venerdì 30 novembre 2018

A proposito di rivoluzione

camatte

Sulla rivoluzione - Aprile 1972
(Invariance, n. 2, II serie)

I vari gruppuscoli che hanno fatto la loro comparsa, a partire dal 1945, si sono sempre rifiutati di riconoscere la morte del vecchio movimento operaio. Avrebbero dovuto proclamare la loro stessa autonegazione. Ciò tuttavia non ha impedito loro di evocarla, interpretarla, teorizzarla nella solita rubrica: crisi del movimento operaio, concepita per lo più come una crisi di direzione rivoluzionaria. Molto raramente ciò ha comportato una ricerca delle cause di questa morte in seno alla classe stessa. Giacché era prima di tutto necessario rifiutare la consueta affermazione: il proletariato è integrato, ha abbandonato la propria missione — come già aveva fatto Trotzky nel suo articolo del 1939 l'URSS in guerra —. Alcuni hanno interpretato questo fenomeno spiegandoci che il capitalismo era cambiato trasformandosi in capitalismo di Stato, in capitalismo burocratico; ma che tutto sommato il proletariato restava identico a se stesso, portava avanti la missione di sempre. Di qui il plagio del Manifesto del partito comunista perpetrato da Socialisme ou barbarie. E qui non si tratta di tuonare contro la produzione di un manifesto, anche se questo non ha fatto che copiare quello del 1848, in nome della sacralità dei testi classici; ma di mettere in evidenza i limiti stessi di una simile proposta. Occorre notare — in una tale prospettiva — che l'Internazionale Situazionista, comparsa alcuni anni dopo, portò avanti un’operazione del genere — d’altra parte, Potere Operaio e Lotta Continua non fecero che rispolverare e proporre una sorta di neo-leninismo.

Non mancarono uomini, come Proudhommeaux, che compresero l’importanza della disfatta proletaria nel 1945 e ne dedussero l’inanità della missione del proletariato arrivando, attraverso una regressione, a un rigetto della teoria di Marx. Costoro affermarono — come fu successivamente teorizzato in mille modi — che, dal momento che il proletario tende a scomparire nelle zone altamente industrializzate, sono gli emarginati che potranno portare a termine l’antico progetto proletario; oppure, saranno i contadini in rivolta nelle zone non ancora asfissiate dal capitale a rilanciare la dinamica rivoluzionaria.
Anche Bordiga ebbe a riconoscere, ampiamente, la disfatta del proletariato e lo sviluppo orgiastico del capitale dopo il 1945. Nell’articolo II marxismo dei cacagli, del 1952, egli poteva perciò scrivere: « Più volte abbiamo detto che il Manifesto è una apologia della borghesia. E abbiamo aggiunto che oggi, dopo la seconda guerra mondiale, e dopo il ringhiottimento della rivoluzione russa, ne va scritta una seconda apologia ». Lo sviluppo del capitale su scala mondiale, avrebbe fatto crescere il proletariato — pensava Bordiga — e la crisi che sarebbe derivata dal suo boom straordinario avrebbe rilanciato il proletariato delle vecchie metropoli, e in modo particolare il proletariato tedesco. Dal momento che questo paese veniva considerato come il centro della futura rivoluzione.

Diverse recessioni come pure i contraccolpi delle rivoluzioni anticoloniali neri arrivarono in alcun modo a rilanciare l’agitazione rivoluzionaria nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. La passività del proletariato pareva anche divenire un’esperienza acquisita all’inizio degli anni ’60. La teoria e la pratica di gruppi quali l’Sds in Germania, di simili raggruppamenti negli Stati Uniti, degli Zengakuren in Giappone ecc. avevano l’obiettivo di risvegliare la forza rivoluzionaria del proletariato attraverso il ricorso ad azioni cosiddette esemplari. Essi avevano percepito — soprattutto alcuni elementi dell’Sds — l’importanza della disfatta e pensavano che il movimento operaio era stato riportato indietro di cento anni. Avevano in qualche modo intuito un nuovo cominciamento, l’inizio di una nuova epoca... E’ perciò che scomparvero nel corso della fase insurrezionale che culminò a Parigi e a Città del Messico nel 1968, o meglio, si dispersero successivamente. Si è criticato lo scioglimento dell’SDS nel 1970, mentre questo fatto non era che la prova conclusiva della validità di tutta la sua azione precedente. Con l’emergere della nuova fase rivoluzionaria, essi dovevano scomparire. Stessa sorte toccò al movimento maoista francese il quale, paradossalmente — se si eccettuano alcuni gruppi isolati —, espresse meglio di ogni altro il movimento spontaneo nato dalla crisi di maggio. La vita catastrofica delle organizzazioni maoiste è la prova migliore per suffragare le nostre ipotesi. Tali organizzazioni si limitano a « parcheggiare », sulle scosse rivoluzionarie di maggio e del dopo maggio, un’ideologia presa a prestito e mascherata dalla rivoluzione culturale cinese; ma il contenuto doveva ogni volta rivelarsi più forte del suo contenitore fino a farlo esplodere. La volontà di essere a contatto colla massa che si rivolta li indusse sempre più a cambiare terreno — via via che le lotte si dislocavano da uno strato sociale all’altro — e a gonfiarsi di rivendicazioni rispetto alle quali, all’inizio, si erano opposti o che avevano ignorato del tutto: lotta contro i sindacati riconosciuti come organizzazioni fondamentali della conservazione del giogo capitalistico, lotta per la liberazione della donna, per la liberazione sessuale e così via. In altri termini, di fronte ad esigenze totali la loro fraseologia politica finì per cadere e sbriciolarsi: dovettero riconoscere che la rivoluzione non è un semplice problema politico, ma il problema di un rovesciamento totale del modo di produrre, di vivere; che la presa del potere resta soltanto un momento della rivoluzione e ricondurre tutto a questo portava solo e semplicemente a misconoscere tutte le dimensioni della rivolta umana, tutte le dimensioni della rivoluzione.

Dopo la scossa di maggio preceduta dall’ampio movimento che si venne a sviluppare in due aree con momenti storici differenti — la Cina e l’Occidente — e che fu seguita da grandi lotte in Italia, dai primi scioperi selvaggi in Germania, gli scioperi di Kiruna, i moti polacchi della fine del 1970, la grande rivolta di Ceylon nel 1971, il proletariato resta sempre inquadrato dai gruppuscoli, rimasugli del vecchio movimento operaio — sia che essi raccolgano centinaia di migliaia di elementi, come il Pcf, o soltanto alcune centinaia, Essi non fanno che organizzare il passato, che deve perdurare come freno a tutto il movimento di lotta reale; ma questo non impedisce affatto ad alcuni di loro — Pcf o Ps in Francia, per esempio, — di modulare il proprio programma in funzione dell’onda rivoluzionaria che anch’essi sentono montare.
Allora, tutti quelli che hanno agito per scuotere il proletariato dal suo letargo e che in questi ultimi anni hanno portato avanti manifestazioni, hanno lottato ecc., sono dunque stati il trastullo di illusioni, hanno fatto una semplice baraonda per poi seppellire meglio la rivoluzione? Diciamo fin d’ora che essi hanno, di fatto, sepolto un passato, hanno liquidato le illusioni di un mondo ormai scomparso.
Il proletariato ha effettivamente subito una grave disfatta nel ’45 ma non si può certo superarla col proporre un’azione che, se era compatibile con i compiti del proletariato nel corso di un determinato periodo, non ha tuttavia alcun rapporto con la situazione attuale. La disfatta del 1945 ha significato, per il proletariato, l’impossibilità di sostituire o di rimpiazzare il capitale nell’area slava come nelle altre aree che si sollevarono dopo il 1945 e di impedire che esso realizzasse il suo dominio reale su scala sociale, prima in Occidente e poi sull’intero pianeta — nella stessa misura in cui è sempre la forma superiore a dare un ordine a tutte le altre. Come abbiamo detto, il capitale non è potuto arrivare a questo risultato se non realizzando il dominio dell’essere immediato del proletariato, il lavoro produttivo.

Questa constatazione comporta una rottura assoluta con tutta quella che fu la pratica e la teoria del movimento operaio prima del ’45; e dato che, dal 1923 al 1945, si è avuta una semplice ripetizione di ciò che si ebbe tra il 1917 e il 1923, possiamo anche modificare la nostra proposta dicendo che è necessario rompere con la pratica e la teoria del movimento operaio che arriva fino al 1923.
Una proposta del genere, tuttavia, non postula la necessità di costruire un nuovo movimento attraverso un montaggio ili pezzi sparsi a partire dagli esordi delle diverse correnti del vecchio movimento proletario. Non si tratta, in nessun modo, di redigere un nuovo manifesto, un nuovo programma e così via, o di ritornare a Marx, limitandosi a copiarne gli atteggiamenti con la pretesa di essere, con questo, « più rivoluzionari ». I ritorni a qualcosa si risolvono sovente in fughe di fronte a qualcosa, fughe dalla realtà contemporanea, in realtà, si tratta di riuscire a pensare la caducità di alcune parti dell’opera di Marx: che sono appunto caduche in quanto ormai realizzate.
Fondamentalmente, l’opera di Marx distingue tre grandi periodi della storia umana, con tutte le discontinuità che essi comportano: il passaggio dal feudalesimo al modo di produzione capitalistico, lo sviluppo di questo modo di produzione e il passaggio al comunismo. Quest’opera concerne anche altri momenti della storia della specie umana: le forme precapitalistiche; tuttavia, ciò che Marx ha descritto in maniera esaustiva è il periodo di sottomissione formale al capitale. Nel Manifesto, ne La guerra civile in Francia, nei 4 libri del Capitale, nella Critica al programma di Gotha, si trova il riformismo rivoluzionario di Marx che tiene conto delle possibilità che aveva la società del suo tempo. Questo non gli ha tuttavia impedito di descrivere anche il comunismo realizzato in tutta la sua pienezza (cfr. le note all’opera di James Mill, come pure alcune pagine dei Grundrisse) e di esporre gli elementi essenziali del passaggio al dominio reale del capitale, le caratteristiche fondamentali di questo periodo. Ma, in proposito, Marx non ha potuto fare opera di sintesi — non è infatti un caso se II Capitale non venne portato a termine; a maggiore ragione non ha descritto il passaggio rivoluzionario al comunismo, una volta che il modo di produzione capitalistico fosse pervenuto al suo dominio reale — e questo in modo dettagliato, come per il passaggio sulla base del dominio i formale.

Molti risponderanno che è falso, che Marx ha dato tutte le indicazioni necessarie, giacché in ogni caso, anche in periodo di dominio reale, ci saranno le classi e, perciò, ci saranno i partiti: ergo, la classe rivoluzionaria in particolare dovrà costituirsi in partito e via dicendo.
Non neghiamo che ci siano invarianti, e tuttavia:

1) è necessario situare il campo di invarianza; la qual cosa comporta una delimitazione spazio-temporale; in tal modo, l’invariante-classe non occupa un campo così vasto come quello dell’invariante-popolazione o produzione — invarianti che Marx definiva verständige Abstraktion nella sua introduzione del 1857;
2) lo sviluppo, il divenire, si compie a partire dal particolare e non a partire dal generale; è necessario quindi studiare le determinazioni nuove.

A una maggiore profondità — e proprio a causa di questo dominio reale ben definito — si impone il ripensamento della teoria di Marx in ciò che essa ha di essenziale e il ritrovamento di alcuni punti fondamentali che sono stati o-messi, obliterati, o trascurati per calcolo in quanto non compresi. Ciò non postula un’ermeneutica, ma piuttosto uno sforzo sempre rinnovato per arrivare a esprimere concretamente ed esplicitamente cosa intendiamo per comunismo come teoria per la quale l’opera di Marx resta l’elemento pertinente.
Questa teoria spiega il costituirsi dell’umanità in comunità comuniste il cui insieme dà forma al comunismo primitivo, la loro dissoluzione sotto l’azione del valore di scambio e della sua autonomizzazione, possibile soltanto ad un certo livello di sviluppo delle forze produttive. Movimento che distrugge le comunità e genera, simultaneamente, gli individui e le classi. E il trionfo, tuttavia, non era per niente fatale: anzi,
esso venne a più riprese ostacolato mentre le vecchie comunità riprendevano, anche se provvisoriamente, il sopravvento Tuttavia, nell’area occidentale, questo movimento trionfa col modo di produzione antico, ma viene riassorbito col modo di produzione feudale; sarà soltanto in margine alla società feudale che potrà riacquistare vitalità e dare i natali al modo di produzione capitalistico. Il quale non poté dominare il processo di produzione se non a partire dal momento in cui gli uomini vennero separati dai propri mezzi di produzione. E’ proprio questa separazione quella che Marx ha definito come il primo concetto del capitale. Il quale realizzerà allora, quello che non è stato capace di fare il denaro: costituirsi cioè in comunità materiale assumendo tutta la materialità degli uomini — antropomorfismo del capitale —, mentre gli uomini venivano reificati, capitalizzati. Ciò si realizza con la formazione del capitale fittizio che sfocia in in una comunità fittizia nella quale l’uomo viene messo totalmente in movimento dal meccanismo del capitale, essere sensibile-soprasensibile.

