giovedì 15 novembre 2018

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Campeggiano sulla scena del mondo due diverse utopie, tra loro molto distanti ma entrambe in difficoltà: l’utopia della fratellanza e l’utopia dell’egoismo.

Proprio come l’Idra, il mostro mitologico le cui teste, mozzate da Ercole, avevano il potere di rinascere raddoppiandosi, il capitalismo, un tempo solo occidentale oggi planetario, ricompare sulla scena del mondo riproponendo nuove e più sofisticate forme di schiavitù. Ma se è vero che dai grandi conflitti del ’900 il capitalismo è uscito vincitore trionfando su ogni rivoluzione, è altrettanto vero che «l’uguaglianza è una necessità che si ripresenta continuamente, come la fame». Nella trama della storia qual è il posto di questo anelito, proprio delle religioni di salvezza e del comunismo moderno?

(dal risvolto di copertina di: Luciano Canfora, "La schiavitù del capitale". Il Mulino)

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“La schiavitù del capitale” di Luciano Canfora
- di  Cosimo Francesco Fiori -

L’esito del Novecento appare come il trionfo finale del capitalismo su ogni esperimento rivoluzionario che abbia provato a modificare il corso della storia. L’impressione di «fine della storia» susseguente alla caduta dell’Unione sovietica è stata esplicitata da Fukuyama fin dal titolo della sua opera più famosa. Al di là del suo impianto filosofico, ampiamente criticato, significativo è il valore ideologico-polemico di un simile concetto. Che dire, inoltre, del processo di apparente assorbimento delle alternative nell’uguale che si ripete, come nel caso delle sinistre che hanno adottato scelte politiche liberiste, quasi fosse impossibile fare altrimenti? Il capitalismo ha trionfato, e siamo in un presente senza storia?
A questa prospettiva si oppone Canfora: La schiavitù del capitale è una riflessione critica, sia pure in un’agile veste editoriale, sull’idea della definitività di tale vittoria. Che il capitalismo abbia vinto la guerra del Novecento è evidente; ma ciò ha potuto farlo modificando se stesso e i suoi avversari, e in definitiva tutto il contesto globale, aprendo la via a nuovi scenari e nuove lotte, ancorché oggi difficilmente delineabili. Il percorso argomentativo di Canfora prende le mosse da una storia a volo d’uccello del concetto di Occidente (e del suo uso polemico e ideologico), tesa a confutare l’idea che esso sia l’approdo ultimo e la realizzazione della storia (“Occidente”, secondo la sua visione encomiastica, è uguale a democrazia, libertà, diritti, etc.). L’Occidente non è un concetto geografico ma un valore, contrapposto al suo disvalore che è l’Oriente. La Grecia classica, ad esempio, era Occidente rispetto alla Persia, e la sua storiografia considera l’Oriente il dispotismo per eccellenza; ma diventò essa stessa Oriente rispetto al mondo successivo. L’Occidente è concetto non pacifico: è evidente che chi ne fa uso ne sceglie la definizione più adatta a combattere il proprio nemico. La seconda guerra mondiale è stata una guerra totale tra diverse visioni dell’Occidente, con un esito paradossale: è stata vinta da una coalizione comprendente gli Stati Uniti (“estremo Occidente”, criticato da certa pubblicistica fascista) e l’Unione Sovietica, che nel dopoguerra è tornata nel ruolo dell’Oriente nemico. Quel conflitto, con tutto il suo contorno geopolitico (influenza socialista sui paesi post-coloniali), è ormai terminato; ma anche l’Occidente ne è uscito mutato: lo sviluppo del welfare state sarebbe stato impensabile, come notava Hobsbawm, senza l’Urss.
Oggi non si dà più un conflitto semplificato in due campi contrapposti. Esistono contraddizioni, guerre, ribellioni, ma non alternative di sistema. Esistono risposte irrazionali, come i gruppi armati del cosiddetto fondamentalismo islamico, nati sul terreno dei vecchi e falliti socialismi arabi e dai controversi rapporti con l’Occidente e i suoi alleati, quali l’Arabia Saudita. Più che altro la dicotomia pare essere tra Nord e Sud del mondo, tra mondo ricco e mondo povero, col secondo presente anche nelle periferie delle nostre città.

