lunedì 31 luglio 2017

Urgente!

lavoro

Sui misfatti del lavoro
- di Attila Toukkour -

«Lavoro: una delle operazioni attraverso cui A accumula beni per B» Ambrose Bierce, "Dizionario del Diavolo"

Contrariamente ad una idea diffusa ad arte dai centri di condizionamento dello spettacolo moderno, il lavoro non è una catastrofe naturale. È un male sociale, il cui falso rimedio, la disoccupazione, fa peggiorare il cattivo stato del paziente e talvolta lo finisce.
Consideriamo per prima cosa le origini del lavoro. Si sa che in tutte le lingue il termine deriva da strumenti di tortura o che è sinonimo di sofferenza, sforzo estenuante, pena ed afflizione. La Bibbia ne fa la punizione divina ed i miti universali parlano di una età dell’oro originale indenne dall’obbligo del lavoro.
È proprio ciò che hanno confermato le serie ricerche sulla preistoria condotte da Marshall Sahlins. Il cacciatore-raccoglitore, prima dell’invenzione dell’agricoltura, delle classi e dello Stato, non lavorava; si dedicava alle libere attività dell’essere umano, che consistevano nel cacciare e raccogliere, mangiare, dormire, godere e viaggiare.
Il lavoro inizia storicamente con il dominio di un uomo sul suo simile, di una classe su un’altra. Si tratta sempre di una classe improduttiva (preti e possidenti) che condanna al lavoro una classe produttrice e ne accaparra la produzione. Dominio e sfruttamento sono una sola ed unica cosa. Ciò che separa la libera attività dal massacrante lavoro consiste quindi nella accumulazione di frutti dell’attività di un individuo che si trova costretto a produrre per qualcuno estraneo alla sua produzione e che se ne appropria.  Il lavoro crea ricchezza, ma quella altrui. Sotto il segno del denaro, oggi non si lavora più per il re di Prussia, ma per il re del petrolio e quello del Texas!
Così il lavoro sanziona il passaggio della libertà originale alla schiavitù, che solo di recente ha fatto posto, per soddisfare le esigenze del commercio mondale (ormai chiamato globalizzazione), alla sua versione aggravata: il salario generalizzato. Già Nicolas Linguet, filosofo dei Lumi, vedeva nella schiavitù salariata un peggioramento dell’antica schiavitù.
Il lavoro non è solo l’insicurezza sociale; è soprattutto il supplizio quotidiano dell’uomo abbrutito dalla ripetizione di compiti insipidi e alienanti. Lavorare è una debolezza quando si può farne a meno e fare qualcosa di meglio: è quanto hanno sostenuto lungo tutta la storia le élite intellettuali che disprezzavano il lavoro. Le raffinate civiltà dell’India, della Cina e della Grecia antiche ponevano il lavoro al di sotto di tutto. Gli indigeni delle Antille preferivano, nel Rinascimento, cessare di riprodursi piuttosto che piegarsi al lavoro imposto dagli europei e ancora oggi nello Sri Lankais si mutilano più volentieri al fine di mendicare piuttosto che subire l’obbligo del lavoro.
Del resto, tutte le lingue possiedono dei detti che rimettono il lavoro al suo posto, l’ultimo: «Lavorano solo quelli che non sanno fare altro» dicono i portoghesi, mentre i russi assicurano che «lavorando si diventa più velocemente gobbi che ricchi»!
Ai  giorni nostri è la miseria generale generata dal mondo capitalista della produzione forsennata a curvare così sovranamente la schiena dello schiavo moderno sotto questo flagello laborioso. L’ozio rimane il sogno impossibile del proletario incatenato ad orari estenuanti, sventurato su cui incombe la precarietà. Il paese più «sviluppato», gli USA, ha compiuto un passo in più nell’abiezione creando una classe numerosa di working poor: la massa di coloro che devono sgobbare duro per non morire di fame senza poter sfuggire alla fame.
Infine, il lavoro è diventato la causa di tutti i mali che affliggono la società spacciata per moderna e che si trova ad essere la più degradante di tutte quelle che si sono susseguite dalla comparsa dell’uomo sulla terra. È al lavoro, ormai non solo inutile ma nocivo, che si deve l’inquinamento universale del globo terrestre ad opera dei prodotti industriali, chimici, farmaceutici, nucleari, eccetera. L’avvelenamento generalizzato dovuto al lavoro forsennato degenerato in epidemie che si credevano scomparse e le malattie da prioni sono alcuni tristi esempi. La folle logica del profitto conduce «in modo naturale» alla pazzia in massa delle mucche altrettanto funestamente che all’estinzione delle specie animali e vegetali. Sono anche le ricadute del lavorio alienato a rendere l’acqua imbevibile e l’aria irrespirabile.
In breve, non è l’ozio ad essere il padre di tutti i vizi, è il lavoro ad essere il padre di tutte le decadenze. Mens sana in corpore sano, l’antico adagio dei nostri avi che invocano uno spirito sano in un corpo sano non può concepirsi oggi senza fare appello alle virtù della pigrizia.
È l’ozio che ormai occorre riabilitare in maniera urgente, contro coloro che ci derubano del nostro tempo, contro i vampiri che ci assassinano poco alla volta nel nome del mercato e dello Stato. Bisogna considerare l’ozio come una attività creatrice, alla stregua della passione della distruzione cara a Bakunin. Per l’irrimediabile nemico di un mondo che ci conduce alla morte con la miseria del lavoro ed il lavoro della miseria, l’ozio serve nel vero senso della parola la qualità del tempo ritrovato, di un presente che mira a rivalorizzare i piaceri di una vita intensamente vissuta.
Morte al lavoro. Facciamola finita con la noia di un mondo laborioso!

- Attila Toukkour - Calcutta-Bombay, 10-13 aprile 2005 -

sabato 29 luglio 2017

Prendere le distanze

medioevo1

Il medioevo è forse il periodo più frainteso della storia. Su di esso pesano la vastità degli spazi e la lunga gittata delle periodizzazioni, come pure le difficoltà interpretative delle fonti: tutti fattori che spesso espongono al rischio di indebiti schematismi e di forzate generalizzazioni. Per questi motivi, quella che – per sottrazione – è definita «l’età di mezzo» ha bisogno più di altre di essere sottoposta a un insieme di «spiegazioni». In effetti, per addentrarsi nel medioevo, per poterne dominare i nodi cruciali, occorre saperne varcare le soglie: ed è a questa vera e propria iniziazione alle grandi questioni della storia medievale che qui ci conduce Giuseppe Sergi, uno dei nostri medievisti più rigorosi e autorevoli. Sulla scorta del richiamo al famoso saggio Soglie di Gérard Genette, in cui il critico letterario conferisce valore agli elementi ausiliari dei libri (il «paratesto»), questi magistrali saggi brevi – nati come prefazioni o postfazioni, e dunque originati dall’esigenza di introdurre il lettore in un testo o di tracciarne il bilancio conclusivo – affrontano gli interrogativi aperti da libri e convegni incontrati o promossi da Sergi nel suo lungo lavoro di ricerca, mettendo a confronto gli stereotipi delle conoscenze diffuse con i saperi consolidati della storiografia. Sono così rivisitati i grandi temi (dallo spazio europeo carolingio al rapporto tra signoria e feudalesimo, dalle strategie dinastiche ai rapporti patrimoniali, dall’alimentazione alla riforma ecclesiastica); è analizzato il contributo fondamentale dei maestri della storiografia più recente (da Tabacco a Fossier, da Capitani a Fumagalli, da Hobsbawm a Le Goff); sono studiate le grandi questioni di metodo (il rapporto tra geografia e intervento umano, la mobilità dei popoli, le strade, i pellegrinaggi, le reti monastiche); sono inseriti nei loro contesti relazionali i luoghi (in particolare le abbazie e le certose, con la corrispondenza fra istanze spirituali del monachesimo e organizzazione materiale della signoria monastica). Ne scaturisce una utilissima guida di metodo, anche per il lettore non specialista. Fuori dagli stereotipi, la storia medievale acquista dimensione e spessore, e assume i connotati di una vicenda in grado – ancora – di interloquire con il nostro presente.

(dal risvolto di copertina di: Giuseppe Sergi: Soglie del Medioevo. Le grandi questioni, i grandi maestri, Donzelli 2016)

Medioevo tra realtà e mistificazione
- di Alessandro Barile -

Da decenni quasi tutte le opere di divulgazione sulla storia del medioevo hanno come primario obiettivo quello di demistificare una serie di credenze, leggende e miti impressi nella memoria collettiva. Come afferma Giuseppe Sergi nel suo ultimo libro (Soglie del Medioevo, Donzelli 2016), “il medioevo è il periodo forse più frainteso della storia e più di altri argomenti ha bisogno di procedure di spiegazione”. Questo fraintendimento non si è generato per caso. Da una parte, la definizione stessa di medioevo rimanda a un periodo di mezzo tra l’età classica e l’età moderna, rafforzando il preconcetto negativo su di un’indistinta età di passaggio tra l’antichità e il mondo di oggi. Dall’altra, racchiudere in un’unica definizione forzata mille anni di storia ha consentito di inserire in questa abnorme periodizzazione tutto e il contrario di tutto, trattando in blocco eventi e processi storici affatto diversi, come se l’VIII secolo fosse equiparabile all’XI e questo al XIV. Il tutto, poi, letto attraverso una progressività della storia vittima dell’impostazione positivista ottocentesca, che ha contribuito a deformare la percezione che abbiamo del periodo. Infine, l’uso politico della storia medievale, anch’esso promosso da certo nazionalismo ottocentesco, ha definitivamente fatto del medioevo il luogo mitico dove recuperare origini e tradizioni in chiave legittimante. Tutto questo ha prodotto non una “memoria collettiva”, quanto quella che Sergi chiama “cultura diffusa”: “un impasto di ricordi scolastici, di permanente successo di miti del passato, di usi simbolici della storia da parte della grande informazione”. E’ un vero e proprio medioevo immaginario quello a cui rimandano i nostri ricordi, fatto di fantasie tramandate artificialmente che però non corrispondono agli eventi e ai processi storici effettivamente avvenuti. Per cogliere bene il senso di questa prospettiva falsificata della storia è imprescindibile la lettura dell’opera ormai classica di Hobsbawm e Ranger, L’invenzione della tradizione, laddove afferma con chiarezza, nell’introduzione, che le “tradizioni che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Un testo che infatti ricorre spesso nel libro di Giuseppe Sergi.
I luoghi comuni medievali sono tali e tanti che risulta impossibile farne una panoramica esauriente. Il professore torinese svela però il marcio dietro ad una serie di mitologie imperiture. L’alimentazione, ad esempio. Vulgata vuole che l’alimentazione medievale sia costituita da una dieta largamente insufficiente, tra le principali cause dell’elevata mortalità. Eppure, almeno fino al secolo XI, è proprio la carne la principale portata della tavola medievale, vista la predominanza silvo-pastorale della produzione alimentare. Una gestione che consentiva una relativa abbondanza dei prodotti del bosco, successivamente divenuti pregiati a causa delle recinzioni degli incolti boschivi e fluviali ai margini delle città.
Un’altra mitologia persistente è la ricerca delle origini alto-medievali delle identità nazionali moderne, un tentativo a dire il vero oggi meno evidente ma che ha inciso fortemente nel dibattito nazionalista tra Ottocento e Novecento. Eppure, seguendo Patrick Geary nel suo Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, scopriamo il peso (nullo) dei legami di sangue all’interno delle popolazioni medievali “barbariche” (termine da preferire a “germaniche” proprio per evitare infondati legami etnici tra le diverse popolazioni migranti dei territori mitteleuropei). In realtà, come ormai accertato dalla storiografia degli ultimi decenni, non esisteva contrapposizione tra “romani” e “germani”, quanto una compenetrazione basata su incontri tribali, accostamenti culturali, simbiosi sociali, dialettiche tra integrazione-separazione e progetti d’egemonia di circoscritti gruppi dominanti. Anche il termine “romani” è d’altronde equivoco secondo Walter Pohl, data la natura multiforme ed eterogenea delle popolazioni risiedenti sotto l’Impero, impossibile da ridursi attorno a devianti “caratteri comuni” inesistenti persino nella stessa penisola italica. Nessun legame o scontro etnico dunque è alla base della “nascita dell’Europa” dopo la dissoluzione dell’Impero romano, e soprattutto, secondo Sergi, “la corrispondenza tra i “popoli” altomedievali e i popoli contemporanei è un mito”.
Altra reductio deformante è quella del medioevo come “società feudale”, laddove al contrario il feudalesimo è un sistema di rapporti interno all’aristocrazia, e non il modello socialmente prevalente tra la popolazione. Semmai, è solo dopo il XII secolo che lo sviluppo signorile apportò profondi mutamenti nelle campagne, sfruttando il rapporto feudo-vassallatico come strumento di controllo e organizzazione del territorio. La “rifeudalizzazione”, o “seconda età feudale” secondo Marc Bloch, ha finito col descrivere tutti i rapporti sociali medievali, avallata in questo senso dalla storiografia ottocentesca. La natura “piramidale” della società medievale, incancrenita nella nostra percezione anche da certe reminiscenze scolastiche, non corrisponde alla reale stratificazione sociale presente negli anni attorno al Mille, quanto semmai intervenuta successivamente in epoca già tardo-medievale. Anche in questo caso, ad essere smentita è una certa visione necessariamente progressiva del corso della storia, che dispone gli eventi storici in una catena inequivocabilmente crescente di civilizzazione. Ne esce frantumata anche l’idea di poter trattare il medioevo in senso univoco e omogeneo: “gli anni cosiddetti medievali, una volta defeudalizzati, risultano troppi perché l’insieme del medioevo (un millennio) possa essere giudicato una categoria storica”.
Altro mito destinato a perdurare in quella che Sergi ha definito “cultura diffusa” è la presunta immobilità delle società medievali. Al contrario, il medioevo è periodo di forte mobilità – intesa sia in termini di spostamenti della popolazione – che di forte sperimentazione istituzionale: “i secoli centrali del medioevo, intorno al Mille, sono definibili come periodo di sperimentalità politica e sociale, in questo senso il più caratteristico che la storia europea abbia mai vissuto”. L’incontro “latino-barbarico”, guidato dai Franchi in epoca merovingia, integra efficacemente il modello aristocratico-militare delle popolazioni nomadi con quello delle famiglie gallo-romane normalmente più impegnato nella gestione dei grandi latifondi e delle carriere ecclesiastiche. L’arrivo dei Franchi in Italia alla fine del VIII secolo rafforzerà in questo senso un modello di governo che fonde alcuni elementi tipici delle due civiltà entrate in contatto reciprocamente, creando ex-novo una forma del potere da cui prenderanno origine le embrionali organizzazioni statuali dell’Europa tardo medievale.
Giuseppe Sergi, in questo tentativo di introduzione colta e professionale al medioevo, non si limita a decostruire un certo “abuso della storia” medievale. Interviene anche sul metodo, prendendo le distanze tanto da un certo “ritorno all’ordine” evenemenziale, tipico di certa pseudo-storia molto in voga in questi anni, quanto da certe fascinazioni culturali derivate da una scarsa comprensione del modello delle Annales, che hanno prodotto, per contrasto, un’idea di medioevo affascinante ma forse altrettanto irrealistica. Uno strumento utile per tornare ad interpretare seriamente un periodo tanto importante quanto poco conosciuto. Soprattutto in tempi come questi in cui, come direbbe il grande medievista Vito Fumagalli, la natura torna a fare paura, portandosi con sé pezzi di Italia medievale che costituiscono parte del nostro passato più prestigioso.