L’uomo viene allora svuotato di tutto: la sua creatività è stata pompata, aspirata; ma viene anche espulso dall’antico processo di produzione. Tende a divenire marginale, polluzione del capitale, il quale si è autonomizzato e supera i suoi limiti (una sorta di sovra-fusione del capitale), anche se non può fare a meno degli uomini (la polluzione necessaria). Sono essi il    limite del capitale. Sarà l’oppressione sempre più impietosa, esercitata sia direttamente sia indirettamente in seguito alla distruzione della natura, a condurre i proletari della classe universale a rivoltarsi contro il capitale. Per fare questo essi non possono più mutuare forme dal passato, o dalle basi umane che sarebbero state conservate in questa società, dal momento che tutto è stato distrutto. Ma devono creare realmente il movimento della loro liberazione. Non possono più attingere agli antichi schemi; il partito potrà essere solo il partito Gemeinwesen il quale non potrà funzionare, nel momento in cui sorgerà, facendo appello al principio del centralismo o del suo contrario: il federalismo. E’ molto probabile che il sollevarsi della classe universale creerà, di colpo, gli organismi compatibili con la possibilità comunista della nostra società. Vale a dire, essi daranno forma a comunità le quali si muove-ranno già dentro una pratica totalmente differente da quella della nostra società. Non è possibile prevedere i dettagli di questo fenomeno, ma li si può già vedere come la sola possibilità di lotta contro la comunità del capitale: come tendenza all’unificazione di diverse attività prima separate, alla formazione di un’altra unita tra industria e agricoltura, di altri rapporti tra donna e uomo; e, d’altra parte, il momento stesso dell’esplosione rivoluzionaria sarà determinante per la produzione di una forma più o meno elaborata.
Nelle altre zone che non siano quella occidentale, il movimento del valore di scambio dovette attraversare, per affermarsi, difficoltà sempre maggiori. Marx non pensava affatto che il modo di produzione capitalistico dovesse obbligatoriamente affermarsi in Russia, al contrario, riteneva che l'Obchtchina, proprio per le sue particolarità, avrebbe potuto rappresentare il supporto per un trapianto del comunismo in seguito a una rivoluzione vittoriosa in Occidente. In ogni caso, non pensava che il modo di produzione capitalistico potesse trionfare facilmente nell’area slava, tanto era potente, secondo lui, la vitalità dell’Obchtchina. Le riforme di Stolypin e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico nell’industria indussero in errore Lenin e i bolscevichi. Essi sottovalutarono la vitalità e la capacità di resistenza dell’Obchtchina, che, statisticamente, era stata probabilmente ridotta ma che non era stata eliminata come comportamento di una popolazione adattatasi a un determinato ambiente. Ciò doveva condurre a un errato comportamento nei confronti dei contadini col voler forzare lo sviluppo del modo di produzione capitalistico: vedere in proposito, da una parte, la questione dell’insurrezione in Ucraina e Makno, dall’altra la polemica a più voci riguardante i bolscevichi che avrebbero preteso di forzare lo sviluppo storico.
Il dispotismo zarista è stato oggi rimpiazzato dal dispotismo del capitale e ciò ha potuto realizzarsi solo a prezzo di una spaventosa repressione sempre rinnovata, quasi che la tendenza al comunismo fosse irriducibile.
In Asia il movimento del valore di scambio tese ad autonomizzarsi a diverse riprese, classi e individui tesero a formarsi; ma infine è solo attraverso l’intervento esterno dei paesi capitalistici che il capitale è in grado di svilupparsi. Cionondimeno, esso domina solo formalmente la società e noi viviamo un periodo particolarmente cruciale del suo passaggio al dominio reale, grazie all’aiuto dato dalla comunità capitalistica mondiale rappresentata dal capitale statunitense. L’Asia non può trovare un certo equilibrio se le antiche comunità basali e centrali non vengono rimpiazzate dalla comunità del capitale, dato che per il momento — e vista la debolezza del movimento rivoluzionario mondiale — dobbiamo disgraziatamente escludere un divenire immediato al comunismo. In definitiva, tutta la storia dell’umanità coincide con la storia della perdita della sua comunità più o meno ristretta, più o meno immersa nella natura (di qui la famosa idolatria della natura), sotto l’azione del valore di scambio; con la storia della lotta contro il valore il quale, prima sotto forma di denaro (equivalente generale, moneta universale), e poi di capitale, si costituisce come comunità oppressiva e impone all’uomo la necessità di distruggerla per fondare il vero Gemeinwesen umano: l’essere umano come polo universale e l’uomo sociale come polo individuale, e la loro armoniosa compenetrazione.

Questo è il comunismo — teoria del proletariato nel senso classico e anche nel senso della classe universale, la quale è già negazione in termini della classe e della sua invarianza. (Il capitale cerca, è vero, di ridurre in termini organizzativi la classe universale: è questo il suo modo di negare le classi; e tuttavia, a partire dal momento in cui la classe è stata ionizzata essa può spostarsi verso il polo comunista della società).
A partire di qui, saremo in grado di situare sempre meglio quanto vi è di caduco nell’opera del Marx e, contemporaneamente, di cogliere tutti quegli elementi che permettono di comprendere a fondo, oggi, il dominio reale del capitale, il quale, infine, nel suo compiuto dominio reale, genera delinquenza e demenza.
Lavorare a produrre questa sintesi è importante, e tuttavia ciò si ridurrebbe a un’attività parcellare se non si tentasse, contemporaneamente, di vedere come questa sintesi sia già in atto nelle manifestazioni varie di diversi elementi, per quanto essi agiscano talvolta ancora entro l’involucro gruppuscolare.
Maggio fu l’emergere della rivoluzione. Dopo, in seno alla classe universale che è ancora la classe del capitale, vale a dire degli schiavi del capitale, ha avuto inizio una lotta che condurrà al totale rivoluzionamento di questa classe e al suo costituirsi in partito-comunità, primo momento della sua negazione. Ora, questo movimento contraddittorio è fondamentalmente un processo di eliminazione del passato; questa classe non può rappresentarsi a se stessa senza avere prima eliminato le determinazioni e le rappresentazioni antiche. Ciò si realizza evidentemente spesso in modo farsesco giacché il passato non viene rigettato se non nel corso di una resurrezione parodistica: della sinistra tedesca, per esempio, o della sinistra russa.
E’ sulle distinzioni sociali immediate, create dal capitale, che si è venuta ad appoggiare la coscienza che si sono dati i movimenti rivoluzionari negli Stati Uniti (Black Panthers, Yppies), in Germania e in Francia nel maggio ’68. L’opposizione tra classe operaia e classi medie, fondata essenzialmente sulla distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, produzione e circolazione, produzione e consumo, era stata assunta da Marx a fondamento della sua visione della rivoluzione socialista e della dittatura del proletariato. La prospettiva posta tanto allo sviluppo del capitale quanto alla dittatura del proletariato, restava la generalizzazione della condizione del lavoro produttivo. Questa prospettiva è adesso realizzata e il potenziale rivoluzionario del 1848 si è definitivamente isterilito. Produrre per il capitale è diventato il fatto che coinvolge l’intera popolazione. E tuttavia ad ogni situazione particolare nel processo del capitale corrisponde una visione di classe che contrappone colletti blu e colletti bianchi, operai e piccolo-borghesi, così come tra loro si contrappongono le bande del capitale.

Gli uomini del Pcf e del Pei sono senz’altro i più accaniti nel mantenere dentro un ghetto in seno alla società il proletariato classico; lo considerano come loro proprietà privata; ne difendono quindi con accanimento le « caratteristiche » e le « virtù »; lo hanno ridotto a un racket da tutelare gelosamente. Non rimane che constatare quanto siano capaci di abbaiare allorché racket rivali tentano di fare man bassa sul loro terreno.
In Francia e in Germania, il movimento si era considerato specifico delle classi medie, semplice detonatore di un movimento che non poteva essere che quello proprio della classe operaia. E mai si è considerato un movimento della classe universale. Non è stato capace di riconoscere l’identità delle situazioni singole dentro il capitale e di fronte ad esso. Nondimeno, questo movimento del 1968 restava il testimone della fine delle classi medie quali Marx le aveva considerate, e dell’inizio della lotta umana contro il capitale.
La classe operaia, categoria del capitale, non farà che disertare sempre più i vecchi partiti senza per questo costituirsi in nuove organizzazioni, ma vivendo la sua metamorfosi che la renderà idonea a confluire nelle altre componenti della classe universale.

Soltanto i nostalgici del passato possono gridare che il movimento del maggio ’68 è stato uno scacco; si tratta di gente incapace di pensare un processo rivoluzionario che richiede parecchi anni per realizzarsi. Dopo maggio abbiamo il movimento di produzione dei rivoluzionari. Questi cominciano a comprendere le esigenze esistenziali della rivoluzione: è necessario che la rappresentazione del capitale, il quale parassita il cervello di ognuno di noi, venga annientata. Ma questo non può verificarsi grazie all’intervento di gruppi coscienti che inculcano una nuova rappresentazione nei nostri cervelli intossicati, né realizzarsi tutt’a un tratto il giorno «X» fissato dal fato; esploderà in seguito alla lunga lotta che investe, fin d’ora, tutti i campi della vita quale ci viene imposta dal capitale. Lotta reale, operante, che non perde tempo a disquisire sottilmente, in un delirio marxistico-psicoanalitico-strutturalista, per sapere se essa è troppo teorica e non sufficientemente pratica oppure il contrario, se le condizioni oggettive sono sempre mature e quelle soggettive non lo sono, se l’organizzazione è necessaria e qual è la sua struttura più adeguata o la sua istanza più pertinente e così via. Questo delirio è il sogno del capitale: una rivoluzione eternamente in permanenza perché mai generata, sempre appesa a qualche misericordioso « filo »: la mancanza di una certa condizione oggettiva, il «non-detto» di una certa teoria.
E’ vano attendere ancora la rivoluzione: essa è già in atto. Non la vedono soltanto coloro che, per riconoscerla, sono da sempre in attesa di un segno particolare, di una « crisi » che scatenerebbe un ampio movimento insurrezionale, che produrrebbe un altro segno essenziale: la formazione del partito, ecc. In realtà, la rottura d’equilibrio si è già prodotta prima del ’68 e maggio non fu altro che la sua esteriorizzazione; da allora a tutti i livelli del processo totale di vita del capitale, ci sono esplosioni mancate che se ancora non sono state trasformate in crisi nel senso tradizionale, permettono tuttavia ai proletari di iniziare a distruggere il loro addomesticamento. La perdita sempre più spinta della nostra sottomissione reale al capitale, ci permetterà di affrontare il vero problema della rivoluzione: non quello di cambiare la vita, dal momento che ogni vita è da millenni asservita, addomesticata e deviata dall’esistenza delle classi, ma quello di creare la stessa vita umana.

- Jacques CAMATTE - Aprile del 1972 -

Pubblicato da simonetti walter mercoledì, marzo 05, 2014
Etichette: comunismo, Invariance, Jacques Camatte, Karl marx

fonte: SimonettiWalter

giovedì 29 novembre 2018

L'olocausto dei disabili

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Aktion T4 - L'inserimento del nazismo nella modernità capitalista
- di Benoït Bohy-Bunel -

Le violenze validiste [N.d.T.: "Capacitismo ( o validismo ) è un termine usato per descrivere la discriminazione, l'oppressione e l'abuso derivato dalla nozione che le persone con disabilità sono inferiori alle persone senza disabilità"] si imbarbariscono in maniera estrema durante la seconda guerra mondiale. A partire dal luglio del 1933, in Germania viene istituito un programma di sterilizzazione forzata. Dal gennaio del 1940 ad agosto del 1941, una campagna di sterminio degli adulti disabili fisici e mentali, chiamata Aktion T4, viene portata avanti dal regime nazista, e farà fra le 7.000 e le 8.000 vittime. Delle esecuzioni si fanno carico quadri medici nazisti (i medici agiscono volontariamente, decidendo essi stessi i criteri per «giustificare» le esecuzioni) e membri delle SS.
Qui, sotto l'impulso di una decisione personale di Adolf Hitler, l'ideologia eugenetica, inizialmente britannica, è già assai sviluppata in seno al capitalismo occidentale, si radicalizza in maniera atrocemente mortale. Philipp Bouhler, cancelliere del Führer, si farà carico di metterla in atto. Le uccisioni avvengono per mezzo di camere a gas, che vengono costruite a tale scopo.
A tal proposito, i nazisti parlano di «eutanasia»: il mostruoso funzionalismo nazista finisce per oggettivare e naturalizzare le cosiddette «deficienze» delle persone handicappate, fino al punto che, dal loro punto di vista, ucciderli sarebbe stato un modo per «alleviarli» da un peso.
Il darwinismo sociale - ideologia già operante fin dall'inizio del XX secolo occidentale, che come si è visto finirà per accompagnare, secondo una logica selettiva, il processo di valorizzazione del valore - si trasforma qui in un folle e terrificante scatenamento di pura violenza mortifera: «giustifica» l'assassinio dei disabili, ma «giustifica» anche il genocidio di cui sono state vittime gli ebrei, così come l'omicidio degli zingari (che vengono assegnati all'ozio, alla non territorialità, all'improduttività), e degli omosessuali (assegnati alla sterilità e alla devianza).

