Agli inizi del XX secolo, quando gli intellettuali dell'Italia post-unitaria dovettero confrontarsi con i nuovi assetti politici europei e decidere dove collocarsi, anche gli antichisti si trovarono a dover compiere una scelta, particolarmente dolorosa per i tanti fra loro che si erano formati alla scuola diretta o indiretta dei grandi maestri tedeschi. Lo scoppio della Grande Guerra fu vissuto pertanto come un autentico trauma, e portò a una profonda frattura con quanti invece ritenevano necessaria la partecipazione dell'Italia al conflitto. Questo volume raccoglie buona parte delle relazioni presentate a un convegno tenutosi a Trento nel maggio 2015, a cento anni esatti dall'intervento italiano, con l'intento appunto di esplorare le motivazioni culturali, gli orientamenti ideologici e le valutazioni politiche che indussero molti dei maggiori studiosi italiani del mondo antico a prendere apertamente posizione a favore dell'entrata in guerra dell'Italia, a fronte di una minoranza schierata per il mantenimento della neutralità.
(dal risvolto di copertina di: Elvira Migliario e Leandro Polverini (a cura di): Gli antichisti italiani e la Grande Guerra, Le Monnier.)
Il mondo classico per l’interventismo
- di Carlo Franco -
«Anche Sparta, signori miei, costituita da 40mila abitanti Dori, teneva il dominio su 500mila Iloti e 150mila Perieci della Laconia senza che alcuno trovasse anormale una tale situazione, e ciò a causa dell’enorme superiorità morale dei dominatori. Gli Slavi (…) hanno infatti tutto l’aspetto degli Iloti». Sembra Himmler, quando si riferiva all’espansione del Reich millenario a Est. Invece sono le parole di uno storico, dette nel 1919, e gli Slavi evocati con tanto disprezzo sono quelli della Dalmazia. La loro colpa era quella di rivendicare il possesso di una terra assegnata all’Italia dalla storia, il trattamento che meritavano era invece un asservimento totale, ilotico appunto. L’autore non fu l’unico a esprimersi così in quegli anni: lo fecero anche giornalisti e polemisti, e anche studiosi di mondo antico, che misero le proprie conoscenze sul passato classico al servizio della causa nazionale, con pesanti effetti. Passioni acerbe (non tutte oggi ricomposte) animarono cento anni fa molto dibattito: alcuni percorsi, tra storia antica e archeologia, sono stati oggetto di un convegno trentino, del quale escono ora gli atti (Gli antichisti italiani e la Grande Guerra, a cura di Elvira Migliario e Leandro Polverini, Le Monnier, pp. VI-250, euro 21,60).
Nel primo conflitto mondiale anche gli intellettuali furono chiamati a legittimare e giustificare la guerra. Il ripensamento sul ruolo che essi svolsero in quel contesto dura da tempo, con risultati di grande interesse. Il volume sceglie un osservatorio particolare: le aree di confine, le terre «irredente». Alle prese con una guerra di ampiezza e durezza mai veduta, anche la campagna di idee per la conquista (o «redenzione») di Trento e Trieste fu occasione perché gli studiosi del mondo greco-romano esprimessero, se così si può dire, il meglio e il peggio delle proprie qualità. Il punto chiave, ma anche il più ideologicamente delicato, era l’equazione tra «romanità» e «italianità». Alla base stava l’idea ottocentesca di Roma antica come premessa dell’Italia unita, ma questa nobile idea divenne il facile contenitore per pretese nazionaliste, imperialiste o apertamente razziste.
Fin dal 1914 la guerra spaccò nel profondo l’unità culturale d’Europa: la frattura che nel 1870 si era aperta tra dotti tedeschi e francesi si ripropose in grande e in peggio. Anche per gli intellettuali, anche per gli antichisti, la difesa degli interessi nazionali fu il criterio guida del pensiero pubblico: un pensiero unico che aveva messo fuori gioco il neutralismo, che sembrava tradire la patria, e il pacifismo, che pareva auspicare la sconfitta. In Italia, nel 1914-’15, la situazione fu particolarmente penosa. Da un lato c’era la Triplice alleanza, che vincolava alla Germania e all’Austria-Ungheria; dall’altro c’era la chiara consapevolezza del fatto che gli studi classici dopo l’Unità erano rinati proprio grazie all’apporto della «scienza dell’antichità» tedesca. Come considerare nemici coloro che erano stati modello di scienza?