Canfora, citando gli studi di Eugene Genovese, ritiene caratteristica decisiva della nostra epoca la sopravvivenza e addirittura la ripresa della schiavitù come «modo di produzione», imputando allo stesso Marx la sottovalutazione della «perdurante vitalità della dipendenza schiavistica ben oltre i confini cronologici del mondo antico» (p. 72). La schiavitù era considerata nel mondo antico un fenomeno naturale e necessario, ed è esistita a lungo, anche nel cuore stesso dell’estremo Occidente: gli Stati Uniti d’America. Per l’oggi, Canfora fa riferimento ai meccanismi oscuri (criminalità organizzata, riciclaggio di denaro) che ritiene siano la fisiologia del sistema. La tratta di persone è, d’altronde, una realtà risaputa. L’idea del capitalismo necessariamente mondiale, comunque, non esclude la presenza di centri e periferie; e che il profitto capitalistico occidentale sia stato accresciuto dallo sfruttamento del mondo coloniale è fatto noto. Già per Marx il capitalismo produce necessariamente, per così dire, “periferie”, intese come «esercito industriale di riserva». Va precisato che per “schiavitù” non deve intendersi un generico sfruttamento, ma l’esercizio sulla persona delle facoltà rientranti nel diritto di proprietà: l’affermazione secondo cui essa è elemento necessario e non accidentale della fase attuale del capitalismo richiederebbe una dimostrazione meno impressionistica, per quanto il taglio del saggio non sia specialistico.
La posta in gioco per Canfora – di certo in buona compagnia – è, nel mondo diviso tra Nord e Sud, ricchi e poveri, la riduzione delle disuguaglianze. Dal punto di vista di un programma politico minimo, l’imperativo della riduzione delle disuguaglianze è necessario: implica una politica redistributiva. La bontà di una proposizione politica si misura sulla sua efficacia, ma d’altro canto tale efficacia dipende essenzialmente dalla sua verità. Una propaganda fondata sulla denuncia delle disuguaglianze può avere un suo successo, ma si concentra sul “che” e non sul “perché”, anteponendo gli effetti alle cause: la correzione delle disuguaglianze “a valle” ne lascia intatte le origini, ed è quindi difficilmente possibile. Quand’anche, quale sarebbe il fine, un generico egualitarismo (da taluni scambiato per comunismo)? Ancora: l’uguaglianza è un concetto di relazione tra due termini. Uguaglianza tra chi e chi, e sotto quali aspetti? Uguaglianza dei diritti, uguaglianza delle condizioni, estensione dello status dell’uomo “borghese”? Si reclama, chiaramente, una relativa uguaglianza delle condizioni economiche (o una loro “non eccessiva” disuguaglianza: ma chi stabilisce cos’è eccessivo?). Questo ricorda molto da vicino il discrimine tra destra e sinistra descritto da Bobbio in Destra e sinistra: preferenza per la disuguaglianza o per l’uguaglianza. Ma tutto questo si compendia nella formula della giustizia, per cui casi uguali vanno trattati in modo uguale, e casi diversi in modo diverso (aspetto formale): se a e b siano uguali e in che cosa, è invece l’aspetto valutativo, storico e mutevole.
