Enzo Traverso, il principio malinconia
- di Massimo Palma -
"How I hate Blue Monday
Got to work like a slave all day"
( Fats Domino, Blue Monday )
È una finzione troppo semplice, e forse un’illusione segretamente di destra, quella che dipinge l’azione, qualsiasi azione, come un impeto senza pensiero, e il lavoro, che non è la stessa cosa dell’azione, ma ne è ripetizione coatta o creativa, come una mera astrazione aliena da intrichi mentali, intrecci affettivi, percezioni riflesse. Sin dai primi vagiti espressivi degli sfruttati, è parte integrante della cultura bassa, proletaria, pensare il lavoro, la ripetizione del lavoro, come fratta tra necessità operativa e strazio melanconico. Né fa eccezione quella specie particolare di lavoro che è l’azione politica militante (anche entusiasta, emancipatoria, vittoriosa). Quando il militante si fa artista, quando si racconta, magari per interposta persona, quando si consegna alla riflessione, la sua narrazione appare disseminata di tracce meditabonde, di sfumature saturnine, di messa a punto, volontà di memoria maturata già nell’agire, già nel suo farsi. Se nel lavoro la prassi è strutturata dalla memoria di azioni passate, la rivoluzione reca tracce robuste di malinconia. Di per sé, ogni lavoro che ricomincia reca un lutto: la tetra sensazione del lunedì mattina operaio – dover lavorare, sapere di essere uno schiavo – è il blues di chi fa, la colonna sonora di ogni pratica sotto scacco.
A sinistra, la malinconia è al lavoro da sempre. Da quando, 170 anni fa, si è organizzato un pensiero militante prima accanto e dopo l’emergere delle lotte di classe. Eppure «malinconia di sinistra» è una formula che sin dal suo primo apparire è stata polemica, diretta con acrimonia verso una sedicente cultura di sinistra. Occorre dirlo subito, per non parlarne più: nel libro di Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Walter Benjamin è centrale, ma la sua icastica formula, che dà il titolo al libro, è consapevolmente riusata in tutt’altro contesto. L’astioso, polemicissimo scritto del 1930, dal titolo Malinconia di sinistra appunto, era un furente attacco a certa satira linksradikal, in cui intellettuali come Tucholsky, Mehring e il bistrattatissimo Erich Kästner venivano attaccati frontalmente come simboli di uno scollamento tra élite intellettuale e classi oppresse, come autori pronti a farsi non produttori, ma articoli di consumo, organici più alla piccola-borghesia dei rampanti e degli individualisti che al proletariato di cui si dichiaravano alfieri. «Questo radicalismo di sinistra è esattamente l’atteggiamento cui non corrisponde azione politica alcuna. Sta a sinistra non di questo o quell’indirizzo, ma semplicemente a sinistra del possibile in generale». Malinconia di sinistra, quindi, era la formula di Banjamin che disvelava la frode di quest’inazione rivestita da astio e dileggio di successo.
Nel libro di Traverso il fenomeno indagato è esattamente l’opposto: è quel peculiare composto, quell’affezione dialettica della storia dei movimenti di liberazione (comunisti, antifascisti, femministi, anticolonialisti) che ha che fare col nesso tra sentimenti contrastanti, l’impeto all’azione e lo strascico di lutto, le piccole morti della sconfitta (dal ’48 alla Comune alla guerra civile spagnola al Sessantotto al Settantasette al peso ottuso dell’ultimo Ottantanove). È la celebrazione dell’azione passata, ed è il problema stesso della celebrazione nel momento in cui tale azione (rivoluzione, rivolta, insurrezione, guerra civile) è ormai sconfitta, repressa, infine rimossa. «I ricordi non sono soltanto malinconici, ma non c’è neppure malinconia senza rammemorazione, senza un rapporto con il passato. Bisogna interrogare lo statuto della memoria nella cultura di sinistra». Il problema malinconico all’interno della sinistra è il problema della sconfitta, dell’elaborazione del lutto, delle sue mancanze e dei suoi feticci: è il problema, in altre parole, del farsi storia della parte proscritta (la sinisteritas), del farsi storia dell’escluso che si conferma escluso – del suo divenire cultura senza per questo abbandonare la dialettica della strada, della lotta, la materia dei sentimenti.
