mercoledì 7 novembre 2018

macchine

Noi

È la fine del terzo millennio, l'umanità vive in uno spazio ipermeccanicizzato e socialmente ipercontrollato, chiuso dalla Muraglia Verde. Gli individui non hanno più un nome, sono alfanumeri. Come D-503, ingegnere al lavoro sul progetto dell'Integrale, la nave spaziale destinata a esportare su altri pianeti il perfetto ordinamento politico dello Stato Unico, dove ogni attività è disciplinata, standardizzata e, soprattutto, visibile a chiunque: tutti gli edifici sono di vetro. È proprio D-503 a raccontare la vicenda della ribelle I-330 e del suo piano per dare inizio a una nuova rivoluzione. Scritto tra il 1919 e il 1921, prontamente censurato (uscito in inglese nel 1924, nel 1952 in russo ma a New York, e solo nel 1988 in URSS), Noi è il capostipite di tutte le distopie del Novecento, antesignano di 1984 di Orwell e del Mondo nuovo di Huxley.

(dal risvolto di copertina di: Evgenij Zamjatin, Noi (My) , Mondadori, pagg. 236, € 12)

- Fantascienza comunista -
di Goffredo Fofi

La fantascienza ha avuto molti precursori, e con Verne e Wells i suoi fondatori moderni, l’uno fiducioso nelle macchine e nella scienza, ma l’altro, degno lettore di Darwin e narratore della società e delle sue linee di sviluppo, decisamente più pessimista. Si diffuse dopo la seconda guerra mondiale a partire dagli Usa e dell’Inghilterra come una forma della letteratura popolare in grado di far concorrenza al romanzo rosa e al romanzo giallo, le visioni più acute del futuro sono state espresse da scrittori di prim’ordine e non specializzati nel genere, e la società a venire è stata esplorata dopo Wells da altri insoliti europei, il praghese Karel Capek con la commedia R. U. R. (1920), dove ricorreva per la prima volta la parola robot, derivazione da robota che in ceco significa lavoro; dal russo Evgenij Zamjatin con il romanzo Noi, steso intorno al 1921-22, ma che per la pubblicazione in Russia ha dovuto aspettare gli anni della perestrojka, il 1988, mezzo secolo dopo la morte dell'autore, pur avendo visto la luce assai prima in Germania e in America, e in Italia grazie a Ettore Lo Gatto nel 1955; l'inglese Aldous Huxley con Il mondo nuovo (1932), seguito molti anni dopo, 1958, dalle riflessioni di Ritorno al mondo nuovo; e infine l’inglese George Orwell con uno dei grandi libri del Novecento, 1984, edito nel 1949.

In tutti questi casi si è trattato di distopie, di utopie negative, non ottimistiche sul futuro dell’uomo e della società. Ci sono oggi evidenti, alla luce di quanto è accaduto poi, le ragioni dei pessimisti, e ci appaiono ingenue fino a risultare insopportabili quelle delle fantascienza ottimista, degli ideatori su carta di società egualitarie, ecologicamente sane, dove la tecnica è messa al servizio dell’uomo e non viceversa. Rileggendo a distanza di anni Zamjatin, ci si rende ben conto di quanto Orwell (e tanti altri con lui) gli hanno dovuto, e se ne apprezza l’intelligenza e la forza in rapporto a quelli che sono stati i sogni del comunismo sovietico, dei piani quinquennali, dell’ideologia dello sviluppo, del pensiero unico, della priorità dello stato.
Ingegnere navale, Zamjatin scrisse Noi quando aveva poco più di trent’anni, e negli anni caldi della rivoluzione, quelli in cui non si era ancora affermata e consolidata con Stalin e con Zdanov un’idea di cultura e di arte, al servizio non del popolo ma del partito e della sua idea di quel che il popolo avrebbe dovuto diventare, essere. Inventando un futuro molto lontano, Zamjatin immagina un mondo futuro dove tutti sono uguali ma c’è un Benefattore assistito da Custodi - che ci appare come un antenato diretto del Grande Fratello orwelliano - che arriva perfino a giustiziare personalmente i refrattari ostili all’ordine stabilito, che viene presentato e viene vissuto da tutti come ideale, privo di conflitti, di assoluta razionalità: un’armonia forzata che è bensì considerata da tutti come la perfezione del bene. Il protagonista e narratore approva in pieno questa società, dove il sesso è regolato come tutto il resto e dove tutti hanno un numero e non un nome (il suo è D-503) finché non incontra una donna da cui è attratto ma che lo sconcerta per la sua ironia, una qualità assente nelle altre donne con cui ha a che fare. Per suo tramite, potrà anche conoscere il mondo oltre il confine della perfetta società, un mondo di refrattari all’ordine stabilito ridotti però a uno stadio di brutalità e selvaggeria. (La contrapposizione tra i due gruppi ricorda fortemente quella tra i Morlock e gli Eloi, abitanti del lontanissimo futuro ipotizzato da Wells in La macchina del tempo.) Va anche ricordato che il protagonista è un ingegnere addetto alla fabbricazione di una sorta di astronave che dovrà esportare su altri pianeti il modello della società che lo ha prodotto, e che l’azione del romanzo andrà focalizzandosi attorno alla possibilità di impadronirsene e farne un buon uso.