L’aspetto della retorica politica deve però essere distinto dall’analisi del problema come tale, al fine di non fare confusione. Un sintomo di confusione pare invece il richiamo che Canfora fa a Papa Bergoglio come baluardo dell’«utopia della fratellanza» (contrapposta a quella dell’«egoismo») e «capo della sinistra mondiale» (parole, queste ultime, pronunciate dallo stesso Canfora in televisione e quindi – forse – scherzose). Un conto è l’alleanza tattica con soggetti come la Chiesa cattolica, da qualche tempo critica verso lo stato delle cose; divergono però le prospettive strategiche, poiché la Chiesa è chiamata a salvare le anime (la temporanea salvazione del mondo è funzionale alla possibilità per la Chiesa stessa di svolgere la sua missione pastorale). L’anima è il vero presupposto antropologico del discorso della Chiesa, e tutte le sue azioni nel mondo del qui e dell’ora sono sempre strumentali al mondo dell’aldilà. Un discorso fondato su altre basi dovrebbe fare la sinistra. Ben venga la convergenza tattica, ma senza dimenticarsi i diversi ruoli e le diverse idee. All’epoca del nascente socialismo, la Chiesa lo condannava, insieme al liberalismo, nel Sillabo. I tempi mutano e certe idee dell’avversario (come le riflessioni ratzingeriane sull’imperio dell’«io e delle sue voglie») sono senz’altro importanti; ma avvicinarsi asintoticamente, o a volte espressamente, all’idea che il comunismo e il cristianesimo siano, in sostanza, la stessa cosa, è linea di pensiero che pare bislacca o altrimenti, con linguaggio antico, codista (poiché si dispone alla coda di Papa Bergoglio).
La critica alla disuguaglianza coincide spesso colla sua osservazione e descrizione: una volta rilevata, è ingiusta per definizione (situazioni uguali, diverso trattamento). Ciò ha evidentemente il suo presupposto nell’idea, nel valore dell’uguale dignità degli esseri umani, cioè in un diritto naturale all’eguale trattamento (retorica dei diritti umani), che pare essere il presupposto anche di Canfora. Ma un siffatto discorso non è cogente: esprime solo l’opinione di chi lo condivide. Come tutti i valori, esiste il valore contrario, che afferma la disuguaglianza naturale degli uomini e predilige un diverso trattamento (per tornare al lessico di Bobbio, questa è precisamente la destra). Che il 20% dell’umanità, poniamo, controlli l’80% delle risorse mondiali può benissimo non fare problema per chi ritenga che ciò sia dovuto ai meriti e alle capacità delle persone, o che comunque ciò sia utile a un migliore funzionamento dell’economia globale, che a cascata produce un miglioramento (magari immeritato) delle condizioni anche dei più poveri. L’esistenza di disuguaglianze per alcuni è sbagliata, mentre per altri è giusta: giudice della contesa non può che essere la storia. Questo modo di discorrere (“la disuguaglianza è sbagliata”) non costituisce nemmeno una vera critica. È un discorso esterno alla cosa, che a essa pone accanto un valore (come altri possono porne un altro), arrestandosi all’anelito borghese-filantropico: “ci vorrebbe più uguaglianza”. La critica in senso proprio non si pone sul piano dell’imperativo morale, ma dovrebbe aspirare a individuare la necessità (dunque alla scienza). La disuguaglianza è un sintomo, non una diagnosi: perché esiste? Qual è il meccanismo che la produce? Qual è la logica della cosa stessa? La disuguaglianza non è giusta o sbagliata, ma semplicemente discendente dagli attuali rapporti di forza che impongono una distribuzione del prodotto sociale fortemente piegata a favore di profitto e rendita. Ciò è pacifico poiché dovuto a una differente produttività marginale, come vuole l’economia neoclassica, oppure è foriero di disfunzioni economiche, come indicava Keynes (e, sulla sua scia, altre critiche odierne)? O non è la logica stessa del capitalismo a produrre fisiologicamente crisi e generare le condizioni per il suo superamento (Marx)? Insomma: “non è giusto” è una critica un po’ banale.