- Alessandro Barile - Pubblicato sul Manifesto del 7 gennaio 2017 -

venerdì 28 luglio 2017

Gli schiaffi sulle orecchie

orecchie

Wittgenstein confidava nella sua formazione, consolidata soprattutto grazie al suo orecchio ben allenato. Dopo la prima guerra mondiale, tornando dal campo di prigionia in cui era stato in Italia, decise di insegnare ai bambini in Austria, facendo a tal fine un corso per insegnanti della durata di un anno. L'esperienza, tuttavia, non andò come aveva sperato: Wittgenstein non riesce a trovare la grande illuminazione spirituale che cerca, ma ottiene solamente frustrazione a causa delle limitate capacità intellettuali dei bambini e dei loro genitori.
L'ironia sta nel fatto che, al culmine della rabbia e della frustrazione, Wittgenstein attaccava proprio le orecchie degli alunni - quel ricettacolo privilegiato che per lui era stato così fondamentale. Il professore aveva l'abitudine di dare schiaffi sulle orecchie degli alunni che non sapevano rispondere alle sue domande ("Ohrfeige" è il termine in tedesco che viene citato dal suo biografo Ray Monk), oltre al fatto di tirare loro i capelli.
Nello stesso anno in cui Wittgenstein si prepara all'insegnamento - è il 1919 - Freud pubblica il saggio "Ein Kind wird geschlagen (Beitrag zur Kenntnis der Entstehung sexueller Perversionen)", ossia "Un bambino viene picchiato (Contributo alla conoscenza dell'origine delle perversioni sessuali)".
È interessante notare che Freud sottolinei come la prima serie di scene di sculacciamenti, un insieme che riguarda qualcosa che appartiene alla prima infanzia, si riferisca proprio al contesto scolastico dei primi anni, ossia quelli in cui operava Wittgenstein. Scrive Freud:
«Alla fine si constata che le prime fantasie di questo genere sono state coltivate ben presto, precocemente, prima dell'eta scolare. A scuola, quando il bambino vede il professore picchiare altri bambini, tale esperienza suscita nuovamente delle fantasie, qualora fossero assopite; le rafforza, qualora erano già presenti, e modifica notevolmente il loro contenuto. A partire da allora, "molti bambini sono stati picchiati. L'influenza della scuola è stata talmente evidente che i pazienti in questione erano inizialmente tentati di collegare le fantasie di essere battuti solo a tali impressioni del periodo della scuola, successive ai sei anni di età. Ma non era possibile sostenere questo; esse esistevano già prima.»

La storia di Wittgenstein come insegnante primario ed i suoi episodi di violenza contro alcuni alunni viene segnalata anche da Paul Auster nel suo romanzo "Follie di Brooklin". «Mi sono trovato dinanzi ad un libro coinvolgente e molto ben scritto», dice il narratore del romanzo, e continua: «ma c'è una storia che si distingue da tutte le altre e di essa non me ne sono mai scordato. Secondo il racconto di Ray Monk - l'autore della biografia - dopo che Wittgenstein scrisse il suo Tractatus, come combattente della prima guerra mondiale, ritenne di aver risolto tutti i problemi di filosofia, e di aver finito per sempre con quel tema».
La riabilitazione di Auster avviene per mezzo dell'uso di ellissi che servono per dare un effetto drammatico alla "ricerca del perdono" di Wittgenstein che avverrà qualche anno più tardi. Ma Auster, per comporne la riscrittura, fa uso anche di elementi di altri momenti della biografia - l'idea di poter risolvere tutti i problemi della filosofia per Wittgenstein è sempre presente, ma non lo è mai come una certezza, e di sicuro non è tale certezza a fargli abbandonare la filosofia dopo la guerra (Monk parla più della disperazione e della mancanza di orientamento vissuta da parte di Wittgenstein dopo la guerra - ivi inclusa la mancanza che la guerra gli causava, dal momento che, dopo la fine della guerra, aveva usato per mesi l'uniforme).
E Auster prosegue: «Subito dopo, aveva assunto il ruolo di professore primario in un remoto villaggio sulle montagne austriache, si era rivelato incapace di insegnare. Severo, scontroso, perfino brutale, era per tutto il tempo arrabbiato con i bambini e li picchiava quando non riuscivano ad imparare le lezioni. E non si trattava di punizioni meramente rituali, erano colpi inferti sulla testa e sul viso, percosse piene d'ira che provocarono gravi lesioni in diversi alunni.»
"Incapace di insegnare", è certamente un'esagerazione. Alcuni alunni rispondevano bene al metodo "incisivo" di Wittgenstein, ed egli dedicava ore complementari di lezioni individuali a questi bambini, in particolare ad un bimbo di nome Karl Gruber. Scrive Monk:
«l'unico lato positivo nella vita di Wittgenstein nel periodo estivo del 1921 è stato il suo rapporto con uno dei suoi alunni, il figlio di una delle famiglie più povere del villaggio, di nome Karl Gruber. Gruber era un ragazzo dotato che rispondeva bene ai metodi di Wittgenstein».
E continua Auster: «Non passò molto tempo che cominciassero a circolare voci su questa sua condotta vergognosa e Wittgenstein fu costretto a rinunciare al posto. Passarono molti anni, almeno venti, se non mi inganno, ed in quel periodo il filosofo viveva a Cambridge, di nuovo alle prese con la filosofia, ed era allora un uomo famoso e rispettato. Per motivi che ora mi sfuggono,» - È la seconda volta in poche righe che la narrazione di Auster chiama in causa la sua cappacità di riferirsi in maniera precisa a quello che viene narrato da Ray Monk - «egli aveva attraversato una crisi spirituale ed aveva sofferto di un esaurimento nervoso. Quando aveva cominciato a recuperare, decise che l'unico modo per riacquistare la salute fosse quello di ritornare al passato e, in tutta umiltà, chiedere scusa a ciascuna delle persone che aveva offeso o con cui era stato ingiusto. Voleva espiare una colpa che dentro di lui stava diventanto una piaga infetta, voleva ripulirsi la coscienza e ricominciare daccapo.»
L'immagine della piaga è esagerata.
«E questa strada, ovviamente, lo condusse di nuovo al piccolo villaggio sulle montagne dell'Austria. Tutti i suoi vecchi alunni erano già adulti, uomini e donne di venti e più anni. Tuttavia, con il passare degli anni, il ricordo del professore violento non si era cancellato. Wittgenstein bussò alle porte dei suo vecchi alunni, uno ad uno, e chiese loro che lo perdonassero per l'intollerabile crudeltà di vent'anni fa. Davanti ad alcuni di essi, egli si mise letteralmente in ginocchio e implorò di essere assolto dai peccati che aveva commesso. C'è da immaginarsi che qualsiasi persona, di fronte ad una dimostrazione di pentimento così sincero avrebbe provato pietà per il pellegrino che soffriva. Ma di tutti i vecchi alunni di Wittgenstein, nessuno, uomo o donna, si dispose a perdonarlo. Il dolore che egli aveva causato era sceso molto in profondità e l'odio che provavano per il professore trascendeva ogni e qualsiasi possibilità di misericordia». (Paul Auster, Follie di Brooklyn).
Nella biografia di Monk, non si fa alcun riferimento alle ginocchia di Wittgenstein. Essa riferisce solo che Wittgenstein «aveva visitato almento quattro di quei bambini (forse di più)» e che «alcuni avevano avuto una risposta generosa»:
«Wittgenstein aveva sbalordito gli abitanti di Otterthal apparendo alla loro porta per chiedere personalmente scusa ai bambini che aveva ferito fisicamente. Aveva visitato almento quattro di quei bambini ( e forse anche di più), implorando il loro perdono per il suo cattivo comportamento nei loro confronti. Alcuni di loro avevano risposto con generosità, come ricorda George Stangel, abitante di Ottenthal.»

giovedì 27 luglio 2017

La bruma sul Partenone

hitle platone

«Non abbiamo un passato», diceva Hitler, rammaricandosi che gli archeologi SS si ostinassero in ricerche nei boschi della Germania, per poi trovarvi soltanto delle brocche orrende. Il passato della razza, quello che doveva riempire d'orgoglio i tedeschi, era da rintracciare in Grecia e a Roma. Cosa c'è di meglio di Sparta per costruire una società e un uomo nuovo? Quale miglior esempio di Roma per costruire un Impero? E quale più efficace avvertimento delle guerre che opposero la razza nordica agli assalti della Persia e di Cartagine? L'Antichità greca e romana insegnava come perpetuarsi attraverso una memoria monumentale ed eroica, quella del mito. Il Reich succedette ad Atene e Roma in questa lotta millenaria, nella quale dovette fronteggiare gli stessi nemici e pericoli. Dai canoni dell'ideologia nazista, a partire dal Mein Kampf, agli edifici di Norimberga, passando attraverso i manuali scolastici, il cinema e le arti plastiche, l'Antichità greca e romana venne riletta e riscritta per fornire al lettore, alunno, studente, spettatore e suddito del nuovo Impero, un paradigma ideologico saldamente impiantato sulle due grandi civiltà del mondo classico. Johann Chapoutot esplora il cuore del progetto totalitario nazista: annettersi non solo gli spazi fisici del mondo, ma impadronirsi, per forgiare l'uomo nuovo, anche del passato, assegnandogli una funzione di esaltazione, modello e profetico avvertimento.