Il cambio di fronte, con l’entrata in guerra del maggio 1915 a fianco dell’Intesa rese il tema più lacerante, o confuso. Lo mostrano i casi esaminati qui da Polverini: Julius Beloch, autorevole professore di Storia antica a Roma, fu sospeso dall’insegnamento perché tedesco, poi internato come nemico; Ettore Pais, pure professore a Roma, si mise invece al servizio della causa, scrivendo sui rapporti tra romani e germani e sul «confine orientale d’Italia», fino a virare verso un approccio tutto nazionalista; Gaetano De Sanctis, cattedratico a Torino, neutralista, non rinnegò invece il debito proprio e dell’Italia verso la cultura tedesca. L’urgenza nazionale però mise tutti a dura prova, soprattutto dopo Caporetto. Ettore Ciccotti, storico e deputato, socialista «atipico», studiato da Federico Santangelo, finì per avvicinarsi agli interventisti e a disquisire lui pure sul «confine naturale d’Italia», pur essendo ben consapevole di quanto ingannevole fosse la propaganda innervata del paradigma «romano». Il filologo Giorgio Pasquali rimase a lungo fedele alla Germania dove si era formato (e dove forse aveva sperato di avere una carriera), ma poi virò verso il nazionalismo, e finalmente nel dopoguerra approdò al fascismo.
Molto più esposto, come poi sarà anche sotto il fascismo, fu il ruolo degli archeologi. E lo fu particolarmente nelle aree di confine, in Trentino, in Istria e in Venezia Giulia. A loro era chiesto infatti di definire, a partire dai reperti, l’etnicità del passato locale: una questione delicata, nella quale anche un saggio «scientifico» assumeva immediata spendibilità politica. Non solo i corredi funerari venivano all’uso: anche le iscrizioni. Sia a Trento, sia a Trieste, il contributo di storici ed epigrafisti servì dunque a dimostrare, anche alla luce del diritto romano, che quelle aree erano state al tempo di Roma legate all’Italia e non alle province limitrofe. Di qui la via per passare talora a toni apertamente antislavi e antigermanici. Come nei lavori di Giovanni Oberziner (1857-1930), l’autore delle righe citate in apertura, la cui figura è analizzata da Gino Bandelli. La rivendicazione dei «confini naturali» portò lo storico trentino a propugnare l’attribuzione all’Italia del Sud Tirolo (anzi, dell’Alto Adige), pur nella consapevolezza che la maggioranza della popolazione non era italofona. L’argomento numerico fu usato all’opposto però nel caso della Dalmazia, dove gli Slavi erano maggioranza ma la «direzione amministrativa» era saldamente italiana. La reversibilità del criterio illumina il carattere totalmente ideologico del discorso.
I saggi qui raccolti non hanno indagato solo le pagine «durevoli» pubblicate in volume: molto spazio, e giustamente, hanno materiali più occasionali e per questo di interesse decisivo: lettere e diari, ma anche articoli di giornale, conferenze e alcuni libri militanti. Lì anche gli studiosi seri parlarono più apertamente, e soprattutto secondo le informazioni (e le emozioni) del momento, ignari degli esiti successivi. Espressero quindi vedute destinate talvolta a totale smentita, ma anche spunti imprevedibilmente profetici. In articoli scritti prima dell’entrata in guerra dell’Italia e qui studiati da Augusto Guida, Pasquali ammoniva circa i rischi strategici derivanti dallo smembramento dell’impero d’Austria, richiamava il contrasto d’interessi tra Francia e Italia nel Mediterraneo, riteneva che si potesse ottenere molto restando fuori dalla guerra. Negli ultimi mesi di guerra, invece, l’archeologo Paolo Orsi temeva che l’Austria avrebbe rinfacciato all’Italia di aver preso il Trentino non perché «conquistato con forza d’armi ma per via di trattati», insisteva però che in Tirolo bisognava comportarsi da «padroni», favorendo la penetrazione «spontanea» italiana; caldeggiava al contempo la sopravvivenza di un’Austria «castrata», per evitare che fosse assorbita dalla «Madre», ossia la Germania. Anche altri nel ’18 temevano quest’esito, che si realizzò nel ’38… Quanto al confine orientale, scriveva Pasquali nel marzo 1915: «non ci concederanno altro che Trieste senza hinterland, cioè il cadavere di Trieste». Anche in questo caso, il timore si realizzò pienamente, dopo altre tragedie, nel 1947. Anche se alla nostra epoca vi è eclisse quasi totale degli intellettuali, il ripensamento sulla loro funzione nei momenti di crisi suscita pensieri cupi, nel chiedersi se crei danno peggiore la loro militanza o la loro irrilevanza.
- Carlo Franco - Pubblicato su Alias del 25.3.2018 -
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