sabato 17 novembre 2018

Smettere di parlarne!

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Scritto nel novembre del 1914, In questa grande epoca è una durissima resa dei conti con la retorica patriottica e nazionalista, un assalto frontale alla mendacia del giornalismo, un j'accuse senza appello contro la viltà degli intellettuali schieratisi con il potere e, non per ultimo, un disperato mettersi a nudo dello scrittore, che espone se stesso e le proprie inestricabili contraddizioni di ebreo antisemita e fervido conservatore contrario alla guerra in nome dello stato di diritto. Kraus traccia il quadro di un'epoca chiamata «grande», che sacrifica la vita umana e lo stesso spirito agli idoli del progresso e del denaro, sostituendo la realtà con la sua rappresentazione mediatica.

(dal risvolto di copertina di: In questa grande epoca, a cura di Irene Fantappiè, Marsilio,)

Fenomenologia del filosofo-scrittore
di Alfonso Berardinelli

C’è, ci sarà mai, un posto per Karl Kraus nella letteratura, nella filosofia, nella sociologia del Novecento? Saremo mai capaci di imparare qualcosa da lui in una cultura dominata dalle specializzazioni e dalle professioni? Di che cosa era professionista Kraus?
Nato in Boemia nel 1874 in una famiglia dell’agiata borghesia ebraica, coetaneo di Rilke, Hofmannsthal e Thomas Mann, vissuto a Vienna fin dalla prima infanzia, una singolare vocazione di scrittore fece di Kraus il più famoso, odiato e amato polemista e critico sociale nella capitale dell’impero austroungarico. Un giornalista nemico del giornalismo, un borghese antiborghese, uno scrittore più che raffinato ma insofferente della raffinatezza puramente estetica, un moralista ostile al moralismo e un satirico dei linguaggi culturali in un centro della cultura europea come Vienna, nella quale la crisi della civiltà e dell’umanesimo borghesi produceva nuove forme artistiche, teoriche e filosofiche: la musica atonale di Schoenberg, la psicologia del profondo di Freud e più tardi l’analisi filosofico-linguistica di Wittgenstein (ammiratore di Kraus).
Nel 1899, a venticinque anni, dopo aver rifiutato di collaborare al più importante quotidiano viennese, la «Neue Freie Presse», Kraus decide di creare il proprio personale strumento di espressione letteraria e comunicazione pubblica, «Die Fackel» («La fiaccola»), scritta quasi interamente da lui e pubblicata a sue spese grazie al sostegno della famiglia. Figlio di un commerciante della carta, Kraus divenne con la sua rivista soprattutto un critico della carta quotidianamente stampata, del giornalismo, la forma scritta più frequentata e influente del Novecento. Così influente da fargli scrivere uno dei suoi più famosi aforismi: «In principio fu la stampa, poi comparve il mondo».
Scrivendo questo modesto articolo in lode di Kraus, devo essere consapevole di tradire Kraus partecipando alla sua “neutralizzazione” e riducendolo alla misura di un luogo comune e di una leggenda ormai ovvia. Il solo modo di evitare questo è leggere Kraus rischiando di condividere quello che scrive.
In Kraus la tradizione della satira incontra quella del sublime, dando forma a una comicità apocalittica. Il Novecento di Kraus si apre così, con la commedia che si trasforma in tragedia, perché una stupidità industrialmente iperprodotta produce piccoli orrori destinati a diventare grandi orrori. La Belle Époque partorì infatti nel 1914 la Grande guerra e la mancanza di immaginazione spalancò le porte a uno sterminio bellico inimmaginabile, o meglio colpevolmente non immaginato da coloro che lo provocarono e lo esaltarono, intellettuali e scrittori compresi.
L’estrema condensazione della scrittura di Kraus, ora lampante e ora labirintica, il fluviale virtuosismo dialettico del suo stile, la passione per la purezza e l’energia linguistica, la feroce gelosia con cui difese la propria autonomia e solitudine, mostrano che una rivista come la «Fackel» era stata inventata per difendere una verità circostanziale sempre da riformulare perché sempre a rischio. L’inconfondibile creatività polemica del linguaggio e del pensiero di Kraus rivela quanto in lui pensiero e linguaggio fossero una cosa sola. Per questo parafrasare Kraus è impossibile: è un filosofo-scrittore la cui filosofia non esisterebbe senza il suo modo di scrivere. La sua saggistica è aforistica e teatrale, gestuale e vocale, espone e coinvolge di continuo come attore la persona del suo autore.