(dal risvolto di copertina di: Johann Chapoutot: Il nazismo e l’antichità, traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 526, euro 34,00)

Hitler, discepolo di Platone
- di Francesco Benigno -

Nel prologo di Olympia, il lungometraggio che Leni Riefenstahl girò sui giochi olimpici di Berlino, nell’agosto 1936, una fitta bruma lentamente si dissolve e ne emergono i lineamenti di un tempio greco; poi, a seguire, le immagini di statue di marmo antico, figure di dei e di eroi. Lo sguardo scivola sulle superfici bianche e mostra come, pian piano, la pietra marmorea si animi trasformandosi in carne viva: in particolare, la figura del discobolo, copia del famoso originale in bronzo del V secolo a.C. (andato perduto) di Mirone, si trasforma nel decathleta tedesco Erwin Huber.
La regista non indugia sul discobolo per caso. Tutti sapevano quanto Hitler fosse affascinato da quella statua e infatti in quello stesso anno, superata la concorrenza del Metropolitan Museum di New York, comprò il famoso «discobolo Lancellotti», straordinaria copia romana di età antonina (II sec. d. C.) che venne esposta al pubblico alla Glyptothek di Monaco come dono del Führer al popolo tedesco. Nell’importante discorso di presentazione, Hitler sostenne che «potremo parlare di progresso solo quando raggiungeremo tale bellezza e se possibile quando l’avremo superata».
Il libro del giovane e brillante storico francese Johann Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, appena uscito da Einaudi (traduzione di Valeria Zini, pp. 526, euro 34,00) si interroga sulle ragioni profonde della fascinazione nazista per l’antichità classica: molto più significativa di una semplice predilezione estetica, essa si rivelò, com’è noto, parte del nocciolo duro dell’ideologia razzista.
L’impostazione di Chapoutot segna, tuttavia, una svolta culturale: la storiografia contemporaneistica, infatti, più che indagare l’inclinazione nazista per la civiltà classica, ha preferito rivolgersi all’attrazione culturale per il magico e il superomistico che venne alimentata da un Medioevo di maniera e dai programmi di ricerca archeologica dell’Ahnenerbe, la società scientifica creata da Himmler per indagare, tra antiche rune e resti di sacrifici celtici, le radici dell’identità ariana. Hitler, allievo dei gesuiti e accanito lettore di storia antica, rideva tuttavia della passione per gli antichi Germani dalle lunghe barbe fluenti, vestiti di pelli di animali e ricoperti dal tradizionale elmo con le corna; e non esitava a definire la germanomania di Himmler una propensione völkisch, popolareggiante, insieme kitsch e piccolo-borghese: egli «vuol farle proprio vedere queste capanne di fango e cade in ammirazione davanti a ogni coccio d’argilla e ad ogni ascia di pietra che gli capita fra i piedi. In tal modo non facciamo che proclamare a tutto il mondo che, quando la Grecia e Roma avevano ormai raggiunto un livello culturale elevatissimo noi eravamo bravi soltanto a lanciare asce di pietra o a starcene accovacciati intorno a fuochi all’aperto».
Con grande efficacia, Chapoutot mostra come queste parole fossero rese possibili da un vero e proprio programma di annessione culturale dell’antichità classica, basato sul mito dell’appartenenza etnica comune di greci, romani e tedeschi a un’unica razza ariana. Venuti dal nord, gli ariani avrebbero a più riprese portato la linfa necessaria alla civiltà classica, e se i dori avevano rivitalizzato un mondo miceneo, in origine ariano ma poi in decadenza, anche i romani – sia pure meno perfettamente – sarebbero stati rianimati dai trasferimenti delle popolazione nordiche, con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Ma era una arianità opportunamente rivisitata: infatti, mentre la tesi classica, originata dalla scoperta del sanscrito e dei legami linguistici con le lingue europee, allocava sulle rive del fiume Indo l’originaria formazione della civiltà detta appunto indo-germanica, il nazismo, riprendendo alcune tesi nazionaliste tardo-ottocentesche, aveva elaborato la teoria di una comune derivazione ariana di tutte le grandi civiltà: discendenti come rami di uno stesso tronco razziale, cresciuto nel nord europeo e poi propagatosi a sud, sulle rive del Mediterraneo.

Mentre tutta la illustre tradizione culturale tedesca fondata da Humboldt e da Friedrich Schlegel aveva sostenuto che la culla della civilizzazione era in oriente, ora il nazismo proponeva l’idea di una razza superiore che aveva la sua Urheimat, o patria originaria, nell’Europa del Nord, tra la Germania settentrionale e la Scandinavia, le stesse terre dove si voleva fosse situata la perduta Atlantide o la mitica Ultima Thule.
Il decisivo apporto ariano, contributo prometeico all’umanità, non si sarebbe dunque compiuto mediante il classico tragitto da oriente ad occidente – quello stesso percorso che Hegel aveva assegnato al Weltgeist, lo spirito del mondo – ma secondo un movimento da nord a sud: non ex oriente lux bensì ex septentrione lux. L’invenzione nel 1936 della cerimonia dei 3400 tedofori che in dodici giorni portarono a staffetta la fiamma olimpica dalle rovine dell’antica città greca al villaggio tedesco frontaliero di Hellendorf, e poi a Berlino, acquista così il suo vero senso.

La fiamma della civiltà (in Grecia si usava, partendo per una nuova colonizzazione, portare con sé la vampa del focolare) ripercorreva ora a ritroso il sentiero dell’emigrazione ariana fino a toccare finalmente la sua originaria sorgente settentrionale.
Lo scenario ideologico in cui tutto ciò si svolgeva era dominato dalla lotta millenaria delle razze, una costruzione mitica cui l’accademia tedesca, rapidamente arresasi alle pressioni politico-ideologiche del regime, fu chiamata a dare legittimazione, convertendo la narrazione favolistica in discorso pseudo-scientifico: a questa trasmutazione ignobile concorrevano – oltre alla storia – la biologia e, sia pure con qualche resistenza in più, la filologia e le scienze dell’antichità. Il tradizionale filo-ellenismo della cultura tedesca veniva così reinterpretato in chiave razziale attraverso un gioco di polarizzazioni e di schiacciamenti spazio-temporali: da una parte Platone, il filosofo elitario teorizzatore di una repubblica oligarchica di filosofi soldati e di produttori e dall’altro Socrate riletto come «socialdemocratico internazionalista»; da una parte Cristo, profeta dell’arianesimo e dall’altra l’ebreo Paolo, «commissario» bolscevico del Cristianesimo, sabotatore dell’impero romano in nome dell’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio; su un versante Sparta, modello dello stato razziale e eugenetico, sull’altro Atene, portatrice dell’infezione democratica; di qui l’Europa fulcro della grande civiltà della Herrenrasse, la razza superiore, e di là l’Asia barbara, focolaio della confusione delle razze, del crogiuolo ellenistico, del mescolamento etnico, della degenerazione.
La visione del regime, espressa in testi scientifici, manifesti propagandistici e manuali scolastici, delinea un cosmo nettamente diviso: da un lato il mondo chiaro apollineo e nordico della «magnifica bionda bestia avida di preda e di vittoria», dall’altra l’oscuro e sfrenato universo dionisiaco da cui nasce il complotto giudeo-cristiano. Passato e presente si fondono confondendosi, e la storia svela la sua fondamentale funzione performativa: le guerre puniche combattute da Roma contro la cripto-semitica Cartagine si reincarnano nelle guerre del III Reich e l’accanita difesa della VI armata del generale Paulus nella battaglia di Stalingrado è assimilata all’eroica resistenza di Leonida alle Termopili, in un gioco di specchi senza fine in cui Hitler è Scipione o Augusto e Stalin Annibale o Serse.
Solo prendendo sul serio questa visione metastorica è possibile spiegare l’atteggiamento di Hitler e della classe dirigente nazista nell’ultima fase della guerra, quando il regime si lanciò prima nella strategia della terra bruciata, poi in una sorta di cupio dissolvi, tramandataci da un altro importante storico, Joachim Fest, come pulsione nichilista.
Già in articolo apparso nel 2007 sulla «Revue Historique» e intitolato «Comme meurt un empire», e ora in questo suo ultimo libro, Chapoutot offre una spiegazione più convincente: Hitler credeva di ritrovarsi protagonista di una lotta millenaria che avrebbe proposto, ciclicamente, sempre gli stessi protagonisti: così, se non era possibile sterminare il proprio nemico biologico, bisognava almeno escludere ogni marcia indietro, ogni ritirata, e acconciarsi a morire come si deve, lasciando ai posteri la testimonianza di rovine altrettanto grandi e foriere di insegnamenti come lo erano state quelle greche e romane.

Il rovinismo è un programma escatologico, equivale al rendersi immortali attraverso la propria morte. Se la Germania, nuova Roma, non poteva trionfare doveva bruciare, come la città di Nerone, perché la storia dello scontro tra le razze sarebbe – secondo l’ideologia nazista non ancora dovunque tacitata – continuata ancora, mossa da un eterno ritorno.

- Francesco Benigno - Pubblicato su Alias del 4 giugno 2017 -

mercoledì 26 luglio 2017

Blues

traverso

Enzo Traverso, il principio malinconia
- di Massimo Palma -

"How I hate Blue Monday
Got to work like a slave all day"
( Fats Domino, Blue Monday )

È una finzione troppo semplice, e forse un’illusione segretamente di destra, quella che dipinge l’azione, qualsiasi azione, come un impeto senza pensiero, e il lavoro, che non è la stessa cosa dell’azione, ma ne è ripetizione coatta o creativa, come una mera astrazione aliena da intrichi mentali, intrecci affettivi, percezioni riflesse. Sin dai primi vagiti espressivi degli sfruttati, è parte integrante della cultura bassa, proletaria, pensare il lavoro, la ripetizione del lavoro, come fratta tra necessità operativa e strazio melanconico. Né fa eccezione quella specie particolare di lavoro che è l’azione politica militante (anche entusiasta, emancipatoria, vittoriosa). Quando il militante si fa artista, quando si racconta, magari per interposta persona, quando si consegna alla riflessione, la sua narrazione appare disseminata di tracce meditabonde, di sfumature saturnine, di messa a punto, volontà di memoria maturata già nell’agire, già nel suo farsi. Se nel lavoro la prassi è strutturata dalla memoria di azioni passate, la rivoluzione reca tracce robuste di malinconia. Di per sé, ogni lavoro che ricomincia reca un lutto: la tetra sensazione del lunedì mattina operaio – dover lavorare, sapere di essere uno schiavo – è il blues di chi fa, la colonna sonora di ogni pratica sotto scacco.

A sinistra, la malinconia è al lavoro da sempre. Da quando, 170 anni fa, si è organizzato un pensiero militante prima accanto e dopo l’emergere delle lotte di classe. Eppure «malinconia di sinistra» è una formula che sin dal suo primo apparire è stata polemica, diretta con acrimonia verso una sedicente cultura di sinistra. Occorre dirlo subito, per non parlarne più: nel libro di Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Walter Benjamin è centrale, ma la sua icastica formula, che dà il titolo al libro, è consapevolmente riusata in tutt’altro contesto. L’astioso, polemicissimo scritto del 1930, dal titolo Malinconia di sinistra appunto, era un furente attacco a certa satira linksradikal, in cui intellettuali come Tucholsky, Mehring e il bistrattatissimo Erich Kästner venivano attaccati frontalmente come simboli di uno scollamento tra élite intellettuale e classi oppresse, come autori pronti a farsi non produttori, ma articoli di consumo, organici più alla piccola-borghesia dei rampanti e degli individualisti che al proletariato di cui si dichiaravano alfieri. «Questo radicalismo di sinistra è esattamente l’atteggiamento cui non corrisponde azione politica alcuna. Sta a sinistra non di questo o quell’indirizzo, ma semplicemente a sinistra del possibile in generale». Malinconia di sinistra, quindi, era la formula di Banjamin che disvelava la frode di quest’inazione rivestita da astio e dileggio di successo.

Nel libro di Traverso il fenomeno indagato è esattamente l’opposto: è quel peculiare composto, quell’affezione dialettica della storia dei movimenti di liberazione (comunisti, antifascisti, femministi, anticolonialisti) che ha che fare col nesso tra sentimenti contrastanti, l’impeto all’azione e lo strascico di lutto, le piccole morti della sconfitta (dal ’48 alla Comune alla guerra civile spagnola al Sessantotto al Settantasette al peso ottuso dell’ultimo Ottantanove). È la celebrazione dell’azione passata, ed è il problema stesso della celebrazione nel momento in cui tale azione (rivoluzione, rivolta, insurrezione, guerra civile) è ormai sconfitta, repressa, infine rimossa. «I ricordi non sono soltanto malinconici, ma non c’è neppure malinconia senza rammemorazione, senza un rapporto con il passato. Bisogna interrogare lo statuto della memoria nella cultura di sinistra». Il problema malinconico all’interno della sinistra è il problema della sconfitta, dell’elaborazione del lutto, delle sue mancanze e dei suoi feticci: è il problema, in altre parole, del farsi storia della parte proscritta (la sinisteritas), del farsi storia dell’escluso che si conferma escluso – del suo divenire cultura senza per questo abbandonare la dialettica della strada, della lotta, la materia dei sentimenti.