Il regime nazista ha barbarizzato e radicalizzato atrocemente quelle che erano tutte le violenze strutturali inscritte nella modernità capitalista occidentale; ha sviluppato tutta l'irrazionalità demente che si trovava in germe nella razionalità strumentale del mercato. Quindi, a partire da questo, non è riducibile ad una frattura, ad una crepa temporale, o ad una contingenza assoluta che emerge dal seno della modernità capitalista, sullo sfondo di democrazie pacifiche e tolleranti. Al contrario, radicalizzando la violenza inscritta nelle dissociazioni interne alle categorie fondamentali del capitalismo (valore, lavoro, merce, denaro), disvela tutto il potenziale mortifero estremo di una tale modernità che si sviluppa automaticamente da quelle categorie impersonali. Il regime nazista emerge sulla base di una crisi globale del valore (anni 1920-30), e la logica ultranazionalista mortale che lo avvolge finisce per rivelare quello che è tutto il suo potenziale di barbarie identitaria, patriarcale, antisemita, razzista, e social-darwinista che può scatenare una crisi globale del valore, sul fronte dei capitalismi nazionali. All'inizio degli anni '30, per le altre centrali occidentali di gestione, la Germania poteva essere un partner economico interessante, nella misura in cui la sua politica economica era in grado di rilanciare l'industria degli armamenti, o di evitare la crisi dei mercati, attraverso la diffusione di beni non commerciabili. In maniera assai rivelatrice, la Germania nazista ha potuto da subito inserirsi molto bene nella logica capitalista globale, persino quando cominciava già a sviluppare la sua ideologia e le sue pratiche omicide, razziste ed eugenetiche. Una rottura avviene durante la seconda guerra mondiale, e l'orrore si massifica gravemente, ma nondimeno tutte le strutture distruttrici che erano state mobilitate dai nazisti provenivano dai processi capitalisti di crisi, sia globali che nazionali. La Germania nazista avrebbe sterminato 6 milioni di ebrei, seguendo un «ragionamento» aberrante e folle, ma che evidenzia quali siano le strutture generali delle diverse ideologie paranoiche dei capitalismi nazionali in crisi (fino al giorno d'oggi). Ideologicamente, si tratta di difendere il «buon» capitale industriale nazionale (in crisi), che sarebbe minacciato dal «cattivo» capitale fittizio transnazionale. Dal momento che questa «lotta» presuppone che ci siano dei nemici identificabili, per far sì che diventasse la lotta di un popolo, dappertutto in Europa, ma in maniera ancora più violenta in Germania, gli ebrei vennero assegnati a questo capitale fittizio, denominato «sradicato» o «errante». La logica dello sterminio radicalizza in maniera orribile una simile ideologia paranoica, personificando in maniera aberrante delle categorie economiche impersonali (capitale fittizio, capitale produttivo, ecc.).
Oggi, queste ideologie paranoiche non sono affatto scomparse, ma si sono ricostituite. In Francia, ad esempio, dopo la crisi economica del 2008, degli ideologi radicalmente antisemiti come Alain Soral hanno avuto un grande successo, e tendono perciò ad assimilare gli ebrei al capitale fittizio (il sito di Soral, "Egalité et Réconciliation", è oggi il sito «politico» francese più visitato). Soral, nel 2016, ha ripubblicato con la sua casa editrice Kontre-Kulture un'edizione non critica del "Mein Kampf". L'antisemitismo divenuto genocida sotto la Germania nazista, evidenzia delle strutture di assegnazione e di esclusione più generali, proprie delle ideologie nazionaliste nel processo capitalista di crisi, strutture che non scompariranno finché il capitale non verrà abolito a livello globale. Queste strutture ideologiche nazionaliste (che non sono strettamente in opposizione al capitalismo globale, ma sono il complemento particolaristico indispensabile al suo processo dialettico) possono sviluppare tale antisemitismo, e quindi altre forme razziste paranoiche, coloniali o identitarie, in rapporto con le ideologie social-darwiniste, eugenetiche, malthusiane; ideologie che sono state particolarmente attive nella società statunitense dell'inizio del XX secolo.

Malgrado queste osservazioni, non si deve rinunciare a pensare la specificità del nazismo, anche a rischio di produrre dei livellamenti storici e politici pericolosi. Se la Germania nazista ha potuto essere un partner economico per i centri di gestione occidentale, si manifestarono anche delle resistenze repubblicane, come il Fronte Popolare francese del 1936. Prima del fallimento della Conferenza di Evian del 1938, l'estrema destra antisemita costituiva l'opposizione. Roosvelt si oppose anche al pro-nazismo di Lindbergh. Inoltre, mentre l'eugenetica e l'antisemitismo avrebbero potuto diventare fortemente influenti, come ideologie e come pratiche, a livello sociale, in Europa e negli Stati Uniti, in paesi come la Francia ed il Regno Unito, all'inizio del XX secolo non furono mai politiche ufficiali di Stato sistematicamente assunte. La Germania nazista rigettò la Rivoluzione francese, l'Illuminismo universale-astratto, ed il liberalismo, in maniera radicale. Poté perfino sviluppare, almeno fino al 1934, un «anticapitalismo» feticizzato: non si trattava di un rigoroso anticapitalismo (internazionalista, e volto all'abolizione del capitale industriale), bensì di un «alter-capitalismo» che promuoveva delle alleanze di classe, a profitto della difesa del capitale produttivo nazionale, il quale sarebbe stato minacciato dalla «finanza cattiva», chiamata «ebraica», trans-nazionale. D'altronde, l'antisemitismo nazista, anche se si inseriva nella logica strutturalmente antisemita dei capitalismi nazionali nel quadro del processo di crisi capitalista, avrebbe avuto anche delle specificità assai significative: un riferimento alla «razza ariana» che trovava le sue radici nel mito indoeuropeo, ma anche in una relazione germanica con un'Antica Grecia fantasticata. Un esoterismo fanatico e mistico si accompagnava all'antisemitismo nazista, che poteva conferirgli un surplus di furore e di demenza mortifera.
Tutte queste sfumature decisive, che impediscono di cancellare l'insuperabile singolarità dell'orrore nazista in seno alla modernità capitalista, non impediranno le continuità, già contemplate, e che adesso possiamo ribadire più dialetticamente:

- Se l'eugenetica e il darwinismo sociale non sono politiche di Stato assunte da numerosi paesi occidentali all'inizio del XX secolo, e se il loro estremo potenziale di morte viene svelato in maniera specifica dal nazismo, le sintesi sociali moderne fondate sul valore, ed il lavoro astratto, favoriscono lo sviluppo materiale di queste ideologie, sia che vengano riconosciute ufficialmente o meno. Perfino un certo repubblicanesimo cosiddetto progressista, che potrà opporsi politicamente al nazismo, non riuscirà ad impedirlo, nella misura in cui coordina formalmente tali sintesi sociali.

- Per quanto il nazismo si opponga ideologicamente all'eredità dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese, «cosmopolite» ed «universali-astratte», tuttavia non rimette in discussione le sintesi sociali borghesi (valore, merce, lavoro astratto) sviluppandosi sulle basi di tale eredità. In effetti, difendendo il principio di un «buon capitale produttivo nazionale», il nazismo si riappropria, su un piano nazionalista e reattivo, di tali sintesi sociali (il capitale produttivo non è altro che una metamorfosi del valore). Del resto, l'universalità-astratta, liberale o «dei Lumi» (che corrisponde alla logica espansiva, coloniale, ed invasiva del capitalismo globale) e le reazioni nazionaliste alter-capitaliste, anche se possono opporvisi ideologicamente, costituiscono le due facce di una sola stessa medaglia (il processo dialettico di crisi del capitalismo). È questo il motivo per cui l'antisemitismo che assegna «l'Ebreo» al capitale finanziario trans-nazionale è strutturale nella modernità capitalista: la dinamica liberale, globale, universale-astratta, regolarmente in crisi, induce regolarmente delle reazioni nazionaliste alter-capitaliste («anticapitalismo» feticizzato), che sono in grado di sviluppare simili assegnazioni antisemitiche. Nella misura in cui queste reazioni nazionaliste ricompongono alla fine il capitale globale, e possono perfino servire quello che è il suo processo indefinito, questi due versanti - universale-astratto e particolarista - finiscono per combinarsi, al di là delle apparenti opposizioni politiche.

- La dimensione esoterica, mitologica e mistica del razzismo antisemita nazista provoca allo stesso tempo anche una rottura qualitativa. Esattamente come provoca la dimensione massicciamente ed atrocemente mortifera di questo antisemitismo, ma anche di questo validismo, di questo anti-ziganismo e di questo patriarcato nazista. Tuttavia, il nazismo avrebbe anche potuto appoggiarsi a delle strutture più generali di assegnazione, e riappropriarsi delle moderne sintesi sociali capitaliste, senza sopprimerle puramente, per conciliare la sua mistica omicida con tali sintesi sociali, dal momento che il formalismo e l'indifferenza ad ogni contenuto qualitativo indica che in fondo sono compatibili con le pratiche distruttrici più barbare.

- Su un altro piano, i genocidi coloniali, attraverso i quali emerge la modernità capitalista europea, saranno dei fenomeni mortiferi di massa in grado di fondare un processo storico strutturalmente distruttivo. L'Illuminismo universale astratto al quale il nazismo si oppose politicamente ha potuto accompagnare, tuttavia, ideologicamente, questa struttura coloniale mortifera. L'eugenetica europea del XIX secolo che avrebbe potuto radicalizzare e sistematizzare il nazismo, aveva ricevuto in eredità le differenziazioni naturaliste razziste provenienti dal fenomeno coloniale (similmente, Chamberlain potrà, senza troppi problemi, attuare una sintesi del razzismo coloniale di un Gobineau con l'antisemitismo tedesco specifico).
Modernità capitalista e nazismo non si trovano affatto in un rapporto di pura opposizione, né in un rapporto di pura conciliazione, bensì in dei rapporti dialettici complessi di rottura e di continuità.

