domenica 23 luglio 2017

Una torcia nell’orecchio

Torcia

All'inizio degli anni 1930, influenzato dalle idee di Spengler circa il "declino della civiltà", Wittgenstein scrive in una lettera che un giorno, passeggiando per Cambridge, gli era capitato di vedere una sorta di diagramma di questo declino: passando davanti alla vetrina di una libreria, vide le immagini di Freud, Einstein e Russell; poco più avanti, nella vetrina di un negozio di musica, vide i ritratti di Beethoven, Schubert e Chopin:
«Stavo camminando per Cambridge ed ho superato una libreria e nella vetrina c'erano le immagini di Russell. Freud ed Einstein. Un po' più avanti, in un negozio di musica, ho visto ritratti di Beethoven, Schubert e Chopin. Mettendo a confronto questi ritratti ho avvertito intensamente la terribile degenerazione che aveva colpito lo spirto umano nel corso di solo un centinaio di anni...» (Ludwig Wittgenstein: The Duty of Genius, p. 299).
In Spengler, per Wittgenstein, non c'è niente di nuovo, dal momento che già prima della prima guerra mondiale egli già sentiva con angoscia questa "degenerazione" culturale, il cui principale portavoce, molto tempo prima di Spengler, era stato Karl Kraus ("Die Fackel", la rivista di Kraus, in cui egli faceva tutto, è stato l'avvenimento culturale viennese per eccellenza).
Elias Canetti scrive a lungo su come la sua mente si è trasformata sotto l'influenza di Kraus - il titolo di uno dei volumi dell'autobiografia di Canetti vuole essere un commento a proposito di una tale presenza: "Die Fackel im Ohr" ["La torcia nell'orecchio". In italiano, "Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi] , che copre il periodo che va da 1921 al 1931, usa il titolo della rivista di Kraus, evidenziando il ruolo della sua penetrazione nelle orecchie del giovane ascoltatore Canetti.
«La Fackel era come un tribunale, in cui Karl Kraus era l'unico accusatore e l'unico giudice. Di avvocati difensori non ce n'erano, del resto non servivano, Kraus era talmente giusto che non accusava mai nessuno che non lo meritasse. [...] lui da solo era un intero teatro, anzi era meglio, e questo prodigio universale, questo gigante, questo genio portava il comunissimo nome di Karl Kraus.» (Elias Canetti, ""Il frutto del fuoco")

Elias Canetti, in "Party sotto le bombe", la sua autobiografia nella parte in cui registra gli "anni inglesi", scrive ad un certo punto:
«Riandando col pensiero all'Inghilterra, mi vengono sempre in mente le persone con le quali, in quel paese, ho condotto per anni conversazioni insulse in ogni dettaglio. E non sono state poche: all'epoca la mia esistenza era costituita per lo più da trattenimenti del genere. Per molti diventai una sorta di droga alla quale non riuscivano a resistere, ma io non ero meno drogato di loro, sempre disposto a lasciarmi coinvolgere in quelle conversazioni che duravano ore e ore.
Ascoltavo a lungo e concentrato al massimo, in questo ero quanto mai corretto, ma prestar ascolto a tutto ciò che gli uomini volevano dire di sé non era solo correttezza, era anche vera passione. Così facendo, però, mi sono comportato vita natural durante come quella categoria di individui che detesto dal più profondo del cuore: gli analisti. [...] Io invece sono sempre stato più un "ascoltatore" che un analista, e ho avuto modo di sentire una quantità tale di racconti che, se me li ricordassi ancora tutti, potrei riempire centinaia di volumi.
» (Elias Canetti - Un Party sotto le bombe - Adelphi).

Canetti, un drogato dell'ascolto. Si tratta di una procedura molto utilizzata da Canetti in tutta la sua opera: distogliere l'attenzione del lettore - sia nei suoi romanzi, sia nei saggi e negli scritti autobiografici - dalla sua persona, Canetti, e difendere la tesi secondo cui la sua posizione privilegiata è un mero caso, un incidente. Nella prima pagina del suo libro, "Wittgenstein's Vienna Revisited" [in italiano, "La grande Vienna", Garzanti], Allan Janik scrive che nel ricevere il premio Nobel, Canetti sottolinea che accettava tale onore in nome di altri quattro scrittori che non lo hanno ricevuto:  Karl Kraus, Franz Kafka, Robert Musil e Hermann Broch (il discorso integrale di Canetti si trova sul sito del Nobel [ http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1981/canetti-speech.html ].