Attraverso un apparato iconografico persuasivo e meduseo nell’umettare un libro per nulla asciutto, nell’arco di un’intenzione storiografica intrisa di passione politica (e ben vengano, in caso, le accuse sulla base della solita malintesa Wertfreiheit), Traverso seleziona autori, luoghi e immagini che di questa elaborazione hanno fatto un percorso di vita e di arte. Li prende dall’intellettualità militante (Benjamin, Bensaïd), dal cinema politico (da Ejzenštejn a Pontecorvo, da Loach ad Angelopoulos, fino al decisivo esempio di Le fond de l’air est rouge di Chris Marker), dalla letteratura, per consegnare al lettore un montaggio sofferto di momenti estetici in cui la tradizione di sinistra si è fatta consapevole tradizione di sconfitte, «struttura del sentire», fotografia di quel «rapporto simbiotico tra rivoluzione e morte» costruito in modo tale da aprirsi comunque alla speranza (rivoluzionaria, emancipatoria). Il risultato è una coappartenenza di malinconia e azione di rottura, oltre ogni «autocensura» che imponga di non raccontare le pause e le ombre del discorso d’azione, per non infondere scoramento ( ne pas désesperer Billancourt).

Inevitabilmente l’oggi, l’oggi dell’infinita esposizione di «innumerevoli surrogati offerti dalla mercificazione universale del capitalismo neoliberista», si palesa diverso dalla tradizione di sconfitte del marxismo. Inevitabilmente il libro parte dal problema del 1989, che la malinconia «non l’ha creata, l’ha soltanto disvelata». Né malattia né habit, questa malinconia è sempre esistita, «nascosta» anche sotto le vesti tronfie che la rivoluzione, quando ha trionfato, ha spesso preso, dimenticando il suo «futuro passato». Eppure, se nel glabro «paesaggio di lutto», annebbiato dal malinteso «dovere di ricordare» istituzionale, «il retaggio delle lotte di liberazione è diventato quasi invisibile e ha assunto una forma spettrale», di converso, mentre larve e spettri popolano gli incubi di chi pure c’era, il 1989 è parso insinuare, nell’attivista che medita sulla sua azione, lo stigma freudiano del piacere masochista d’essere sconfitto, il trarre «godimento dal proprio dolore»: ha dilatato all’estremo la risonanza di quel morettiano voler esser minoranza che contraddice la sostanza stessa della sinistra. Ma il confronto con lo spegnersi del sogno di un telos, di una fine comprensiva di un fine, è stato anche lo spezzarsi di quel legame di «tradizione» che ha segnato le generazioni per un secolo e mezzo: il recare l’una all’altra testimonianza di lotte compiute; magari perdute, ma mai inutili.

Per Traverso, sull’onda lunga del Benjamin estremo, è la stessa prassi malinconica, meglio studiata, a rivolgere il nostro sguardo su una diversa possibilità: la politicizzazione della malinconia, «dove aggrapparsi agli oggetti del passato rende possibile l’interesse e l’azione nel mondo presente». Destituito di fine, alieno dalle «fatali illusioni della teleologia» (ma, verrebbe da osservare, comunque inevitabilmente teleologico, pena un’animalizzazione della malinconia stessa), l’agire politico impregnato di interesse per la storia si trova di fronte a un bivio. Feticizzare il passato, o montarlo, costruire i «frammenti di esperienza» attraverso immagini che rechino il significato di un’epoca. Non qualsiasi immagine, ma immagini complesse di folla rappresentata come «corpo vivente». Il principio-malinconia – storia e arte qui collassano, tecniche simili nel montaggio orientato – sta nel ripartire dagli sconfitti di oggi, delineando come fine, nell’eco ripetitiva del blues quotidiano, le cesure possibili di quella costante storica chiamata oppressione.

- Massimo Palma - Pubblicato su Alfabeta2 il 24/3/2017 -

martedì 25 luglio 2017

Un sistema di ascolto

The Wittgenstein family in Vienna, summer 1917. From left, siblings Kurt, Paul, and Hermine Wittgenstein; their brother-in-law, Max Salzer; their mother, Leopoldine Wittgenstein; Helene Wittgenstein Salzer; and Ludwig Wittgenstein.

Wittgenstein legge in Spengler, fra la fine degli anni 1920 e l'inizo degli anni 1930, cose che aveva già letto a proposito di Karl Kraus a partire dal 1899, quando aveva fondato la rivista Die Fackel. Canetti è un altro dei personaggi importanti in questo sistema di ascolto intorno a Karl Kraus. Canetti non si limita solamente a rendere omaggio a Kraus, con il titolo di uno dei volumi della propria autobiobrafia (sarebbe troppo semplice, anche per qualcuno così cosciente del proprio genio come lo è Canetti!). L'omaggio è sia a Kraus che a sé stesso. Un omaggio alla propria capacità di ascolto.
La percezione di una "degenarazione" culturale da parte di Wittgenstein, tuttavia, proviene da un collegamento fra Kraus e Spengler e coinvolge anche, come è avvenuto con Canetti, un'attività di ascolto (sono i compositori i grandi nomi del passato, Beethoven, Schubert e Chopin). In questo passaggio specifico Wittgenstein non è molto diretto nell'affermare che ciò che si è perduto nella cultura è soprattutto una capacità di ascolto e di attenzione - ma in'una serie di altri passaggi della biografia scritta da Ray Monk, Wittgenstein dà credito all'ascolto, alla formazione dell'ascolto per quello che esso è:
«la casa che ho costruito per Gretl è il prodotto di un orecchio decisamente sensibile e di buone maniere, ed è espressione di grande comprensione (di una cultura, ecc.).» (Ludwig Wittgenstein: The Duty of Genius, p. 240).
Wittgenstein si riferisce alla casa che aveva progettato insieme a Paul Engelmann per la sorella - lui si era fatto carico della progettazione di porte e finestre, e di radiatori e maniglie (il progetto aveva avuto inizio nel 1925, e la casa era stata completata nel 1928). In qualche modo, quello che Wittgenstein sembra indicare - non solo in questo passaggio, ma in molti altri passaggi dove commenta le sue potenzialità e le sue attività in quanto individuo - è che questo suo «orecchio sensibile» è ciò che costituisce la base di ogni sua attività, dalla matematica al giardinaggio, e che si ripercuote nella sua profonda comprensione della cultura europea (cosa che gli permette di vedere la relazione fra "l'etica" e "l'etichetta", ossia la "piccola etica").

lunedì 24 luglio 2017

Il ruggito del topo

Sarà invertendo l'austerità che si metterà fine alla depressione?
- di Michael Roberts -

Sono state le politiche della cosiddetta austerità la causa della Grande Recessione?. Se non ci fosse stata nessuna austerità non ne sarebbe conseguita alcuna depressione o stagnazione per quel che riguarda le principali economie capitaliste? Se è così, ciò significa che le politiche dei governi "austeri" sono state solo follia, del tutto basata sull'ideologia e sul cattive scelte economiche?
Per i keynesiani, la risposta a tutte queste domande è "sì". E sono i keynesiani quelli che dominano il pensiero della sinistra e del movimento operaio come alternativa alle politiche pro-capitaliste. Se i keynesiani hanno ragione, allora la Grande Recessione e la conseguente Lunga Depressione avrebbero potuto essere evitate con un sufficiente "stimolo fiscale" all'economia capitalista per mezzo di una maggiore spesa pubblica in direzione di un deficit di bilancio (vale a dire, facendo a meno di equilibrare la spesa governativa e non preoccupandosi della crescita dei livelli del debito).

È certamente questa la conclusione di un altro articolo del centro-sinistra britannico, The Guardian. L'autore, Phil McDuff, sostiene che mantenere bassi i salari e tagliare la spesa pubblica, com'è stato fatto dai governi degli Stati Uniti e del Regno Unito, fra gli altri, è stata un'idea di "economia zombie" che è stata «continuamente screditata ma che continua a farsi strada camminando con andatura ondeggiante e barcollante nel nostro discorso pubblico.» L'austerità è stata assurda economicamente e l'articolo snocciola una lista di importanti keynesiani (Simon Wren-Lewis, Paul Krugman, Joseph Stigltiz, John Quiggin) i quali sostengono che l'austerità economica era sbagliata (cattiva economia) ed era davvero soltanto ideologia. Al contrario, i keynesiani ritengono che «il governo farebbe un servizio a tutti aumentando il deficit e dando ai risparmiatori frustrati la possibilità di far lavorare il loro denaro... il disavanzo della spesa che espande l'economia è, semmai, qualcosa che potrebbe portare al materializzarsi di più alti investimenti privati» (Paul Krugman).
Ma è vero che l'economia di austerità sia solo assurda e ideologica? Davvero lo stimolo fiscale di tipo keynesiano avrebbe evitato la Lunga Depressione che è stata sperimentata dalla maggior parte delle economie capitaliste a partire dal 2009?
Sicuramente, l'ideologia è coinvolta. La spesa pubblica della maggior parte delle economie capitaliste non viene spesa per andare incontro ai bisogni delle persone attraverso l'assistenza sanitaria, l'istruzione e le pensioni. Molto di essa viene dedicata alle esigenze delle grandi imprese: spesa per la difesa e la sicurezza; sovvenzioni e crediti alle imprese; riduzione delle tasse sulle società (mentre aumentano le tasse dirette sulle famiglie); costruzione di strade ed altri sussidi. Così quando "l'austerità" diventa necessaria, i tagli nella spesa pubblica sono rivolti ai servizi pubblici (ed ai posti di lavoro), ai benefici sociali ecc. - per il settore capitalista, tutti questi sono costi "inutili". E di certo, mantenere piccolo il settore statale e ridurre gli interventi governativi al mimino è l'ideologia del capitale. Ma anche tutto ciò ha una logica economica.
È un'ideologia che ha senso dal punto di vista del capitale. L'analisi keynesiana nega o ignora la natura di classe dell'economia capitalista e la legge del valore sotto la quale essa agisce creando profitto dallo sfruttamento del lavoro. Se la spesa pubblica va in trasferimenti sociali e welfare, ciò taglierà i profitti in quanto si tratta di un costo del settore capitalista e non aggiunge valore all'economia. Se va in servizi pubblici come istruzione e sanità (capitale umano), può aiutare a far crescere la produttività del lavoro nel tempo, ma non aiuta la redditività. Se va in investimenti pubblici in infrastrutture, questo può aumentare la redditività per quei settori capitalisti che ottengono i contratti, ma se vengono pagati per mezzo di tasse più alte sui profitti, non si dà alcun guadagno complessivo. Se vengono finanziati mediante prestiti, la redditività verrà ristretta a causa di un crescente costo del capitale e di un più alto debito.
È stata l'austerità la causa della Grande Recessione? Ovviamente no. Precedentemente al crack finanziario globale avvenuto nel 2008 ed al successivo crollo economico mondiale, i salari ed il consumo delle famiglie erano in crescita, non in caduta. E in molti paesi la crescita della spesa pubblica era andata accelerando fino al 2007. Come ho mostrato in molte occasioni su questo blog, è stato l'investimento commerciale quello che è crollato.