Per quanto riguarda quella che è l'assegnazione e la stigmatizzazione specifica delle persone disabili, le relazioni di rottura e di continuità sono le stesse: la Germania nazista imbarbarisce in maniera atroce le violenze validiste moderne, ma si può anche basare sulla base ideologica dell'eugenetica che era già stata ben sviluppata all'interno dei diversi capitalismi occidentali. Radicalizzando quella che era la violenza inscritta nelle categorie di base capitaliste, sia a livello nazionalista che a livello imperialista, la Germania nazista svela perciò tutto il potenziale di morte che hanno queste astrazioni reali. Queste considerazioni rendono ancora più necessario il superamento immediato della modernità capitalista. Finché non verrà attuato tale superamento, Auschwitz rimane ancora un presente e un avvenire possibile (nel 2017, abbiamo visto, in mezzo ad una molteplicità di disastri mortali, risorgere in Cecenia dei campi di concentramento). Lo scrittore Marcel Cohen, la cui famiglia era stata deportata ad Auschwitz, considerando l'interconnessione materiale esistente nel capitalismo mondiale di mercato (attraverso la containerizzazione), e considerando le effettive conseguenze di tale interconnessione, ha dovuto ammettere, nel suo libro "A des années-Lumières" (2013), che Auschwitz non si trova semplicemente alle nostre spalle, ma è ancora presente, e perfino davanti a noi, come futuro disastroso, fino a che non oseremo una trasformazione radicale dell'esistente.
Pertanto, le origini dei movimenti a favore dell'eutanasia delle persone disabili sono precedenti al Terzo Reich. Uno dei fondatori dell'ideologia eugenetica, il britannico Francis Galton, nel 1833 ha pensato una scienza del «miglioramento biologico» della specie umana, ed ha pensato che gli sviluppi di questa ideologia potranno dar luogo a dei principi di naturalizzazione delle gerarchie «razziali» o «sociali». Questo pensiero eugenetico ebbe un certo successo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti degli anni '20, e su queste basi si sono sviluppate delle pratiche sociali concrete, come abbiamo visto. In Germania, già nel 1905, il fondatore della «Società di Igiene per la Razza», Alfred Ploetz, riteneva che si dovesse smettere di curare le malattie alcoliche, veneree, o quelle che erano il risultato di unioni consanguinee, giudicate «non selettive». Nel 1920, il giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche difendevano, in un'opera che citava Nietschze e Platone, «l'autorizzazione alla distruzione della vita priva di valore». I «folli», i «malati incurabili», i «deficienti» definiti «semi-umani», gli «spiriti morti», o le «esistenze superflue», secondo questi ideologhi, dovevano essere puramente e semplicemente eliminate. Secondo questi due autori, «l'eutanasia forzata» sarebbe un atto «compassionevole», conforme all'«etica medica».
In Germania, negli anni '20, e più in generale in Europa e negli Stati Uniti, l'ideologia eugenetica aveva conquistato i settori antropologici, psichiatrici e genetici. Questa ideologia, contigua al darwinismo sociale, non ha mai smesso di venire sviluppata, fino al giorno d'oggi, anche se la sua dimensione omicida può variare, e può perfino assumere delle forme apparentemente più «umaniste». La necessità funzionale - per i capitalismi nazionali, ciclicamente in crisi - di dover definire dei principi selettivi di esclusione e di inclusione, genera in maniera tendenziosa delle politiche identitarie, classiste, razziste, validiste o patriarcali, che possono essenzializzare delle differenziazioni inter-individuali, o naturalizzare delle «deficienze» da abolire, delle «capacità» da sfruttare, ecc. La crisi del lavoro a partire dagli anni '70, la logica di atomizzazione e di responsabilizzazione degli individui dell'era postmoderna, radicalizza queste selezioni ed esclusioni naturalizzate, allo stesso tempo in cui un'ideologia «democratica» ed «umanista» maschera sempre meglio il carattere darwinista-sociale di una simile organizzazione sociale.
Nella misura in cui la logica assassina che assegna e biologizza il valore nazionale in crisi sarà suscettibile di venire esportata, essa oggi potrà diffondersi dappertutto nel mondo. In Birmania, la relativa liberalizzazione del paese, avvenuta a partire dagli anni '90, non impedisce che i criteri economici di «sviluppo», in una situazione post-coloniale difficile, avviino la formazione di uno Stato nazionale autoritario e razzista. Già nel 1982, una legge nazionale ha determinato l'esistenza di «razze nazionali». La minoranza musulmana dei Rohingyas, esclusa da tale legge, verrà sempre più stigmatizzata. Sotto il governo del presidente Thein Sein (eletto nel 2011), e fino ad oggi, i Rohingyas hanno continuato a subire massacri e persecuzioni atroci: hanno dovuto subire sterilizzazioni forzate, sono state loro negate le cure mediche, hanno subito distruzione di villaggi, sono stati rinchiusi in campi di detenzione, hanno patito schiavitù, violenze e torture sessuali da parte dei militari, pogrom e arresti arbitrari. Sono anche stati vittime di vere e proprie stragi. Alcune delle regioni che sono state teatro di queste violenze, sono ricche di gas e di petrolio, di pietre preziose, di minerali, di legname e di risorse idriche. La Total, la prima impresa francese in Birmania, è stata seguita da un'altra decina di imprese analoghe. Già il 28 aprile 2014, un rapporto speciale dell'ONU, alla London School of Economics and Political, denunciava in Birmania un crimine contro l'umanità, e parlava di «elementi che costituivano un crimine di genocidio».
Questi omicidi di massa contro i Rohingyas sono immediatamente razzisti, e non direttamente validisti. Tuttavia, le pratiche di sterilizzazione forzata, il negare loro cure mediche, indicano delle assegnazioni tipicamente eugenetiche, che riducono i Ronhingyas a quelle che sarebbero delle «deficienze» specifiche, possibilmente «trasmissibili» di generazione in generazione (Galton, Mendel, Spencer, Malthus). La rappresentazione ideologica di una società che viene concepita come se fosse un organismo desideroso di sbarazzarsi dei suoi «membri patogeni», può svolgere qui una funzione importante. Nella misura in cui le sintesi religiose, in questo contesto (buddista), si sovrapporrebbero alle sintesi economiche e sociali, la logica di distruzione determinerà sia delle «inutilità», in senso programmatico, e delle «impurità», in senso «spirituale»; cosa che non farà altro che imbarbarire la violenza, il fanatismo e la demenza omicida.

- Benoït Bohy-Bunel - Pubblicata il 17 novembre 2018 su Agitations -

fonte: Agitations

mercoledì 28 novembre 2018

Scuole

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Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk: «Questa è l'età dei neocinici»
- Trump, Putin, Orbán. Sulla scia di Diogene, Socrate, Dostoevskij. Lo sguardo sui sovranisti di oggi: «Si rifanno tutti a un’antropologia cinica e depressa»
di Stefano Vastano

Se provassimo a prenderli sul serio, a quale scuola filosofica apparterebbero Trump e Salvini, Putin o Marine Le Pen? «Tutti i sovranisti si rifanno ad una antropologia cinica e depressa», risponde Peter Sloterdijk. Non è un caso se uno dei più prestigiosi filosofi tedeschi torni alle antiche tradizioni del cinismo per inquadrare «l’incoerenza performativa» in cui si cacciano oggi i sovranisti con le loro spietate balle quotidiane.
Già nel 1983 infatti, nel suo famoso saggio “Critica della ragion cinica”, Sloterdijk ricostruiva, da Diogene di Sinope alle crisi della Repubblica di Weimar, le varie derive del cinismo nella cultura e politica occidentale. E in questa intervista esclusiva per “L’Espresso”, Sloterdijk ridisegna, in tutte le sue aporie, la fenomenologia del sovranista trionfante, «che altro non è se non il cinismo, ma nella sua forma più inconsistente giunto al potere», sintetizza il filosofo. Il cui ultimo saggio, appena pubblicato da Cortina Editore, si intitola non a caso: “Dopo Dio”. Ripartiamo da Diogene di Sinope, il filosofo più sfrontato della storia.

Qual era il messaggio del padre di tutti i cinici?

«Il messaggio di Diogene risale al nucleo più antico del pensiero greco e cioè a una filosofia della Natura, da una oscura divinità - la Moira, poi secolarizzata in “physis” - precedente all’Olimpo delle divinità!».

È questa Natura che spinse Diogene a vagare nudo e solo come un cane per le strade di Atene?

«Con il suo comportamento Diogene riportava alla luce la contrapposizione fra Natura e Nomos, le leggi e convenzioni umane che altro non sono, ai suoi occhi, che appendici arbitrarie dell’ “ordine naturale” e di una vita ad esso ispirata».

Con la sua esistenza nomade e animalesca Diogene ridicolizza le norme sociali?

« Sì, lui è una sorta di Charlot, un meteco o migrante dall’Asia minore che non si piega alle norme della polis e della democrazia ateniese. Diogene è il primo individualista radicale della storia che nell’Atene platonica rivendica l’Anarchia della vita semplice. La maggioranza non ha ragione, ecco il suo urlo».

Anche Socrate urlerà lo stesso principio contro le tradizioni ateniesi, pagando persino con la vita...

«Già, ma in Diogene, contrariamente all’arte maieutica socratica e contro l’astrazione platonica, è l’eccesso performativo, la pantomima che conta e non il dialogo filosofico. Nella sua ultima lezione, Michael Foucault analizzò la “parrhesia”, la sfrontata arte di affrontare - con virile franchezza - l’autorità dell’avversario, anche il più potente. Non è un caso se l’incontro tra Diogene ed Alessandro, in cui il filosofo prega l’imperatore di togliersi dal sole, è uno degli aneddoti più famosi dell’antichità».

Anche la filosofia dei Lumi, come il Logos platonico, si basa sul presupposto per cui ogni sapere è potere. L’attualità del cinismo sta nel smascherare come pia illusione questa fede illuministica?

«Il cinismo rispunta ogni volta in cui la politica della città entra in crisi e i valori comuni si sfaldano. In questo senso il primo cinico dell’era moderna è il “Nipote di Rameau”, lo spudorato adulatore che Denis Diderot mette in scena nel suo dialogo satirico. Un buffone verace almeno quanto il Mefistofele di Goethe, altra dissacrante figura nella galleria del moderno cinismo».

Nulla in confronto al radicale cinismo del Grande Inquisitore, la figura che Dostoevskij racconta nei Karamazov e che scaccia persino Cristo dalla città...

«Il cinismo dell’Inquisitore di Dostoevskij è così viscerale perché smentisce non solo l’equazione illuminista “Sapere è Potere”, ma nega la premessa di ogni società liberale e dell’antropologia occidentale. L’Inquisitore infatti sostiene l’oscura e profondamente russa tesi secondo cui l’uomo è troppo cattivo per essere libero. Per questo l’uomo non abbisogna di un Cristo, ma della mano forte di una ascetica élite che garantisca quella costante repressione senza cui presumibilmente la società non può sopravvivere. Inutile specificare quanto questa politologia negativa sia la base su cui oggi si regge il sistema di un Putin».

La sintonia tra il regime autocratico di un ex spione del Kgb come Putin e le alte sfere della chiesa ortodossa sono la realizzazione, nella Russia del 21° secolo, della Leggenda di Dostoevskij?

«Esatto, e la leggenda su cui Putin fonda oggi il suo potere non ripete che l’altra ipercinica massima secondo cui è il mondo stesso che altro non chiede che di essere ingannato».

Il filo che unisce l’Inquisitore ad ogni demagogo di turno è il fatto che autocrati come Putin sanno benissimo di mentire ai sudditi, ma nel loro cinismo continuano beatamente a farlo?

«Quando un oligarca come Putin declama le massime della sua negativa politologia sa benissimo che sta mentendo. D’altra parte i due assiomi dell’Inganno come base della politica e della Malvagità umana come negazione d’ogni libertà possono esser le tesi anche di un dissidente disperato. Cos’è il cinismo o il populismo di oggi se non la massima depressione al potere? Una radicale depressione politica che l’astuto populista nasconde dietro un sistema di bugie e una serie di maschere».

Benché onnipotenti i demagoghi hanno bisogno di nascondersi dietro sempre nuove bugie e maschere: perché?

«Perché nessun populista, per quanto sadico e istrione, può davvero credere nelle sue convinzioni o sentirsi in pace con se stesso. Oltre che sulla depressione ogni suo atto e parola si fonda su uno iato o incoerenza inerente alla sua stessa posizione. Donald Trump ad esempio è un mefistofelico Maestro del neo-cinismo contemporaneo. Ma anche la sua politica, altamente depressiva, si basa sul fatto che Trump deve mentire quotidianamente, e non dar retta neanche per un minuto alle verità che sistematicamente nega. Un presidente Usa che incarna alla massima potenza il dramma dell’assoluta incoerenza del cinismo giunto al potere».

Ma un potere che come questo si fonda su Fake News, cioè menzogne spacciate per “fatti“, non è il paradosso assoluto?

«Il collante che dà coerenza ad ogni società è il fluido della fiducia. Da un punto di vista operativo le società sono connesse dalla circolazione del denaro e sulla fiducia che una vita in comune esista. Sia il denaro che i valori però conoscono forme di corruzione: Stato e banche possono accumulare debiti o dare crediti che creano inflazione e quindi una demoralizzazione collettiva dei cittadini. Le ondate di inflazione in Germania hanno creato nei tedeschi quel loro carattere depresso o così moraleggiante quando è in ballo il denaro».

Che c’entra l’inflazione con il populismo al potere?

« Una cosa è la corruzione via inflazione del denaro, un’altra la corruzione dei valori etici dei cittadini nelle fasi ciniche della storia. In queste fasi corrosive come quelle che oggi stiamo vivendo sono soprattutto i più deboli a guardare con totale sfiducia alla “casta”. Da sistemi di fiducia le società si trasformano in “menzogne organizzate” su due fronti: il cosiddetto popolo dei populisti da un lato, e l’élite dall’altro. È in questo bagno acido della sfiducia che nasce e cresce la sfrontatezza del populista».

L’epoca d’oro in cui in Europa esplosero svalutazioni del denaro e sfiducia massima nelle élite è la Repubblica di Weimar, la Germania tra il 1918 e l’avvento del nazismo nel ’33...

«La Repubblica di Weimar è nata dalla catastrofe della Grande guerra. Dalle guerre, come la storia americana insegna, sono nate democrazie solo se erano guerre di liberazione. Ma il problema di Weimar fu che la sua costituzione non vide il dramma dei piccoli partiti nazionalisti che minavano le sue fondamenta liberali. Sono questi partitelli di protesta che fomentano la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni che finisce per portare al potere i populisti».

Sfiducia a parte, qual è il fattore del successo di tutti i populisti di ultra destra oggi in Europa?

«Il sincretismo. Se c’è un elemento che accomuna l’odierna Alternative für Deutschland alla Nspd di Hitler è il mix che mischia elementi di sinistra e di destra, veleni razzisti ed aspetti progressivi, una cruda Real-Politik con una sfrenata Irreal-Politik. Il populismo è sempre anti-elitismo, e la democrazia per definizione sempre in crisi. In una fase di crisi acuta, basta una figura un po’ carismatica ma ipercinica per sbarcare con questo mix sincretico al potere».

Orbán in Ungheria, Le Pen in Francia, Foto: C. Hellier - Corbis via Getty Image, VCG Wilson - Corbis via Getty Images, Getty Images Salvini in Italia o la Afd in Germania, tutti i populisti di destra vogliono alzare ora muri in Europa per difenderci da migranti e insicurezze varie. Perché il tema della sicurezza agita tanto le nostre coscienze?

«Nella psicopatologia politica agiscono due poli opposti, quello della libertà e della sicurezza dall’altro. La libertà dei consumi, di opinione, dell’emancipazione dei costumi, e l’imperativo della immunità che tira il freno alle libertà dell’individuo e del corpo sociale. La sicurezza si fa dominante quando, in una crisi, c’è gente che ha qualcosa da perdere. I partiti popolari non sono riusciti a togliere queste paure alla gente ed è su questo tasto che i populisti ripetono, come il Grande Inquisitore, che l’uomo non è buono abbastanza per essere libero».

Non è una novità se, nel 1576, Etienne de la Boétie nel suo “Discours de la servitude volontaire” notava che tutti abbiamo paura della libertà ed altro non vogliamo che esser guidati da un Uomo forte...

