martedì 11 luglio 2017

Ritratti

studio

Il titolo Autoritratto nello studio – un tema iconografico familiare alla storia della pittura – va qui inteso alla lettera: il libro è un autoritratto, ma soltanto nella misura in cui il lettore potrà alla fine decifrarne i tratti attraverso il paziente scrutinio delle immagini, delle fotografi e, degli oggetti, dei quadri presenti negli studi in cui l’autore ha lavorato e tuttora lavora. La scommessa di Agamben è, cioè, quella di riuscire a parlare di sé soltanto e unicamente parlando di altri: i poeti, i filosofi , i pittori, i musicisti, gli amici, le passioni – insomma gli incontri e gli scontri che hanno deciso della sua formazione e hanno nutrito e ancora nutrono in vario modo e misura la sua propria scrittura, da Heidegger a Elsa Morante, da Melville a Walter Benjamin, da Caproni a Giovanni Urbani. Per questo del libro sono parte integrale le immagini che, come in quei rebus in cui varie figure accostate l’una all’altra ne disegnano una diversa e piú grande, si compongono alla fine col testo in uno dei piú insoliti autoritratti che un autore abbia lasciato di sé: non un’autobiografia, ma una fedelissima e intemporale autoeterografia.

(dal risvolto di copertina di Giorgio Agamben:  Autoritratto nello studio, nottetempo)

Agamben nello studio
- di Emanuele Trevi -

In un libro recente, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi in quattro scene, Giorgio Agamben prendeva le mosse da una singolare e alquanto misteriosa circostanza della vita di Giandomenico Tiepolo. Tra il 1793 e il 1797, l’anno della caduta della Repubblica di Venezia, Giandomenico dipinge un ciclo di affreschi dedicati a Pulcinella nella villa di Zianigo, ereditata dall’ingombrante padre, il grande Giambattista. Quando completa gli ultimi due affreschi, Pulcinella innamorato e La partenza di Pulcinella, Giandomenico compie settant’anni. Ora quelle opere si possono vedere, assieme agli altri affreschi provenienti da Zianigo, nel museo di Ca’ Rezzonico, ma il fatto che più colpisce è la destinazione originaria del ciclo di Pulcinella. Fu dipinto in una stanza di piccole dimensioni, forse una camera da letto, forse, come acutamente suggerisce Agamben, «un luogo di meditazione». Ad ogni modo, l’esiguità dell’ambiente e l’abitazione privata lasciano intendere che non si trattasse di qualcosa da mostrare a un grande pubblico. Arrivato alla stagione estrema della vita, Giandomenico «vuole avere sotto gli occhi soltanto Pulcinella, parlare solo con lui».

Le avventure di Pulcinella
Mi è tornata in mente quella stranissima stanza tutta per sé veneziana, ingombrata dalle avventure di Pulcinella, mentre leggevo l’ultimo libro di Agamben, Autoritratto nello studio (nottetempo, pp. 175, euro 18,00 – peraltro, come tutti gli aficionados sanno bene, la bibliografia di Agamben è così lussureggiante che, nel tempo necessario a leggerlo e a scriverne, quello che consideravo l’«ultimo» libro potrebbe essere diventato il penultimo, o il terzultimo). Molti sono i fili che legano il Pulcinella a questo Autoritratto, a partire dalla marionetta di Pulcinella che appare a un certo punto del secondo libro, fittamente illustrato, appartenuta a Totò e donata all’autore da Goffredo Fofi. Ma trasmigra da un libro all’altro, se non mi inganno, anche un’idea alla quale Agamben sembra essere arrivato di recente, un pensiero tanto più urgente quanto più, forse, non è stato ancora pensato fino alle estreme conseguenze. Rischiando una sintesi troppo brutale, direi che questa illuminazione riguarda la differenza fra tragico e comico, e la superiorità filosofica, se così si può dire, del secondo sul primo. Prendendo in prestito il titolo di un romanzo di Henry James, potremmo dire che la musa tragica è una falsa vocazione del pensiero, oppure che il riso di Democrito è più originario del pianto di Eraclito. C’è da credere che un tema di pensiero così promettente non sarà confinato da Agamben al Pulcinella.
Tornando all’analogia fra la stanza affrescata da Tiepolo nella villa di Zianigo e lo studio di cui ci parla Agamben mostrandocene decine di dettagli nelle illustrazioni, c’è subito da osservare che non si tratta di semplici scenari di un’attività artistica (per Tiepolo) o filosofica (per Agamben). Luoghi di produzione, finiscono per esercitare un’influenza decisiva sul prodotto, diventando, a forza di tempo e di solitudine, un’estensione della personalità di chi li abita lavorandoci. Tanto che il titolo del libro di Agamben potrebbe anche essere Lo studio come autoritratto. Grande o piccola che sia, una stanza con pareti da affrescare è un’esperienza riservata a un numero così esiguo di persone da trascendere il senso comune; uno studio, al contrario, è qualcosa di comune a legioni di individui che, volenti o nolenti, devono lavorare con la loro testa, consumando energie nelle due operazioni fondamentali del leggere e dello scrivere.

