Siamo padroni (incontrollati) del pianeta, ma dentro di noi c’è sempre quel bipede barcollante che, intorno a 2 milioni di anni fa, iniziò a sviluppare un cervello abnorme e poi, circa 200 mila anni or sono, divenne Homo sapiens e si diffuse ovunque.
Pillole di evoluzione umana. Da prendere una alla volta o anche tutte insieme. Per aiutarci a comprendere meglio noi stessi e il posto dell’uomo nella natura. Da Lucy ai Neanderthal, dall’enigmatico Homo naledi a Otzi : attraverso una serie di istantanee scattate nel panorama della paleoantropologia degli ultimi anni, con la piacevole e sapiente guida di un noto scienziato-divulgatore, conosceremo i nostri parenti estinti e i tanti antenati che abbiamo nel tempo profondo. Un puzzle complesso e avvincente le cui tessere sono come pagine strappate di un libro da restaurare, quello della nostra preistoria.
(dal risvolto di copertina di: "Ultime notizie sull'evoluzione umana", di Giorgio Manzi. Editore: Il Mulino)
Evoluzione Umana. Difficile diventare Sapiens
- di Guido Barbujani -
Da tempo Giorgio Manzi cura per Le Scienze una rubrica molto seguita, Homo sapiens. Dalle sue pagine ci ha tenuto aggiornati sulle ultime scoperte della paleoantropologia, lo studio della nostra evoluzione a partire dai resti fossili, che è poi il campo nel quale è un’autorità indiscussa a livello internazionale. Ma ha trovato modo di parlare anche d’altro: di come abbiamo addomesticato i cani; di Ötzi, l’uomo del ghiacciaio del Similaun; di come sofisticate tecniche digitali permettano di dare un volto a individui vissuti migliaia o milioni di anni fa; e addirittura del movimento Neoborbonico che reclama il cranio del brigante Vilella (attualmente al Museo Lombroso di Torino). Oggi i suoi pezzi (di Manzi, non del brigante Vilella) sono stati raccolti in volume (Ultime notizie sull’evoluzione umana), e leggerli tutti di seguito non è solo piacevole, è anche illuminante. Si coglie, al di là del tema di volta in volta affrontato, il disegno complessivo: un insieme di idee che Manzi ha messo a fuoco nel corso degli anni, a cui tiene, e che ribadisce, esplicitamente o implicitamente, ogni volta che si mette a parlare di scienza. La prima idea è che il nostro percorso evolutivo è stato molto complicato. Avete presenti quelle illustrazioni in cui, partendo a sinistra da un antenato scimmiesco, man mano che ci si sposta verso destra sfilano creature sempre più erette, più gradevoli alla vista e più simili a noi? Bene, se vogliamo capire qualcosa dell’evoluzione, e non solo della nostra, meglio dimenticarsele. Non è andata così, non va mai così: riprendendo un tema caro al mai abbastanza compianto Stephen Jay Gould («impareggiabile maestro»), Manzi mette ripetutamente in chiaro che progresso lineare, nella nostra storia, se ne trova proprio poco. Non ci siamo evoluti in linea retta, ma per prove ed errori. Ci sono state tante specie umane; tutte tranne una hanno finito per estinguersi. Il nostro cammino è stato a zigzag, e molte delle sue tappe ci sono ancora sconosciute.
La seconda idea su cui Manzi insiste è, a pensarci bene, la stessa, ma declinata in modo diverso: non è complicata solo la nostra evoluzione, ma anche il processo intellettuale attraverso cui cerchiamo di ricostruirlo, ragionando su un cranio o su una pietra scheggiata. «Cautela verso i facili entusiasmi; con il passare del tempo, certe ipotesi possono essere riconsiderate o, magari, abbandonate», scrive. È un buon consiglio, specie di questi tempi.
Nella forsennata ricerca di fondi a cui ogni ricercatore è costretto, pena l’espulsione dal mercato, una popolare e sciagurata strategia è far parlare in qualche modo di sé giornali e siti web, magari sparandola grossa. Una volta è il ritrovamento di scheletri di Homo sapiens nel posto dove nessuno se li sarebbe aspettati, un’altra un fossile che sconvolgerebbe le datazioni correnti. Le cose, però, non stanno così. Nella scienza, e la paleontologia non fa eccezione, ci sono continue correzioni ma poche rivoluzioni.
Ogni volta che otteniamo nuovi dati possiamo mettere meglio a fuoco fenomeni che non comprendevamo o comprendevamo in maniera incompleta, certo. Ma questo cambiamento di prospettiva è, di regola, graduale. Il sensazionalismo, il presentare ogni nuova scoperta come sbalorditiva, finisce per generare, e non solo nel lettore meno accorto, il sospetto che la paleoantropologia sia una scienza fragile, così fragile da finire rivoltata come un calzino ogni volta che da uno scavo salta fuori un osso un po’ diverso. È un sospetto infondato, ci spiega, gentilmente ma fermamente, Giorgio Manzi.
I capitoli del libro seguono le tappe principali della nostra evoluzione, dal remoto e sconosciuto antenato comune di tutte le scimmie (noi compresi), agli australopiteci, al genere Homo, fino alla comparsa e ai primi passi per il mondo di Homo sapiens. Un capitolo è dedicato alle storie italiane, a un ristretto ma qualificato gruppo di creature, con i cui resti Giorgio Manzi ha avuto un rapporto stretto. Da questi fossili abbiamo imparato a conoscere aspetti sorprendenti del nostro passato: per esempio, dall’uomo di Ceprano.
In poche, emozionanti righe, Manzi, che ha partecipato in prima persona alla scoperta, racconta come forti piogge abbiano portato alla luce un vecchio osso nella campagna laziale; l’intuizione che quell’osso possa avere qualche importanza scientifica; e la conferma, cioè il processo attraverso cui si è arrivati a capire che quella calotta cranica è appartenuta all’essere umano più arcaico mai trovato dalle nostre parti. La storia è istruttiva per più di un motivo. Inizialmente datato intorno a un milione di anni fa, il cranio di Ceprano è stato collocato da analisi più recenti intorno a 400mila anni fa: in Europa ci sono fossili più antichi. Ma con questo la scoperta non perde di importanza, anzi, ne acquista. Le caratteristiche arcaiche del cranio di Ceprano in un periodo relativamente recente confermano una volta di più che la nostra evoluzione non è avvenuta in linea retta, che non siamo il punto d’arrivo di un processo inevitabile. L’uomo di Ceprano non è né antenato nostro, né dell’uomo di Neanderthal, anche se lo precede di poco: è, con ogni evidenza, una delle tante forme umane che non hanno avuto successo, e hanno finito per estinguersi.
E all’uomo di Neanderthal, così diverso da noi ma così vicino a noi da essersi accoppiato con qualche nostro antenato, è dedicato un altro capitolo, il terzultimo. Le conseguenze di questi scambi sessuali, di questi incontri ravvicinati fra strani tipi non sono ancora chiare, ma è chiaro che, per studiarle e comprenderle, disponiamo oggi di uno strumento formidabile: il DNA. Così, allo studio dell’anatomia e dei reperti archeologici, oggi si è affiancata la genetica. Combinando i metodi di tutte queste discipline stiamo imparando a leggere nei fossili storie sempre diverse, spesso stupefacenti, che speriamo Giorgio Manzi continuerà a raccontarci.
Guido Barbujani - Pubblicato sul Sole del 19/11/2017 -
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