La frase di Elias Canetti su Karl Kraus:
«Ogni parola, ogni sillaba contenuta nella Fackel era scritta di suo pugno. La Fackel era come un tribunale, in cui Karl Kraus era l'unico accusatore e l'unico giudice. Di avvocati difensori non ce n'erano, del resto non servivano, Kraus era talmente giusto che non accusava mai nessuno che non lo meritasse.» (Elias Canetti - "Il frutto del fuoco" - Adelphi)

Tutta l'idea del processo appare qui interessante, e porta ad una sovrapposizione di Kraus con Kafka (anche lui lettore e ammiratore di Kraus - fra l'altro, di Kafka, "Giuseppina la cantante - ossia Il popolo dei topi" è un racconto su Kraus e gli ebrei.
[ “Tra tutti i topi Josephine è l’unica a cantare e, quando lo fa, ogni animale si ferma ad ascoltare. In realtà Josephine, convinta di cantare, semplicemente fischia, come tutti gli altri topi, anzi, forse persino peggio, ma solo lei, forse perché matta o arrogante, folle o geniale, si separa dalla miseria, consacrando tutta se stessa al suo flebile canto indisponente. Il suo allora diventa un fischio che scioglie le catene del quotidiano e consente al popolo dei topi un’esperienza liberata dalla fatica del sudore del pane e della sopravvivenza. Non importa che sia una topolina arrogante, faccia le scene, crei persino pericoli per i suoi simili… Arte o natura? Caducità o eternità? Piattezza o elevazione? “o non piuttosto che il popolo, nella sua saggezza, abbia collocato il canto di Josephine così in alto proprio perchè in tal modo non potesse andar perduto?” F.Kafka]
Lui stesso era l'accusatore, e lui stesso era il giudice è una frase che potrebbe definire anche la relazione di Kafka con sé stesso, con la differenza che per Kafka lui era anche l'accusato. Questo si riflette nel consegnarsi e nella rinuncia finale del protagonista de Il Processo, ma anche nella fine autoimposta da Kafka nella sua relazione con Felice, così come lo stesso Canetti sottolinea nel suo libro "L'altro processo":
«Alla fine Kafka rivela a Felice un segreto nel quale in quel momento egli stesso ancora non crede, ma che, ciò nonostante, un giorno verrà confermato: non avrà cura di lei. In questo modo, si uccide per lei, e attraverso una specie di suicidio, si sottrae a lei nel futuro» (Elias Canetti, L'altro processo. Le lettere di Kafka a Felice).
L'ultima parte della citazione di Canetti non porta in altre direzioni, ma è anche relazionata con Kafka: Non aveva un avvocato difensore, ciò era superfluo, dal momento che nessuno era accusato senza che lo meritasse. In "Quel che resta di Auschwitz", nelle prime pagine, Giorgio Agamben parla di Kafka con l'obiettivo di arrivare alla testimonianza per una via traversa: «Nel 1983, l’editore Einaudi chiese a Levi di tradurre "Il processo" di Kafka. [...] Di rado si è notato che questo libro, in cui la legge si presenta unicamente nella forma del processo, contiene un’intuizione profonda sulla natura del diritto, che non è tanto qui, - secondo l’opinione comune - norma, quanto giudizio, e, quindi, processo. Ma se l’essenza della legge - di ogni legge - è il processo, se tutto il diritto (e la morale che ne è contaminata) sono soltanto diritto (e morale) processuali, allora esecuzione e trasgressione, innocenza e colpevolezza, obbedienza e disobbedienza si confondono e perdono importanza. [...] Il giudizio è in se stesso il fine e questo - è stato detto - costituisce il suo mistero, il mistero del processo.»
Non è solo ne Il Processo che Kafka riflette su questo - poiché la finalità del processo è quella di generare il processo. Vale a dire, ad esempio, ne "La Tana", racconto in cui essere coinvolto nella "costruzione della tana", per quanto possa indicare finalità parallele (esercizio fisico, approvvigionamento di cibo), significa che si viene coinvolti nella costruzione solo con il fine di realizzare la costruzione.
Alla fine, Agamben salva Salvatore Satta ("Il mistero del processo"), e sono le parole di Satta quelle che riecheggiano nelle parole di Canetti su Karl Kraus: «questo significa anche che "la sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario", che "ciascuno è intimamente innocente", ma che l’unico vero innocente "non è colui che viene assolto, bensì colui che passa nella vita senza giudizio"» (Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz).

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