ma non dovunque; la piccolezza (due gradi) e grandezza (1.8 milioni di miliardi di tonnellate) e astrattezza (400 parti per milione) dei numeri; lo sconforto nel considerare un problema che è molto difficile, se non impossibile, da risolvere; la scala del tutto incomprensibile del problema, che prospetta il nostro annientamento; semplice paura. Ma anche l’avversione che nasce dalla paura è una forma di rifiuto e negazione.
A metà tra la reticenza scientifica e la fantascienza troviamo la scienza stessa. Questo articolo è il risultato di decine di interviste e scambi con climatologi e ricercatori in settori correlati e riflette centinaia di articoli scientifici centrati sul cambiamento climatico. Ciò che segue non è una serie di previsioni di ciò che accadrà – cosa che invece sarà determinata in gran parte dalla scienza molto meno certa della risposta umana. Si tratta piuttosto del disegno della nostra migliore comprensione di dove il pianeta si stia dirigendo in mancanza di un’azione incisiva. È improbabile che tutti questi scenari di riscaldamento si realizzino completamente, essenzialmente perché la devastazione lungo la strada scuoterà la nostra compiacenza. Ma questi scenari, e non il clima attuale, costituiscono il punto di partenza. In realtà, sono il programma di quello che ci aspetta.
La situazione attuale del cambiamento climatico – la distruzione che abbiamo già “cucinato” per il nostro futuro – è abbastanza Terribile. La maggior parte delle persone parla come se Miami e il Bangladesh avessero ancora una possibilità di sopravvivenza; la maggior parte degli scienziati con cui ho parlato considera che le perderemo entro il secolo, anche se smettessimo di bruciare combustibili fossili entro il prossimo decennio. Due gradi di riscaldamento erano considerati la soglia della catastrofe: decine di milioni di rifugiati climatici alla deriva, vaganti in un mondo non preparato. Ora due gradi sono il nostro obiettivo, stante l’accordo sul clima di Parigi, e gli esperti ci forniscono solo esili possibilità di centrarlo. Il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (IPCC) redige una serie di rapporti, spesso definiti come il “gold standard” della ricerca sul clima; il più recente fa una proiezione di quattro gradi di riscaldamento per l’inizio del prossimo secolo, se dovessimo persistere con l’attuale andamento. Ma si tratta solo di una proiezione mediana. L’estremità superiore della curva di probabilità sale a otto gradi – e gli autori non hanno ancora capito come gestire la faccenda dello scioglimento del permafrost. Inoltre i rapporti IPCC non tengono completamente in conto l’effetto albedo (meno ghiaccio significa meno radiazione solare riflessa e più assorbita, quindi maggiore riscaldamento), la maggiore copertura nuvolosa (che intrappola il calore) o la scomparsa delle foreste e di altra flora (che estraggono carbone dall’atmosfera). Ognuno di questi fattori contribuisce ad accelerare il riscaldamento e la storia del pianeta mostra che la temperatura potrebbe salire fino a 5 gradi Celsius in più in tredici anni. L’ultima volte che il pianeta divenne più caldo di quattro gradi, come Peter Brannen ha sottolineato in “Le fini del Mondo“, la sua nuova storia della maggiore estinzione della storia recente del pianeta, gli oceani erano centinaia di piedi più alti.[ Articolo apparso il 10 luglio 2017 su New York Magazine]
La Terra ha sofferto cinque grandi estinzioni di massa prima di quella che stiamo attraversando adesso, ognuna ha fatto una pulizia così cospicua del tracciato evolutivo da agire come un reset dell’orologio planetario, e molti climatologi vi diranno che queste estinzioni sono il miglior analogo per il futuro ecologico in cui ci stiamo tuffando a capofitto. Se non siete teenager, probabilmente avrete appreso dai libri di scuola delle superiori che queste estinzioni sono state causate dagli asteroidi. In effetti, ad eccezione di quella che ha ucciso i dinosauri, sono state tutte causate dai cambiamenti climatici prodotti dai gas serra. La più nota avvenne 252 milioni di anni fa; cominciò col carbonio che riscaldò il pianeta di 5 gradi, accelerò quando il riscaldamento innescò il rilascio di metano nell’Artico e si concluse con la morte del 97% delle forme di vita sulla Terra. Noi attualmente stiamo aggiungendo carbonio all’atmosfera ad una velocità notevolmente più elevata, secondo la maggior parte delle stime, dieci volte più velocemente. E il tasso di crescita sta accelerando. Questo è ciò che Steven Hawking aveva in mente quando ha detto, questa primavera, che avremo bisogno di colonizzare altri pianeti nel prossimo secolo per sopravvivere, e ciò che ha guidato Elon Musk, lo scorso mese, nello svelare il suo piano di costruire un habitat su Marte entro 40-100 anni. Loro non sono specialisti, certo, e probabilmente sono inclini a paure irrazionali proprio come voi o me. Ma i molti, lucidi scienziati che ho intervistato negli ultimi mesi – i più accreditati e riconosciuti nel campo, pochi dei quali inclini all’allarmismo e molti collaboratori dell’IPCC che pur ne criticano l’approccio conservatore – hanno raggiunto tranquillamente una conclusione apocalittica anche loro: nessun plausibile programma di riduzione delle emissioni può da solo prevenire il disastro climatico.