Non il pavone, il gatto
Dobbiamo scontare un’eccessiva genericità della lingua, che allude anche a luoghi di natura simile ma non identica come gli studi dei pittori, o dei dentisti mettiamo, dove l’attrezzatura è più specifica e ingombrante e la possibilità di concepirli come autoritratti è meno immediata. Ciò di cui parla Agamben ha il suo archetipo inarrivabile nello studio di san Girolamo di Antonello da Messina: immagine che ci risulta immediatamente familiare nella sua essenza, al netto della grandiosa architettura gotica e del pavone. Il centro del quadro potrebbe essere trasferito con poco sforzo d’immaginazione al terzo piano di un qualunque condominio, mentre il pavone diventa il solito gatto di casa. Uno studio come lo intende Agamben, e come lo mostra fin dalla copertina con una foto scattata da lui stesso, consiste in un numero limitato di elementi necessari e tutto sommato invariabili nel tempo e nello spazio: un ripiano di lavoro; carta, penne, o quella sintesi di carta e penna che è un pc; libri, riviste, fascicoli… Ma la natura dello studio è tale che a questa sfera primaria delle cose realmente necessarie che lo rendono tale si mescola in modo inestricabile tutta un’altra categoria di oggetti che invece, a rigore, sono assolutamente superflui. Appartengono a questa categoria un numero tendenzialmente infinito di fotografie, souvenirs, ceramiche, ninnoli investiti di arcani poteri, cianfrusaglie vagamente totemiche. Questi strumenti di magia domestica se li concedeva pure, almeno nella fantasia di Antonello da Messina, il severissimo san Girolamo.
Quello di Agamben è un catalogo parziale del suo privatissimo museo fatto in casa. Sono immagini e oggetti che una volta sollecitati producono un tipo particolare di memoria, la memoria dell’altro, contigua alla memoria di sé ma non perfettamente identica. Ne viene fuori un «autoritratto» molto particolare, come di un Arcimboldo che invece di impiegare frutta o verdura per raffigurare i propri lineamenti, costruisse la sua immagine con un certo numero di incontri così decisivi da assomigliare a un destino. Questo metodo fa dell’identità una specie di centro vuoto, di spazio dell’accoglienza e della memoria abitato dalla presenza dei vivi e dei morti. Che si tratti di Giovanni Urbani o di Elsa Morante, di Martin Heidegger o di Patrizia Cavalli, sempre Agamben ci suggerisce che tutto ciò che gli è possibile dirci di sé in ogni momento della sua vita equivale a ciò che è capace di raccontare di una determinata relazione. E dunque l’autoritratto non può essere altro che una galleria di ritratti.
Ma il senso della forma di Agamben è troppo acuto e raffinato per rinunciare a un notevolissimo effetto d’arte. Ogni libro invaso da un numero consistente di figure rischia infatti di impigrire il lettore, così come un discorso senza reticenze finisce per tutelare eccessivamente l’immaginazione di chi lo ascolta. Così, verso la fine del libro, Agamben ci informa che nel suo studio c’è – o c’è stata – una certa immagine, la fotografia di una ragazza che orina, che non ci verrà mostrata. E non solo espelle l’immagine, ma confessa di non aver nessuna voglia di spiegarne il significato. Non gli è possibile perché «nel nostro mondo il paradiso e l’inferno sono nello stesso luogo, separati solo per un breve istante»

Come in Barthes
Come si vede (anzi: come non si vede) c’è n’è abbastanza per fare di questa duplice omissione (dell’immagine e del discorso che ne rende conto) il centro del libro in apparenza privo di centro, il vertice della sua visibilità e leggibilità. Proprio come accadeva nella Camera chiara di Roland Barthes, dove tra tante fotografie più o meno illustri quella che conta davvero, il perno emotivo dell’opera, non la vedremo mai. In fin dei conti, il vero movente di chi parla di sé è suscitare nell’altro un moto di indiscrezione, stabilire un confine perché venga violato. Un uso accorto, poetico della reticenza garantisce a ogni confessione la sua memorabilità.

- Emanuele Trevi - Pubblicato su Atlas del 9 aprile 2017 -

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