«Negli ultimi 250 anni non abbiamo fatto altro che sperimentare due tesi antropologiche complementari: questa pessimista di la Boétie, ma anche, a partire da Rousseau, l’assioma ottimista secondo cui l’uomo è buono abbastanza per esser libero. Non sappiamo come finisca il test: il 20° secolo con le sue dittature è costellato da conferme delle tesi dell’Inquisitore per cui l’uomo è uno schiavo ribelle, ma che teme la rivolta. Il profilo dell’Homo sapiens disegnato da Boétie è ancora più duro, visto che per lui coloro che più soffrono la miseria sono, contrariamente a ciò che Marx crederà, il veicolo migliore della diffusione di repressione e violenze».

I populisti sono quindi oggi al potere per reprimere “l’uomo in rivolta” di Camus...

«I nipotini dell’Inquisitore oggi al potere sono gli studenti peggiori che si rivoltano contro quelli più bravi di loro, contro gli insegnanti e la scuola stessa. Sono i dilettanti, ma senza nessun diletto per la cultura né capacità, e per questo amati dai loro fans. L’entusiasmo nell’era di Internet è sempre orizzontale, non ci sono ideali superiori da raggiungere o emulare per i fan di Trump o dei demagoghi populisti».

Joschka Fischer, uno dei fondatore dei Verdi tedeschi, sognava gli Stati uniti d’Europa. Che ne è di questi slanci nell’era distopica del cinismo?

«Attraversiamo una fase melanconica per quanto concerne l’entusiasmo. La maggior parte dei Paesi europei sono in uno stato ipnotico di disinformazione mitologica, ognuno si immagina di esistere da sempre come Nazione e i populisti pompano miti in queste presunte sfere di egoismi nazionali. Tutte immagini infondate, visto che l’Europa più che altro è stata una storia di conglomerati imperiali».

Il suo ultimo saggio s’intitola: “Dopo Dio”. Che ne è del sommo Bene nell’era del cinismo trionfante?

«Goethe nel Faust fa porre a Greta la domanda: “Come stai tu a religione?” Sei affidabile, cioè sposabile? Anche oggi aspiriamo, come Greta, a venir sposati, a vivere con Dio in rapporti più stabili. Nel nostro estremo bisogno di sicurezza, su cui tanto insistono i populisti, Dio ci appare come una polizza, l’assicurazione metafisica suprema. Certo che questa figura di un Dio che si presta a transazioni finanziarie non è il massimo dal punto di vista teologico né da quello politico, ma anche nella nostra epoca Dio resta “un bisogno metafisico”, come diceva Schopenhauer».

Nietzsche si era sbagliato con il suo letale annuncio: «Dio è morto»?

«La metafora è sbagliata, può morire solo ciò che ha un organismo. La questione non è tanto se esista o no, quanto se la domanda di Dio sia importante o meno. E certo oggi la Chiesa non ha più un regno territoriale, ma la funzione “imperiale” simbolica del pontefice romano a quanto pare è ancora presente».

- Stefano Vastano - Pubblicato sull'Espresso del 15/11/2018 -

martedì 27 novembre 2018

Inchiesta

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Classi medie e proletari nel "movimento dei gilet gialli"
- di Agitations -

La mobilitazione proletaria e interclassista dei "gilet gialli" suggerisce che esista una rabbia che si cristallizza sotto forme e discorsi differenti a seconda dei blocchi e degli spazi, creando una sorta di atonia critica, se non degli appelli romantici ad essere popolo. Di fronte a questo movimento, non rimane altro da fare che un lavoro noioso: quello di interessarsi ad una settimana di mobilitazioni attraverso quelle che sono le strutture spaziali e demografiche che lo attraversano e che ci danno informazioni a proposito della sua composizione sociale.

Sotto i gilet gialli, delle magliette gialle
Pur non essendo di massa, la partecipazione alla mobilitazione di sabato 17 novembre è stata importante (sebbene più debole di quella di sabato 24 novembre). Le modalità originali di partecipazione erano minime: indossare un gilet giallo oppure metterlo sotto il parabrezza. Nel corso di questa mobilitazione, dei proletari, vestiti da "popolo", manifestavano insieme a dei piccoli padroni e a dei piccoli sfruttatori, al punto che, a prima vista, rimane difficile capire su quali basi profonde affondasse le sue radici l'appello al blocco. Dal momento che qui non si tratta né di un semplice essere stufi delle tasse, né di una jacquerie (e questo, detto al di là dell'anacronismo di tale analogia). Fondamentalmente, questo movimento contesta la diseguale distribuzione dell'imposizione fiscale sui dipendenti salariati e sui commercianti, e ne contesta soprattutto la sua forma indiretta (IVA, aumento globale delle tasse...), ritenuto come «il più ingiusto». Tale movimento avviene in un contesto di stagnazione dei salari, delle pensioni e dei sussidi che si trovano al di sotto del livello dell'inflazione, e in un contesto di diminuzione degli aiuti (APL [sussidio abitativo], Assurance chômage [Cassa di Disoccupazione], CSG [Contribuzione Sociale Generalizzata]), allo stesso tempo in cui «il costo della vita» (alloggi, trasporti, generi alimentari) aumenta. I primi ad essere colpiti da queste inuguaglianze sono gli operai e i dipendenti delle aree suburbane e delle zone rurali, ma possiamo domandarci legittimamente se questi ultimi possono mobilitarsi rispetto a dei luoghi da bloccare che talvolta sono lontani, e mentre il costo per arrivarci potrebbe dissuadere alcuni entusiasti.
L'Insee - Institut national de la statistique et des études économiques, in un suo rapporto, afferma che fra il 2008 ed il 2016, i francesi hanno perso in media 500 euro del loro reddito disponibile. Tale perdita grava essenzialmente sulle classi medie e sui pensionati, soprattutto a causa di un aumento dei prelievi fiscali sui patrimoni. E infatti sono soprattutto loro quelli che in maggioranza hanno bloccato le strade sabato 17 novembre. In questi blocchi erano numericamente molto presenti gli abitanti delle zone suburbane che guadagnano più di quello che è il salario medio. Come viene evidenziato da una nota dei servizi di intelligence, sono stati loro i principali iniziatori dei movimento, e in maggioranza provengono dal comprensorio parigino (e non dai suoi margini). Provenienti dalle classi medie, questi manifestanti che hanno bloccato il sabato nelle periferie delle grandi città, erano imprenditori, lavoratori indipendenti, manager, commercianti, artigiani, liberi professionisti.
Economicamente e socialmente ben inseriti, abitualmente hanno in gran parte i mezzi per poter organizzare delle navette che li portano dal domicilio al lavoro, queste classi non subiscono il peso della lontananza spaziale, ma vogliono conservare la loro bolla di tranquillità nella loro autovettura, piuttosto che optare per il disagio (ed i prezzi sempre più aggressivi) dei trasporti pubblici. Se alcuni manifestanti deplorano il declino del servizio pubblico (torneremo nella seconda parte sulle manifestazioni più proletarie), la maggioranza di loro non si batte per conservare le conquiste sociali. Molti di quelli che fanno parte di queste classi medie hanno votato Macron, e oggi sono delusi, e si lamentano del fatto che non sia stato un baluardo contro la «piramide» ed il «potere delle banche». Inoltre, sono molte, fra di loro, le prese di posizione che rifiutano l'assimilazione con gli «assistiti» che ricevono l'aiuto dello Stato.
Questo informe aggregato di individualismi, che non vogliono pagare per gli altri, si inserisce in uno sfondo ideologico di estrema destra. Al di là della più che problematica presenza dell'estrema destra parlamentare ed extraparlamentare, c'é un discorso che continua ad essere ripetuto come un ritornello: contro i «parassiti», quelli cosiddetti in alto (Macron, i bobo [borghesi-bohemien], il governo, ma non la classe capitalista) e quelli in basso (i precari, gli immigrati, i disoccupati, ecc.) che se ne approfitterebbero della redistribuzione. Ciò si è tradotto concretamente in attacchi fisici contro una donna col velo, un reporter asiatico, una coppia omosessuale, dei migranti nascosti in un camion e che sono stati consegnati ad una gendarmeria, un compagno nero, ecc..
Il ricorrere di episodi razzisti antisemiti, omofobi, contro gli antirazzisti dell'RSA [Revenu de Solidarité Active], anti-migranti è la trasposizione di un inconscio popolare che naturalizza un ordine sociale con i suoi bersagli da sfruttare e da dominare per mantenere la propria posizione. Queste classi medie in procinto di declassamento, anche se pensano di lottare contro delle inuguaglianze, in realtà lottano per proteggere la loro posizione al vertice delle classi proletarie. Si assiste al medesimo fenomeno di predazione svolta dal Medef [Mouvement des entreprises de France] che sosteneva, in nome delle difficoltà del PME [Petites et Moyennes Entreprises] e del TPE [Très Petites Entreprises] il bisogno di ottenere dei vantaggi. Questi gilet gialli si sono mobilitati sulle strade, nascondendosi dietro alcuni impiegati ed operai che essi sfruttano sul lavoro e che evitano nella spazio della vita quotidiana. Non esitano a licenziare i loro dipendenti - mentre nel frattempo rendono loro sempre più insopportabile il lavoro - per manifestare, anziché aumentare i salari, cosa che farebbe pagare loro il costo necessario della solidarietà.
In mezzo ad una piccola classe media mobilitata e focalizzata sul prezzo del petrolio o sul costo della vita, i piccoli padroni approfittano della mobilitazione a fini propagandistici, contro gli statali, anti-sindacali, contro gli aiuti sociali, diffondendo queste idee in tutto il corpo sociale. Ecco il motivo per cui gli appelli ad una convergenza con il sindacato sono così poco numerosi: c'è una frattura sociale fra un mondo operaio, ma qualche volta sindacalizzato (sebbene assai raramente), ed un «popolo» del management. Al di fuori delle zone suburbane vere e proprie, che sono tutto quel che rimane delle roccaforti operaie (come ad esempio il porto di Le Havre), in realtà non c'è niente che «converga». In buona fede, ci sono dei proletari che si mobilitano a partire da quelli che sono degli interessi immediati e visibili (ad esempio, il prezzo del pieno del carburante) ma sono costretti ad allinearsi su delle rivendicazioni di classe media superiore (contro gli «oneri fiscali»).
il movimento dei «gilet gialli» si dichiara apolitico, senza struttura, senza una reale ideologia e soprattutto risolutamente contrario ad un eventuale recupero da parte di corpi intermedi come i sindacati o i partiti politici, attenendosi all'agenda capitalista del discredito di ogni organizzazione di lavoratori. La sfiducia nei partiti è diventata proverbiale, basta vedere il tasso di astensione alle elezioni. Per quanto riguarda i sindacati, numerosi manifestanti della prima ora li evitano perché sono dei liberi professionisti. Negano il settore pubblico, diventato il cuore dell'attività sindacale (così come fra loro per l'appunto sono stati in molti a non essere arrabbiati contro lo sciopero ferroviario di pochi mesi fa). I dirigenti hanno tutto l'interesse a focalizzare la mobilitazione su una strategia interclassista e «apolitica», al fine di negare il rapporto di classe in nome della ricorrente categoria guazzabuglio di «popolo», e al fine così di proteggere il separatismo sociale e spaziale l'attraversa.