consumi investimenti

Per essere onesti, i keynesiani non hanno mai veramente sostenuto che la Grande Recessione fosse un prodotto delle politiche di austerità. Questo perché l'economia keynesiana non è mai venuta fuori con una previsione precedente o con una spiegazione successiva per la la Grande Recessione. Come ha scritto Krugman nel suo libro "End the Depression Now!" nel 2012, non c'era alcun motivo per provare ad analizzare perché era avvenuto il crollo, se non dire che «stiamo soffrendo di una grava mancanza di domanda complessiva» - perciò il crollo della domanda era a causa del crollo della domanda... Per Krugman non c'era niente di veramente sbagliato nel «motore economico» capitalista «che è potente come non mai. Invece noi stiamo parlando di quello che è fondamentalmente un problema tecnico, un problema di organizzazione e di coordinamento - un "casino colossale" come lo aveva descritto Keynes. Risolvi questo problema tecnico e l'economia tornerà viva ed a ruggire». Se il problema è un "pensiero incasinato" e la mancanza di domanda, create più domanda.
Questo ci porta al punto cruciale delle argomentazioni keynesiane sulla "austerità". Se le economie soffrono per una mancanza di domanda, allora tagliare la spesa pubblica ed equilibrare il bilancio del governo quando i capitalisti non stanno investendo e le famiglie non possono spendere è follia. Anche se la Grande Recessione non può essere spiegata dall'economia keynesiana, questa può spiegare la Lunga Depressione che ha seguito - essa è stata causata dall'austerità.
Ora c'è chiaramente qualcosa nella discussione per cui, quando la produzione capitalista e l'investimento hanno collassato, aumentando la disoccupazione e riducendo i redditi dei consumatori, allora tagliare la spesa pubblica renderà le cose peggiori. E c'è un crescente numero di prove empiriche secondo cui le politiche di austerità in varie (ma non in tutte le più importanti) economie hanno peggiorato le cose. Ad esempio, un giornale mostra che se i paesi che non avessero fatto esperienza dello "shock dell'austerità", la produzione complessiva nell'EU10 sarebbe stata più o meno uguale al loro livello pre-crisi, anziché mostrare una perdita del 3%. Per le economie depresse e più deboli dell'eurozona di Irlanda, Grecia, Portogallo, ecc., anziché sperimentare un riduzione della produzione vicina al 18% al di sotto del trend, la perdita di produzione sarebbe stata limitata all'1%.
L'economista keynesiano inglese Simon Wren-Lewis ha recentemente sostenuto che la Grande Recessione, combinata alle politiche fiscali di austerità negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha avuto un effetto permanente sulla produzione. «Un lungo periodo di carenza di domanda può scoraggiare i lavoratori. Può anche trattenere gli investimento: un nuovo progetto può essere redditizio ma se non c'è domanda non verrà finanziato... L'idea di base è che durante una recessione l'innovazione è meno redditizia, così le imprese innovano meno, cosa che porta ad una minor crescita nella produttività e quindi della domanda». Ciò è quello che l'economia ufficiale chiama Isteresi [Nota da Wiki: "L'isteresi è un fenomeno per cui il valore assunto da una grandezza dipendente da altre è determinato, oltre che dai valori istantanei di queste ultime, anche dai valori che avevano assunto in precedenza"].
Ma è proprio questa mancanza di domanda che ha influenzato la crescita della produttività durante la Lunga Depressione in quanto risultato dell'austerità, o si è trattato solamente del fallimento del settore capitalista nell'essere in grado di ripristinare redditività ed investimento? Il modo consueto per cercare di rispondere alla domanda è quello di guardare all'effetto moltiplicatore in economia; vale a dire la probabile ascesa o la probabile caduta nella crescita economia ottenuta a partire da un'ascesa o una caduta del fiscal spending? Il problema sta nel fatto che la grandezza di questo moltiplicatore è stata largamente contestata. Ad esempio, la commissione europea ritiene che il moltiplicatore keynesiano nel periodo successivo alla Grande Recessione si trova ben al di sotto di 1. Il costo medio di produzione dovuto ad un aggiustamento fiscale corrispondente all'1% del PIL corrisponde allo 0,5% del PIL di tutta l'Europa nel suo complesso, in linea con la dimensione dei moltiplicatori assunti prima della crisi, nonostante il fatto che circa i tre quarti degli episodi di consolidamento si sono verificati dopo il 2009. Perciò non sono decisivi per riuscire a spiegare il proseguire della Lunga Depressione dopo il 2009.
Così Wren-Lewis ha cercato di allontanarsi dall'argomento del moltiplicatore. Wren-Lewis definisce l'austerità come «tutto l'insieme dell'impatto negativo globale sulla produzione che può avere un consolidamento fiscale. Come risultato, è proprio la misura dell'austerità ad essere la misura di tale impatto. Perciò non è il livello della spesa pubblica o della tassazione quel che conta, ma come esse cambiano.» Questa sembra essere una definizione ragionevole ed un metro per giudicare.
Guardando all'economia statunitense, Wren-Lewis si basa sul "Hutchins Center Fiscal Impact Model", il quale pretende di mostrare l'impatto della politica fiscale del governo sulla crescita reale del PIL. Wren-Lewis ammette che una tale misurazione è difficile, ma perlomeno il modello confronta le variazioni della crescita al netto della spesa pubblica. Esso mostra rispetto a questo, dal 2011 al 2015, che c'è stato un passaggio all'austerità, e si deduce che ciò spiega perché l'economia statunitense abbia avuto una simile crescita lenta, ed abbia "recuperato" dopo la fine della Grande Recessione. Se non fosse stata rispettata l'austerità, l'economia degli Stati Uniti avrebbe avuto un pieno recupero a partire dal 2013.

hutchins-model

Beh, la prima cosa che mi colpisce in questo grafico è che, secondo l'Hutchins Center, l'austerità fiscale negli Stati Uniti è finita nel 2015. Ma nella crescita reale del PIl, a partire da allora, non c'è stata nessuna ripresa. In effetti, la crescita reale del PIL nel 2016, all'1,6%, è stata quella con il tasso annuo più basso dalla fine della Grande Recessione. Ma forse, Wren-Lewis sta sostenendo che è l'Isteresi quella che ora sta operando per mantenere costantemente bassi la produttività e la crescita della produzione. Ma anche se fosse così, lo stimolo fiscale probabilmente ha poco effetto nel far girare le economie capitaliste a partire da questo.
Inoltre, ci sono un bel po' di prove del fatto che lo stimolo fiscale avrà scarso effetto sulla fine della depressione. Come Wren-Lewis, anch'io ho confrontato le variazioni nel rapporto fra la spesa pubblica ed il PIL contro il tasso medio della crescita reale del PIL per i paesi dell'OCSE a partire dal 2009. Ho trovato che c'era una correlazione positiva assai debole, e nessuna correlazione se veniva rimosso il problema Grecia.

growth-and-austerity

Un altro caso che viene studiato è quello del Giappone a partire dal 1998. Ho confrontato il disavanzo medio di bilancio con il PIL per il Giappone, per gli Stati Uniti e per l'area Euro rispetto alla crescita del PIL reale a partire dal 1998. Il 1998 è l'anno in cui la maggior parte degli economisti sostengono che quello era il momento in cui le autorità giapponesi hanno rotto con le politiche keynesiane di spesa pubblica al fine di ristabilire la crescita economica. La cosa ha funzionato?
Fra il 1998 ed il 2007, il disavanzo medio del bilancio del Giappone era del 6,1% del PIL, mentre la crescita reale del PIL era appena l'1%. Nello stesso periodo, il disavanzo medio degli Stati Uniti era solo del 2% del PIL, meno che un terzo di quello del Giappone, ma la crescita reale del PIL era del 3% l'anno, ovvero tre volte più veloce di quella del Giappone. Nell'area Euro, il disavanzo di bilancio era ancora più basso, all'1% del PIL, ma la crescita reale del PIL continuava ad essere al 2,3% l'anno, vale a dire più di due volte quella del Giappone. Quindi il moltiplicatore keynesiano non sembrava fare il suo lavoro in Giappone per un periodo di tempo lungo dieci anni. Inoltre, nel periodo del boom del credito, del 2002-2007, la crescita media del PIL reale giapponese è stata la più bassa anche se il suo deficit di bilancio era molto più alto di quello degli Stati Uniti o dell'Eurozona.
Ora, soprattutto per quanto riguarda questo post, ho confrontato la crescita della spesa pubblica (così come viene definita da Wren-Lewis, intesa come consumi dello Stato più investimenti, escluse le cessioni) con la crescita reale del PIL nelle maggiori economie. Dal 2010 al 2016, la crescita media del PIL reale in Germania, Regno Unito e negli Stati Uniti era virtualmente lo stesso, a circa il 2% l'anno, ma la crescita della spesa pubblica variava in maniera considerevole, dal 3,4% l'anno nella ("non-austera") Germania fino all'1,4% l'anno negli austeri Stati Uniti. Il Regno Unito applicava altrettanto austerità della Francia, ma cresceva più velocemente. Ora, è vero che sia l'Italia che la Spagna tagliavano la spesa pubblica in quel periodo e che soffrivano anche di una crescita inesistente, ma azzarderei sostenere che questo è dovuto più al fallimento dell'integrazione fiscale dell'Eurozona. I principali paesi dell'Eurozona si erano rifiutati di aiutare le "regioni" capitaliste più deboli dell'area Euro.

spend-and-gdp

Ancora più convincente è il lavoro svolto da Jose Tapia nel confrontare la spesa pubblica del governo degli Stati Uniti a partire dal 1929 con gli investimenti delle imprese e la crescita dei profitti. La sua sofisticata analisi della regressione non ha rilevato alcuna connessione causale o correlazione fra la spesa pubblica e l'investimento privato ed i profitti. Infatti, Tapia ha trovato che «la prospettiva keynesiana secondo la quale la spesa pubblica possa pompare l'economia stimolando investimenti è inconsistente anche a partire dalla constatazione che l'effetto del ritardo della spesa pubblica sugli investimenti privati è indubbiamente nullo o addirittura negativo in maniera significativa per quanto riguarda gli ultimi decenni.»
Quindi, nel migliore dei casi, non è ancora chiaro se lo stimolo di tipo keynesiano avrebbe portato le economie capitaliste fuori da questa depressione. Nel peggiore dei casi, potrebbe ritardare il recupero di un'economia capitalista.
In un'economia dominata dal capitalismo è molto più convincente un conducente che pilota investimenti e crescita, vale a dire la redditività del capitale, qualcosa che viene del tutto ignorata dalla teoria keynesiana. In passato, ho mostrato che la crescita del PIL reale è fortemente correlata ai cambiamenti nella redditività del capitale (il moltiplicatore marxista, se vogliamo). In trent'anni su cinquanta, ed in particolare nell'attuale periodo successivo alla Grande Depressione, il moltiplicatore marxista è stato considerevolmente maggiore del moltiplicatore keynesiano della spesa pubblica. E negli altri vent'anni, il moltiplicatore keynesiano è stato solo leggermente più elevato e non è mai riuscito ad andare oltre "1". Ci sono perciò state più dimostrazioni del fatto che il moltiplicatore marxista è più rilevante, ai fini della ripresa economica sotto il capitalismo, di quanto lo sia il moltiplicatore keynesiano.

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Infatti, è la bassa crescita della produttività in questa Lunga Depressione ad essere causata da una permanente mancanza di domanda, o Isteresi, o ad abbassare la redditività? Il recente rapporto annuale della "Bank for International Settlements" (agenzia di ricerca per le banche centrali globali) ha rilevato che la crescita della produttività è crollata a causa di «una persistente erronea allocazione di capitale e lavoro, come rispecchiato dalla crescente quota di imprese non redditizie. Infatti, la quota delle imprese zombie - i cui interessi passivi eccedono i guadagni al lordo delle imposte e degli oneri finanziari - si è incrementata in maniera significativa nonostante gli insolitamente bassi tassi di interesse».

bis

Gli economisti della BIS ("Bank for International Settlements") provengono dalla scuola australiana che dà la colpa della crisi del credito al «credito eccessivo» e alla «libera politica monetaria delle banche centrali"». Ma riconoscono, dal punto di vista del capitale, che la redditività è un fattore che sta dietro investimenti, innovazioni e crescita, più di quanto non stia la "mancanza di domanda".
Le politiche di austerità hanno una motivazione ideologica: indebolire lo Stato e ridurre la sua "interferenza" con il capitale. Ma la base economica dell'austerità non è la folle o la cattiva economia, dal punto di vista del capitale. Essa mira a ridurre i costi dei servizi pubblici, i tassi di interesse e le imposte sulle imprese, al fine di aumentare la redditività. La prospettiva keynesiana ignora il movimento della redditività in quanto causa delle crisi. E dal momento che si basano sulla "domanda" in quanto misura della salute di un'economia capitalista, le politiche di stimolo fiscale non riescono a risolvere il "problema tecnico" di far sì che l'economia "torni viva e a ruggire".

- Michael Roberts - Pubblicato il 13 luglio 2017 su Michael Roberts Blog, blogging from a marxist economist -
 

fonte: Michael Robert Blog

domenica 23 luglio 2017

Una torcia nell’orecchio

Torcia

All'inizio degli anni 1930, influenzato dalle idee di Spengler circa il "declino della civiltà", Wittgenstein scrive in una lettera che un giorno, passeggiando per Cambridge, gli era capitato di vedere una sorta di diagramma di questo declino: passando davanti alla vetrina di una libreria, vide le immagini di Freud, Einstein e Russell; poco più avanti, nella vetrina di un negozio di musica, vide i ritratti di Beethoven, Schubert e Chopin:
«Stavo camminando per Cambridge ed ho superato una libreria e nella vetrina c'erano le immagini di Russell. Freud ed Einstein. Un po' più avanti, in un negozio di musica, ho visto ritratti di Beethoven, Schubert e Chopin. Mettendo a confronto questi ritratti ho avvertito intensamente la terribile degenerazione che aveva colpito lo spirto umano nel corso di solo un centinaio di anni...» (Ludwig Wittgenstein: The Duty of Genius, p. 299).
In Spengler, per Wittgenstein, non c'è niente di nuovo, dal momento che già prima della prima guerra mondiale egli già sentiva con angoscia questa "degenerazione" culturale, il cui principale portavoce, molto tempo prima di Spengler, era stato Karl Kraus ("Die Fackel", la rivista di Kraus, in cui egli faceva tutto, è stato l'avvenimento culturale viennese per eccellenza).
Elias Canetti scrive a lungo su come la sua mente si è trasformata sotto l'influenza di Kraus - il titolo di uno dei volumi dell'autobiografia di Canetti vuole essere un commento a proposito di una tale presenza: "Die Fackel im Ohr" ["La torcia nell'orecchio". In italiano, "Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi] , che copre il periodo che va da 1921 al 1931, usa il titolo della rivista di Kraus, evidenziando il ruolo della sua penetrazione nelle orecchie del giovane ascoltatore Canetti.
«La Fackel era come un tribunale, in cui Karl Kraus era l'unico accusatore e l'unico giudice. Di avvocati difensori non ce n'erano, del resto non servivano, Kraus era talmente giusto che non accusava mai nessuno che non lo meritasse. [...] lui da solo era un intero teatro, anzi era meglio, e questo prodigio universale, questo gigante, questo genio portava il comunissimo nome di Karl Kraus.» (Elias Canetti, ""Il frutto del fuoco")

Elias Canetti, in "Party sotto le bombe", la sua autobiografia nella parte in cui registra gli "anni inglesi", scrive ad un certo punto:
«Riandando col pensiero all'Inghilterra, mi vengono sempre in mente le persone con le quali, in quel paese, ho condotto per anni conversazioni insulse in ogni dettaglio. E non sono state poche: all'epoca la mia esistenza era costituita per lo più da trattenimenti del genere. Per molti diventai una sorta di droga alla quale non riuscivano a resistere, ma io non ero meno drogato di loro, sempre disposto a lasciarmi coinvolgere in quelle conversazioni che duravano ore e ore.
Ascoltavo a lungo e concentrato al massimo, in questo ero quanto mai corretto, ma prestar ascolto a tutto ciò che gli uomini volevano dire di sé non era solo correttezza, era anche vera passione. Così facendo, però, mi sono comportato vita natural durante come quella categoria di individui che detesto dal più profondo del cuore: gli analisti. [...] Io invece sono sempre stato più un "ascoltatore" che un analista, e ho avuto modo di sentire una quantità tale di racconti che, se me li ricordassi ancora tutti, potrei riempire centinaia di volumi.
» (Elias Canetti - Un Party sotto le bombe - Adelphi).