Kraus si occupava di inezie con uno spirito profetico? Lo disse lui stesso: «Il mio rispetto per le cose irrilevanti sta assumendo proporzioni gigantesche». Veniva rimproverato per i suoi attacchi personali? E allora scrisse: «Non ho mai attaccato una persona per se stessa, neppure quando la nominavo. Se nomino qualcuno è solo perché il nome esalta l’effetto plastico della satira». Sul rapporto fra arte e borghesia: «L’idea di un’opera d’arte che nutre il filisteo mi fa orrore (...) Essere digerito dal borghese mi ripugna. Ma anche restargli sullo stomaco non mi attira. La cosa migliore è non servirgli a niente». Quanto alla letteratura, può bastare questo: «Ci sono due specie di scrittori. Quelli che lo sono e quelli che non lo sono». Questi ultimi «non hanno abbastanza carattere per non scrivere».
Ogni aspetto della vita quotidiana annunciava e rivelava per Kraus l’intero destino di una società: dalla morale sessuale alla pubblicità, dalle frasi fatte all’arte come ornamento, alla retorica del bene pubblico e della “necessità storica”. Forse il suo capolavoro saggistico è il monologo in pubblico In questa grande epoca, ora tradotto per la prima volta (con testo a fronte) da Irene Fantappiè, attualmente in Italia la più assidua e ispirata studiosa di Kraus. La sua introduzione si apre con queste parole: «La guerra si capisce solo comprendendo il modo in cui se ne parla. La guerra si evita solo smettendo di parlarne nel modo in cui al momento se ne parla». È questa la chiave delle «pagine irruenti, intricate, paradossali che Kraus legge il 19 novembre 1914 al Wiener Konzerthaus e pubblica un mese dopo sulla “Fackel” come pamphlet». Annunciano l’opera che avrebbe reso celebre Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, una irrappresentabile opera teatrale, «dramma documentario» e «allegoria apocalittica» alla cui stesura l’autore lavorò dal 1915 al 1922. Nell’ibrido genere letterario praticato da Kraus, si tratta di un testo capitale del primo Novecento, da leggere accanto e a integrazione di opere come quelle di Proust, Joyce, Kafka, Eliot, Musil... Un testo sull’autodistruzione novecentesca della civiltà europea soffocata nella stretta tra frivolezza morale e violenza della tecnica.
Kraus è stato l’originale e consapevole epigono di una grande tradizione, quella del pessimismo culturale e sociale moderno, fra critica radicale illuminista e individualismo romantico. Il suo culto ossessivo della libertà di giudizio e la sua intolleranza per la commercializzazione dell’umano hanno fatto di lui uno dei prototipi del saggismo e pamphlettismo moderni dopo Kierkegaard, Baudelaire, Léon Bloy, Oscar Wilde. «Solo Baudelaire - secondo Benjamin - ha odiato come Kraus la saturazione del buon senso e il compromesso che gli intellettuali hanno concluso con esso» per avere un ruolo. Elias Canetti, che ventenne aveva assistito entusiasta alle sue letture pubbliche, lo descrive così: «Era l’uomo più severo e più grande che vivesse a Vienna (...) La ”Fackel” era come un tribunale in cui Kraus era l’unico accusatore e l’unico giudice (...) Tutto ciò che scriveva era esatto fino all’ultima virgola (...) chi avesse voluto trovare nella “Fackel” un errore di stampa avrebbe potuto rompersi il capo per settimane».
È ancora attuale Kraus? Direi che la sua attualità è a disposizione di chi la scopre. Dall’inizio del Novecento all’inizio del Duemila sono cambiate molte cose. Ma l’incapacità di immaginare quale futuro annuncia quello che siamo e che facciamo oggi, è rimasta la stessa.

- Alfonso Berardinelli - Pubblicato sul Sole del 7/10/2018 -

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