Attraverso un apparato iconografico persuasivo e meduseo nell’umettare un libro per nulla asciutto, nell’arco di un’intenzione storiografica intrisa di passione politica (e ben vengano, in caso, le accuse sulla base della solita malintesa Wertfreiheit), Traverso seleziona autori, luoghi e immagini che di questa elaborazione hanno fatto un percorso di vita e di arte. Li prende dall’intellettualità militante (Benjamin, Bensaïd), dal cinema politico (da Ejzenštejn a Pontecorvo, da Loach ad Angelopoulos, fino al decisivo esempio di Le fond de l’air est rouge di Chris Marker), dalla letteratura, per consegnare al lettore un montaggio sofferto di momenti estetici in cui la tradizione di sinistra si è fatta consapevole tradizione di sconfitte, «struttura del sentire», fotografia di quel «rapporto simbiotico tra rivoluzione e morte» costruito in modo tale da aprirsi comunque alla speranza (rivoluzionaria, emancipatoria). Il risultato è una coappartenenza di malinconia e azione di rottura, oltre ogni «autocensura» che imponga di non raccontare le pause e le ombre del discorso d’azione, per non infondere scoramento ( ne pas désesperer Billancourt).
Inevitabilmente l’oggi, l’oggi dell’infinita esposizione di «innumerevoli surrogati offerti dalla mercificazione universale del capitalismo neoliberista», si palesa diverso dalla tradizione di sconfitte del marxismo. Inevitabilmente il libro parte dal problema del 1989, che la malinconia «non l’ha creata, l’ha soltanto disvelata». Né malattia né habit, questa malinconia è sempre esistita, «nascosta» anche sotto le vesti tronfie che la rivoluzione, quando ha trionfato, ha spesso preso, dimenticando il suo «futuro passato». Eppure, se nel glabro «paesaggio di lutto», annebbiato dal malinteso «dovere di ricordare» istituzionale, «il retaggio delle lotte di liberazione è diventato quasi invisibile e ha assunto una forma spettrale», di converso, mentre larve e spettri popolano gli incubi di chi pure c’era, il 1989 è parso insinuare, nell’attivista che medita sulla sua azione, lo stigma freudiano del piacere masochista d’essere sconfitto, il trarre «godimento dal proprio dolore»: ha dilatato all’estremo la risonanza di quel morettiano voler esser minoranza che contraddice la sostanza stessa della sinistra. Ma il confronto con lo spegnersi del sogno di un telos, di una fine comprensiva di un fine, è stato anche lo spezzarsi di quel legame di «tradizione» che ha segnato le generazioni per un secolo e mezzo: il recare l’una all’altra testimonianza di lotte compiute; magari perdute, ma mai inutili.
Per Traverso, sull’onda lunga del Benjamin estremo, è la stessa prassi malinconica, meglio studiata, a rivolgere il nostro sguardo su una diversa possibilità: la politicizzazione della malinconia, «dove aggrapparsi agli oggetti del passato rende possibile l’interesse e l’azione nel mondo presente». Destituito di fine, alieno dalle «fatali illusioni della teleologia» (ma, verrebbe da osservare, comunque inevitabilmente teleologico, pena un’animalizzazione della malinconia stessa), l’agire politico impregnato di interesse per la storia si trova di fronte a un bivio. Feticizzare il passato, o montarlo, costruire i «frammenti di esperienza» attraverso immagini che rechino il significato di un’epoca. Non qualsiasi immagine, ma immagini complesse di folla rappresentata come «corpo vivente». Il principio-malinconia – storia e arte qui collassano, tecniche simili nel montaggio orientato – sta nel ripartire dagli sconfitti di oggi, delineando come fine, nell’eco ripetitiva del blues quotidiano, le cesure possibili di quella costante storica chiamata oppressione.
- Massimo Palma - Pubblicato su Alfabeta2 il 24/3/2017 -
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