Secondo l’ottimo curatore di Noi, Alessandro Niero, i “due poli spirituali” della vicenda, per l'ingegnere Zamjatin esperto di termodinamica, sono “energia” ed “entropia”, la tendenza alla quiete e quella al movimento, alla mutazione continua anche nell’idea di società. E dietro le idee di Zamjatin si può forse ipotizzare un modello politico e rivoluzionario che non è certamente quello di Stalin (e neanche di Lenin) ma che si avvicina a quello di Trotskij, quello della “rivoluzione permanente” o “ininterrotta”, che possiamo malamente riassumere in una dialettica storica continua tra il momento della febbre e quello della quiete, una quiete che una nuova febbre deve interrompere affinché nuovi poteri non ci opprimano, affinché il mondo, la storia, possano andare avanti. E certamente Zamjatin credette nella rivoluzione, pur vedendone i limiti e preoccupato del suo consolidamento in mano a una perfetta burocrazia e a una ideologia unica imposta con la forza. Vi credette allo stesso modo di un Pilnjak, che condivise con lui la condanna da parte della burocrazia e morì nel gulag mentre Zamjatin riuscì a espatriare rifugiandosi in Francia, dove fu tra l'altro co-sceneggiatore del film che Jean Renoir trasse dall’Albergo dei poveri di Gorkij e dove morì nel 1937.

Boris Pilnjak, oggi in Italia dimenticato, è stato uno dei grandi scrittori dei primi anni post-rivoluzionari, grande anzi grandissimo. Non si può dire lo stesso di Zamjatin, certamente buon scrittore dalle idee chiare sul presente e il futuro del suo paese e del mondo: Noi rappresenta un punto cardine nella storia della letteratura avveniristica e della cultura russa del Novecento, ma anche nella traduzione di Niero che indoviniamo - non conoscendo il russo, ottima (e che gli Oscar hanno lodevolmente preso dall’edizione Voland del 2013) - non appare come un romanzo innovativo nella forma come nelle idee, spesso un po’ faticosa soprattutto se paragonata all'originalità ed esplosività della scrittura di Pilnjak ma anche alla limpidezza di quella orwelliana. Orwell scoprì Noi nella traduzione francese nel 1946 e gli deve certamente molto, ma ne disse anche, come ricorda Niero nella sua prefazione, che «per quanto posso giudicare, non è un libro di prim’ordine». Questo nulla toglie alla sua importanza storica e alla sua capacità di accostarci a un futuro che è ancora nostro in modi più preoccupanti che mai. Zamjatin ne era pienamente cosciente, dicendo della sua opera in un’intervista francese del 1932 che Noi non era un pamphlet politico, bensì «un campanello d'allarme per il duplice pericolo che minaccia l'umanità: il potere ipertrofico delle macchine e il potere ipertrofico dello stato».

- Goffredo Fofi - Pubblicato sul Sole del 15/4/2018 -

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