Canetti, un drogato dell'ascolto. Si tratta di una procedura molto utilizzata da Canetti in tutta la sua opera: distogliere l'attenzione del lettore - sia nei suoi romanzi, sia nei saggi e negli scritti autobiografici - dalla sua persona, Canetti, e difendere la tesi secondo cui la sua posizione privilegiata è un mero caso, un incidente. Nella prima pagina del suo libro, "Wittgenstein's Vienna Revisited" [in italiano, "La grande Vienna", Garzanti], Allan Janik scrive che nel ricevere il premio Nobel, Canetti sottolinea che accettava tale onore in nome di altri quattro scrittori che non lo hanno ricevuto:  Karl Kraus, Franz Kafka, Robert Musil e Hermann Broch (il discorso integrale di Canetti si trova sul sito del Nobel [ http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1981/canetti-speech.html ].

La frase di Elias Canetti su Karl Kraus:
«Ogni parola, ogni sillaba contenuta nella Fackel era scritta di suo pugno. La Fackel era come un tribunale, in cui Karl Kraus era l'unico accusatore e l'unico giudice. Di avvocati difensori non ce n'erano, del resto non servivano, Kraus era talmente giusto che non accusava mai nessuno che non lo meritasse.» (Elias Canetti - "Il frutto del fuoco" - Adelphi)

Tutta l'idea del processo appare qui interessante, e porta ad una sovrapposizione di Kraus con Kafka (anche lui lettore e ammiratore di Kraus - fra l'altro, di Kafka, "Giuseppina la cantante - ossia Il popolo dei topi" è un racconto su Kraus e gli ebrei.
[ “Tra tutti i topi Josephine è l’unica a cantare e, quando lo fa, ogni animale si ferma ad ascoltare. In realtà Josephine, convinta di cantare, semplicemente fischia, come tutti gli altri topi, anzi, forse persino peggio, ma solo lei, forse perché matta o arrogante, folle o geniale, si separa dalla miseria, consacrando tutta se stessa al suo flebile canto indisponente. Il suo allora diventa un fischio che scioglie le catene del quotidiano e consente al popolo dei topi un’esperienza liberata dalla fatica del sudore del pane e della sopravvivenza. Non importa che sia una topolina arrogante, faccia le scene, crei persino pericoli per i suoi simili… Arte o natura? Caducità o eternità? Piattezza o elevazione? “o non piuttosto che il popolo, nella sua saggezza, abbia collocato il canto di Josephine così in alto proprio perchè in tal modo non potesse andar perduto?” F.Kafka]
Lui stesso era l'accusatore, e lui stesso era il giudice è una frase che potrebbe definire anche la relazione di Kafka con sé stesso, con la differenza che per Kafka lui era anche l'accusato. Questo si riflette nel consegnarsi e nella rinuncia finale del protagonista de Il Processo, ma anche nella fine autoimposta da Kafka nella sua relazione con Felice, così come lo stesso Canetti sottolinea nel suo libro "L'altro processo":
«Alla fine Kafka rivela a Felice un segreto nel quale in quel momento egli stesso ancora non crede, ma che, ciò nonostante, un giorno verrà confermato: non avrà cura di lei. In questo modo, si uccide per lei, e attraverso una specie di suicidio, si sottrae a lei nel futuro» (Elias Canetti, L'altro processo. Le lettere di Kafka a Felice).
L'ultima parte della citazione di Canetti non porta in altre direzioni, ma è anche relazionata con Kafka: Non aveva un avvocato difensore, ciò era superfluo, dal momento che nessuno era accusato senza che lo meritasse. In "Quel che resta di Auschwitz", nelle prime pagine, Giorgio Agamben parla di Kafka con l'obiettivo di arrivare alla testimonianza per una via traversa: «Nel 1983, l’editore Einaudi chiese a Levi di tradurre "Il processo" di Kafka. [...] Di rado si è notato che questo libro, in cui la legge si presenta unicamente nella forma del processo, contiene un’intuizione profonda sulla natura del diritto, che non è tanto qui, - secondo l’opinione comune - norma, quanto giudizio, e, quindi, processo. Ma se l’essenza della legge - di ogni legge - è il processo, se tutto il diritto (e la morale che ne è contaminata) sono soltanto diritto (e morale) processuali, allora esecuzione e trasgressione, innocenza e colpevolezza, obbedienza e disobbedienza si confondono e perdono importanza. [...] Il giudizio è in se stesso il fine e questo - è stato detto - costituisce il suo mistero, il mistero del processo.»
Non è solo ne Il Processo che Kafka riflette su questo - poiché la finalità del processo è quella di generare il processo. Vale a dire, ad esempio, ne "La Tana", racconto in cui essere coinvolto nella "costruzione della tana", per quanto possa indicare finalità parallele (esercizio fisico, approvvigionamento di cibo), significa che si viene coinvolti nella costruzione solo con il fine di realizzare la costruzione.
Alla fine, Agamben salva Salvatore Satta ("Il mistero del processo"), e sono le parole di Satta quelle che riecheggiano nelle parole di Canetti su Karl Kraus: «questo significa anche che "la sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario", che "ciascuno è intimamente innocente", ma che l’unico vero innocente "non è colui che viene assolto, bensì colui che passa nella vita senza giudizio"» (Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz).

sabato 22 luglio 2017

Lezioni

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Pubblicate per la prima volta, queste lezioni sulla storia della teoria politica si collocano in una fase decisiva per lo sviluppo del pensiero di Hannah Arendt. Dopo oltre un decennio vissuto da apolide, la studiosa ha finalmente ottenuto la cittadinanza statunitense nel 1951 e, sempre nello stesso anno, ha dato alle stampe il suo primo lavoro di rilievo internazionale: Le origini del totalitarismo.
Come teorica della politica, Arendt analizza in queste pagine il pensiero di autori che hanno avuto grande influenza sulla disciplina (Marx, Kant, Rousseau, Machiavelli, Locke), allo scopo di gettare le basi per un’etica della responsabilità che restituisca all’individuo il diritto/dovere di contrastare il conformismo di un pensiero egemone e di recuperare il ruolo della coscienza e della capacità di giudizio, indispensabili per riconciliare pensiero e azione, etica e politica. Un inedito prezioso per l’approfondimento di temi legati a problematiche di scottante attualità, come la pluralità, l’esercizio attivo della cittadinanza, la partecipazione responsabile alla vita sociale per la difesa sia dell’identità personale sia dei valori dell’inclusione e dell’integrazione.

(dal risvolto di copertina di: Hannah Arendt: Per un’etica della responsabilità, Mimesis)

La materia pulsante della teoria politica
- di Francesca Romana Recchia Luciana -

Le lezioni che Hannah Arendt è chiamata a svolgere come visiting professor presso il Berkeley College dell’Università della California nel semestre primaverile del 1955, sono una miniera preziosa per chiunque voglia approfondire quel nesso tra esercizio del pensiero e filosofia politica che rende l’analisi arendtiana un prezioso scandaglio dello spazio politico contemporaneo e delle forme che in esso assumono le teorie dell’azione sociale e politica. Ora pubblicate con il titolo Per un’etica della responsabilità. Lezioni di teoria politica (Mimesis, pp. 150, euro 14), come giustamente rileva la curatrice del volume, Maria Teresa Pansera, parte rilevante del significato e del loro valore è connesso specificatamente alla loro collocazione temporale, poiché esse si situano esattamente a metà strada tra Le origini del totalitarismo (1951) e Vita activa (1958), gettando un fascio di luce sia sulla fase di riflessione seguita al primo volume che su quella di gestazione del secondo. Alla teorica della politica interessa, attraverso queste lezioni, non soltanto dare conto del ruolo che la riflessione filosofica e concettuale riveste nell’elaborazione e nello sviluppo del pensiero politico moderno, ma soprattutto evidenziarne gli elementi ancora decisivi per comprenderne il ruolo nel contesto contemporaneo e dunque per pensare una fenomenologia politologica e critica dell’attualità.
Arendt è animata da un interesse storico-ermeneutico potentissimo riguardo ai fenomeni politici e alle loro degenerazioni e già nella sua meticolosa disamina del totalitarismo il suo approccio «sagittale» al recente passato (la «freccia scagliata al cuore del presente» di Foucault), all’evento totalitario e alle forme del suo accadere, rivela quanto poco l’appassioni l’intento fenomenologico-descrittivo rispetto all’urgenza ermeneutico-critica che la induce a intraprendere una riflessione filosofica intorno ai regimi che hanno condotto ad Auschwitz e a Kolyma. La diagnosi del tempo storico appena trascorso va delineandosi in queste lezioni come un’«ontologia del totalitarismo» nel senso in cui Foucault contrappone le due grandi tradizioni critiche fondate da Kant, quella epistemologica dell’«analitica della verità» a quella ermeneutica di «un’ontologia del presente», poiché il totalitarismo viene qui assunto come evento storico e filosofico che evidenzia la disintegrazione dei rapporti tradizionali tra vita e potere, tra esistenza e politica, nonché come potenzialità attualizzata di modificazione irreversibile e distruzione del mondo reale.
In questi appunti per le sue lezioni di teoria politica Arendt ingaggia un corpo a corpo con la tradizione del pensiero politico classico che la porta a confrontarsi con quelli che chiama «gli autori» per distinguerli dai «commentatori», poiché l’autorialità di Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Locke, Montesquieu, Rousseau, Kant, Tocqueville, Marx consiste nell’aver «contribuito alla definizione del mondo in cui viviamo», avendolo arricchito attraverso le proprie parole, rispondendo «puntualmente alle nuove e decisive esperienze» del tempo in cui hanno vissuto, poiché «gli autori sono auctores, che aggiungono qualcosa al mondo». Così più che alle relazioni e alle influenze reciproche tra autori, ingredienti di una storia delle idee o «dello spirito», le interessa come ognuno di essi ha interpretato e cosa ha pensato della Storia, qui intesa come «conditio sine qua non per la scienza politica», nell’atto stesso di confrontarsi con il mondo reale nel quale si è trovato a vivere e a partire dal quale ha elaborato la propria visione. Arendt stessa, in tal senso, si situa a pieno titolo all’interno della schiera degli autori e dei creatori di teoria politica perché tanta parte della sua vita è stata dedicata alla comprensione del più imponente e distruttivo fenomeno del proprio tempo storico, il totalitarismo come humus del male estremo che ha indelebilmente segnato il Novecento.
Ecco allora che se la Storia viene intesa come materia viva e cuore pulsante dell’elaborazione teorica di ogni concezione politica («lo scrittore politico ama il mondo per il mondo, il mondo umano»), è pur vero che per Arendt la teoria politica si posiziona proprio al crocevia «tra la storia e la filosofia», poiché «le sue esperienze sono tutte storiche, ma la sua terminologia è quella che a suo tempo fu coniata dalla filosofia». Pertanto è possibile ricostruire il vocabolario (e di conseguenza la grammatica) delle dottrine politiche che hanno fornito gli strumenti interpretativi della storia e del suo farsi associando autori a concetti. Ciascuno di essi ha introdotto almeno una parola chiave che corrisponde alla categoria usata in prevalenza per comprendere il proprio tempo, contribuendo così attivamente alla costruzione del mondo che descrive («il vero autore [accresce] il vero mondo … egli è parte integrante della storia»). Machiavelli, per esempio, colui che fonda l’autonomia della sfera politica, osservando Firenze, prima città-stato dell’età moderna, introduce il concetto di Stato e il tema della «fondazione del corpo politico» poiché estende la categoria sino all’Italia come Stato-nazione; Hobbes ha invece a cuore «non il potere ma i processi di potere, il ‘potere dopo il potere’»; Spinoza, poi, difende la libertà filosofica e, come Locke, concepisce la proprietà come «l’incontro tra il lavoro umano e le cose» istituendo un legame tra produzione e proprietà.
Fondamentale è inoltre il confronto tra Hobbes e Rousseau intorno al tema cruciale del contratto sociale; mentre a Montesquieu preme comprendere «i principi e le condizioni su cui si fonda» l’azione umana che «muove il corpo politico» modellando le diverse forme di governo; per Rousseau invece conta soprattutto la dimensione sociale della natura umana al punto che se la principale facoltà dei viventi è la volontà, la loro costituzione antropologica è politica. Kant poi pone con forza la tematica dell’agire come il nesso «tra legge e libertà»; chi agisce è un legislatore che appartiene ad un «corpo politico»; Tocqueville, invece, insisterà sull’uguaglianza, ma bisognerà attendere Marx perché essa venga concepita come «una nuova gerarchia delle attività umane». Se con Hegel poi la teoria politica si tradurrà in «nuova filosofia della storia», sarà proprio Marx invece a concepire la centralità del concetto di «lavoro» e a elaborare la categoria antropologica di animal laborans.
Il confronto teorico ed epistemologico con ciascun autore rilevante della tradizione della scienza politica occidentale è in queste lezioni approfondito, preciso e puntuale, e infatti troviamo qui in nuce molte delle questioni (spazio pubblico e sfera privata, il lavoro, l’opera, l’azione, la disfatta dell’homo faber e la vittoria dell’animal laborans) che impegneranno Arendt in Vita activa, il testo in cui l’interrogazione sulla condizione umana nell’età presente si fa più radicale. In questi appunti cerca appigli e punti di sostegno concettuali che sorreggano il suo sforzo di sintetizzare svolte, rotture ed evoluzioni della storia del pensiero filosofico-politico affinché quel passato restituisca senso al mondo contemporaneo, al suo presente storico, orizzonte di processi politici traumatici e senza precedenti.
È il «filo spezzato della tradizione» il sottotesto che Arendt legge in filigrana a questa rassegna di temi e figure delle teorie politico-filosofiche della modernità, giacché se ogni visione teoretico-politica implica de facto un cambiamento di paradigma, una modificazione profonda della prospettiva da cui la storia viene osservata, e conseguentemente delle categorie che occorrono per leggerla, la rottura definitiva con la tradizione avviene quando la tanatopolitica del totalitarismo sterminazionista, ribaltando la massima della «sacralità della vita» sintetizzata nel principio religioso, legale e morale «non uccidere», consente e ordina l’esatto contrario: «uccidi».
Non per caso è dedicata a Kant, alla sua visione della dignità umana come nucleo propulsore della ragion pratica, l’ultima lezione di questa preziosa raccolta, poiché sappiamo che Arendt tornerà, dopo il processo Eichmann, proprio alla Terza critica kantiana per reperire nella sua teoria del giudizio, nella sua concezione del senso comune come luogo della socievolezza e della comunicazione tra umani, le risposte al dilemma morale circa la «responsabilità personale sotto la dittatura». E sino alla fine della sua ricerca saranno proprio Kant e Socrate (a testimonianza che spesso l’ontologia del presente cammina sulle stampelle del passato) ad accompagnarla nella messa a punto di uno dei concetti-chiave della sua teoria politica, quello che individua nell’attività del pensiero (la «dualità del due-in-uno», «il dialogo di sé con se stesso») l’unico antidoto alla cieca violenza del potere assoluto che Hannah Arendt aveva visto dispiegarsi nei totalitarismi novecenteschi sino alla sua massima capacità di annientamento. Cosa che fa di lei non solo una filosofa o una teorica della politica, ma un’autrice che, proprio come quelli da lei elencati, ha arricchito il mondo con i propri concetti e le proprie parole.