Negli ultimi decenni, il termine “Antropocene”, fuoriuscito dai discorsi accademici, ha raggiunto l’immaginario collettivo – un nome dato all’era geologica in cui viviamo e un modo per indicare che si tratta di una nuova era, definita sul grafico della storia dall’intervento dell’uomo. Uno dei problemi del termine è che implica una conquista della natura (e addirittura echeggia il “dominio” biblico). E per quanto si possa essere ottimisti sul fatto che abbiamo già devastato il mondo naturale, cosa che sicuramente abbiamo fatto, è tutt’altra cosa considerare la possibilità che abbiamo solo provocato questa devastazione, progettando prima con ignoranza e poi con negazionismo un sistema climatico che ora farà la guerra contro di noi per molti secoli, forse fino a distruggerci. Questo è ciò che Wallace Smith Broecker, l’oceanografo che ha coniato il termine “riscaldamento globale”, intendeva quando chiamava il pianeta una “bestia arrabbiata”. Potreste anche usare “macchina da guerra”. Ogni giorno l’arricchiamo di nuove armi.
2. Morte termica - New York come il Bahrein. -
Gli umani, come tutti i mammiferi, sono motori termici; sopravvivere significa doversi continuamente raffreddare, come cani ansimanti. Per questo è necessario che la temperatura sia sufficientemente bassa da permettere all’aria di funzionare come una sorta di refrigerante, sottraendo calore dalla pelle così che il motore possa continuare a pompare. Con un riscaldamento di 7 gradi, questo diventerebbe impossibile per ampie porzioni della fascia equatoriale del pianeta e specialmente per i tropici, dove si aggiunge anche il problema dell’umidità; nella giungla del Costa Rica, per esempio, dove l’umidità raggiunge abitualmente punte del 90%, semplicemente farsi un giro fuori quando la temperatura è sopra i 105 gradi °F (circa 40°C, ndT) potrebbe essere letale. E l’effetto sarebbe veloce: nel giro di poche ore un corpo umano sarebbe cotto fino alla morte, sia fuori che dentro.
Gli scettici del cambiamento climatico puntualizzano che il pianeta si è riscaldato e raffreddato molte volte in passato, ma la finestra climatica che ha permesso la vita umana è molto stretta, anche per gli standard della storia planetaria. A 11 o 12 gradi di riscaldamento, più della metà della popolazione mondiale, così come è distribuita oggi, morirebbe direttamente per il calore. Quasi certamente in questo secolo le cose non saranno così scottanti, anche se i modelli che considerano le emissioni senza abbattimenti alla fine ci condurrebbero proprio lì. In questo secolo, e soprattutto ai tropici, la soglia del dolore sarà raggiunta molto prima di un aumento di sette gradi. Il fattore chiave è una cosa chiamata “temperatura a bulbo umido”, che è un termine di misura da kit di laboratorio domestico che può essere definito come il calore registrato da un termometro avvolto in un calzino umido mentre è fatto roteare in aria (siccome l’umidità evapora da un calzino più rapidamente nell’aria asciutta, questa singola misura riflette sia il calore che l’umidità). Attualmente, molte regioni raggiungono una temperatura massima a bulbo umido di 26 o 27 gradi Celsius; la vera linea rossa per l’abitabilità è di 35 gradi. Quello che chiamiamo stress da calore arriva molto prima.
In realtà, ci siamo quasi. Dal 1980, il pianeta ha visto aumentare di 50 volte il numero di posti con caldo pericoloso o estremo ed è in arrivo un ulteriore aumento. Le cinque estati più calde dal 1500 in Europa sono tutte capitate dal 2002, e presto, l’IPCC avverte, semplicemente stare fuori casa durante quel periodo dell’anno sarà insalubre nella maggior parte del globo. Anche se raggiungessimo gli obiettivi di Parigi dei due gradi di riscaldamento, città come Karachi e Kolkata diverrebbero quasi inabitabili, subendo annualmente ondate di calore mortali come quelle che le hanno colpite nel 2015. A 4 gradi, l’ondata di calore mortale Europea del 2003, che uccise 2000 persone al giorno, sarebbe un’estate nella norma. A sei gradi, secondo una valutazione incentrata solo sugli effetti negli USA fatta dal National Oceanic and Atmospheric Administration, fare qualsiasi lavoro in estate diventerebbe impossibile nella bassa Valle del Mississippi, e chiunque nel paese a est delle Montagne Rocciose sarebbe sottoposto ad uno stress di calore maggiore di chiunque, in qualunque posto del mondo oggi. Come ha detto Joseph Romm nel suo autorevole manuale di base “Cambiamenti Climatici: ciò che ognuno deve sapere”, lo stress da calore in New York City supererà quello attuale del Bahrain, uno dei punti più caldi del pianeta, e le temperature in Bahrain “indurranno ipertermia anche nelle persone addormentate”. Le stime IPCC dello scenario più elevato, ricordiamo, è di ulteriori due gradi più caldo. Entro la fine del secolo, ha stimato la Banca Mondiale, i mesi più freddi nei tropici del Sud America, Africa e nel Pacifico, è probabile che saranno ancor più caldi dei mesi più caldi della fine del ventesimo secolo. L’aria condizionata può aiutare ma alla fine aggiungerà solo carbonio al problema, inoltre, tralasciando i centri commerciali climaticamente controllati degli emirati arabi, non è nemmeno lontanamente plausibile usare l’aria condizionata su larga scala in tutte le parti più calde del mondo, molte delle quali sono anche le più povere. E infatti, la crisi sarà molto più drammatica nel Medi Oriente e nel Golfo Persico, dove nel 2015 l’indice di calore ha registrato temperature alte fino a 163 gradi Fahrenheit (ca 72°C, ndT). Nel giro di pochi decenni a partire da oggi, l’hajj (pellegrinaggio alla Mecca, ndT) diventerà fisicamente impossibile per i 2 milioni di Mussulmani che fanno il pellegrinaggio ogni anno.