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Geopolitica dei gilet gialli, l'ora della scelta
I blocchi più vicini agli ultimi «bastioni operai» e quelli delle zone rurali profonde, anche se meno numerosi di quelli che hanno avuto luogo nella periferia delle grandi città, hanno visto un'importante mobilitazione (non numericamente, ma proporzionalmente) di lavoratori poveri, di impiegati e di operai. Non va minimizzato ciò che sta accadendo: in queste zone dove sono convinti che non «succede mai niente», i manifestanti hanno moltiplicato i blocchi  stradali, dimostrando a sé stessi di essere forti e capaci di azioni dirette. Essi - e soprattutto esse - hanno difeso il compromesso fordista domandano più uguaglianza di fronte alle tasse: attaccare l'evasione e la frode fiscale, reclamare il ritorno dell'ISF [Imposta di solidarietà sul patrimonio], una imposta più alta sui profitti (flat tax sui dividendi, stock options, transazioni finanziarie), ma anche più servizi e più trasporti pubblici.
Evidentemente, principalmente si tratta di una lotta per la redistribuzione o per la regolazione della parte più astratta del capitale - la sua circolazione - e non è un attacco alla sua parte più concreta. Le forze del «movimento» non attaccano le strutture e le istituzioni del capitalismo, ma chiedono che lo Stato continui a gestire gli elementi costitutivi della riproduzione globale della forza lavoro, senza andare oltre. Nessuna rivendicazione (inizialmente) di un aumento del salario minimo e di un innalzamento generale dei salari, e nessuna proposta tradizionale nel senso dell'ormai morto «movimento operaio», come il trasporto combinato ferrovia-strada, il trasporto pubblico gratuito e un risarcimento per quelli e per quelle che subiscono un habitat periferico, ecc..
Il fatto che questi obiettivi di gestione delle modalità di produzione e di riproduzione del capitale non sono per niente la base del contenuto rivendicativo , fornisce la prova della crisi del sindacalismo che difficilmente organizza una «rabbia popolare» negli spazi geografici, sociali e di lavoro in cui è poco presente. Invece, quella che vediamo è piuttosto la miseria dei coraggiosi lavoratori che attualmente lottano, fra i quali si ritrova piuttosto una critica tronca del capitalismo (con i suoi capri espiatori sociali e razziali, con la sua finanza rapace, ecc.). Ciò detto, i residenti rurali hanno saputo organizzarsi al di fuori o con il semplice sostegno della sfera sindacale: molti dei blocchi stradali rurali servono eventualmente a centralizzare  delle lotte sociale che si svolgono per lunghi mesi nella più profonda invisibilità malgrado l'indifferenza delle istituzioni.
La settimana di mobilitazione, dal 17 al 24 novembre, potrebbe portare ad un nuovo movimento sociale? La presenza dei sindacalisti e della sinistra rispetto ad alcuni blocchi stradali avvenuti nelle regioni rurali profonde è cresciuta sempre più, ed alcune zone vicine alle città rialzano la testa malgrado la presenza simultanea di militanti fascisti capaci di aggressioni anticomuniste e di violenze contro i militanti antifascisti accorsi a dare manforte. A volte, si sentono perfino delle rivendicazioni con un contenuto di classe. I blocchi di cui parliamo avvengono contemporaneamente a dei movimenti di sciopero più convenzionali, soprattutto come quelli della Fédération Nationale des Industries Chimiques della CGT (che comprende le raffinerie), le SUD Industries, la Peugeot di Sochaux, e Solidaire che chiama tutti i sindacati a incontrarsi in caso di emergenza, ecc..
La «rabbia popolare» che alza la voce è un funambolo che cammina sul filo. Tutto quanto dipenderà dall'abnegazione di alcuni manifestanti risoluti a persistere nella loro essenza, vale a dire, una negazione della politica come pratica collettiva, sindacale od autonoma, e preferirle un'orizzontalità confusa che sfocia su un terreno comune più populista e nazionalista, tipo il Movimento 5 Stelle (nonostante quelle che sono delle differenze reali), e non di emancipazione. Se a prevalere è quest'ottica, il fatto di puntare a questi spazi conferirà ad essi una rispettabilità che devia ogni critica. Quindi, il «movimento» si cercherà dei leader, rivolgendosi a qualsiasi parte dello spettro politico parlamentare. Viceversa, se l'insieme delle frange del «movimento sociale» (soprattutto quelle sindacali) tenderanno a mobilitare e ad inquadrare questo movimento dei gilet gialli su basi sane (in particolare, antirazziste, come attualmente stanno tentando di fare alcune Unioni Locali e Federazioni), e sarà molto probabile che ci sarà un interesse strategico da parte di alcuni spazi a strutturare la contestazione su basi classiste (proletarie).
Si dovrà andare oltre gli obiettivi anti-fiscali, che sono lontani dal nostro campo sociale, e concentrarsi in un primo tempo sugli attuali attacchi della borghesia contro i lavoratori. Questo significa, lo sciopero generale come primo mezzo di lotta. Esattamente ciò che Alain Griset, presidente dell'Unione delle Imprese Locali (U2P), teme: «la cosa peggiore che potrebbe accadere sarebbe quella di organizzare un blocco dell'economia ed aggravare la situazione generale», facendo appello a «mettere fine ad ogni azione di blocco, che porterebbe a mettere in pericolo le nostre aziende». Se il numero di manifestanti in paramenti gialli diminuisce, ciò confermerà semplicemente la loro natura principalmente reazionaria, E se aumenta, allora questo avverrà a partire da un'estensione dei blocchi stradali lungo dei punti strategici e ai confini delle zone industriali, e di un ripiegamento da parte dei più reazionari che coincidono con le professioni manageriali che abitano le zone periurbane.
Dopo tutto questo, la mobilitazione dei gilet gialli ci avrà insegnato un bel po' di cose in materia di urbanismo e di organizzazione spaziale (torneremo in futuro su questo, con una seconda parte specifica). Il diritto alla città tende a diventare il diritto alla mobilità. A quanto pare, sembra che si debba tornare a quello che diceva il fondatore del concetto, Henri Lefebvre: si tratta di un diritto alla centralità che fa sì che dobbiamo smettere di concentrarci sul cuore delle metropoli, a scapito degli altri spazi. La rivendicazione del diritto alla mobilità, così com'è, rimane ovviamente intrappolato nella rete della riproduzione contratta con il capitale, e possiamo dire di sapere solo una cosa: nell'attuale fase politica, emergono solo due prospettive. Quella del fascismo, o quella del comunismo.

- Agitations - Pubblicato il 25 novembre 2018 -

fonte: Agitations

lunedì 26 novembre 2018

La competizione fra le sofferenze

i giorni contati

Note sui Gilet gialli, sull'anticapitalismo tronco e su Walter Benjamin
- di Rémi Coutenso -

La denuncia del (e la ribellione contro il) sistema da parte dei Gilet Gialli, parla di un anticapitalismo tronco che non viene detto nella lingua della lotta di classe. Ma che parla quanto meno di quell'anticapitalismo tronco che, nella società politica francese, è storicamente tanto di destra quanto di sinistra  (si veda "Genesi del Populismo, di Pierre Birnbaum). I Gilet gialli appaiono essere una manifestazione dell'anticapitalismo tronco classico, la cui originalità risiede tuttavia nel fatto che a livello di massa questa sua manifestazione non si iscrive nella politica dei partiti e dei sindacati (dal momento che essi vengono identificati come al servizio del sistema), ma nella politica "cittadina". Il movimento dei Gilet gialli è una forma di cittadinismo. Quando i portavoce dei Gilet gialli affermano: «noi non facciamo politica», in realtà stanno dicendo: ci rifiutiamo di fare un uso politico delle istituzioni rappresentative tradizionali della nostra democrazia. Così facendo, riattualizzano una possibile definizione costituzione della democrazia, in cui i governanti e i governati sono identici: il popolo. A tali condizioni, il Raggruppamento Nazionale [N.d.T.: Marine Le Pen] infiltrato in questo movimento, gioca su due tavoli: riesce ad infiltrare questa tendenza cittadinista più o meno di massa, sperando così di trarne benefici a livello di ricadute elettorali (tenta di farlo anche "La France Insoumise", ma sono molto meno bravi del "Rassemblement National").
Inoltre, una delle cause della tolleranza che hanno Gilet gialli nei confronti delle minoranze fasciste al loro interno, sembra essere conseguenza della loro insita predisposizione politica emotiva verso il movimento cittadinista, il cui orizzonte rimane esclusivamente nazionale. Non sono interessati all'Europa, se non sulla base di motivazioni nazionali, e la sofferenza sociale è così intensa che le concrete possibili future sofferenze sociali - nel caso che i fascisti dovessero prendere il potere - passano in secondo piano, secondo quella che è una logica di competizione politica fra sofferenze sociali. In definitiva, i Gilet gialli, a causa dell'anticapitalismo tronco che li struttura, producono una dinamica di contestazione sociale che continua a riportare incessantemente al capitalismo, non importa sotto quale forma.
Pertanto, si potrebbe forse interpretare questa elusione strategica della rappresentanza politica e sindacale tradizionale da parte dei Gilet gialli, come lo svilupparsi di quella mutazione della politica parlamentare che porta all'introduzione di oggetti tecnici di rappresentanza nella realtà sociale. È l'argomento di Walter Benjamin nel 1935: gli uomini politici non esercitano più la loro attività di rappresentanza nazionale degli elettori-cittadini davanti al parlamento, ma lo fanno di fronte alle videocamere. Benjamin spiega che a partire da questa svolta tecnica della rappresentazione politica, a prevalere sarebbero stati «gli atleti, le vedette e i dittatori». Va constatato che la sua diagnosi risalente al 1935 si è avverata nella nostra società. Ma quello che sta avvenendo con i Gilet gialli, forse porta a compimento il processo tecno-politico analizzato da Benjamin: i cittadini anti-sistema si sostituiscono agli uomini politici davanti alle videocamere. Forse i Gilet gialli sono solo delle star da un quarto d'ora, alla Warhol; oppure annunciano una forma, ed un desiderio, di dittatura del popolo. In ogni caso, se ci atteniamo alla diagnosi di Benjamin, in questa estetizzazione del popolo come figura politica non c'è niente di buono.

- Rémi Coutenso - Pubblicato su Facebook il 25 novembre 2018 -

domenica 25 novembre 2018

L’altro

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Politiche dell'inimicizia
- Intervista ad Achille Mbembe, di Rosa Moussaoui -

L’inimicizia, nell’era del capitalismo finanziario in crisi e della guerra contro il “terrorismo”, è divenuta la modalità dominante di relazione. Questa la constatazione di Achille Mbembe. Lo storico e filosofo delinea qualche preziosa via d’uscita per una politica della relazione su scala globale, rompendo con le logiche della dominazione economica, i ritorni identitari e gli slanci imperialisti.

Nel suo ultimo saggio, Politiche dell’inimicizia, lei dipinge un’implacabile processo di “uscita dalla democrazia”. Tre decenni dopo la caduta del muro di Berlino, possiamo parlare di un destino autoritario del neoliberalismo?

Achille Mbembe: Abbiamo una visione alquanto parziale della storia della democrazia. Il paradosso di questa storia è che la democrazia ha due corpi. Da un lato, un corpo diurno, quasi solare, che l’ideologia post-1990, dopo la caduta del blocco dell’est, ha magnificato. Dall’altro lato, un corpo notturno, legato alla separazione tra un qui e un altrove in cui ci si può permettere tutto: saccheggiare, sfruttare, brutalizzare, uccidere, infliggere la morte in maniera extra-giudiziaria, senza dover renderne conto a nessuno. Un altrove in cui si può scaricare quella violenza che, se fosse esercitata all’interno, sfocerebbe nella minaccia della guerra civile. Lo abbiamo visto durante il momento coloniale. Lo vediamo oggi nella guerra contro il jihadismo. In questa fase neoliberale, i due corpi della democrazia, il corpo diurno e quello notturno, si stanno ricomponendo, in concomitanza con la scomparsa delle frontiere oggettive tra il qui e l’altrove. Da qui derivano gli scivolamenti autoritari ai quali assistiamo.
Il mondo è diventato piccolo. In contrasto con il mondo del periodo coloniale, e con i mondi delle conquiste, delle “scoperte”, questo mondo ha mostrato i suoi limiti. È un mondo finito, attraversato da vari flussi incontrollabili, movimenti migratori, movimenti di capitale legati alla finanziarizzazione estrema dell’economia. Senza contare tutti i flussi creati dall’affermarsi della nuova ragione digitale e segnati dall’accelerazione della velocità, lo sconvolgimento dei regimi temporali. Questo favorisce un groviglio inedito tra dentro e fuori. La conseguenza è che è ormai divenuto impossibile vivere in sicurezza qui quando si fomentano il disordine e il caos altrove. Il caos e il disordine tornano indietro come un boomerang. Nella forma di attentati, ma anche di rafforzamento della pulsione autoritaria tra noi stessi. Uno scivolamento autoritario presentato come condizione per la salvaguardia della nostra libertà. Accettando più sicurezza nel nome della salvaguardia delle libertà, accettiamo dunque anche lo scivolamento autoritario. C’è una tensione tra la capitolazione e il desiderio di rivolta, un desiderio che è anch’esso un dato cruciale dei tempi che viviamo. Da un lato l’abdicazione e dall’altro un desiderio fondamentale d’insurrezione che si esprime qui e là in forme completamente nuove.

La decolonizzazione secondo lei avrebbe liberato delle passioni che, di ritorno, giungono a giustificare, nelle ex-metropoli, nuove spedizioni coloniali. La decolonizzazione, dunque, come esperienza storica, non sarebbe altro che una parentesi?

Achille Mbembe: Diciamo che la decolonizzazione è stata un momento specifico di riconfigurazione delle scene di lotta. E in ogni caso non ha risolto la questione della spartizione del mondo, l’unico mondo che abbiamo.

Lei evoca l’ossessione dell’arabo, dell’ebreo, del negro… Che cos’è che scompiglia i termini del rapporto con l’altro?

Achille Mbembe: La coscienza di questo mondo piccolo e finito esaspera il sentimento secondo cui occorrerebbe, per proteggersi, riattivare le frontiere, costruire i muri, separarsi. Non avremmo più a che fare con degli avversari ma con dei nemici che se la prendono con la nostra esistenza, i nostri “valori”, non importa quanto vaghi siano questi termini. Ecco cosa è cambiato: questa realtà del nemico e, quando il nemico non esiste, questa propensione a inventarsene uno. In questa configurazione, l’altro è percepito come una minaccia e il rapporto d’inimicizia e la volontà di separarsi diventano la sola forma di relazione.

Lei definisce il terrorismo come una forma di “necropolitica”. Anche questa è un’espressione di tale volontà di separazione?