- Francesca Romana Recchia Luciana - Pubblicato sul Manifesto del 13-5-2017 -

venerdì 21 luglio 2017

Strategie

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Giorgio Agamben: la democrazia è un concetto ambiguo
Intervista al Red Notebook e alle"Gemme dell’Alba"
- 4 marzo 2014 -

 
Il filosofo Giorgio Agamben era ad Atene invitato dai giovani di SYRIZA e dall’istituto Nikos Pulantzas. Il suo intervento, nell’aula gremita di Technopoli, dal titolo Una teoria sul potere della spoliazione e del sovvertimento, è stato dedicato al compimento dei quarant’anni dalla rivolta del Politecnico. Domenica 17 novembre, dopo il corteo del Politecnico, l’hanno incontrato e hanno conversato con lui Anastasia Giamali, per l’Alba, e Dimosthenis Papadatos-Anagnostopulos per RedNotebook. Il testo che segue è la conversazione completa, mentre  sul loro blog troverete una versione accorciata.
Ha cominciato il suo intervento ad Atene dicendo che la società nella quale viviamo non è semplicemente non democratica, ma, in ultima analisi, non politica, dal momento che lo status di cittadino non è più se non una categoria del diritto. È però conseguibile il cambiamento politico nella direzione di una società politica?

Agamben: Quel che volevo evidenziare è l’aspetto del tutto nuovo della situazione. Credo che, per capire ciò che ci siamo abituati a chiamare “situazione politica”, dobbiamo tenere a mente il fatto che la società nella quale viviamo forse non è più una società politica. Un fatto simile ci obbliga a cambiare completamente la nostra semantica. Ho provato allora a mostrare come, nell’Atene del quinto secolo a.C., la democrazia inizi con una politicizzazione dello status di cittadino. L’essere cittadino ad Atene è un modo attivo di vita. Oggi, in molti paesi d’Europa, come anche negli USA, dove la gente non va a votare, l’essere cittadino è qualcosa di indifferente. Forse in Grecia questo vale in misura minore; per quanto ne so, qui esiste ancora qualcosa che somiglia a una vita politica. Il potere oggi tende a una depoliticizzazione dello status di cittadino. La cosa interessante in una situazione talmente depoliticizzata è la possibilità di un nuovo approccio alla politica. Non si può stare attaccati alle vecchie categorie del pensiero politico. Bisogna rischiare, proporre categorie nuove. Così, se alla fine si verificherà un cambiamento politico, forse sarà più radicale di prima.

Domanda: Seguendo Foucault, lei ha detto che la “logica” del potere contemporaneo non consiste nel fronteggiare le crisi, ma nel gestirne le conseguenze. Nel suo libro La comunità che viene sostiene che le cose non cambiano, e che, se qualcosa cambia, sono i suoi termini. Se questo è valido, è allora inevitabile la formazione di una forza politica che voglia affrontare le cause dei problemi (i problemi “alla radice”) in questa logica? E, al contrario: un tentativo di “cambiamento dei termini” può mai ispirare anche una mobilitazione, se nel frattempo non aspira a cambiare le cose?

Agamben: Ritengo questo punto, che i nuovi governi o almeno i governi contemporanei non vogliano governare affrontando le cause ma solo le conseguenze, estremamente significativo. Perché questo è totalmente diverso dalla concezione tradizionale che abbiamo del potere – in linea con la concezione di Foucault di stato sovrano. Se la logica del potere è controllare solo conseguenze e non le cause, c’è una bella differenza.
Quello che volevo intendere con l’idea di "cambiamento dei termini" è che abbiamo un potere che semplicemente gestisce conseguenze. Questo è stato per me molto chiaro nel caso del poliziotto di Genova [che uccise Carlo Giuliani nel 2001], che disse quella cosa incredibile, che la polizia non gestisce l’ordine, ma i disordini. Questa è la situazione in cui viviamo. Non solo in politica interna, ma anche estera, per esempio gli USA: crea zone di disordine, così da gestirle e guidarle in una direzione favorevole. La domanda è: che cosa facciamo fronteggiando una situazione simile?
In base a quanto abbiamo visto succedere in Italia, i partiti della sinistra sono stati intrappolati in questa logica di gestione delle conseguenze. È più semplice e più redditizio. Ma è davvero ineluttabile? Forse no. Costituisce, però, un altro indizio che la semantica politica deve cambiare. Dobbiamo affrontare qualcosa che non è né causa né conseguenza. Dobbiamo trovare qualcosa di terzo come corretto luogo della politica. Quello che tento di fare non è semplicemente ricorrere alla tradizione della sinistra. Non perché si tratti di qualcosa di superato, ma perché ritengo che sia necessario un grande cambiamento semantico, altrimenti perderemo. È impossibile sconfiggere un potere se non se ne comprende la logica.

Domanda: In un suo articolo pubblicato il mese scorso su Libération, lei ricordava un saggio di Alexandre Kojève del 1947, dal titolo L’impero latino, dove il filosofo francese propone la costituzione di un “impero” di Francia, Italia e Spagna, paesi dal comune substrato culturale che, in collaborazione con i paesi del Mediterraneo, avrebbero potuto contrastare una Germania in predicato di tornare grande. Lei ritiene che un simile progetto sia un possibile contrappeso all’egemonia di Angela Merkel. Eppure, sembra che i leader di quei paesi siano più interessati alla realizzazione del “dogma Merkel” nella propria politica interna che alle ripercussioni di quel dogma in un’Europa sempre più frammentata.

Agamben: Ho scritto quell’articolo perché volevo ricordare che l’Europa che abbiamo oggi è, quantomeno da un punto di vista istituzionale, non legittimata. Come sapete, la Costituzione Europea non è una Costituzione, ma un accordo tra stati – cioè il contrario di un Costituzione, poiché le Costituzioni le fanno i popoli. Perciò ho fatto ricorso a questa idea di Kojève: è possibile un altro modello per l’Europa? Quel modello è interessante perché si basa non su una unità astratta, ma su una unità molto concreta, basata sulla tradizione, lo stile di vita, la religione. In qualche modo, costituisce forse una possibilità concreta. Naturalmente, la Grecia dovrebbe far parte di questo gruppo.
Sono rimasto sorpreso dalle reazioni che l’articolo ha suscitato. Quando l’ho scritto, era più che altro una provocazione per cominciare una critica all’Europa. Ma in Germania ha avuto inizio un enorme dibattito. Erano molto infastiditi. E ancora mi scrivono, chiedendomi di spiegare cosa intendessi. Il che significa che anche un tedesco vede che c’è un errore nell’Europa oggi, anche nella sua ottica di tedesco. Questo dimostra che il modello di Europa che abbiamo oggi non è accettato. Lo testimonia il fatto che il popolo francese e quello olandese hanno detto no alla costituzione europea – e immagino che anche in Grecia verrà bocciata.

Domanda: Parliamo di una mancanza di legittimazione della struttura dell’Europa, cioè di un enorme difetto di democrazia in Europa. Nello stesso momento, sembra che le prossime elezioni europee vedranno uscire rafforzata l’estrema destra. Perché la “risposta” più popolare a un’Europa antidemocratica coincide con il sostegno dei più “autentici” nemici della democrazia?

Agamben: Penso che l’estrema destra non sia il vero nemico. È rianimata da una situazione contingente, è rianimata dai governi europei. Non so se ricordate di qualche anno fa: il partito di Marine Le Pen si era rafforzato molto. Tutti i socialisti votarono per il candidato gollista, temendo, allora, Le Pen padre. Fu un grande errore – perché in questo modo [il FN] ebbe una piena legittimazione. Naturalmente l’estrema destra esiste, è una realtà. Ma non è il nemico principale. Il nemico principale è il sistema bancario. In Italia è stata giocata la carta degli opposti estremismi. Così hanno distrutto la sinistra: utilizzando e, probabilmente, foraggiando l’estrema destra in modo da costruire il giochetto degli opposti estremismi. Quindi, non credo che la sinistra dovrebbe occuparsi dell’estrema destra.

Domanda: Sembra però che l’estrema destra abbia convinto un importante settore della società come la reale resistenza alla mancanza di democrazia.

Agamben: Di fatto, anche la Le Pen gioca lo stesso gioco. La nostra strategia dovrà essere dimostrare come il successo dell’estrema destra giovi al governo.

Domanda: La sua opera è particolarmente popolare, sebbene irradi un certo pessimismo. Žižek, per esempio, scrive a proposito di Homo sacer che lei, con il suo sostenere che la sfera della “nuda vita” – di una vita spogliata da prerogative e diritti – tende a essere la sfera della politica, intende sottovalutare la democrazia, lo stato di diritto ecc., come se li ritenesse “artifizi” del potere contemporaneo, come se percepisse come autentica essenza di questo potere i campi di concentramento del xx secolo. È fondata questa critica?