Nondimeno, Canfora ambisce a porre il discorso sul piano della necessità. Proclama, con Tocqueville, che l’uomo tende naturalmente all’uguaglianza (ma Tocqueville, per cui lo sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni era un «fatto provvidenziale», lo rilevava obtorto collo, mentre Canfora lo fa invece con piacere): «impulso primario», «primum movens del moto storico», l’uguaglianza «è una necessità che si ripresenta continuamente, come la fame» (p. 99). Vi è quindi un principio del movimento storico, che tutto mette in discussione, ma che tuttavia «non vuol dire, sempre, progresso. Ci sarà sempre chi immaginerà di conoscere il senso e la direzione di tale movimento, o addirittura immaginerà di “governarlo” e di “guidarlo”. […] Possiamo solo immaginare che anche costoro, alla lunga, non reggeranno» (p. 98). Appena prima, però, ha scritto che «la storia procede a spirale. Dà l’impressione di tornare indietro anche quando, faticosamente, procede» (p. 97). Concetto posto anche nella conclusione di un testo di diversi anni fa, dove si dice che «la retta e il cerchio [ossia la concezione cristiana e quella antica della storia] si coniugano in una mai tautologica spirale» [*1].
L’affermazione per cui la storia non è un progresso lineare è una critica mal diretta, che colpisce al più concezioni ottusamente positivistiche. Ma a Canfora preme sottolineare soprattutto che la storia è un processo sempre aperto. È la tesi del libro: la storia non è finita. Non è vero che il senso della storia sia la consacrazione dell’Occidente capitalista e liberaldemocratico; anzi, nella storia non vi è alcun telos: coloro che lo sostengono «non reggeranno». Tra coloro che non reggeranno pare, però, di dover inserire lo stesso Canfora, che si contraddice in due diversi luoghi, entrambi già citati. Il primo, dove si parla di spirale, metafora di una storia orientata (congiunzione di cerchio e retta, alla maniera in cui si congiungono cerchio e botte); il secondo, stando al quale, per dirla à la Marx, la storia è storia di lotte per l’uguaglianza. Difficilmente Canfora sfuggirebbe alla censura di Löwith contro la filosofia della storia: la sua è una storia in cui si realizza una «logica immanente». C’è un telos, nonostante si dichiari apertis verbis il contrario.
Non sembra convincente nemmeno l’idea che gli ultimi in quanto tali, coloro che patiscono una «ingiustizia lancinante», «fisicamente intollerabile» (p. 98) siano, di per sé, il motore della storia. Ma, forse, più che un’affermazione rappresenta una speranza. Lo sconfinamento nel terreno della filosofia della storia può essere, del resto, un rifugio rispetto all’attuale impossibilità di una prassi trasformatrice. Un indizio di questo atteggiamento, insieme di profonda delusione e di residua speranza, lo troviamo allorché Canfora si pone «la domanda che fa soffrire nel profondo le persone morali che hanno attraversato di scacco in scacco la politica dell’ultimo mezzo secolo: fu dunque tutto vano? […] è inutile consolazione ripetersi a fior di labbra “Eppur si muove”? Credo di no» (p. 97). La frase attribuita a Galileo (citata anche in chiusa alla Critica della retorica democratica) si abbina ai due testi presentati nell’appendice: l’ultimo discorso radiofonico di Salvador Allende nel palazzo assediato dai golpisti, e l’appello di Alexis Tsipras prima del referendum dell’estate del 2015. Vuole tutto ciò essere un monito a guardare non alle vicende immediatamente susseguenti, ma ai tempi lunghi della storia? Parrebbe un messaggio volto all’attesa, alla speranza appunto, di chi ha visto la battaglia svolgersi e finire; ma non crede all’esito, e fa appello all’«utopia della fratellanza». Un segnale, senza dubbio, dello smarrimento che regna a sinistra.

- Cosimo Francesco Fiori - Pubblicato il 16/5/2017 su Pandora Rivista di Teoria e Politica -

NOTE:

[*1] Luciano Canfora. Critica della retorica democratica, Laterza 2002, p. 112.

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