Achille Mbembe: Sì! È la conseguenza ultima di questo modo dominante di relazione che troviamo anche nel colonialismo. Il colonialismo da sterminio e da eliminazione porta anch’esso con sé questa dimensione necropolitica, di dispiegamento della morte come modo di governo. Da un punto ti vista storico, questo modo di esporre i nemici a dei rischi mortali è costitutivo della democrazia. Il regime d’eccezione delle colonie ormai si è riversato sul territorio nazionale delle “democrazie”. Questo favorisce lo scivolamento autoritario indispensabile al neoliberismo per continuare a restare attivo in questa fase della sua storia. Il terrorismo è l’opportunità storica che consente di arrivare a questo punto, di decostruire negativamente la democrazia abrogando i diritti, proclamando lo stato di eccezione, attraverso la trasformazione poliziesca dei meccanismi di gestione del quotidiano.

In questo dispositivo, quale senso assume l’evocazione di identità fisse e fantasmatiche?

Achille Mbembe: Le democrazie liberali sono fondate su un’idea di identità pensata in termini di radici, di autoctonia. È membro della comunità politica chi è nato qui, chi è di questo luogo. Il cittadino è un autoctono. Lo straniero può diventare cittadino se accetta di autoctonizzarsi, ma questo è un processo complicato, non aperto a tutti, un processo condizionale… e reversibile, nel caso della decadenza della nazionalità. Ecco il fondamento antropologico della democrazia liberale. Sappiamo bene che essere nati da qualche parte e da qualcuno dipende dal caso e non da una scelta. Ma nell’immaginario democratico liberale, questa casualità si trasforma in un destino a cui siamo condannati.

Non è che questa fissazione dell’identità – che sia nazionale, culturale o religiosa – altro non è che una forma d’antidoto a un’eventuale cristallizzazione della coscienza di classe?

Achille Mbembe: Sì, è un modo per depistare i potenziali di rivolta verso oggetti sbagliati, oggetti casuali. Chiaramente, la manipolazione delle identità infelici è una maniera di deviare verso degli oggetti sbagliati le energie che potrebbero essere utilizzate in altro modo, nelle vere lotte di liberazione. L’ampiezza degli sforzi dissipati in queste storie è piuttosto interessante, ma alla fine, l’identità, ammessa la sua esistenza, non potrebbe comunque essere stabile. A darmi l’identità è l’altro, nel momento dell’incontro con lui. A essere importante non sono né la nascita né le origini: è il cammino, gli incontri che si fanno lungo quel cammino e quello che si fa.

Poiché la tratta negriera e lo schiavismo furono due delle condizioni che hanno permesso la nascita del capitalismo moderno, è in questo quadro che vennero sperimentati dei processi poi applicati a tutto il mondo. Lei per esempio fa riferimento alla deforestazione di Haiti… L’economia delle piantagioni è stata una delle matrici della devastazione ecologica?

Achille Mbembe: È chiaro che il colonialismo si basa anche su un progetto di sottomissione della natura alla forza predatrice di certe categorie di essere umani, con la trasformazione di una natura detta selvaggia in un paesaggio detto umano. Questo porta ad aggiustamenti brutali, all’eliminazione di certe specie e alla loro sostituzione con altre. Ma anche le guerre coloniali hanno una dimensione ecologica. Non c’è guerra che non abbia, in un modo o nell’altro, un costo ambientale.

Si riferisce a quel momento coloniale diventato una riconfigurazione del modo di fare la guerra…

Achille Mbembe: Il diritto della guerra alla colonia non viene applicato. La colonia è il luogo di sperimentazione della guerra al di fuori della legge, della guerra senza riserve il cui orizzonte è l’eliminazione, lo sterminio. È un laboratorio di violenza incondizionata. Esistono oggi numerose manifestazioni di guerra fuori dalla legge. Il simbolo più spettacolare e più postmoderno di questa guerra fuori dalla legge è il drone, che consacra il principio dell’esecuzione extragiudiziaria. Ma anche coloro che chiamiamo terroristi ricorrono a esecuzioni extragiudiziarie.

Cos’è che permette di paragonare i droni alle macabre messinscena di sgozzamenti?

Achille Mbembe: È tutta questione dei mezzi tecnologici a disposizione. Ma abbiamo a che fare con due mitologie nichiliste che si affrontano. Una mitologia nichilista che pretende di sradicare le passioni religiose – o che si autodefiniscono religiose – attraverso bombardamenti aerei, e un’altra mitologia nichilista che pretende di mettere fine alle tutele esterne attraverso decapitazioni spettacolari o operazioni con le quali si uccidono gli altri uccidendo se stessi, suicidandosi. Queste due forme di passione nichilista mirano a una cosa: l’annientamento di qualsiasi possibilità di relazione.

Allora a quali condizioni possiamo ristabilire una politica della relazione? E se, come dice lei, il mondo intero è diventato una scena coloniale, come può realizzarsi quella “decolonizzazione radicale” che invocava Frantz Fanon?

Achille Mbembe: La soluzione rimane da trovare nell’invenzione di una forma di democrazia propria dei nostri tempi, prendendosi responsabilità di tutti gli esseri viventi, di tutto quello che riceviamo in eredità e tutto quello da cui dipendiamo per la nostra sopravvivenza come specie fra altre specie. La storia umana è una parentesi nella storia generale del mondo. Siamo di passaggio, nel mondo. Questo nuovo progetto democratico deve fare allora posto all’idea e alla pratica di questo passaggio. Un’altra via d’uscita da questa strada senza uscita è l’imperativo di redistribuzione egualitaria delle risorse dell’universo. Ciò richiede altri modi di riconoscere i debiti. Si potrebbe immaginare, al di fuori delle forme attuali, una maniera non espropriatrice di onorare i debiti. Come ultima via d’uscita, dovremo rianimare e coltivare le facoltà critiche che la guerra, il militarismo e il capitalismo finanziario cercano di distruggere, mettendo fine a questa brutalità che mira a interrompere il pensiero, a essiccare le risorse dell’immaginario e a impoverire il linguaggio istituendo un mondo monosimbolico, se non antisimbolico.

Su questo punto, Frantz Fanon dice della lotta che dà luogo a una «festa dell’immaginario». Cosa intendeva?

Achille Mbembe: Questa «festa dell’immaginario» ha assunto forme molteplici nel contesto delle lotte anticoloniali. Per cominciare, richiede un nuovo rapporto con il corpo, in particolare con il corpo inquinato, disonorato, il corpo subalterno, violentato e distrutto. Questo corpo è rianimato e restituito al principio del movimento, senza il quale è solamente un corpo inerte, un corpo-oggetto. Alla fine di Pelle nera, maschere bianche, Frantz Fanon indirizza questa enigmatica preghiera al corpo: «Oh mio corpo, fa sempre di me un uomo che domanda». Si tratta dell’interminabile interrogarsi, in opposizione all’interminabile interrogatorio. C’è, intorno a questa preghiera al corpo, un territorio immenso, una grandissima festa che apre alla possibilità della trasfigurazione del corpo. Sono questi gli orizzonti che dovremmo aprire per creare del senso, per arricchire la lingua e “risimbolizzare” l’universo in un modo che favorisca la condivisione invece che la separazione.

- Intervista ad Achille Mbembe - Pubblicata il 25/5/2016 su Il Lavoro Culturale -
- Traduzione a cura di Lorenzo Alunni e Nicola Perugini -

sabato 24 novembre 2018

Luci e ombre

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L'oligarchia come manifestazione dell'erosione del potere dello Stato
- di Gerd Bedszent -