Agamben: Non sono pessimista, esattamente il contrario. L’ottimismo e il pessimismo, d’altronde, non costituiscono categorie filosofiche. Non puoi giudicare un pensiero o una teoria sulla base del suo ottimismo o pessimismo. A volte il mio amico Guy Debord citava un brano di Marx che dice: “La situazione catastrofica delle società in cui vivo mi riempie di ottimismo”. Ciò che tento di fare nel mio libro su Auschwitz, il campo di concentramento, la contemporaneità, non è un giudizio storico. Tento di delineare un paradigma, al fine di capire le politica ai giorni nostri. Non intendo dire dunque che viviamo in un campo di sterminio – molti dicono “Agamben dice che viviamo in un campo di concentramento”. No. Ma se prendi il campo di concentramento come paradigma per capire il potere oggi, questo può essere utile.

Domanda: Negli anni della crisi viene quasi naturale rievocare il primo dopoguerra, la repubblica di Weimar. Per tutta la sua vita lei ha dialogato, o come scrittore o come traduttore, con un’importante personalità di questo periodo, Walter Benjamin. Che cos’ha da dirci Benjamin oggi?

Agamben: L’edizione dell’opera di Benjamin in Italia ha significato un rinnovamento del pensiero di sinistra. Ciò che trovo interessante in Benjamin è il modo in cui prende la semantica teologica – come per esempio il concetto di tempo messianico e l’escatologia della concezione – e la estrae dal contesto teologico, facendola funzionare con la sfera politica. Da un punto di vista metodologico, questo è molto importante. Per produrre una nuova semantica politica, dobbiamo imparare da Benjamin. Nel mio libro Il regno e la gloria ho mostrato come la teologia cristiana ha rielaborato questo paradigma. È stato incredibile per me scoprire – lavorando e tornando alla ricerca – che per capire che cos’è il governo è più importante studiare trattati medievali sugli angeli che saggi di dottrina politica. È stato davvero illuminante. Lo stesso accade per Benjamin. Ha una buona idea sul tempo messianico – ogni attimo della storia, nel presente, è l’attimo decisivo, l’Ora del Giudizio: affrontiamo la storia come se ogni attimo fosse quello decisivo.

Domanda: La domanda sulla vera democrazia ha mobilitato milioni di uomini, dalla Primavera araba agli Indignati d’Europa, fino a Occupy in America. Nel suo libro La comunità che viene, tuttavia, lei scrive che la democrazia è un concetto troppo generico per costituire un vero terreno di confronto.

Agamben: Direi che la democrazia non è tanto un concetto generico, quanto ambiguo. Noi affrontiamo questo concetto come se fosse la stessa cosa nell’Atene del quinto secolo e nelle democrazie contemporanee. Come se fosse dappertutto e sempre chiarissimo di che cosa si tratta. La democrazia è un’idea incerta, perché significa in primo luogo la costituzione di un corpo politico, ma significa anche e semplicemente la tecnologia dell’amministrazione – ciò che abbiamo oggi. Oggi la democrazia è una tecnica del potere, una tra le altre.
Non intendo dire che la democrazia è cattiva. Facciamo allora questa distinzione, tra democrazia reale come costituzione del corpo politico e democrazia come mera tecnica di amministrazione che si regge sui sondaggi, sulle elezioni, sulla manipolazione dell’opinione pubblica, sulla gestione dei mezzi di comunicazione di massa ecc. La seconda versione, quella che i governanti chiamano democrazia, non somiglia in niente a quello che esisteva nel quinto secolo. Se la democrazia è questo, molto semplicemente non mi interessa.
Credo ora che ciascuno debba prendere ciò che trova interessante in ogni punto, non mettersi a dare ricette. Non puoi usare la democrazia come nuovo Paradigma, se non dici cos’è oggi la democrazia. Se vuoi propugnare la democrazia, devi pensare qualcosa che non abbia nessun rapporto con ciò che oggi si chiama democrazia.

Domanda: Con questa concezione, di fatto, la democrazia è qualcosa di molto generico. Perché però la comunità che viene non è un nuovo comunismo, certo radicalmente diverso dai tentativi del xx secolo?

Agamben: Cerco di evitare di restare semplicemente aderente alla tradizione della sinistra, che mi è molto familiare e con la quale sono stato e sono a stretto contatto. ?l comunismo è stato anche un’idea eccellente, ma se si tratta di ciò che è successo ai tempi di Stalin, non è eccellente affatto. Quindi, non possiamo oggi utilizzare concetti come la democrazia o il comunismo come se fossero chiarissimi. Non sono chiarissimi. Abbiamo visto che è successo con la democrazia – lo stesso è successo col comunismo. Dico questo quando ho a che fare con filosofi come Žižek o Badiou, che usano il comunismo in questo modo, come se fosse un concetto perfettamente chiaro. Se è così, allora che cos’è il comune in questo comunismo?

Domanda: L’antichità classica, greca e romana, è costantemente presente nella sua opera. Questa scelta è fortemente simbolica, in un momento in cui l’università pubblica viene smontata, le scienze umanistiche sono svalutate e la cultura classica tende a essere affrontata come un pezzo da museo, un anacronismo.

Agamben: Mi fa piacere che mi facciate questa domanda. Non si tratta semplicemente di una priorità culturale. È una priorità politica. La relazione con il passato oggi non è un problema culturale, ma politico. Non si può capire che cosa succede oggi se non si capisce che un'altra cosa che è cambiata completamente oggi è la relazione vivida col passato. Quello che fa oggi il potere – lo vedo succedere in Italia come in Grecia – è disarticolare il sistema di “trasmissione” del passato. L’università è il modo in cui il passato vive e si “trasmette” nell’oggi.
Per quanto mi riguarda, sono persuaso che l’archeologia, nel senso foucaultiano, è l’unico modo per avere un aggancio al presente. Possiamo avere un aggancio al presente solo se andiamo indietro. È questa un’immagine che Foucault usa molto, dicendo che la sua ricerca storica è un’ombra che getta sul passato l’interrogarsi sul presente. Non puoi interrogare radicalmente il presente se non vai indietro. È la sola strada. Ed è questo che oggi vogliono evitare. Presentano il presente come un problema meramente economico, e tu devi dire solo sì o no. Questo ostacola seriamente la possibilità di fare politica.

Domanda: Nell’ultimo periodo, da quando la Grecia è entrata nella fase di vigilanza della Troika, i cittadini ricorrono ai tribunali appellandosi alla legge e i tribunali prendono “decisioni politiche”, con l’idea che si basino sull’interesse nazionale. Come inquadra questo stato di eccezione?

Agamben: Questo non lo sapevo. Un tribunale non dovrebbe mai giudicare con questi criteri. Ricorda quel che succedeva in Germania sotto il regime nazista: il potere giudiziario era al suo posto, intatto, ma non c’era libertà di giudizio per casi che violavano in maniera lampante la legge. Siamo davanti a un immane declino della cultura giudiziaria, che in altre epoche fioriva in Europa. Senza la possibilità di tornare indietro, ai princìpi del sistema giudiziario, si vede la legge diventare uno strumento nelle mani dei governi.

Domanda: Si dice che la Grecia costituisce la cavia per sperimentare i termini di una violenta costrizione delle società europee a misure antisociali per un determinato periodo di tempo. Condivide quest’idea?

Agamben: Negli anni settanta dicevamo che l’Italia era un terreno di sperimentazione dove il terrorismo doveva diventare politicamente significativo, non solo come nemico ma anche come strategia di governo. Era certamente la verità. Non abbiamo mai capito se Moro sia stato assassinato dalle Brigate Rosse o da qualche banda corrotta dai servizi segreti.
Credo sia vero che la Grecia rappresenta una cavia. In Italia era chiarissimo. Il paese è stato il primo laboratorio per questo genere di questioni.
E, per tornare all’idea dell’Impero Latino, possiamo dire che le grandi potenze del Nord si servono di paesi di tradizione politica differente.

Domanda: Già che abbiamo parlato di strategie, quanto più l’eventualità di una sinistra di governo diventa concreta, tanto più sorge la domanda: come la sinistra deve gestire l’eredità del precedente regime? Lei crede che avrà bisogno di distruggere i vecchi schemi o che, al contrario, possa utilizzarli a vantaggio del nuovo governo?

Agamben: Quello che è successo fino a oggi è che le forti entità politiche, come lo stato, dovevano essere interrogate, altrimenti la logica dello stato si sarebbe imposta sui movimenti rivoluzionari. La questione è sottile. Dobbiamo distinguere tra strategia e tattica. La strategia non può che essere sempre radicalmente “anti-“. D’altra parte, tatticamente, in una battaglia isolata, si può tornare indietro rispetto a una determinata tradizione politica – senza dimenticare, però, la strategia. Ciò che spesso succedeva finora era che la tattica aveva il primato rispetto alla strategia… Credo che il governo di sinistra di syriza possa essere la scintilla di una svolta progressista in Europa.

Domanda: Carl Schmitt, l’importante teorico che, come è noto, abbracciò il nazismo, costituisce per lei un riferimento costante, specialmente nel libro Stato d’eccezione, dove lei tenta di dimostrare che la regola del potere non è la legge ma l’eccezione – l’anomia. Al tempo stesso, il suo lavoro è profondamente influenzato da Foucault, il cui argomento basilare è che il potere ha un contenuto positivo – forma, costruisce. Questo funzionamento “costituente” del potere spesso è misconosciuto nella sua opera. Sembra cioè che lei percepisca l’esercizio del potere come esercizio di violenza, come anomia che, per conseguenza, solo con i suoi stessi mezzi è possibile contrastare. Quali sono, alla fine, i termini dell’uso di Schmitt in un ambito di pensiero progressista?

Agamben: Mi date l’occasione di chiarire questo punto, perché spesso ricevo critiche per quest’uso di Schmitt. Schmitt sostiene che è sovrano colui che decide circa la stato d’eccezione, quindi il potere poggia sull’eccezione; la mia idea è che mentre Schmitt si ferma qui, e dice che il campo della legge è lo stato di eccezione, allo stesso tempo dice che la legge è in vigore. La concezione della legge in Schmitt è che la legge comprende l’eccezione alla legge stessa, ma allo stesso tempo la legge è ancora lì – di conseguenza non possiamo parlare di a-nomia. Io, al contrario, provo a dimostrare che questo è un errore: che ciò che si verifica in questo caso è semplicemente una zona di anomia.
Qual è dunque la differenza tra me e Schmitt? Che io provo a dimostrare che la legge non c’è più. E qui arriva ciò che ho sostenuto nel mio discorso ad Atene di sabato, che cioè l’importante è dimostrare che l’anomia è stata soggiogata dal potere. Il sistema di Schmitt funziona solo se accettiamo che la sospensione della legge è ancora legge, che quella zona di anomia è lecita. Nel mio discorso ho provato a dimostrare che un potere de-stituente (destituent power) deve rendere chiaro che il sistema legale all’interno del quale viviamo non si fonda su una sospensione legale della legge, ma semplicemente sull’anomia. In un caso simile, il sistema di Schmitt crolla.

Domanda: Crede che Benjamin sia una specie di schmittiano di sinistra?

Agamben: No, questo è un errore. Benjamin sostiene che davanti allo stato di eccezione bisogna produrre un vero e proprio stato di eccezione. Lo stato di eccezione di Schmitt è fittizio nel momento in cui insinua che la legge c’è ancora. Un “vero” stato di eccezione, con Benjamin, è il seguente: dite che qui non c’è legge? Beh, allora, noi lo prendiamo sul serio: di fatto, non c’è. L’anarchia, dunque, che si trovava all’interno del potere, ora si confronta col potere nello stato di eccezione come inteso da Schmitt.

Domanda: Questa prospettiva, se cogliamo bene, non sarebbe quella dell’uso della legge come limite contro il potere, ma la prospettiva di uno scontro frontale con il potere.

Agamben: Non ho in mente uno scontro violento con il potere. Al contrario, quel che mi interessa è quanto strategica possiamo dimostrare che è questa anomia. Forse non, quindi, un’azione rivoluzionaria – ma la strada che dimostrerebbe agli uomini che al centro della legge si trova l’anomia. Quando dico che bisogna concepire un potere de-stituente, penso che la violenza costituisca un potere costituente, cioè il contrario. Cosa sarebbe una violenza come potere destituente? Non mi è facile dirlo. Credo però che uno dei nostri doveri, oggi, sia pensare un’azione politica esclusivamente destituente – non costitutiva di un nuovo ordine politico e giuridico.

Domanda: È una logica vicina a quella della decostruzione in Derrida?

Agamben: Quello che cerco di definire è una strategia politica. La decostruzione in Derrida è piuttosto una strategia teoretica.

Fonte: Doppiozero - (Traduzione di Giorgio Fogliani)