Non è solo l’hajj e non è solo la Mecca; il calore ci sta già uccidendo. Nella regione della canna da zucchero di El Salvador, un quinto della popolazione ha malattie renali croniche, tra cui oltre un quarto degli uomini, presunto risultato della disidratazione conseguente al lavoro nei campi che erano in grado di svolgere comodamente fino a solo due decenni fa. Con la dialisi, che è costosa, quanti hanno problemi ai reni hanno un’aspettativa di vita di 5 anni; senza dialisi, l’aspettativa di vita è dell’ordine di settimane. Di certo, lo stress da calore promette di prenderci a cazzotti anche in posti differenti dai nostri reni. Mentre sto scrivendo questa frase, nel deserto della California a metà giugno, sono 121 gradi °F (ca 49 °C, ndT) fuori dalla mia porta. E non è un nuovo record.
3. La fine del cibo - Pregando per campi di mais nella tundra -
I climi sono differenti e le piante variano, ma la regola di base per la crescita ottimale delle principali colture di cereali è che per ogni grado di riscaldamento le rese scendono del 10%. Alcune stime si spingono fino al 15 o anche al 17%. Ciò significa che se il pianeta sarà 5 gradi più caldo alla fine del secolo, avremo circa il 50% di popolazione in più da sfamare e il 50% in meno di grano da dargli. E per le proteine sarà anche peggio: ci vogliono 16 calorie di grano per produrre una sola caloria di carne da hamburger, macellata da una mucca che ha passato tutta la sua vita ad inquinare emettendo peti di metano.
I fisiologi delle piante alla Polyanna ribatteranno che la matematica dei cereali si applica solo a quelle regioni che hanno già un picco di temperatura crescente, e hanno ragione – in teoria un clima più caldo renderebbe più semplice coltivare mais in Groenlandia. Ma come ha mostrato il lavoro pionieristico di Rosamond Naylor e David Battisti, i tropici sono già troppo caldi per far crescere i cereali in maniera efficiente e quei posti in cui oggi si produce grano sono già alla temperatura ottimale – il che significa che anche un piccolo aumento della temperatura potrebbe spingerli giù per la curva del declino di produttività. E non si possono spostare colture di cereali facilmente poche centinaia di miglia a nord perché i rendimenti in posti remoti come il Canada e la Russia sono limitati dalla qualità di quei suoli; ci vogliono diversi secoli al pianeta per produrre dell’ottimo terriccio fertile.
La siccità potrebbe essere un problema ancora peggiore del calore, con alcune delle migliori terre arabili trasformate rapidamente in deserto. È noto che le precipitazioni sono difficili da modellare, nonostante ciò le previsioni per questo secolo sono pressoché unanimi: siccità senza precedenti praticamente ovunque sia prodotto cibo oggi. Entro i 2080, senza drastiche riduzioni nelle emissioni, il sud Europa sarà in una situazione permanente di siccità estrema, molto peggio di quanto sia mai stata la conca di polvere americana [serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939 (ndT)]. Lo stesso avverrà in Iraq e Siria e gran parte del Medio Oriente, in alcune delle aree più densamente popolate di Australia, Africa e Sud America e nelle regioni paniere della Cina. Nessuno di questi posti, che oggi fornisce la maggior parte del cibo mondiale, sarà in grado di fornirne in maniera affidabile. Come per la conca di polvere originale: la siccità nelle pianure americane e nel sud-est non sarà solo peggiore che negli anni ’30, come ha previsto uno studio della NASA; ma peggiore di qualsiasi siccità in mille anni, comprese quelle che hanno colpito fra il 1100 e il 1300, che “hanno asciugato tutti i fiumi ad est delle montagne della Sierra Nevada” e possono essere stati responsabili della morte della civiltà Anasazi.
Ricordiamo che già adesso non viviamo in un mondo senza fame. Ben diversamente, molte stime indicano che le persone sotto-nutrite a livello globale sono 800 milioni. Nel caso non lo sapeste, questa primavera ha già portato una carestia quadrupla senza precedenti in Africa e Medio Oriente: l’ONU ha riferito che eventi distinti di carestie in Somalia, Sudan, Nigeria e Yemen potrebbero uccidere 20 milioni di persone solo quest’anno.
4. Piaghe climatiche - Cosa accade quando il ghiaccio “bubbonico” si scioglie? -
La roccia, nel punto giusto, è una registrazione della storia planetaria, ere lunghe milioni di anni appiattite dalle forze del tempo geologico in strati con ampiezze di appena pochi centimetri o solo un centimetro o addirittura meno. Anche il ghiaccio funziona così, da registro del clima, ma è anche storia congelata che può in parte riprendere vita quando si scongela. Ci sono ora, intrappolati nel gelo artico, malattie che non hanno circolato nell’aria per milioni di anni – in alcuni casi da prima che gli umani fossero in giro per incontrarle. Ciò significa che il nostro sistema immunitario non avrebbe idea di come reagire qualora queste piaghe preistoriche emergessero dal ghiaccio.
L’Artico conserva anche terribili microbi di epoche più recenti. In Alaska, i ricercatori hanno già scoperto tracce dell’influenza del 1918 che ha infettato 500 milioni di persone e ne ha uccise 100 milioni – circa il 5% della popolazione mondiale e circa sei volte quanti ne siano morti nella guerra mondiale per la quale la pandemia funzionò come una raccapricciante chiave di volta. Come ha riferito la BBC in maggio, gli scienziati sospettano che anche il vaiolo e la peste bubbonica siano intrappolati nel ghiaccio della Siberia, una storia condensata di una malattia umana devastante, lasciata fuori come un’insalata di uova nel sole artico.
