Siamo nel 1919. La prima guerra mondiale è finita da poco. "Il dottor Benjamin fugge dalla casa di suo padre, il luogotenente Wittgenstein commette un suicidio finanziario, il libero docente Heidegger perde la fede e monsieur Cassirer lavora sul tram alla propria illuminazione." Comincia un decennio di eccezionale creatività, che cambierà per sempre il corso delle idee in Europa e senza il quale alcuni pensieri non sarebbero mai stati pensati. Wolfram Eilenberger mette in scena l'esplosione del pensiero, sullo sfondo di una Germania divisa tra l'esuberanza e la voglia di vivere del dopoguerra e l'abisso della crisi economica, tra la lussuria delle notti berlinesi e i complotti reazionari della Repubblica di Weimar, mentre il nazionalsocialismo si trasforma velocemente in una minaccia. I quattro protagonisti di questi anni decisivi sono giganti di ogni tempo. E le loro vite straordinarie si intrecciano nella necessità di rispondere alla domanda che ha orientato nei secoli la storia del pensiero: che cos'è l'uomo? Una domanda che si fa più urgente che mai nell'ombra di una guerra devastante appena conclusa e di un'altra catastrofe che si annuncia all'orizzonte. Con grande abilità narrativa, Eilenberger mostra che la vita quotidiana e i dilemmi della metafisica fanno parte della stessa storia. E racconta la più grande rivoluzione del pensiero occidentale attraverso i suoi quattro protagonisti assoluti, ciascuno con il proprio sguardo penetrante e il proprio modo di concepire la vita, il linguaggio, il tempo e il mito.
(dal risvolto di copertina di: "Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l'ultima rivoluzione del pensiero", di Wolfram Eilenberger. Feltrinelli)
Così Weimar diventò il ring dei filosofi
- Ludwig Wittgenstein, Martin Heidegger, Walter Benjamin, Ernst Cassirer -
di Angelo Bolaffi
Ventisei marzo 1929, ore 10 del mattino: il mondo è alla vigilia della più grave crisi economica dell’era moderna — qualche mese dopo scoppierà il Venerdì nero della borsa Wall Street — e la Repubblica di Weimar si sta avviando verso il suo crollo. Ma questo, ovviamente, ancora nessuno lo sa. A Davos, la località delle Alpi svizzere nella quale anni prima Thomas Mann aveva ambientato La montagna incantata, nell’elegante e sofisticata atmosfera del Grand Hôtel Belvedere sta per iniziare la prima sessione della più celebre disputa filosofica del Ventesimo secolo: protagonisti Ernst Cassirer e Martin Heidegger. Un confronto sul tema “Che cos’è l’uomo” tra il massimo esponente della scuola neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della filosofia tedesca, nonché primo rettore ebreo di una università tedesca e Martin Heidegger il giovane e ambizioso «monarca segreto della filosofia tedesca» (Hannah Arendt) che proprio a quella tradizione come all’intera cultura classica tedesca erede di Goethe e dell’illuminismo di Kant aveva dichiarato “guerra totale”.
Un duello filosofico che apparve ai presenti che ovviamente avevano letto il capolavoro manniano e avevano ben presente il capitolo intitolato Operationes spirituales come la trasposizione nella realtà della finzione letteraria: Cassirer e Heidegger, infatti, richiamavano, con una precisione inquietante, le sagome ideologiche di Ludovico Settembrini e di Leo Naphta. La ricostruzione dello scontro tra Cassirer e Heidegger costituisce il capitolo conclusivo di un bellissimo libro — Wolfram Eilenberger, Il tempo degli stregoni. 1919- 1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli — che ripercorre la vicenda intellettuale e biografica i cui fili si saldano attorno alla data fatale dell’anno 1929 di quattro dei maggiori filosofi e pensatori di lingua tedesca degli anni ’20 del secolo scorso: accanto a Cassirer e Heidegger gli altri due protagonisti sono Walter Benjamin e Ludwig Wittgenstein (il titolo dell’edizione italiana molto ben tradotta e curata forza quello tedesco che parla di Zauberer, di maghi. E non di Hexenmeister, termine tedesco per “stregone”).