Il termine "oligarchia", ereditato dall'Antichità greca, che in realtà non significava altro che "potere della minoranza", viene generalmente usato nel senso di "dominio dei ricchi". Cosa che spinge frequentemente i marxisti tradizionali a saltare alla conclusione affrettata secondo cui gli Stati capitalisti sarebbero tutti oligarchici. È ovvio che uno Stato capitalista moderno possa essere paragonato alle formazioni di potere dell'Antichità solo con molte riserve. Ragion per cui, nel nostro tempo il termine soffre di un cambiamento di significato. Attualmente, come oligarchi vengono designati i magnati dell'economia, i quali possono stabilire e far rispettare le proprie regole, grazie alla loro posizione economica preminente in un territorio limitato, in assenza di un potere statale che funzioni. Ciò si è reso possibile nelle fasi iniziali dello sviluppo dello Stato borghese, e lo è ancora di più adesso, nella fase di collasso del potere statale moderno. Durante la fase iniziale di transizione al capitalismo iniziale, impostata dallo Stato, ci sono stati individui particolarmente energici e brutalmente attivi in grado di mettere temporaneamente le mani su interi settori economici, dettando le condizioni a quei governi. Negli Stati Uniti - dove, com'è noto, il capitalismo si è potuto sviluppare liberamente, senza dover tener conto delle reliquie feudali presenti nelle relazioni di produzione che ancora disturbavano l'Europa, espandendosi su una massa di terra apparentemente senza padrone - vennero chiamati oligarchi quegli individui economicamente dominanti, che su quei territori esercitavano un potere esclusivo prima ancora che il potere statale borghese si stabilisse dopo di loro. L'imposizione di un tale statalismo, contro la legge della giungla che si concentrava in pochi individui, è diventata parte del mito storico degli Stati Uniti, ed oggi viene raccontata in numerosi romanzi e film western.
Ai nostri giorni, il termine "oligarca" ha una connotazione assai negativa - e di certo a ragione. Nell'Europa dell'Est, come risultato del collasso delle "economie a comando statalista" [*1], si arrivò rapidamente al declino delle strutture statali, e non solo. In seguito, di conseguenza, tecnocrati, funzionari di partito, agenti dei servizi segreti, criminali professionisti ed altri soggetti fecero ricorso a metodi estremamente rozzi per rivendicare la proprietà di quella che era stata la massa, ora fallita, dell'Unione Sovietica in disintegrazione e dei suoi Stati satelliti. Per questa nuovo strato di nuovi ricchi più o meno criminali, si stabilì che venisse usato il termine di "oligarchi". Non dimentichiamo che dopo il collasso del regime di modernizzazione dell'Est europeo, nel corso del processo di privatizzazione implementato in fretta e furia, i rami funzionali dell'economia caddero generalmente nelle mani di figure oscure. Le ricette dei radicali della linea dura, importata dall'Occidente, venivano viste come l'unico modo per poter superare l'inefficienza delle strutture economiche statali. Cosa che, naturalmente, non avrebbe funzionato. Parti enormi dell'economia, scivolando nell'agonia, ora collassavano alla velocità della luce. Altre imprese e gruppi di imprese, ora sotto la direzione dei loro nuovi padroni, decidevano di fare a meno di quelli che erano scomodi obblighi sociali. Di modo che questi nuovi padroni avrebbero potuto arricchirsi in maniera decisamente spudorata.
La stupidità e l'indifferenza, prevalenti fra la maggioranza della popolazione dell'ex Unione Sovietica, insieme all'emergere di uno strato di "nuovi russi", si trasformano ora in aggressività. All'epoca, i negoziati vennero condotti con l'aiuto delle pistole silenziate e dei kalashnikov, e gli ex direttori di fabbrica, "rossi", vennero scaraventati fuori dai loro uffici per mezzo di manganelli e gas lacrimogeni. Sotto lo slogan «Nessun potere ai ladri», bande di estorsori di professione, di assassini a pagamento, trafficanti di donne ed altri mafiosi hanno preso il controllo di banche e di installazioni industriali che sembravano loro particolarmente redditizie. Felix Jäitner, esperto austriaco per l'Europa Orientale ha scritto che solo in Colombia e in Sud Africa il tasso di omicidi era più in alto che in Russia [*2]. Ha definito il sistema di Yeltsin come «conquista del potere statale da parte di grandi imprese private» [*3]. Definizione non del tutto errata. Ad ogni modo, è stata un'epoca in confronto alla quale il Proibizionismo negli Stati Uniti potrebbe essere considerato un periodo di tranquillità e di civiltà. Nel 1993, Robert Kurz ha descritto quel periodo come «la disintegrazione del potere dello Stato e (...) l'instaurarsi di un'economia di saccheggio, del potere dei clan, dei signori della guerra, delle bande e della mafia» [*4].
Raramente, i media occidentali affrontano i furiosi conflitti criminali che si scatenato intorno alla distribuzione e che hanno avuto luogo in Russia durante la presidenza di Yeltsin. Dopo tutto, l'ex funzionario del Partito, Yeltsin, per quanto riguarda le questioni di privatizzazione, è stato un'allievo modello degli apologeti delle atrocità neoliberiste. In ogni caso, i gruppi di ricerca delle università occidentali si dedicavano a far fronte al processo di trasformazione in corso in Europa orientale, ma la maggior parte di essi passava da uno stupore all'altro. Lo sviluppo era stato molto diverso da come era stato precedentemente previsto da presunti esperti dell'Est europeo. Per gli intellettuali occidentali, il disastro socioeconomico che si svolgeva sotto la sua direzione finì per diventare imbarazzante, dal momento che avevano concordato un argomento semplice e convincente: era Putin la causa di tutto. Qui non si tratta di elogiare, in alcun modo, l'ex ufficiale dell'intelligence sovietica, il quale - operando all'inizio ai margini del suo protettore Yeltsin - era arrivato a dirigere la Federazione Russa. Tuttavia, attaccare Putin - da alcuni anni, uno nei giochi favoriti dei media dell'Europa occidentale - è in gran misura ipocrita. Dopo tutto, il potentato dell'Europa dell'Est garantisce da anni, con i suoi metodi di governo in parte estremamente brutali, il libero flusso di combustibile destinato alle macchine della valorizzazione capitalista - infatti i burloni definiscono la Russia una grande impresa petrolifera con uno Stato annesso [*5].
Ad ogni modo, sotto il regime indubbiamente brutale di Putin, non si può mettere in dubbio il completo ristabilirsi della preesistente condizione statale. Il ruolo svolto da Putin come capo dello Stato si è essenzialmente ridotto alla mediazione dei conflitti di interesse fra i vari gruppi oligarchici sorti durante l'era di Yeltsin. Parte di questo ruolo consiste, tuttavia, nel rimuovere dalla circolazione le oligarchie che si pongono fuori dalla linea e mettono apertamente in discussione la mediazione del potere statale. Di norma, tali individui, se non scappano all'estero in tempo, finiscono in qualche campo prigionieri. Le proprietà che avevano rubato, però, non vengono più nazionalizzate, ma finiscono nelle mani di altri oligarchi. A dire il vero, si dice che Putin faccia uso di un'energia criminale rilevante, finalizzata alla cura del proprio ambito familiare.
Tuttavia, un confronto fra la Russia e l'Ucraina relativizza in maniera significativa tali condizioni russe. Entrambi gli Stati vengono considerati come delle oligarchie classiche dell'era post-sovietica, risalenti agli scenari delle violente lotte fra gang che si sono svolte negli anni '90.
In Russia, tuttavia, dopo gli eccessi delle privatizzazioni e la guerra aperta dell'era Yeltsin, i resti del potere di Stato sono stati in grado di affermarsi, ed anche quel che rimaneva della preesistente sicurezza sociale ha continuato a funzionare per la popolazione. Queste rimanenze, dopo le orge di privatizzazione e dopo il collasso di gran parte dell'industria, vengono finanziate quasi esclusivamente grazie alla non trascurabile esportazione di materie prime verso l'Europa occidentale. A partire da questa fonte, in ultima analisi si alimenta soprattutto anche il settore delle imprese della sicurezza privata, notevolmente cresciuto in seguito all'erosione dell’apparato dello Stato (ma che non sono nient'altro che una forma legale appena sopra la volgare estorsione). Le imprese di sicurezza, al solfo dei vari clan oligarchici, assai spesso derivanti da bande di criminali, attualmente si controllano a vicenda, evitando quindi così una nuova escalation delle guerre di distribuzione combattute in maniera violenta. Le reliquie del potere statale russo possono ancora svolgere funzione di mediazione fra i vari gruppi di interesse economico. Nel territorio dell'Ucraina, rispetto alla Russia, c'è molto meno materia prima. Di conseguenza, quel che rimane del potere statale, fin dall'inizio, ha avuto molto meno margine di manovra. Nel solco della crisi dello Stato che è seguita alla crisi economica, vari oligarchi - l'esempio più recente è quello del "re del cioccolato", Petro Poroshenko - si sono impadroniti direttamente della cupola dello Stato, ed hanno imposto con la forza bruta i loro interessi contro gli altri oligarchi. Il potere dello Stato ucraino è così diventato parte nella guerra fra le gang che imperversavano in quel territorio [*6]. Nella Federazione Russa, al contrario, il fenomeno della conquista ufficiale del potere governativo da parte delle oligarchie è rimasto limitato alle regioni più lontane, distanti dalla capitale moscovita. Dopo un periodo di rapido collasso dello Stato, la Russia si stabilizzata ad un livello basso, mentre il collasso dell'Ucraina continua ancora a ritmo accelerato. Ovviamente, gli osservatori occidentali hanno molta fretta di distinguere fra oligarchi "buoni" e "cattivi". I primi non sono dei democratici perfetti, ma neppure i secondi sono dei killer o degli istauratori di una dittatura brutale. Un oligarca rappresenta sempre solo i propri interessi e quelli della sua ristretta cerchia. E, in fin dei conti, è solo uno che partecipa ad una lotta per la distribuzione che nella fase finale di un sistema barbaro si fa sempre più brutale.
Chiunque voglia informarsi su questa recente classe formata da magnati economici post-sovietici, troverà quello che cerca in Wolfgang Kemp, senza bisogno di dover fare ulteriori altre ricerche. Wolfgang Kemp, un ex professore di storia dell'arte, ha svolto con abilità la sua critica di questa casta di ricchi arrivisti nel suo recente ed esauriente saggio, "Der Oligarch" (Zu Klampen, Springe 2016).
Kemp scrive facendo uso di un'amara ironia. Fin dall'inizio, si può leggere che è possibile prenotare nel Regno Unito un tour in Autobus che si chiama «Circuito della cleptocrazia» [*7]. Si tratta di visitare le residenze degli oligarchi russi ed ucraini che si trovano nel centro di Londra. Ad esempio, Rinat Akhmentov, un ex pugile professionista e presunto criminale professionista, che è stato fino allo scoppio della recente guerra civile il più ricco residente ucraino - aveva comprato alcuni anni fa, per 136 milioni di sterline, il più costoso complesso residenziale del mondo, che poi aveva allargato e rimodellato con la spesa di ulteriori 200 milioni di sterline [*8].
E in cosa si differenzia un oligarca rispetto ad un banale capitalista normale? Ovviamente, per il suo insaziabile desiderio di avere uno yacht di lusso che sia il più caro possibile. Solo che, come scrive Kemp, nel caso di Akhmetov non si trova lo yacht. Al suo posto, troviamo una flotta aerea ad uso privato. Nell'elencare i nomi di tutti gli altri oligarchi menzionati nel libro, Kemp, di conseguenza, riferisce la lunghezza esatta dei loro rispettivi yacht. Che lo yacht sia il simbolo fallico moderno? Nel libro, purtroppo questo non viene approfondito. Kemp riferisce alcuni esempi comici, talvolta sinistri, di     quelle che erano le vecchie carriere imprenditoriali. La prima attività economica di colui che attualmente è il russo più ricco, Mikhail Fridman, è stata quella di creare un fiorente mercato nero dei biglietti per assistere agli spettacoli teatrali a Mosca - cosa possibile solamente in Unione Sovietica. In un'altra parte del libro troviamo  Mikhail Khodorkovsky, che viene promosso dai media occidentali come modello di oligarca democratico e vittima innocente perseguitata, il quale aveva acquisito negli anni '80, anche attraverso la tratta delle donne, la base di quella che era diventata la sua fortuna miliardaria.
Ma questi affari semi-legali, alla fine dell'era sovietica, avevano portato a guadagnare solo noccioline. Kemp descrive in maniera dettagliata il modo in cui sono state accumulate fortune miliardarie, nel contesto delle orge delle privatizzazioni rese disponibili da Yeltsin, e come, allo stesso tempo, si intensificarono le lotte per ottenere i bottini migliori. Nella Russia di Yeltsin vigeva una regola empirica: una morte per ciascun guadagno da 100mila dollari. Solo nel 1994, sono stati registrati 36mila omicidi in Russia, in relazione con le guerre criminali di distribuzione [*9]. Gli è che se ci pensiamo, poi non sono nemmeno molti, se consideriamo la situazione della maggioranza della popolazione russa. Nell'era di Yeltsin, l'aspettativa media di vita dei residenti russi era diminuita molto rapidamente. Se nel 1990, nella fase finale dell'Unione Sovietica, corrispondeva a circa 69 anni, nei cinque anni successivi scese a 65 anni, a causa del rapido impoverimento della popolazione e a causa delle orge di golpe che erano avvenuti nel settore sanitario e nei settori dei servizi sociali [*10].
Come scrive Kemp, l'aspettativa di vita media alla fine dell'amministrazione Yeltsin era di soli 58 anni; in quel periodo, la popolazione era diminuita di circa 750mila per ogni anno [*11]. Nel corso della stabilizzazione della Russia sotto Putin, la speranza di vita tornò a crescere lentamente ed ora, secondo i dati ufficiali, è poco al di sopra dei 70 anni (nel 2014).
I rapporti fra Putin e la casta di oligarchi emersa con Yeltsin vengono descritti da Kemp in maniera appropriata e vengono definiti come «patto di non aggressione». In realtà, la giustizia russa sotto Putin persegue solo quegli oligarchi che sfidano apertamente la cupola dello Stato. Metterli fuori gioco, se si trovano ancora nel paese, è cosa relativamente facile. In fin dei conti, i "nuovi russi" sono tutti coinvolti in affari criminali.
Si possono leggere in Kemp molte altre storie dell'Est da far rizzare i capelli. Per fare solo un esempio: il predetto Khodorkovsky, nel 1988, ha fatto uccidere il sindaco di una città russa. La sua colpa: aveva difeso i diritti del partito dei suoi elettori e aveva denunciato pubblicamente il furto brutale dei salari che avveniva nelle imprese di Khodorkovsky [*12].
Kemp sottolinea anche l'incapacità dei ricercatori dell'Europa Occidentale nel riuscire a comprendere lo sviluppo che è sotto i loro occhi. Ad un certo punto, la turbolenza del periodo di transizione avrebbe potuto portare ad una democrazia di stampo occidentale... Ma, allo stesso modo in cui viene evitata accuratamente un'analisi economica delle condizioni post-sovietiche, tutti i tentativi di interpretazione si risolvono in termini giuridici senza senso: "regime ibrido", "capitalismo di nomenklatura", "autoritarismo competitivo", "democrazia diretta" ... [*13].
Proprio perché gli oligarchi dell'Est europeo - alla maniera spensierata di nuovi ricchi parvenu - vengono percepiti come se fossero degli odiosi cattivi globali, il loro significato reale dovrebbe essere oggettivato. Senza dubbio, queste persone sfruttano l'enorme disuguaglianza sociale e agiscono in maniera estremamente brutale, accumulano profitti che si fanno beffe di qualsiasi descrizione. Ma, d'altra parte, loro non fanno parte di quelli che sono i super-ricchi del nostro pianeta. Quello che è il denaro davvero enorme, non si trova nelle frange in rovina della modernità capitalista, dove figure oscure lottano con lo sfollagente e la pistola, o con l'aiuto di agenzie di sicurezza e di giudici venali, per poter arrivare a disporre di risorse naturali, attraverso la cui esportazione riescono ad ottenere almeno alcune briciole dell'enorme ricchezza che si aspettano. Il fulcro dell'economia si trova nelle metropoli capitaliste, nel commercio al dettaglio, nella produzione dei beni di consumo e nel ramo dell'elettronica.
I padroni dei beni più grandi non hanno alcuna necessità di esibire la ricchezza che hanno acquisito recentemente mostrando i loro yacht di lusso perfettamente sovradimensionati.
E, di certo, i moderni imprenditori occidentali non hanno bisogno di porre le proprie persone al governo di quel che rimane di un potere statale in rovina. C'è abbastanza personale subordinato tra le fila dei partiti politici, per poter governare gli Stati funzionali. In generale, un miliardario occidentale non ha né il tempo né la voglia di andare di persona nelle regioni sud-orientali della politica. Se ne vuole influenzare le decisioni, non mette in moto bande di pistoleri prezzolati, ma avvocati, agenzie di pubbliche relazioni oppure organizzazioni di lobbisti. Al momento, questo avviene ancora, ma il declino dello Stato moderno procede. Ed è un chiaro sintomo di crisi il fatto che ora, negli Stati Uniti, un indebitato imprenditore immobiliare possa reclamare per sé il più alto ufficio dello Stato.
Come ha scritto così bene Brecht, nell'Opera da Tre Soldi: «Che cos'è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos'è l'effrazione di una banca di fronte alla fondazione di una banca?» [*14]. Nella versione cinematografica dell'Opera da Tre Soldi, si dice giustamente: «E si vedono coloro che stanno nella luce/ E coloro che stanno nell’ombra Non si vedono» [*15].

- Gerd Bedszent - Pubblicato sul n°14 di « EXIT ! ». Maggio 2017.

NOTE:

1) Robert Kurz, Der Kollaps der Modernisierung. Vom Zusammenbruch des Kasernensozialismus zur Krise der Weltökonomie, Eichborn 1991, p. 148.

(2) Felix Jaitner, Einfuhrung des Kapitalismus in Russland. Von Gorbatschow zu Putin VSts Verlag 2014, p. 75.

(3) Ibidem., p. 127.

(4) Robert Kurz, Der Letzte macht das Licht aus. Zur Krise von Demokratie und Marktwirtschaft, Edition Tiamat 1993, p. 136.

(5) Gerd Bedszent, Zusammenbuch der Peripherie. Gescheiterte Staaten als Tummelplatz von Drogenbaronen, Warlords und Weltordnungskriegern

(6) Ibidem, p. 133s.

(7) Wolfgang Kemp, Der Oligarch, zu Klampen Verlag 2015, p. 7.

(8) Ibidem, p. 8.

(9) Ibidem, p. 53.

(10) Felix Jaitner. p. 74.

(11) Wolfgang Kemp, p. 68.

(12) Ibidem, p. 54s.

(13) Ibidem, p. 55.

(14) Bertolt Brecht "Stucke, Band III", Aufbau Verlag 1962, p. 135s.

(15) Ibidem, p. 169.

fonte: EXIT!