Gli esperti mettono in guardia che molti di questi organismi alla fine non sopravvivrebbero allo scongelamento e indicano le meticolose condizioni di laboratorio sotto le quali ne hanno già rianimati molti – il batterio estremofilo vecchio di 32.000 anni resuscitato nel 2005, un batterio vecchio di 8 milioni di anni riportato alla vita nel 2007, quello di 3,5 milioni di anni che uno scienziato russo si è iniettato solo per curiosità – per suggerire che tali condizioni sono necessarie per il ritorno di queste antiche pestilenze. Ma già lo scorso anno, un ragazzo è stato ucciso e altri 20 infettati dall’antrace rilasciato quando il permafrost che si ritirava ha esposto la carcassa di una renna uccisa dal batterio almeno 75 anni prima; anche 2000 renne viventi sono state infettate, trasportando e disperdendo il morbo nella tundra.
Quello che preoccupa gli epidemiologi più delle antiche malattie, è il trasferimento, il rinnovamento o addirittura la ri-evoluzione delle malattie esistenti a causa del riscaldamento. Il primo effetto è di tipo geografico. Prima del periodo moderno, quando avventurieri in barca a vela hanno accelerato il mescolamento delle persone e delle loro malattie, il provincialismo umano fungeva da guardiano contro la pandemia. Oggi, specie con la globalizzazione e l’enorme rimescolamento di popolazioni umane, i nostri ecosistemi sono abbastanza stabili, e questo funziona come un altro limite, ma il riscaldamento globale sconvolgerà questi ecosistemi e aiuterà le malattie a oltrepassare questi limiti così come sicuramente ha fatto Cortés. Se vivete nel Maine o in Francia, non vi preoccupate molto di dengue o malaria. Ma man mano che i tropici si spostano verso nord e le zanzare con loro, dovreste iniziare a preoccuparvi. Neanche Zika vi preoccupava fino a un paio di anni fa.
Come talvolta accade, Zika può essere anche un buon modello per il secondo preoccupante effetto – la mutazione delle malattie. Uno dei motivi per cui non avevate sentito parlare di Zika fino a poco fa era che il morbo era intrappolato in Uganda. Un altro è che sembra che non avesse, fino ad ora, causato difetti di nascita. Gli scienziati non hanno ancora completamente capito cosa sia successo, o cosa hanno trascurato. Ma ci sono cose che conosciamo per certo su come il clima influisce sulle malattie: la Malaria, per esempio, prospera nelle regioni più calde non solo perché lì ci sono le zanzare che la trasportano ma anche perché per ogni grado di aumento di temperatura il parassita si riproduce dieci volte più velocemente. Che è una delle ragioni per la quale la banca Mondiale ha stimato che entro il 2050, 5,2 miliardi di persone avranno a che fare con la Malaria.
5. Aria irrespirabile - Uno smog mortale che avanza e soffoca milioni di persone -
I nostri polmoni hanno bisogno di ossigeno, ma l’ossigeno è solo una piccola parte di quello che respiriamo. La frazione di anidride carbonica sta aumentando: ha appena superato le 400 ppm (parti per milione), e le stime massime estrapolate dagli andamenti attuali suggeriscono che raggiungerà 1000 ppm entro il 2100. A quelle concentrazioni le abilità cognitive umane scendono del 21%.
Altre cose presenti nell’aria riscaldata sono anche più spaventose, dato che piccoli aumenti di inquinamento possono accorciare l’aspettativa di vita di 10 anni. Più il pianeta diventa caldo, più ozono si forma e per la metà del secolo è probabile che gli americani soffriranno di un aumento del 70% dell’insalubre smog di ozono, secondo le proiezioni del Centro Nazionale per le Ricerche Atmosferiche. Entro il 2090, ben 2 miliardi di persone a livello globale respirerà aria sopra il livello considerato “sicuro” dall’OMS; un articolo lo scorso mese ha mostrato che, tra gli altri effetti, l’esposizione di una madre incinta all’ozono aumenta il rischio di autismo per il bambino (fino a 10 volte in combinazione con altri fattori ambientali). Il che dovrebbe far riflettere sull’epidemia di autismo in Hollywood Ovest.
Più di 10.000 persone muoiono già ogni giorno per le piccole particelle emesse dalla combustione fossile; ogni anno 339.000 persone muoiono per il fumo di incendi, in parte perché i cambiamenti climatici hanno esteso la stagione degli incendi boschivi (negli USA, è aumentata di 78 giorni rispetto al 1970). Entro il 2050, secondo il Servizio Foreste statunitense, gli incendi boschivi saranno due volte più distruttivi di oggi; in alcuni posti, l’estensione delle aree incenerite potrebbe aumentare di 5 volte. Quello che preoccupa le persone ancora di più è l’effetto che ciò può avere sulle emissioni, soprattutto quando il fuoco distrugge le foreste nate sulla torba. Gli incendi nelle torbiere del 1997 in Indonesia, per esempio, hanno aggiunto al rilascio di CO2 globale fino al 40%, e più incendi significano più riscaldamento che a sua volta significa più incendi. C’è anche la terribile possibilità che le foreste pluviali come quella Amazzonica, che nel 2010 ha subito la sua seconda “siccità del secolo” nel giro di 5 anni, possano asciugarsi tanto da diventare vulnerabili a questo tipo di devastanti incendi boschivi che avanzano – che non solo emettono enormi quantità di carbonio in atmosfera, ma allo stesso tempo riducono le dimensioni della foresta. Questo è particolarmente grave perché l’Amazzonia da sola fornisce il 20% del nostro ossigeno.