Il lavoro di Eilenberger è un ottimo esempio di giornalismo filosofico di alto livello, un genere in Italia purtroppo sconosciuto, dinnanzi al quale forse storceranno il naso certi filosofi di professione che al pensiero preferiscono il gergo delle conventicole non capendo che libri come questo, e come quelli che in passato ci ha regalato Rüdiger Safranski, sono un vero e proprio spot a favore della filosofia. Uno dei principali meriti del libro è, infatti, proprio quello di guidare il lettore nel cuore di una discussione estremamente complessa aiutandolo a percorrere e a decifrare i passaggi, anche quelli teoreticamente più impervi, del pensiero dei quattro autori. Come in un avvincente romanzo ambientato nelle contraddizioni politiche e culturali di un’età, quella dei “ruggenti anni Venti” con particolare riferimento a quelli della Repubblica di Weimar, il libro accompagna il percorso filosofico dei quattro autori attraverso il decennio tra il 1919 e il 1929 movimentandolo con riferimenti spesso molto divertenti (e talvolta inediti) alle loro vicende personali. Ad esempio a proposito di Wittgenstein che a differenza degli altri tre visse tra Austria e Inghilterra, si ricorda non solo l’entusiastico giudizio formulato su di lui da John Maynard Keynes — in una lettera del 18 gennaio 1929: «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto» — ma anche che «benché si incontrino spesso a casa di Keynes Wittgenstein e Virgina Woolf non si parlano» giacché «è soprattutto il rapporto con le interlocutrici femminili a provocargli evidenti problemi, se non un vero e proprio disagio».
Mentre invece che per il suo influsso filosofico Piero Sraffa è l’unico «che riesca a riportare il pensiero di Wittgenstein al “piano terra” del linguaggio quotidiano».
Poi c’è Walter Benjamin, dei quattro certamente la figura più tragica, dilaniato da un insieme di tensioni spirituali, politiche e personali: «Se c’è un intellettuale la cui situazione biografica riflette in modo esemplare le tensioni dell’epoca, questo è Walter Benjamin. Benjamin è l’Uomo-Weimar. La cosa non poteva finire bene». E infatti finì malissimo: Benjamin temendo di non riuscire a sfuggire ai nazisti si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940 con una dose di morfina nella località pirenaica di Portbou. Amante del gioco e delle donne anche in mènage a trois come con Asja Lacis, eternamente alla ricerca di denaro e di riconoscimento intellettuale, genio a lungo incompreso dai suoi contemporanei ma anche eternamente incerto tra Palestina e comunismo, tra mistica ebraica e aspirazione rivoluzionaria, Benjamin si ritroverà nella sua critica a Weimar a condividere, come altri esponenti del pensiero rivoluzionario radicale, alcune delle posizioni filosofiche di quanti poi diverranno i suoi persecutori: «Entrambi aspirano tuttavia a una svolta rivoluzionaria, Benjamin come Heidegger, con tutte le risorse di cui dispongono. Pur di evadere, evadere dalla strada a senso unico della modernità! Ritornare al bivio, dove essa ha preso la direzione sbagliata. E sarebbero anche perfettamente d’accordo nell’indicare le fonti e i riferimenti che si tratta di evitare ad ogni costo: la cultura borghese, gli ordinamenti cosiddetti liberali, i principi morali da quattro soldi, l’idealismo tedesco, come quello dello spirito; la filosofia accademica; Kant, Goethe, Humboldt ecc.». Quella cultura borghese e quei valori liberali dell’umanesimo e dell’illuminismo tedesco ai quali Ernst Cassirer, invece, restò sempre fedele per tutta la vita e tentò disperatamente ma senza successo di difendere proprio contro Martin Heidegger sul ring filosofico di Davos. Un incontro-scontro tra i due “pesi massimi” della filosofia tedesca di Weimar che Eilenberger racconta (in pagine tra le più efficaci del libro) come potrebbe fare un cronista sportivo dai bordi del quadrato di un combattimento di boxe. Emmanuel Lévinas e tutti i giovani filosofi che assistettero alla disputa affascinati da Heidegger che «annunciava un mondo che stava per essere sconvolto» si schierarono contro Cassirer. Una scelta questa di cui poi si rammaricò profondamente: «Mi sono molto pentito durante gli anni hitleriani di aver preferito Heidegger lì a Davos». Difatti Heidegger sostenne filosoficamente il “rinnovamento nazionalsocialista”. E Cassirer, invece, fu costretto all’esilio.
Nelle Lezioni americane Italo Calvino sostiene che La montagna incantata di Thomas Mann rappresenta la più completa introduzione alla cultura del ’900 perché da questo romanzo «si dipartono tutti i fili che saranno svolti dai maître à penser del secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le discussioni vi sono pronunciati e passati in rassegna». Non possiamo dire la stessa cosa del confronto-dibattito filosofico tra Cassirer e Heidegger ? Non è infatti forse vero che oggi proprio come allora i difensori dei valori della tradizione liberaldemocratica appaiono costretti sulla difensiva dall’offensiva del populismo xenofobo e identitario nel segno del sovranismo nazionalista propugnato da Steve Bannon? Siamo dunque alla vigilia di un nuovo Tramonto dell’Occidente come quello annunciato nel 1918 da Oswald Spengler?
- Angelo Bolaffi - Pubblicato su Repubblica dell'8/7/2018 -
Weimar 1918-2018 - Cent’anni dopo la sindrome tedesca torna d’attualità
di Gian Enrico Rusconi
Anche la Germania festeggia il novembre 1918 - a suo modo. Ricorda la sua «rivoluzione democratica» del 9 novembre da cui è nata la prima repubblica tedesca. Questa passerà alla storia come la Germania di Weimar, dal nome della città dove viene elaborata la nuova Costituzione. Ma Weimar rimane nella memoria collettiva e nella storiografia come esperienza politica fallita: come il «fantasma di Weimar».