Poi ci sono le forme più familiari di inquinamento. Nel 2013, lo scioglimento dell’Artico ha rimodellato le configurazioni climatiche in Asia, privando la Cina industriale del sistema di ventilazione naturale da cui dipendeva, il che ha soffocato gran parte del nord del paese in una coltre di smog irrespirabile. Letteralmente irrespirabile. Esiste una misura chiamato Indice di Qualità dell’Aria che categorizza i rischi e arriva nella parte alta della gamma fino all’intervallo da 301 a 500, indice di “serio aggravamento delle malattie cardiache o polmonari e mortalità prematura in persone con problemi cardiopolmonari e nelle persone anziane” e, per tutti gli altri, “seri rischi di problemi respiratori”. A quel livello “tutti dovrebbero evitare attività all’aperto”. L’ “apocalisse dell’aria” cinese del 2013 ha raggiunto quello che corrisponderebbe ad un indice di qualità dell’aria di oltre 800. Quell’anno, lo smog è stato responsabile di un terzo di tutte le morti nel paese.
6. Guerra senza fine - Violenza cucinata al caldo -
I climatologi sono molto cauti quando parlano della Siria. Vogliono che si sappia che anche se i cambiamenti climatici hanno prodotto una siccità che ha contribuito alla guerra civile, non è proprio corretto dire che il conflitto è il risultato del riscaldamento. Proprio lì accanto, per esempio, il Libano ha sofferto della stessa perdita dei raccolti. Ma alcuni ricercatori come Marshall Burke e Solomon Hsiang sono riusciti a quantificare alcune delle relazioni non ovvie tra temperatura e violenza: per ogni mezzo grado di riscaldamento, dicono, le società vedranno un aumento tra il 10% e il 20% della probabilità di conflitti armati. Nelle scienze del clima, nulla è semplice, ma l’aritmetica è spaventosa: un pianeta 5 gradi più caldo avrebbe in aggiunta almeno metà delle guerre che abbiamo oggi. Complessivamente, i conflitti sociali potrebbero più che raddoppiare per la fine del secolo.
Questo è uno dei motivi per cui, come mi sottolinea praticamente qualsiasi scienziato con cui parlo, le forze militari USA sono ossessionate dal cambiamento climatico. Il rischio che tutte le basi navali americane siano inondate dall’innalzamento del mare sarebbe già abbastanza, ma trattandosi del poliziotto del mondo diventa tutto un po’ più difficile se il tasso di criminalità raddoppia. Di sicuro, non è solo in Siria che il clima ha contribuito al conflitto. Alcuni ipotizzano che l’elevato livello di conflitti in Medio Oriente nella generazione passata rifletta la pressione del riscaldamento globale – un’ipotesi tra le più crudeli considerando che il riscaldamento ha iniziato ad accelerare quando il mondo industrializzato ha estratto e poi bruciato il petrolio dal suolo di quella regione.
Come si spiega la relazione tra clima e conflitto? Per rispondere, in parte bisogna andare all’agricoltura e all’economia; molto ha a che fare con le migrazioni forzate, già a numeri molto elevati, con almeno 65 milioni di persone sfollate che vagano per il pianeta già ora. Ma c’è anche il semplice fatto dell’irritabilità personale. Il caldo aumenta il tasso di criminalità delle città, e le imprecazioni sui social media, e la probabilità che un battitore della major-league, giunto sul monte di lancio dopo che il suo compagno di squadra è stato colpito, colpirà più duro per rappresaglia. E l’arrivo dell’aria condizionata nel mondo sviluppato, nella metà del secolo scorso, non ha risolto un granché il problema delle ondate estive di crimine.
7. Collasso economico permanente - Capitalismo scadente in un mondo più povero. -
Il mantra mormorato del neoliberismo globale, venuto alla ribalta tra la fine della Guerra Fredda e il principio della Grande Recessione, è che la crescita economica ci salverà da tutto e da tutti.
Ma all’indomani del crollo del 2008, un numero crescente di storici, considerando quello che loro chiamano “capitalismo fossile”, hanno iniziato a suggerire che l’intera storia della rapida crescita globale, che in qualche modo è iniziata repentinamente nel XVII secolo, non è il risultato dell’innovazione, del commercio o delle dinamiche del capitalismo globale, ma semplicemente della nostra scoperta dei combustibili fossili e della loro potenza grezza – un iniezione una tantum di nuovo “valore” in un sistema che era prima caratterizzato da un vivere di sussistenza a livello globale. Prima dei combustibili fossili, nessuno aveva vissuto meglio dei suoi genitori, nonni o antenati di 500 anni prima, eccetto che subito dopo una grande epidemia, come la Peste Nera, che permise ai fortunati sopravvissuti di trangugiare le risorse lasciate libere dalla massa di decessi. Dopo che avremo bruciato tutti i combustibili fossili, questi studiosi suggeriscono, forse torneremo ad uno “stato stazionario” dell’economia globale. Di certo questa iniezione una tantum ha un costo devastante a lungo termine: i cambiamenti climatici.
Anche la più eccitante ricerca sull’economia del riscaldamento è stata fatta da Hsiang e colleghi, che non sono storici del capitalismo fossile, ma che offrono una propria analisi molto tetra: ogni grado centigrado di riscaldamento costa, in media, 1.2% di PIL (un numero enorme, considerando che valutiamo crescite di una sola cifra decimale come “forti”). Questo è l’eccellente lavoro sul campo e la loro proiezione media è di un 23% di perdita media pro capite raggiunta globalmente alla fine di questo secolo (come risultato dei cambiamenti in agricoltura, malavita, tempeste, energia, mortalità e lavoro).