Nessuno poteva immaginare che anche oggi le difficoltà della situazione politica tedesca potessero rievocare quel fantasma. Dieci anni fa, in occasione del novantesimo anniversario della rivoluzione, era stato molto apprezzato un saggio intitolato Dalla democrazia improvvisata alla democrazia riuscita. «Improvvisata» era considerata la democrazia di Weimar, «riuscita» invece era quella della Bundesrepublik. Questa aveva accolto molti aspetti positivi (soprattutto di ordine sociale) della Costituzione weimariana, ma ne aveva corretti altri. Aveva ridotto drasticamente le competenze del presidente della Repubblica che a Weimar aveva di fatto portato a un regime presidenziale diventato poi (preterintenzionalmente) un regime totalitario; aveva introdotto la «sfiducia costruttiva» per evitare i pericoli della ingovernabilità; aveva imposto ai partiti la soglia di sbarramento del 5% per evitare la frammentazione partitica.
Ma l’iniziativa più importante è stata l’enunciazione di una serie di diritti fondamentali inalienabili che garantiscono l’intangibilità stessa della sostanza democratica della Costituzione. Detto in termini più espliciti: nessuna maggioranza parlamentare può modificare i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. A questo scopo è stato istituito un organo di controllo effettivo della costituzionalità delle iniziative politiche partitiche: la Difesa della Costituzione (Verfassungsschutz).
Tutto ciò mancava a Weimar. I suoi nemici godevano della libertà democratica di distruggerla - in nome del «popolo» quale era interpretato dalla destra estrema e poi dal nazionalsocialismo.
Dobbiamo preoccuparci anche oggi? Perché gli organi per la Difesa della Costituzione hanno aumentato la loro attenzione verso i comportamenti di alcuni gruppi e movimenti di estrema destra, comprese alcune sezioni regionali della Alternative für Deutschland, il partito «populista di destra» che siede in Parlamento con il 12,6% ed è presente ormai in tutti i Parlamenti dei Länder? Mette in pericolo la democrazia? Si sta creando una sindrome Weimar?
È sbagliato equiparare senz’altro il «populismo di destra» di oggi con la destra razzista e antidemocratica degli anni Trenta, con il nazionalsocialismo. Anche se non mancano frange neonaziste, saluti hitleriani nelle manifestazioni pubbliche e soprattutto atteggiamenti e linguaggi völkisch, che sono il modo tipico tedesco di essere populisti radicali. L’ Alternative für Deutschland (AfD) non è la Nsdap (il partito nazista); tra i suoi leader non ci sono Führer carismatici o aspiranti tali. I vertici politici dell’AfD non sono «negazionisti». Eppure lamentano il «culto della colpa», che sarebbe stato imposto ai tedeschi dalla sinistra e dal liberalismo di sinistra per quanto è accaduto con il nazismo. A detta del leader della AfD, invece, il nazismo è stata semplicemente una «stronzata» (sic) rispetto alla lunga gloriosa storia tedesca.
Queste parole sono soltanto espressione dell’involgarimento del linguaggio pubblico o segnalano qualcosa di più insidioso? Nelle manifestazioni pubbliche dei movimenti affini alla AfD vengono urlate espressioni che risentono del vecchio linguaggio völkisch, diventato poi nazista, con particolare insistente denuncia della «stampa bugiarda» (Lügenpresse). Il rifiuto dei migranti assume toni ossessivi. Ogni migrante è visto virtualmente come un criminale e soprattutto non integrabile. La presenza di massa di migranti (soprattutto di fede islamica) mette a repentaglio la cultura e l’integrità della popolo tedesco.
L’assoluta centralità del concetto di popolo-Volk, miticamente elevato a criterio di omogeneità etno-culturale, pretende unanimità dei consensi. Chi non è d’accordo in nome di quello che è diffamato come «astratto universalismo» o «impossibile multiculturalismo», è nemico del popolo.
«Noi siamo il popolo» è lo slogan che ha caratterizzato la «rivoluzione pacifica» del 1989 nella ex Ddr comunista. Ora viene usato contro il governo democratico e in generale contro il sistema dei partiti esistenti. Ci sono tutti i motivi perché gli organi della Difesa della Costituzione siano in allerta. Ma probabilmente all’orizzonte non c’è una fine della democrazia in stile Weimar, ma una variante non meno insidiosa per la quale è già pronto il nome, sulla base di alcune esperienze che abbiamo sotto i nostri occhi: una democrazia illiberale.
- Gian Enrico Rusconi - Pubblicato l'8 novembre 2018 sulla Stampa -
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