Tracciare la curva della probabilità fa ancora più paura: c’è una possibilità del 12% che i cambiamenti climatici riducano l’output globale di più del 50% entro il 2100, dicono, una possibilità del 51% che entro tale data il PIL pro-capite si abbassi del 20%, se le emissioni non diminuiranno. Al confronto, la Grande Recessione ha comportato l’abbassamento del PIL del 6% in un colpo solo; Hsiang e colleghi stimano una probabilità di 1 a 8 di un progressivo e irreversibile effetto otto volte peggiore per la fine del secolo.
La scala di tale devastazione economica è difficile da comprendere, ma possiamo iniziare ad immaginare come apparirebbe il mondo oggi con un’economia grande la metà, che produca solo metà del valore e generi solo metà dei beni da offrire ai lavoratori del mondo. Questo fa sembrare la perdita economica per i voli lasciati a terra a causa del caldo che ha colpito Phoenix lo scorso mese una piccola, patetica cosa. E, tra le altre cose, rende l’idea che posporre le azioni di governo sulla riduzione delle emissioni ed affidarsi solo alla crescita e alla tecnologia per risolvere il problema è un calcolo d’affari scentrato.
Teniamo a mente che ogni volo andata e ritorno da New York a Londra costa all’Artico la perdita di altri tre metri quadrati di ghiaccio.
8. Oceani avvelenati - L’acido solfidrico gorgoglia al largo della “Costa Scheletro” -
Che il mare diventerà un killer è un dato di fatto. A meno che non ci sia una radicale riduzione delle emissioni, assisteremo ad un innalzamento del livello del mare di almeno 1,2 metri e forse addirittura di 3 m. entro la fine del secolo. Un terzo delle maggiori città del mondo sono sulla costa, senza menzionare gli impianti energetici, i porti, le basi navali, i terreni coltivati, le aree di pesca, i delta dei fiumi, i terreni paludosi e le distese delle risaie; anche i luoghi a più di 3 metri saranno allagati più facilmente e molto più regolarmente se l’acqua raggiungerà tale livello. Attualmente, almeno 600 milioni di persone vivono entro i 10 m di altezza sul livello del mare.
Ma l’allagamento di queste terre natie è solo l’inizio. Al momento, più di un terso del carbonio del mondo è catturato dagli oceani – grazie Dio, altrimenti avremo già molto più riscaldamento. Ma il risultato è quello che si chiama “acidificazione degli oceani”, che per conto suo, può aggiungere mezzo grado di riscaldamento in questo secolo. Sta già consumando i bacini d’acqua del pianeta – potreste ricordare che sono i luoghi in cui la vita sul pianeta si è sviluppata. Probabilmente avrete sentito parlare di “sbiancamento dei coralli” — che significa morte dei coralli — che è una pessima notizia perché le barriere coralline sostengono un quarto della vita marina e forniscono cibo a mezzo miliardo di persone. L’acidificazione degli oceani friggerà direttamente anche le popolazioni ittiche, anche se gli scienziati non sono ancora sicuri su come predire gli effetti sulle cose che peschiamo negli oceani per mangiare; sanno però che nelle acque acide le ostriche e i molluschi si sforzeranno di far crescere le proprie conchiglie e che quando il pH del sangue umano scende così tanto come ha fatto il pH degli oceani nella scorsa generazione, ciò comporta convulsioni, coma e morte improvvisa.
Questo non è tutto ciò che l’acidificazione degli oceani può fare. L’assorbimento del carbonio può iniziare un ciclo di feedback in cui le acque sotto-ossigenate nutrono diversi tipi di microbi che rendono le acque ancora più “anossiche”, prima nelle profonde “zone morte” dell’oceano, poi gradualmente risalendo fino in superficie. Qui, i piccoli pesci muoiono, incapaci di respirare, il che significa che i batteri mangia- ossigeno crescono e il ciclo di feedback si rafforza. Questo processo, in cui le zone morte crescono come cancri, soffocando la vita marina e spazzando via la pesca, è già abbastanza avanzato in parte del Golfo del Messico e appena al largo della Namibia, dove l’acido solfidrico sta gorgogliando fuori dal mare lungo una striscia di terra lunga mille miglia conosciuta come “Costa Scheletro”. Il nome originariamente si riferiva ai residui dell’industria della caccia alla balena, ma oggi è più adatto che mai. L’acido solfidrico è così tossico che l’evoluzione ci ha insegnato a riconoscerne le tracce più piccole, motivo per cui il nostro naso è così abile a rilevare le flatulenze. L’acido solfidrico è anche stato il responsabile quella volta in cui perì il 97% di tutta la vita sulla terra, quando tutti i cicli di feedback furono innescati e le correnti di getto di un oceano riscaldato giunsero a fermarsi – è il gas preferito dal pianeta per un olocausto naturale. Gradualmente, le zone morte si espansero, uccidendo specie marine che avevano dominato gli oceani per centinaia di milioni di anni, e il gas che le acque inerti immisero nell’atmosfera avvelenò ogni cosa sulla terra. Anche le piante. Ci vollero milioni di anni perché gli oceani si riprendessero.
9. Il grande filtro - Questa sensazione di spavento non può durare -
Ma allora, perché non riusciamo a vederlo? Nel suo recente saggio, lungo quanto un libro, “Il grande squilibrio” [The Great Derangement], il romanziere indiano Amitav Ghosh si chiede perché il riscaldamento globale e i disastri naturali non siano diventati i principali soggetti della fiction contemporanea – perché sembriamo incapaci di immaginare catastrofi climatiche e perché non abbiamo già un’ondata di racconti di un genere che egli già in sostanza prefigura e battezza come “tragedia ambientale”. “Immaginate ad esempio le storie che si possono formare partendo da quesiti come ‘Dove eri quando il muro di Berlino è caduto?’ oppure ‘Dove eri l’11 settembre?’ “, scrive. “Sarà mai possibile scrivere, sulla stessa traccia, ‘Dove eri a 400 ppm?’ o ‘Dove eri quando l’iceberg Larsen B si è staccato?’ “. E risponde “probabilmente no” perché i dubbi e i drammi dei cambiamenti climatici sono semplicemente incompatibili con il tipo di storie che ci raccontiamo su noi stessi, specialmente nei romanzi, che tendono ad enfatizzare il viaggio di una coscienza individuale piuttosto che il velenoso miasma del destino sociale.
Sicuramente questa cecità non è destinata a durare – il mondo che andremo ad abitare non lo consentirà. In un globo più caldo di 6 gradi, gli ecosistemi terrestri ribolliranno di così tanti disastri naturali che finiremo per chiamarli semplicemente “il tempo”: un costante sciame di tifoni e tornado fuori controllo e inondazioni e siccità, il pianeta sotto l’assalto regolare di eventi climatici che non troppo tempo fa distrussero intere civiltà. Gli uragani più violenti arriveranno più spesso, e dovremo inventare nuove categorie per descriverli; i tornado diventeranno più duraturi e più estesi e colpiranno molto più spesso e i chicchi di grandine quadruplicheranno in dimensione. Gli umani erano soliti scrutare il tempo per prevedere il futuro; andando avanti, all’interno della sua ira, scorgeremo il castigo per il passato. I primi naturalisti parlavano spesso di “deep time”, (tempo profondo) – la percezione che avevano, contemplando la grandezza di una valle o di un bacino roccioso, della profonda lentezza della natura. Quello che giace in serbo per noi è più simile a ciò che gli antropologi vittoriani identificavano come “dreamtime” (tempo di sogno) o “everywhen” (ogniquando): l’esperienza quasi mitica, descritta dagli Aborigeni Australiani, di incontrare nel momento presente, un passato fuori dal tempo, quando gli antenati, eroi e semidei affollavano un palcoscenico epico. Lo possiamo incontrare ora, guardando il filmato di un iceberg che collassa nel mare – la sensazione della storia che accade all’istante.
È così. Molte persone percepiscono i cambiamenti climatici come una specie di debito morale ed economico, accumulato a partire dall’inizio della Rivoluzione Industriale e arrivato a riscossione dopo diversi secoli – una prospettiva utile, in un certo senso, dal momento che è l’utilizzo del carbone iniziato nel XVIII secolo in Inghilterra che diede il via a tutto quello che è seguito. Ma più della metà del carbonio che l’umanità ha immesso nell’atmosfera nella sua intera storia è stato creato solo negli ultimi tre decenni; se risaliamo alla fine della seconda guerra mondiale, il valore sale all’ 85%. Significa che, nell’arco di una singola generazione, il riscaldamento globale ci ha portato sull’orlo di una catastrofe planetaria, e che la storia della missione kamikaze del mondo industriale è una storia che si svolge nell’arco di una sola vita. Quella di mio padre, per esempio: nato nel 1938, tra i suoi primi ricordi le notizie di Pearl Harbor e i film di propaganda sulla mitica Air Force che seguirono, film che raddoppiarono come pubblicità per la potenza industriale imperiale Americana; e tra i suoi ultimi ricordi i resoconti della disperata firma degli accordi di Parigi nelle notizie trasmesse via cavo, dieci settimane prima di morire di cancro ai polmoni lo scorso luglio. O quella di mia madre: nata nel 1945, da ebrei tedeschi sfuggiti ai forni crematori in cui sono stati bruciati i loro parenti, che ora si gode il suo 72esimo anno di vita nelle comodità del paradiso americano, un paradiso supportato dalle catene di approvvigionamento di un mondo industrializzato in via di sviluppo. Ha continuato a fumare per 57 di quegli anni, senza filtro.
O quella degli scienziati. Alcuni degli uomini che per primi riconobbero un clima in cambiamento (e data la generazione, quelli che diventarono famosi erano uomini) sono ancora vivi, alcuni stanno perfino ancora lavorando. Wally Broecker ha 84 anni e guida per andare al lavoro nel Lamont-Doherty Earth Observatory attraverso l’Hudson ogni giorno dall’Upper West Side. Come la maggioranza di coloro che per primi diedero l’allarme, egli crede che non basti nessuna cifra di riduzione delle emissioni da sola per aiutare significativamente ad evitare il disastro. Invece, egli punta sul sequestro del carbonio – una tecnologia non testata per estrarre anidride carbonica dall’atmosfera, che Broecker, stima, costerà almeno diverse migliaia di miliardi di dollari – e varie forme di “geo-ingegneria”, nome onnicomprensivo per una varietà di tecnologie stratosferiche sufficientemente inverosimili che alcuni climatologi preferiscono considerarle come sogni, o incubi, da fantascienza. In particolare egli è concentrato su quello che viene chiamato “approccio aerosol” – disperdere talmente tanto diossido di zolfo in atmosfera che quando si trasforma in acido solforico annebbierebbe un quinto dell’orizzonte e rifletterebbe verso lo spazio il 2% dei raggi solari, procurando al pianeta almeno un piccolo spazio di manovra per il calore. “Di certo ciò che rende i nostri tramonti così rossi, può sbiancare il cielo, può rendere più acida la pioggia”, dice. “Ma dovete considerare la grandezza del problema. Dovete capire che non si può dire che il problema grande non dovrebbe essere risolto perché la soluzione potrebbe creare qualche problema più piccolo.” Pensa che non sarà più qui per vederlo, mi ha confidato. “Ma nel corso della tua vita…”
Jim Hansen è un altro membro di questa generazione di capostipiti. Nato nel 1941, è diventato un climatologo all’Università dell’Iowa, ha sviluppato il pionieristico “Modello Zero” per la proiezione dei cambiamenti climatici, e più tardi è diventato capo della ricerca sul clima alla NASA, per poi lasciare a seguito di pressioni quando, mentre era ancora un impiegato federale, presentò una denuncia contro il governo federale accusandolo di non fare niente per il riscaldamento (nel frattempo era stato anche arrestato un po’ di volte per proteste). La causa legale, portata avanti da un collettivo chiamato “La fiducia dei nostri figli” e spesso descritta come “ragazzi contro il cambiamento climatico”, si basa sull’appello alla clausola di uguale protezione: in altre parole, non prendendo provvedimenti per il riscaldamento, il governo viola tale clausola imponendo costi massicci alle generazioni future; è prevista un’udienza nel tribunale distrettuale dell’Oregon, questo inverno. Hansen ha recentemente rinunciato a risolvere il problema del clima solo con una carbon tax, finora il suo approccio preferito, e si è messo a calcolare il costo totale delle misure aggiuntive per estrarre carbonio dall’atmosfera.
Hansen ha iniziato la sua carriera studiando Venere, che una volta era un pianeta molto simile alla Terra, pieno di acqua che poteva sostenere la vita, prima che cambiamenti climatici fuori controllo lo trasformassero rapidamente in una arida ed inabitabile sfera avvolta da un gas irrespirabile; è passato a studiare il nostro pianeta dai 30 anni, domandandosi perché avrebbe dovuto sbirciare nel sistema solare per esplorare rapidi cambiamenti ambientali quando li poteva osservare tutto intorno a sé sullo stesso pianeta su cui si trovava. “Quando abbiamo scritto il nostro primo articolo sull’argomento, nel 1981,“ mi ha detto, “mi ricordo che ho detto ad uno dei miei coautori, ‘Tutto questo è destinato a diventare molto interessante. A un certo punto della nostra carriera, vedremo che queste cose cominceranno ad accadere’“.
Molti degli scienziati con cui ho parlato propongono il riscaldamento globale come soluzione al famoso paradosso di Fermi, che chiede, se l’universo è così grande, perché non vi abbiamo incontrato nessuna forma di vita intelligente? La risposta, suggeriscono, è che la durata naturale della vita di una civiltà può essere solo qualche migliaio di anni, e la durata di una civiltà industriale forse solo qualche centinaio. In un universo che ha molti miliardi di anni, con sistemi solari separati sia nel tempo che nello spazio, le civiltà possono emergere e progredire e bruciarsi semplicemente troppo in fretta perché una possa trovarne un’altra. Peter Ward, un carismatico paleontologo tra quelli responsabili della scoperta che le estinzioni di massa del pianeta erano state causate dai gas serra, chiama questo il “Grande Filtro”. “Le civiltà crescono, ma c’è un filtro ambientale che ne causa la morte e la scomparsa abbastanza rapidamente”, mi ha detto. “Se guardi il pianeta Terra, il filtro che abbiamo sperimentato nel passato è consistito nelle estinzioni di massa”. L’estinzione di massa che ora stiamo vivendo è appena agli esordi, molta morte ci aspetta.
Eppure, per quanto improbabile, Ward è un ottimista. E lo sono anche Broecker e Hansen e molti degli altri scienziati con cui ho parlato. Non abbiamo sviluppato una sorta di gnosi religiosa a riguardo dei cambiamenti climatici che possa confortarci, o darci uno scopo, di fronte ad un possibile annientamento. Ma gli scienziati del clima hanno uno strano tipo di fede: troveremo un modo per bloccare il riscaldamento radicale, dicono, perché dobbiamo farlo.
Non è facile capire quanto si possa essere rassicurati da questa fosca certezza, o quanto chiedersi se sia un’altra forma di delusione; affinché il riscaldamento globale assurga a parabola, qualcuno deve pur sopravvivere per raccontare la storia. Gli scienziati sanno che anche per raggiungere gli obiettivi di Parigi, entro il 2050, le emissioni di carbonio da fonti energetiche e industriali, che stanno ancora aumentando, devono dimezzarsi ogni decade; le emissioni derivanti dall’uso del suolo (deforestazione, emissioni dalle mucche, ecc.) dovranno essere azzerate e dovremmo inventarci tecnologie capaci di estrarre ogni anno il doppio del carbonio che le piante di tutto il pianeta estraggono ora. Tuttavia, in generale, gli scienziati hanno un enorme fiducia nella creatività degli umani — una fiducia forse rafforzata dalla loro valutazione dei cambiamenti climatici che, dopo tutto, sono pur sempre anche un’invenzione umana. Rammentano il progetto Apollo, il buco nell’ozono che abbiamo rattoppato negli anni ’80, la paura passata per la reciproca distruzione assicurata. Dato che abbiamo trovato un modo per ingegnerizzare il nostro giorno del giudizio, di sicuro troveremo un modo per ingegnerizzare anche la via d’uscita, in un modo o nell’altro. Il pianeta non è abituato ad essere provocato in questo modo e un sistema climatico programmato con cicli di retroazione lunghi secoli o millenni ci impedisce – anche a quelli che guardano più da vicino – di realizzare appieno il danno già inflitto al pianeta. Ma quando vedremo realmente il mondo che abbiamo creato, dicono gli scienziati, troveremo anche il modo di renderlo vivibile. Per loro, l’alternativa è semplicemente inimmaginabile.
- David Wallace-Wells - Pubblicato il 10 luglio 2017 su The New York Magazine -
[ Traduzione a cura di Stefano Pravato ]
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